Apprendere a raccontarsi: scritti di vita condivisi nella pratica clinica

Da quando, con il progressivo affermarsi della bioetica, l’obiettivo della pratica clinica è scivolato dal semplice e diagnostico to cure alla complessità etica del to care, numerosi sono stati i dibattiti circa il come questa cura rivolta alla totale attenzione della complessità della soggettività umana potesse essere efficacemente realizzata non unicamente da parte del medico, ma anche di ciascun operatore e professionista sanitario che, nelle sue mansioni specifiche, ha un ruolo cardine nel percorso di cura del paziente.

Chiaro è che, come la letteratura l’ha ribadito a  più riprese, il curare, inteso nei termini di una guarigione progressiva fino al ripristino dell’equilibrio omeostatico del paziente, minimizza la complessità di quelle attività e di quei gesti di cura che, giorno per giorno, vengono rivolti al malato. Non si tratta, tuttavia, di minimizzare l’importanza del fenomeno del curare “tecnico” del medico, le cui competenze sono pertanto imprescindibili per lo svolgimento di una buona pratica clinica, quanto più di ammettere l’integrazione di questa sfera con quella di una presa in carico che, all’interno della logica della diagnosi e della prognosi, presenta un valore aggiunto nella direzione del miglior interesse del paziente.

Con la nozione di cura si spiana il sentiero descritto dalla vulnerabilità umana, dalla disabilità, da quella fragilità che, in un momento o nell’altro, ci segneranno, rendendoci un po’ più consapevoli della nostra dipendenza all’altro e agli altri. Lo strumento che più permette alla cura di dispiegarsi è, senza dubbio, la narrazione.

Da principio, il modello narrativo è nato e cresciuto in seno al diffondersi, negli Stati Uniti e poi in Europa, dell’etica della cura. Un’etica volta alla valorizzazione di ogni dipendenza e vulnerabilità umana, non unicamente un’etica femminile, bensì una pratica che trova le proprie radici nella struttura ontologica dell’essere umano: nella sua finitudine e inevitabile mortalità.

Siamo tutte e tutti, fin da subito, ovvero fin dalla nascita, spezzati. Nel corso di alcuni momenti della vita, sono questi pezzi di sé a dover essere raccolti e dispiegati, narrati e ascoltati.

La medicina narrativa, di cui Rita Charon è uno dei principali rappresentanti, nasce da questo bisogno: il bisogno di dar voce a quelle parti di sé da ricostruire e che, durante il decorso della malattia, appaiono indecifrabili. Quello che Charon propone è un metodo fondato sulle medical humanities avente l’obiettivo di stimolare la narrazione e la ricostruzione autobiografica del paziente attraverso l’intervento di una diversità di discipline quali la letteratura, la psicoanalisi, la filosofia, e l’arte. L’inserimento di un approccio multidisciplinare nella classica pratica clinica evidence based, aiuterebbe il paziente a narrarsi, attraverso stimoli di diversa natura, e a raccontare la propria sofferenza integrandola nel percorso di rielaborazione del Sé.

È tuttavia sufficiente una pratica multidisciplinare per aiutare l’Io a ricostruirsi a partire dalle ferite della malattia? Oppure esiste, all’interno della pratica clinica, un aspetto più profondo che la narrazione potrebbe indagare?

Lo abbiamo già anticipato, ma ripetiamolo: il racconto assume, all’interno della dinamica medico-paziente, un ruolo chiave. È importante, tuttavia, soffermarsi sulla natura e sulla direzione del racconto che, nato all’interno della dialettica curante-malato, porterebbe le due soggettività sullo stesso piano ontologico, quello della loro stessa condizione di partenza definente l’essere umano nella sua natura: dipendenza e vulnerabilità.

Paul Ricoeur è il filosofo che più ha approfondito l’importanza del “racconto di vita”, nonché l’orizzonte etico di senso che la dinamica narrativa, attivandosi, porta con sé. L’identità narrativa è la dimensione profonda in cui l’Io si dispiega attraverso lo scorrere del tempo, pur lasciando una permanente traccia di sé. Dispiegandosi, l’Io apre le porte dei propri confini identitari e si impegna responsabilmente nei confronti dell’Altro da sé.

Con l’altro, ci si racconta. Ci si espone al mondo e si lascia la propria traccia. E così, vice versa. L’altro si racconta a noi. Si espone al mondo. Ci lascia una propria traccia. Si costruisce così un piano dialettico in cui le storie di vita non possono che intrecciarsi l’una con l’altra, in cui le ipseité, riprendendo una al nozione del filosofo francese, si costruiscono le une attraverso le altre.

La dimensione dialogica, così come la intende Ricoeur, nasce quindi in ragione di un percorso che, come il filosofo lo definisce in una delle sue ultime opere, è un percorso di riconoscimento. Un riconoscimento che avviene tra pari, pari componenti dell’enorme puzzle che è l’umanità.

È sul piano della mutualità e della “sollecitudine” caratterizzante la condizione di ciascuno a partire dal proprio stare al mondo, che il riconoscimento si traduce nell’accettazione dell’alterità attraverso quella storia raccontata che è la sua, sciogliendo conflitti e superando le contraddizioni.

Nella pratica clinica è noto come spesso i dilemmi morali emergano da conflitti valoriali tra soggettività che, nella loro diversità, diventano testimoni della propria storia di vita. Pertanto, in tali circostanze, ciò che richiede di essere ascoltato è uno spazio di mutevole comprensione che permette a ciascun Altro di dispiegarsi. Non esistono ricette, o regole d’oro. “Solo” lo sforzo di apprendere dall’altro, mettersi in discussione e ricostruire. E, inevitabilmente questo lavoro di decostruzione e ricostruzione non può che avvenire nel momento in cui si dà la libertà all’altro di accedere nella propria vita, contribuendo per la scrittura di un suo nuovo capitolo.

La comprensione e infine lo scioglimento di conflitti etico-clinici non può dunque avere inizio laddove manca un terreno fertile per la crescita di un apprendimento condiviso, rivolto alla continua scrittura della propria storia in relazione a quelle alterità che, necessariamente, incidono sul nostro io.

Talvolta, l’assenza della temporalità necessaria per riscoprire tale narratività relazionale fa sì che quella alleanza terapeutica venga meno, insieme alla perdita di fiducia.

 

Sara Roggi

 

[Photo credits Debby Hudson su Unsplash.com]

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Il secondo libro dell’Etica di Spinoza: il parallelismo

Avendo già affrontato il primo libro1, continuiamo allora la nostra analisi dell’Etica di Spinoza concentrandoci sul secondo.

Questa parte dell’opera è dedicata dal filosofo all’analisi della mente, in particolare al rapporto tra questa e il corpo. Una delle principali tesi che emerge è il cosiddetto parallelismo o corrispondenza, la proposizione VII recita:

«L’ordine e la connessione delle idee è lo stesso che l’ordine e la connessione delle cose»2.

Cosa significa? Lo sforzo spinoziano è tutto incentrato sullo sviluppo degli acquisti derivanti dalla prima parte. In particolare, come gli attributi divini di estensione e pensiero testimoniavano, in modo diverso, la natura di Dio – ovvero l’unica ed infinita sostanza esistente, che del Dio della tradizione ha solamente il nome – allo stesso modo, corpo e mente potremmo dire che esprimano una stessa ed identica natura. Mente e corpo sono infatti «modi» dell’unica sostanza, ossia manifestazioni della sua natura; rispettivamente, la prima è modificazione finita dell’infinito attributo del pensiero e il secondo modo finito dell’infinito attributo dell’estensione.

Risulta dunque chiaro come possano esprimere lo stesso «ordine»: mente e corpo sono due modi di intendere ed esprimere la stessa cosa, da due punti di vista differenti ma equivalenti. I due attributi esprimono infatti la stessa essenza, ed è per questo che c’è corrispondenza: all’interno di ognuno vige la rigida causalità determinista. Attraverso una proporzione matematica potremmo dire che come la causa sta all’effetto (corpo), così la conoscenza della causa sta alla conoscenza dell’effetto (mente). Spinoza infatti intende la mente come «[…] l’idea di una cosa singola esistente in atto»3, e visto che «L’oggetto dell’idea che costituisce la mente umana è il corpo, ossia un certo modo dell’estensione in atto, e niente altro»4, allora per il filosofo la mente è idea del corpo. Per comprenderla risulta quindi necessario indagare il corpo, infatti dopo la proposizione XIII prende avvio quello che viene comunemente etichettato come il “Trattatello di fisica e fisiologia”, nel quale Spinoza si dedica alla descrizione di tutto ciò che concerne il corpo umano: «A partire da qui comprendiamo non soltanto che la mente umana è unita al corpo, ma anche che cosa si debba intendere per unione di mente e corpo. Veramente nessuno la potrà intendere adeguatamente, ossia distintamente, senza prima conoscere adeguatamente la natura del nostro corpo»5.

Cosa comporta il parallelismo? Il grande debito è nei confronti di Cartesio, che ne L’uomo aveva mostrato le grandissime capacità del corpo umano, attraverso una fisiologia che dimostrava l’inutilità della mente.
La tesi fondamentale che Spinoza vuole negare è infatti quella di considerare le azioni corporee come un effetto di cause mentali. Un’intuizione, questa, che ancora oggi siamo forse naturalmente portanti a condividere. Penso infatti che sia sentore comune quello di ritenere la mente come il “direttore” dell’orchestra corporea: noi decidiamo attraverso la mente di compiere un’azione, ad esempio alzare il braccio, e questo di conseguenza si muove. Il parallelismo spinoziano rompe completamente questo schema: mente e corpo non si trovano in una relazione di causalità (dove la prima è causa del secondo), piuttosto esprimono una corrispondenza, ovvero entrambi testimoniano il nesso causale che governa l’esistenza di ogni singola cosa, in cui il contenuto della mente umana sono allora le idee degli eventi corporei.

Chi in precedenza non riusciva ad accettare che la mente non obbligasse il corpo, secondo Spinoza, non si era mai reso conto di quale fosse il reale potere del corpo, degradandolo a mero esecutore materiale di volontà mentali. Riconoscere invece la tesi spinoziana, significa di conseguenza accettare che anche le emozioni umane, oggetto della terza sezione dell’Etica, non siano altro che una parte inserita all’interno della causalità naturale che regna nel mondo. Non per nulla, all’inizio del libro successivo, Spinoza affermerà:

«Tratterò dunque della natura e delle forze dei moti dell’animo, e della potenza della mente sopra di essi, con lo stesso metodo impiegato nelle parti precedenti su Dio e sulla mente, e considererò le azione e le voglie umane come si se trattasse di linee, di figure piane, o di corpi»6.

Indagare la mente significa, ovviamente, anche interrogarsi sulla conoscenza e Spinoza, all’interno di questa sezione, propone la famosa teoria dei tre (o quattro) generi di conoscenza. Chiaro è il debito verso Platone e la celebre “teoria della linea della Repubblica7. Non abbiamo qui lo spazio per approfondirla né per dedicarci agli altri grandi temi di questa parte dell’Etica; rimando perciò all’opera e consiglio di nuovo l’ottima guida di Emanuela Scribano8.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE:
1. Lo trovate a questo link.
2. B. Spinoza, Etica, a cura di P. Cristofolini, Pisa, Edizioni ETS, 2014, p. 87.
3. Ivi, p. 93, eIIpXI.
4. Ivi, p. 95, eIIpXIII.
5. Ivi, pp. 95-97, eIIpXIIIc.
6. Ivi, pp. 151-153, eIIIpr.
7. Cfr. Platone, Repubblica, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, 2010, pp. 721-729, 509d-511e.
8. E. Scribano, Guida alla lettura dell’ETICA di Spinoza, Roma-Bari, Editori Laterza, 2008.

[Photo credit Alina Grubnyak via Unsplash]

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Quando il volto non riesce a raccontarsi: identità e corpo nell’esperienza del trapianto facciale

Alle ore cinque del mattino di sabato 22 settembre si è concluso il primo trapianto di faccia in Italia. Un intervento iniziato circa alle otto del mattino di venerdì e durato ventiquattr’ore, secondo quanto affermato dai medici dell’ospedale Sant’Andrea di Roma.

Il ricevente è una donna di quarantanove anni affetta da una grave forma di neurofibromatosi di tipo I, una malattia genetica che andrebbe a colpire la cute e il sistema nervoso, manifestandosi attraverso la comparsa di macchie color caffelatte su tutta la superficie corporea ed escrescenze anche sull’iride dell’occhio. L’intervento è stato reso possibile da una giovane donatrice, una ventunenne morta a causa di un incidente stradale.

Certo, l’intervento è “tecnicamente riuscito”. La paziente è stata indotta ad un coma farmacologico ed è stata sottoposta, come di prassi, alla terapia antirigetto. Quello della paziente è stato un intervento che ha previsto quattro anni di preparazione, incontri e terapia psicologica, esami e accertamenti; fino a quando, il giusto donatore compatibile è arrivato. E con il donatore, la prima chance di rinascita.

Quello al volto è definito come un trapianto “multitessuto”, comprendente pelle, fasce muscolari e cartilagine. Sebbene non si tratti di un trapianto di un organo salvavita, come cuore o fegato, sottoporsi a un tale intervento significa affrontare le difficoltà di una preparazione non solo fisica, quanto più psicologica, che avrebbe condotto la donna a decidere per il trapianto. Secondo ciò che è stato riportato dai medici dell’Azienda universitaria-ospedaliera Sant’Andrea di Roma, la donna avrebbe sempre dimostrato un atteggiamento positivo nei confronti della vita, a tal punto che, poco prima di essere sedata, avrebbe comunicato ai medici di non avere paura rispetto a ciò cui stava andando incontro.

D’altronde, chi potrebbe permettersi di mettere in discussione la scelta di chi si è sentito abitato da un corpo non proprio, alieno, un corpo deformato dall’aggravarsi della malattia? Come potersi mettersi nei panni di chi ha combattuto fin dall’adolescenza con la paura del giudizio e dello sguardo altrui?

Quando parliamo del nostro corpo e delle difficoltà che si possono incontrare nel vivere con esso, non si può non rivolgersi al contempo a quell’identità che si scrive attraverso il corpo. Un’identità che, come nel caso di questa donna, era in pezzi. Nessuno potrà mai comprendere il disagio e la sofferenza che si portava dentro, questo bisogno di cambiare vita, di cambiare volto, di rinascere.

Ma rinascere da cosa? Rinascere da una lotta contro se stessi, forse?

Rinascere da un sé in frantumi? E verso quale direzione?

La scelta di questa donna è stata dettata dal bisogno di ritrovare il senso della propria vita, che poi non significa altro che ritrovare il senso della propria storia e della propria identità, attraverso le ferite di un corpo da troppo tempo lacerato da un dolore insopportabile. Un corpo strappato dalla propria ricerca di senso. Un corpo piegato dal dolore di un’inadeguatezza profonda, un’inadeguatezza che ha fatto i conti con l’opportunità di una svolta, resa possibile dal trapianto facciale.

Il prezzo di tale rinascita, tuttavia, è stato quello di accogliere parte del corpo di un altro. E, a differenza del trapianto di altri organi, quello al volto implica un cambiamento visibile, evidente e percepibile dall’esterno. Non si tratta unicamente di accogliere dentro di sé parte del corpo di un altro – pensiamo ad esempio alle implicazioni esistenziali successive al trapianto di cuore e riportate nelle bellissime pagine di Jean Luc Nancy, il quale descrive la complessità di accettare anche solo il battito del cuore di un altro – ma di mostrare all’esterno, agli altri, una parte di sé che apparteneva a quel donatore, ad un’altra vita, un’altra storia, ad un altro senso. Non contando inoltre i rischi cui il paziente si sottopone, una volta accettato il trapianto. La terapia immunosoppressiva e le possibili e conseguenti infezioni. Il successivo potenziale rigetto.

Non si tratta di un mero intervento “tecnico ben riuscito”, quindi.

Dopo poche ore, i medici del Sant’Andrea hanno dichiarato che la donna, malgrado non rischi la vita, è andata incontro a un rigetto che avrebbe comportato la ricostruzione temporanea dei tessuti autologhi. Come nel caso di qualsiasi organo trapiantato, andare incontro a un rigetto costituisce l’improvviso rifiuto del proprio organismo nell’accettare l’organo ricevuto. Ciò in attesa di un secondo donatore compatibile. Di un altro strappo. Di un altro cambiamento per la vita. Un cambiamento che, però, non può non lasciare una traccia in quel corpo che ci definisce e ci muove, che è a sua volta definito da un sentiero, che è il nostro, e che non è altro se non il racconto di ciò che siamo stati, che siamo e saremo.

 

Sara Roggi

 

[Credits Noah Buscher su Unsplash.com]

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Enten-Eller: Dialogo edificante tra un uomo etico e l’amico esteta

È il 20 febbraio 1843 quando a Copenaghen viene data alle stampe Enten-Eller – da noi conosciuta come Aut-Aut –, opera in due volumi, nella versione originale, concepita in soli nove mesi (è lo stesso Kierkegaard a ricordare: «ce l’avevo tutta in mente»). È uno scritto intreccio di più identità e personaggi, in cui il filosofo danese non compare come editore né come autore: questi infatti corrisponde al fittizio Victor Eremita.

Victor racconta la genesi di questa opera, la scoperta di alcune carte, ritrovate casualmente in un secrétaire acquistato presso la bottega di un rigatterie, nella capitale danese. Rinvenuti questi misteriosi scritti, lui decide di dividerli in due gruppi, riconducendoli a due autori differenti che decide di chiamare e B. Deve essere stata un’opera di divisione piuttosto facile: tali carte si presentano infatti ben diverse tra loro. Innanzitutto per la grafia (ricercata ed elegante quella riconducibile all’autore A, piana, uniforme, chiara quella di B), poi per il supporto cartaceo (carta velina raffinata per e pergamena solida per B) e infine per il contenuto (abbozzi di concezioni estetiche della vita in e due lunghe lettere di scritte per convertire l’esteta alla scelta di vita etica).

La prima parte dell’opera raccoglie le carte di A, l’esteta, la seconda le carte di B, l’uomo etico, il giudice in pensione Wilhelm. Ciascuno dei due è chiamato a difendere strenuamente una scelta di vita. La prima, edonistica, improntata sulla vita mondana, sul piacere, sull’indifferenza nei confronti dei princìpi e dei valori morali; l’altra basata sul dovere etico e sulla responsabilità.

vive esteticamente facendo del piacere il fine della propria esistenza, volatilizzandosi in molteplici forme di vita tra frammentarietà, dispersione e immediatezza. L’etica, al contrario, è riflessione, costanza, impegno, la dimensione che pone a proprio fondamento la libertà e la fatica della costruzione di ogni rapporto. Il fine di è quello di produrre un’armonia nell’anima, sviluppando compiutamente il proprio carattere. Wilhelm infatti afferma che quando un uomo sviluppa in sé la propria versione migliore, sviluppa la propria bellezza, la propria perfezione.

Nel saggio L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità, che compare tra le carte di B, Wilhelm scrive una missiva ad A, nell’intento di persuaderlo a cambiare il proprio stile di vita. Per B, esteta è chiunque faccia del principio-piacere del godimento il telos della propria esistenza, nonostante sia possibile essere esteti in modi assai diversi tra loro: c’è chi gode della propria salute, della propria bellezza, del proprio talento e chi cerca il godimento nell’accumulo di ricchezze, negli onori, e anche di chi gode della propria disperazione.

«Ogni essere umano […] ha un naturale bisogno di darsi una concezione della vita, una rappresentazione del significato della vita e dello scopo di questa. Anche colui che vive esteticamente fa così […]. Ora per grandi che possano essere le differenze all’interno dell’estetico, tutti gli stadi hanno parole in essenziale analogia che lo spirito non è determinato come spirito ma immediatamente determinato. […] La personalità è immediatamente determinata non spiritualmente, ma fisicamente»1.

delinea una fenomenologia dell’estetico (focus di questo articolo) che si caratterizza per due chiari punti fermi: l’immediatezza e l’esteriorità. La prima in quanto ciò per cui l’esteta vive (la bellezza ad esempio) è ciò per cui egli è immediatamente ciò che è. L’esteriorità, invece, perché l’esteta fa dipendere, tout court, il significato della propria vita da una condizione che è o esterna (per esempio riponendo il significato della propria vita nella ricchezza o negli onori) oppure è nell’individuo stesso ma in modo tale da non essere stato posto da lui stesso (come per esempio il talento). Wilhelm chiarisce il rapporto tra estetica e disperazione: ogni esteta è disperato in quanto ha edificato il significato della propria vita su qualcosa di caduco, effimero. È la disperazione di chi, avendo indirizzato ogni interesse a un bene determinato, una volta venuta meno la condizione del proprio godimento si sente perduto e dispera. L’esteta che gode della propria disperazione ha sempre saputo quanto fosse labile la bellezza, caduco il talento, effimera la ricchezza. Questa forma di disperazione non è, però, così profonda da spingerlo a trascendere quel finito di cui avverte il disperante limite: e questo perché tale disperazione è solo nel pensiero e non investe la personalità nella sua interezza. Ciò che non consente all’amico esteta di disperare veramente è, secondo B, la mancanza di passione: la sua incapacità di volere veramente blocca il movimento della disperazione (in quanto non la sceglie fino in fondo).

riattualizza così la figura di Nerone il quale, pur avendo a disposizione tutto ciò che permette di soddisfare ogni desiderio, sente la vanità a tal punto da chiedere ai cortigiani di inventare sempre nuovi piaceri (che riescono a placare, pur momentaneamente, l’angoscia che attanaglia il suo spirito). Egli però non partorisce mai se stesso, perché non sceglie la disperazione: soltanto l’individuo che versa nella disperazione può partorire se stesso (passando così dalla passività all’attività). Solo così, infatti, si troverebbe costretto ad accettare una risalita, un’ascesa, agguantando se stesso nel proprio eterno valore. Wilhelm però avverte che se l’esteta giungesse a questo punto, scoprendo così se stesso, diverrebbe uomo etico: per B, infatti, l’etica è la scelta di se stessi nel proprio eterno valore. L’etica è così la decisione di decidere, la volontà di volere, la scelta di scegliere. L’etica comporta un divenire, un punto di partenza e di approdo. Ciò che permette questo percorso è, come in Kant, la libertà che viene presupposta. Nel divenire, l’uomo etico passa dall’individuo immediato (che è tale per fattori contingenti), all’individuo così come dev’essere (il suo sé ideale) e infine a ciò che tra i due presenzia, cioè la libertà (che permette il passaggio da una determinazione all’altra). L’individuo morale passa dalla realtà all’idealità esercitando la propria libertà, e il primo momento di questo processo è la conoscenza di sé. È così, in vista dell’edificante per ognuno di noi, che si chiude Enten-Eller:

«[…] Non arrestare il volo della tua anima, non contristare ciò che v’è di meglio in te, non sfibrare il tuo spirito con desideri a metà e pensieri a metà! Domandati e continua a domandare finché troverai la risposta; perché si può aver riconosciuto una cosa mille volte, si può averla legittimata nel riconoscimento, si può aver voluto una cosa molte volte, si può averla tentata, e tuttavia unicamente il profondo intimo moto, unicamente l’indescrivibile intenerirsi del cuore, questo unicamente ti convincerà che quanto hai riconosciuto ti appartiene, che nessun potere riuscirà a strapparlo via da te; perché solo la verità che edifica è verità per te»2.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE
1. S. Kierkegaard, L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità, in Enten-Eller, Adelphi, Milano, 1989, volume V°, pp. 48-50.
2. Ivi, p. 274.

[Credit kevin laminto]

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Il primo libro dell’Etica di Spinoza: «Deus sive natura»

Ridurre l’Etica a qualche riga è un tentativo impossibile, dunque abbiamo deciso di concentraci sul primo dei cinque libri che la compongono – il De deo – rendendoci comunque conto del persistere della difficoltà. 

Pubblicata postuma nel 1677, senza nome dell’autore e senza luogo di edizione, all’interno della raccolta Opera posthuma, l’Etica rappresenta il compimento del lavoro filosofico spinoziano.
Le reazioni che seguirono a questa pubblicazione furono d’orrore: la sua dottrina venne considerata «empia» e «pericolosa», il suo autore fu additato come un «ateo» e un «nemico della religione»1. Cosa causò una reazione così accesa? La risposta è da ricercarsi senza ombra di dubbio nell’immagine che Spinoza diede della divinità. Il Dio dell’Etica, infatti, si distanzia enormemente da quello della tradizione giudaico-cristiana, e, se letto superficialmente, questo testo può condurre ad una visione panteista, materialista o animista dell’Universo. In realtà, la questione è molto più profonda.

Innanzitutto è da sottolineare come la lingua – il latino – non abbia aiutato Spinoza nella stesura delle proprie idee, estranee a quel linguaggio, e di come l’utilizzo di concetti cartesiani, unito a quello di espressioni non del tutto “felici”, abbiano costituito fin dal principio motivi di difficoltà d’interpretazione.
Il filosofo olandese ci guida attraverso un linguaggio geometrico: definizioni, assiomi, proposizioni, dimostrazioni, lemmi e scolii si seguono e concatenano dando vita a una struttura molto complessa e articolata.

La parte De deo è dedicata alla metafisica e allo studio ontologico. Per Spinoza, sostanza è «ciò che è in sé e per sé si concepisce: ossia ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa da cui si debba formare»2 e per attributo intende «ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costitutivo della sua essenza»3. La convinzione del pensatore è che Dio sia l’unica e infinita sostanza esistente, formata da infiniti attributi – dei quali l’uomo può conoscerne solamente due: estensione e pensiero – e che tutto ciò che la filosofia precedente aveva interpretato come enti non siano altro che modi di quest’unica sostanza infinita.
Molto si è dibattuto sul termine “modo”4, e su cosa Spinoza volesse intendere con esso, ma non è questo il luogo per entrare nel merito della questione. Per ora basti sottolineare come questa nuova concezione degli essenti abbia messo completamente in discussione le precedenti credenze. Successivamente al primo periodo di oscurantismo, infatti, l’opera ed il filosofo olandese vennero riscoperti ed ebbero luogo interpretazioni e nuove teorie molto feconde, come ad esempio la rilettura herderiana in chiave vitalistica dell’Etica5.

Molto curiosa è la teoria della libertà spinozista: «Sarà detta libera quella cosa che esiste per la sola necessità della sua natura e che da sé sola si determina ad agire»6. Visto che «per causa di sé» Spinoza intende «ciò la cui essenza implica l’esistenza» e che solo in riferimento all’unica sostanza si può parlare di esistenza connaturata («L’esistenza di Dio e la sua essenza sono un’unica e identica cosa»7), ne conseguirà necessariamente che solo Dio è libero. Libertà, comunque, molto diversa da quella del senso comune dato che si tratta di una “libera necessità”. Lo afferma nella lettera 58 a Schuller e lo esplicita anche nell’Etica: «Le cose non si sono potute produrre da Dio in altro modo, né con altro ordine, da come sono state prodotte»8.

Uno dei temi più dibattuti del primo libro è la tesi secondo la quale all’essenza di Dio appartiene l’estensione, questione affrontata nell’ampio scolio alla quindicesima proposizione. L’estensione è l’essenza della materia e la tradizione era concorde nell’affermare che Dio non potesse essere esteso – come Spinoza stesso ci mostra in questo luogo – perché altrimenti diverrebbe formato da parti, e dunque non infinito, o perché non sarebbe perfetto, in quanto gli apparterrebbe la sostanza materiale divisibile. Per Spinoza, invece, «la sostanza, e quindi l’attributo che la esprime, ossia l’estensione, non è composta di parti ma è unica e indivisibile»9. Causa della scorretta interpretazione da parte dell’uomo è per Spinoza l’utilizzo dell’immaginazione invece che dell’intelletto, dato che la prima non è capace di raggiungere la conoscenza dell’infinito. Ma la tesi spinoziana è anche più radicale: «[…] anche nel caso in cui si supponga che la sostanza estesa sia divisibile, non si vedono ragioni perché essa debba dirsi indegna della natura divina “purché si conceda che è eterna e infinita”. È così compiuto il passo decisivo per arrivare alla conclusione più impegnativa della metafisica spinoziana: Dio coincide con la natura; Dio è causa immanente e non trascendente del mondo»10: deus sive natura.

Concludiamo qui questo breve commento a una delle opere più straordinarie della filosofia occidentale. L’attualità del suo autore è manifestata a più riprese da studiosi di vari ambiti scientifici che vedono in Spinoza un contemporaneo con cui potersi rapportare11. Quest’opera è certamente non di immediata comprensione e può scoraggiare, ad una prima lettura, il metodo geometrico da Spinoza utilizzato. Ma facendosi aiutare da una buona guida (come quella di Emanuela Scribano riportata in nota) siamo convinti che anche il lettore meno avvezzo a questi temi possa scoprire un nuovo mondo, sconfinato e attraente, con cui entrare in contatto.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE
1. Cfr. V. Morfino, Genealogia di un pregiudizio, Hildesheim, Georg Olms Verlag, 2016.

2. B. Spinoza, Etica, P. Cristofolini (a cura di), Pisa, EDIZIONI ETS, 2014, p. 27, def. III.
3. Ibidem, def. IV.
4. Per esempio cfr. V. Morfino, op. cit. e G. Mori, Bayle philosophe, Paris, Honoré Champion Éditeur, 1999.
5. Cfr. J. G. Herder, Dio. Dialoghi sulla filosofia di Spinoza, trad. it. di I. P. Bianchi, Milano, FrancoAngeli Edizioni, 1992.
6. B. Spinoza, op. cit., p. 27.
7. Ivi, p. 53, prop. XX.
8. Ivi, p. 65, prop. XXXIII.
9. E. Scribano, Guida alla lettura dell’ETICA di Spinoza, Roma-Bari, Editori Laterza, 2008, p. 28.
10. Ivi, p. 31.
11. Cfr. ad esempio A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza, Milano, Adelphi edizioni, 2004.

[Immagine tratta da Wikipedia]

 

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Immagini ed etica nella comunicazione: intervista a Giovanni Scarafile

Giovanni Scarafile insegna Etica della Comunicazione nell’Università del Salento. Dirige la collana editoriale Controversies. Ethics and Interdisciplinarity per John Benjamins Publishing Company di Amsterdam. È vicepresidente dell’International Association for the Study of Controversies (www.iasc.me) e componente dello Steering Committee della Fédération Internationale Des Sociétés De Philosophie. Inoltre è direttore di Yod Magazine ed autore del podcast il Ramo del Mandorlo su iTunes. In questa intervista la nostra attenzione si concentra sulla sua ultima pubblicazione, Etica delle Immagini (Morcelliana, 2016), per riflettere sulle ambiguità della comunicazione a partire dall’ambivalenza e potenziale espressivo del linguaggio visivo. Proprio questo suo ultimo libro è stato il testo di riferimento nel mio precedente articolo Le ragioni di un’etica delle immagini, pubblicato nella rivista La chiave di Sophia #6 dedicata alla Comunicazione etica.

 

Professore, noi viviamo in una società dell’immagine e dell’apparenza come mai prima d’ora, quello visivo è il linguaggio che è diventato il più gradito e facilmente assimilabile da parte di noi lettori/consumatori, trasformandosi in discriminante per la virilizzazione e diffusione di un’informazione. Diventa quindi necessario riflettere sul valore etico della comunicazione visiva, eppure sembra che non venga dato abbastanza spazio ad un’analisi di questo tipo. Lei cosa ne pensa?

Nel 2001, il regista Patrice Chéreau realizzò il film Intimacy, basato su due racconti di Hanif Kureishi. La trama, in fondo, era semplice: Jay e Claire si incontrano ogni mercoledì nell’appartamento dell’uomo per fare sesso. Il film vinse l’Orso d’Oro a Berlino, ma fu massicciamente criticato da alcuni ambienti per la presenza esplicita di alcune scene di sesso. A mio avviso, quelle critiche erano ingenerose, perché si concentravano su un particolare, perdendo di vista lo sfondo.
Jay e Claire, infatti, vengono mostrati dal regista mentre sono catturati da una forza che li travolge e che, partendo dai corpi, li eleva ad una conoscenza che li supera e sembra trascenderli. Da sempre, a quella forza la filosofia ha dato un nome: eros. Quando vidi il film rimasi colpito dalla sua capacità espressiva: parlava di erotologia con molta più efficacia di quanto avesse potuto fare un discorso di filosofia. Non sto, ovviamente, mettendo in alternativa le due cose: l’aspetto visivo ed il discorso orale. Si tratta di elementi per certi versi complementari. La questione di fondo, però, rimane: quando mai avremmo potuto fare un discorso sull’eros con la stessa vividezza con cui il film mostrava la vicenda di questi due amanti?
Ecco, Intimacy è l’esemplificazione di una situazione piuttosto comune sotto i nostri occhi: siamo circondati da questioni ad alto tasso filosofico. Si tratta di aprire gli occhi per riconoscerle. Proprio nella rinnovata acutezza dello sguardo, infatti, possiamo trovare l’antidoto perché il nostro parlare di filosofia non sia una banale “verniciatura di formule”, secondo il noto avvertimento di Platone nella Lettera VII.

 

Partendo anche dal suo libro Etica delle immagini (2016), che cosa si intende per mito dell’oggettività fotografica e perché oggi può risultare un paradigma pericoloso?

Recentemente ho visto un filmato in inglese in cui l’ex presidente degli Stati Uniti, Obama, all’improvviso dice delle cose senza senso, pur rimanendo serio. Ho dovuto rivedere quel filmato, per essere sicuro di non aver capito male. In effetti, era proprio Obama, con la sua voce e con il suo volto. Ho scoperto in seguito che quel filmato è il risultato del software Face2Face che, inizialmente ideato in alcuni centri di ricerca, anche grazie all’intelligenza artificiale, consente di attribuire a chiunque espressioni facciali diverse da quelle originali del soggetto rappresentato. Quello che vedi è del tutto realistico ed è praticamente impossibile rendersi conto che si sta guardando un video alterato.
Oggi, esponenzialmente più che nel passato, quel che vediamo non è un indizio di qualcosa che si è verificato effettivamente di fronte alla macchina fotografica o alla macchina da presa. Si tratta di un cambiamento epocale. Agli inizi della sua storia, infatti, la fotografia fu ritenuta una prova schiacciante della capacità della “nuova” tecnologia di vedere meglio dell’occhio umano. Per questo, la fotografia fu considerata un sinonimo di obiettività. Di ciò che era fotografato, ti potevi fidare. Assistiamo oggi ad un cambiamento di paradigma: sì, sappiamo che esiste Photoshop e che le foto si possono modificare, ma la tendenza a credere in ciò che vedo è dura a morire. Dobbiamo imparare ad assumere una nuova postura di fronte al cambiamento in atto.

 

In che misura prendere coscienza dei codici del linguaggio visivo ci permette di difenderci da eventuali manipolazioni? Cosa significa saper leggere un’immagine? Esiste un certo “analfabetismo visivo” diffuso?

Come dicevo prima, stiamo attraversando un periodo di trasformazioni strutturali nell’ambito della comunicazione visiva e della comunicazione in generale. L’adozione di strumenti di interpretazione è senz’altro auspicabile, ma di difficile attuazione. La ragione è semplice: il nuovo contesto è accompagnato dall’immediatezza della fruibilità assoluta. Si tratta dell’illusione che qualsiasi informazione sia alla mia portata, indipendentemente dal suo genere e dalla mia preparazione specifica. È lì, su internet, e dunque è a mia disposizione. Facile, no?
Ora, con questa illusione noi dobbiamo confrontarci, perché la situazione precedente (quella, per capirsi, che attribuiva ancora una importanza alle gerarchie) è destinata a non riproporsi.
L’analfabetismo visivo cui lei si riferisce, a me fa venire in mente che oggi non si è tanto perso di vista il senso, ma il senso del senso. In questo nuovo scenario, occorre ripartire dai sensi. Con questo apparente gioco di parole voglio dire che risulta inaggirabile rifarsi a ciò che le persone sono convinte di vedere. In prima battuta, dunque, bisogna mettersi in ascolto delle loro “visioni”. In seconda battuta, occorre far presente che, per vedere sempre meglio, è bene mettere insieme più punti di vista, invece di fidarsi esclusivamente di ciò che ha visto uno solo. È questo il momento in cui l’assolutismo del proprio piano di visione può sfociare in qualcosa di più aperto al confronto.
Oggi, invece, molti esperti, di fronte ai protagonisti del nuovo scenario, reagiscono paternalisticamente. Con il sopracciglio inarcato, ad indicare un atteggiamento di sufficienza nei confronti dell’esistente, sembrano dire “Adesso ti spiego io come stanno le cose”, magari dando del “cretino” a chi non accetti di conformarsi alle indicazioni impartite (si pensi a quanto accade in materia di informazione vaccinale).
Il punto non è se le indicazioni fornite siano corrette o meno. Non possiamo fare a meno del sapere degli esperti, questo è chiaro. Tuttavia, nel nuovo scenario della immediatezza della fruibilità assoluta, gli altri non possono più essere considerati dei semplici destinatari, ma vanno intesi alla stregua di interlocutori: ai segni del cambiamento occorre rispondere con un cambiamento dei segni.

 

La diffusione delle fake news ha dimostrato che l’informazione libera non sempre porta benefici a chi legge, soprattutto se il lettore non è in grado di fare una lettura critica del messaggio che riceve. Quanto la rivoluzione del digitale ha facilitato l’elaborazione delle informazioni e quanto invece ha favorito relazioni asimmetriche tra chi crea contenuti e chi li percepisce?

Come dicevo prima, la rivoluzione digitale permette a chiunque, indipendentemente dalla sua preparazione specifica, di accedere ad una grande quantità di informazioni. A questo va aggiunto che oggi saltano le mediazioni. Se un tempo avevo bisogno di un’agenzia per organizzare il mio viaggio di nozze, oggi posso fare da solo. Questo porta con sé dei vantaggi, ma anche dei potenziali svantaggi. Cosa ne è della responsabilità degli esperti? Senz’altro non viene meno la loro responsabilità, anche se nessuno sembra più aver voglia di farvi riferimento. Il punto è che tale responsabilità, intesa come fedeltà al sapere da testimoniare, deve trovare modalità nuove per manifestarsi. In particolare, per quanto strano possa sembrare, la credibilità di un esperto non può più essere data per scontata e deve essere riguadagnata sul campo, a partire dal rispetto dovuto a coloro che sono pronti a contestarti. Riusciranno gli esperti a non farsi coinvolgere nelle risse mediatiche e a trovare nuove modalità di comunicazione in linea con i tempi? Mi sembra impossibile se gli esperti, invece di consultare gli studiosi di etica della comunicazione, preferiscono il fai da te. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: mentre gli esperti criticano coloro che non si fidano degli esperti, con il fai da te in materia di comunicazione, essi finiscono con l’applicare la stessa logica di coloro che criticano.

 

L’etica viene per lo più associata ad una dimensione di riflessione filosofica e poco tangibile; secondo lei come può invece concretizzarsi? Perché è necessario per tutti ragionare di più su questo argomento?

Ciò di cui lei parla, il fatto che l’etica sia percepita come ‘astratta’, è in effetti difficilmente contestabile. Vede, nel filosofare ci sono due aspetti di cui tener conto. La filosofia deve senz’altro ricercare gli indici di costanza dei fenomeni, cioè le condizioni di possibilità di ciò che appare. Al tempo stesso, non può disinteressarsi alla vita concreta dentro cui quegli indici vanno intravisti. L’impresa filosofica oscilla continuamente tra i due poli dell’eidetica e della fatticità, divenendo più astratta in un caso e più concreta nell’altro. Si tratta di due stazioni provvisorie il cui alternarsi non è purtroppo percepito nel modo appropriato. Proprio per questo, aggiungerei che l’etica dovrebbe orientarsi maggiormente in direzione della evidenziazione dell’efficacia delle sue indicazioni. Come viatico in questo compito, mi viene in mente quel passaggio dei Quaderni in cui Simone Weil osservava che “Niente di ciò che è inefficace ha valore”.

 

Etica, comunicazione e arte: che significato acquisiscono questi tre linguaggi in una società polarizzata tra la forma e il contenuto?

Mi sembra che ciò che etica, comunicazione ed arte hanno in comune è la possibilità di offrire, ciascuno dalla sua prospettiva, una effrazione della monologia del soggetto. L’artista, il comunicatore, il filosofo ci mostrano che esiste un mondo anche prescindendo dal mio punto di vista. Come soggetti, abituati a considerare noi stessi centro di gravità intorno a cui tutto il resto deve ruotare, siamo così indotti ad un esercizio di decentramento.
In proposito, torna in mente quel particolare della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca in cui uno dei fedeli è rappresentato nell’atto di togliersi il copricapo, prima di inginocchiarsi di fronte alla sacra reliquia, la Croce di Cristo, finalmente ritrovata.
Togliersi il copricapo, deporre l’elmo è una metafora straordinaria per indicare la detronizzazione del soggetto, cioè il gesto di chi, giunto a riconoscere l’esistenza di quanto non dipende da lui, è finalmente in grado di relazionarsi più autenticamente ad un altro, finalmente libero di annunciarsi.

 

Una comunicazione più obiettiva e responsabile è un obiettivo al quale poter aspirare? Se si, a che condizioni?

Se per “comunicazione più obiettiva” intendiamo una comunicazione più conforme al vero, allora il primo passaggio dovrebbe consistere nel prendere coscienza dei modelli comunicativi in cui siamo immersi. Non infrequentemente si tende a ritenere che la comunicazione coincida con la trasmissione di un messaggio da un emittente ad un destinatario. Questo modello va smascherato. Esso deriva da una ricerca, finanziata negli anni Sessanta dalla Bell Company, una compagnia telefonica, interessata a comprendere il modo migliore per ottimizzare il flusso di informazioni tra due apparecchi telefonici. Nel corso degli anni e misteriosamente, quello schema di funzionamento, proprio delle macchine, è stato riferito, piuttosto acriticamente, agli umani. La comunicazione umana, invece, è un’altra cosa e va ben oltre la semplice trasmissione di informazioni.

 

Da cosa è determinata la nostra percezione del vero, come acquisire maggiore consapevolezza del nostro essere fruitori e spettatori? In questo senso, la bellezza si può considerare una distrazione?

In genere, di fronte a qualcosa che ci sembra bello, rimaniamo senza parole, a bocca aperta. Fuor di metafora, la bellezza è ciò che interrompe la corrente continua che ci lega al mondo. In tal senso, si tratta di una distrazione salutare, perché dà avvio al processo che mi consente di interrogarmi sul modo in cui guardo la realtà.
La consapevolezza di cui lei parla è un atteggiamento riflesso, non una condizione immediata. L’accorgermi di significa che sto ragionando sul modo in cui vedo. È l’inizio di quel processo che mi rende spettatore avvertito o “emancipato”, come scrive Rancière, una specie di salto indietro, per recuperare ciò che è alla base della stessa distinzione tra vedere ed agire.
Le immagini hanno, in tal senso, una funzione straordinaria. Si pensi alle parole rivolte da Kafka nel dicembre 1912 alla fidanzata Felice, a proposito di una foto della donna: “Quando guardo il ritrattino, è qui davanti a me, gli si accompagna lo stupore di vedere con quanta intensità noi due ci apparteniamo, e come al di là di tutto ciò che si vede, al di là del caro volto, degli occhi tranquilli, del sorriso, delle spalle (a dire il vero strette) che bisognerebbe abbracciare subito, come al di là di tutto ciò agiscono forze affini, indispensabili per me e come tutto è un mistero che da piccolo uomo non dovrei neanche guardare; dovrei invece soltanto affondarvi devotamente”.
Queste parole mi emozionano sempre. Sono una grande dimostrazione non solo dell’affetto che può unire due persone, ma anche della forza misteriosa che si sprigiona dalla rappresentazione visiva e dei dinamismi che essa pone in essere. È ciò che oggi chiamiamo spectatorship.
Come filosofi della comunicazione, il nostro compito è di dare un nome, cioè comprendere sempre meglio, queste forze che Kafka definisce “un mistero”.

 

Tra i suoi scritti vogliamo ricordare anche Interdisciplinarità ed etica della comunicazione (2014), testo nel quale ha fatto emergere un tema a noi molto caro, ovvero la propensione di alcuni saperi (o meglio, dei loro esponenti) al ragionamento per compartimenti stagni e la loro difficoltà di dialogare con altri. In che modo l’interdisciplinarità dei saperi può, secondo lei, aiutare a vivere nella società e nel mondo presenti?

Farei due considerazioni. La prima è che, oggi, l’interdisciplinarità non è più una opzione facoltativa. È, piuttosto, una necessità, perché i problemi di fronte a noi sono talmente ingarbugliati da richiedere risposte non convenzionali.
La seconda constatazione è che la struttura del mondo accademico è basata, non immotivatamente, sulla divisione disciplinare. Pensi alle architetture dei nostri dipartimenti nei cui corridoi si alternano i singoli studi dei docenti, come fossero entità a se stanti. Di cosa è immagine quel modo di concepire la ricerca?
Per questo, chi si occupa di interdisciplinarità è, in genere, considerato una specie di dilettante, con interessi variegati, ma mai ritenuto “profondo” in nessuno degli ambiti di cui si occupa.
Sa qual è la prima conseguenza di questa concezione? Che coloro che si occupano di queste tematiche possono avere conseguenze negative sulle loro carriere. È quanto viene osservato nel recente The Oxford Handbook of Interdisciplinarity in cui è scritto: “those who become involved in interdisciplinary work are often professionally marginalized”.
Siamo al paradosso: c’è bisogno di interdisciplinarità, ma se te ne occupi la tua carriera si arresta!
Sono convinto che con il tempo la situazione è destinata a cambiare. Perché l’interdisciplinarità possa funzionare meglio è richiesta una sempre maggiore capacità di ascolto dell’altro. È dalla fiducia e dalla reale accoglienza che è possibile il transito dei significati da un sapere ad un altro. Ecco perché l’interdisciplinarità non è sganciata da una comunicazione etica.

 

L’impressione che si ha dell’oggi è che si parla tanto ma si approfondisce poco. C’è ancora spazio per parlare di filosofia nella nostra quotidianità?

In tutta franchezza, a me sembra di rilevare una inevasa domanda di senso, una vera e propria sete di ciò che è essenziale e che, come tale, può restituire il gusto vero delle cose. Insieme a questo bisogno forte dobbiamo cogliere che oggi le forme dell’esperienza del senso sono in continua trasformazione. Guardare avanti o indietro?, ecco la scelta che ognuno di noi deve compiere. Nel primo caso, saremo nostalgici, pronti a rubricare come superficiali od inesistenti le richieste dei più giovani. Nel secondo caso, dovremo allinearci alle mutazioni in atto, avendo il coraggio di superare la semplice riproposizione di tradizioni vetuste ed acquisendo nuove modalità espressive.
La consapevolezza che deve accompagnarci è che alla fame e sete di senso si risponde riattualizzando le matrici della nostra cultura che, in larga parte, derivano dall’incontro tra la tradizione greca e quella ebraica. Atene e Gerusalemme, dunque.
Dalla lamentata astrazione della filosofia, dal suo presunto essere disincarnata ed indifferente rispetto ai problemi degli uomini, si esce senz’altro.
Ma, a maggior ragione, si esce se saremo disposti a impegnarci in prima persona, sforzandoci di vedere meglio, di ragionare meglio, di incardinare nella nostra vita i riscontri ottenuti al livello del pensare. In questo modo, nella congiunzione di vita e filosofia, la vita diviene vita desta. Inutile illudersi: è difficile ed è impegnativo (dormire è molto più facile…).
Ma davvero possiamo pensare di vivere senza cercare il sapore delle cose?

 

 

Claudia Carbonari

 

[Photo Credits: MariAnnina Mazzillo]

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Elogio o biasimo della “normalità”?

La vita è colma di abitudini. Ogni giorno infrasettimanale si esce di casa più o meno alla stessa ora per raggiungere con tranquillità, tenendo presenti la viabilità, le condizioni atmosferiche e gli intoppi murphyani, il luogo di lavoro; nel weekend si è soliti trascorrere le serate con amici, probabilmente (soprattutto se non si abita esattamente in una metropoli) in un bar frequentato già in precedenza, oppure si tende a restare a casa per guardare un film avviluppati da una calda coltre, la mano immersa in una terrina colma di pop-corn. Con occasionali variazioni, sono insomma abitudini come queste a caratterizzare l’esistenza di ognuno, a dominare la quotidianità. E, in effetti, quest’ultima non esisterebbe senza azioni reiterate a scadenze regolari, prevedibili. Si può dire, anche, che la vita sarebbe molto diversa da come comunemente la si conosce se non ci fosse ciò che viene chiamata la “normalità”. Forse però è proprio questa che, mero costrutto logico elaborato per pensare la fatticità esistenziale, la realtà intera, può corrompere l’insieme di altri concetti logici mediante i quali ci si confronta appunto con la stessa fatticità esistenziale e con lo stesso reale. In tal caso, la normalità dovrebbe allora essere considerata in questo modo: come una prigione (dalle sbarre dorate, purtroppo) per il pensiero.

Ma che cos’è “normale”? È ciò che è ripetuto: ripetuto è l’andare a comprare i petti di pollo al supermercato; lo stringere a sé il partner e sussurrargli dolcezze in un orecchio; lanciare la pallina al proprio cane divertiti dall’aria attenta e concentrata dei suoi occhi. Azioni ripetibili, queste, appunto. E, proprio perché ripetute e ripetibili, anche prevedibili. Ma, poiché anche prevedibili, per ciò stesso pure normali. Ripetibilità, prevedibilità e normalità, pertanto, orbitano in un circolo virtuoso: quanto più un’azione è ripetuta, tanto più è prevedibile, quindi ancor più normale. D’altro canto, un’azione è tanto più normale quanto più è prevedibile, e prevedibile quanto più frequentemente è ripetuta.

Si impone però un quesito: davvero quel circolo è virtuoso? Non potrebbe essere vizioso, invece? Parrebbe di no. Ma che accadrebbe se, a quel circolo, si aggiungesse un quarto elemento, un elemento estraneo, ossia giusto? Il rapporto precedente tra ripetibilità, prevedibilità e normalità certamente cambierebbe: un’azione ripetuta e quindi prevedibile, pertanto normale, diverrebbe, proprio per via di questa normalità, anche per ciò stesso corretta. Ecco che allora quel quarto elemento esterno al circolo pare aprire una dimensione nuova nel circolo stesso, quasi una radura nella quale ora splende il sole dell’etica.

Il “sole dell’etica”? E se invece, al contrario, proprio giustizia gettasse una luce oscura su uno dei tre elementi del circolo, sulla normalità, e ne ne allungasse le ombre? Fuor di metafora: e se giusto schiudesse una dimensione non-etica di normale? Perché, affermando che sia corretto solo ciò che è normale, sembra che ci si incammini lungo una strada pericolosamente agevole, il cui nome è “dogmatismo”.

Sostenere, infatti, che solo ciò che è normale sia giusto vuol dire, d’altro canto, ammettere anche che quanto è non-normale (inconsueto, differente, unico) sia non-giusto. Dogmatismo di pensiero, appunto. Un vero e proprio errore della ragione, la quale, nel continuo avvitarsi fallace su di sé, può infine giungere alla violenza ideale sull’altro eticamente giustificata – per esempio, di una certa visione del mondo particolare. E alla violenza fisica, la traduzione sul piano pratico della spirale di violenza/giustificazione etica della violenza teorica che domina il pensiero, non vi è che un passo. Ecco, in ultima analisi, a che cosa conduce l’ipostatizzazione della normalità, la meta della strada denominata “dogmatismo”: l’aggressione totalitarista e totalitaria ai danni del diverso.

Certo, questi sono come due macchie di colore pece che sono riuscite ad annerire un “grigio” originario – “casi estremi”. E il grigio è il colore dell’esistenza quotidiana, della normalità di tutti i giorni, appunto. Ma esso può diventare nero, come si è visto: la normalità può condurre alla violenza – alla ridicolizzazione di un modo diverso di pensare, di credere, di vivere, alla purga di quel modo diverso di pensare, di credere, di vivere mediante l’olio di ricino. Ma il grigio può diventare anche bianco, fortunatamente. La normalità può, insomma, con l’uso retto della ragione, essere anche pensata per quel che davvero è: solo un concetto, utilizzato dall’intelletto per ordinare i fenomeni della natura che si osservano più frequentemente. Ma se la normalità è riconosciuta per essere un mero costrutto intellettuale elaborato al fine di controllare e non temere il fenomenico, allora neppure può essere brandita contro quei fenomeni che in essa non rientrano, che non si fanno “circoscrivere”. Se la ragione riconosce questo, che vi è nel reale sempre qualcosa che sfuggirà al concetto di normalità e che, per essere pensato opportunamente, richiede altre categorie, allora il grigio sarà diventato bianco-neve.

 

Riccardo Coppola

 

[Credit Mohdammed Ali via Unsplash.com]

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Quel che resta dell’antropologia

L’antropologia è una disciplina che mette ordine. Reinserisce ogni attore nella sua area di azione e lo rileva nella sua forma agentiva. In questo modo lo valorizza nel suo potenziale e nei suoi atti; riconosce i legami e le economie di potere che lo influenzano e che instaura coi presenti; colleziona quante più dinamiche possibili prima di asserire qualsiasi cosa. Calibra il giudizio anche su quegli elementi che normalmente restano ignoti o vengono misconosciuti. È una disciplina che ricerca l’etica, e la risveglia, in mezzo a intricatissime panoramiche. Quindi si può dire che le sue scoperte si producono nei suoi allievi. Il mantra è che la cultura è un farsi umano, un improvvisarsi situazionale, un incontrare, un comunicare e un plasmare sempre “in viaggio”1; un fare che non ha riscontri oggettivi, ma solo frontiere da varcare e da fuggire, storie da narrare.

L’antropologia però nasce come disciplina etnocentrica: come emissaria dell’imperialismo. Nei decenni, studiando l’uomo altro, si è stupita delle numerose similitudini tra la propria casa e quelle dell’uomo altro, annotandosele entusiasta. Ma procedendo e approfondendo questi temi, si è resa conto di quanto quelle somiglianze fossero inesistenti, arbitrarie, perché ricondotte soltanto alla propria personale singolarità, nel soggettivo, nell’interpretato, in un percorso unidirezionale che finiva col giustificare un pensiero ingenuo. Ingenuo perché troppo accasato nella comodità dei propri dogmi. Quelle somiglianze servirono solo che alla trascesa verso un ascolto orizzontale, il quale, nel suo praticarsi, ha portato alla luce un sapere che fa della dolcezza − e della disillusione − la sua forza.

L’antropologia pervade come un fiume, non invade come una montagna. È una disciplina che disegna e traccia cosmi a partire da una materia rarefatta che è la vita stessa nelle sue prolifiche espressioni. L’antropologia, in ultima, e in realtà primissima analisi, è uno studio sulla vita che si esprime. Ma è anche della vita che si esprime, della vita rappresentata dal singolo ricercatore, la quale si adopera per riconoscersi, rappresentarsi, aiutarsi e coinvolgersi nella cura di sé. L’antropologo dovrebbe dunque essere anzitutto un amante della vita. Di quella vita che si medita nel dialogo che è prassi tipicamente umana, di quella vita che trascende le parti per mostrarsi sopra e insieme ad esse, e soprattutto di quella vita – eccolo il trucchetto – che parla al di là dello scambio duale, al di là delle simmetrie e al di là delle rappresentanze.

La vita da amare ha un lato selvaggio, e ogni cosa d’amare ha qualcosa di pernicioso che bisogna riconoscere. In ogni parola e in ogni gesto, in ogni risposta che questi atti producono, si sollevano moltitudini di volti e concerti di nomi, si sente la presenza di narrazioni sgargianti, si ode lo scalpiccio di un milione di cammini. Fasci di luce che rimbalzano e impressionano da uno specchio all’altro. Nella voce di chi parla ci sono le parole e le idee di chi egli ha ascoltato, e nelle nostre domande risuonano le cantilene di chi vediamo ogni giorno, e a volte anche quegli episodi singoli, legati a un vecchio sconosciuto, che stranamente ci rendono nostalgici. Il mondo e la vita sono relazioni: l’antropologia è la disciplina che ne fa una certezza.

Ancora di più, l’antropologia guarda e contempla gli “attriti”2. Quelle regioni di contatto tra forze opposte, quei fenomeni imprevedibili, saturi di storia, che scintillano quando un universale cerca di espandersi in un contesto particolare. Succede che l’universale non è più universale e perde se stesso: può perdere il suo mondo. Le cose “non vanno come previsto”, un’intenzione, pur positiva, fallisce nel suo scopo, poiché si è avvicinata al prossimo con una valigia piena di idee mai scartate, mai tolte dalla scatola. Ammirate soltanto, desiderate, servite, mai capite, mai offese. Quindi un incontro diventa foriero di delusioni; e al richiamo di quelle delusioni, che tradiscono il desiderio esistente di capirsi per un motivo o per un altro, giunge l’antropologo col suo linguaggio saggio e calmo, improntato alla tolleranza, all’onestà e alla liquidità. L’antropologia è dunque amore per il limite: un ascolto. È un sapere che si produce nelle Zone, nelle aree magiche fuori casa, dove i saperi sono solo strumenti: quindi è una coscienza. È una colta amante viva nelle regioni dove gli attriti dettano l’andamento del quotidiano e palesano i neuronali filamenti che avvolgono il pianeta.

Se c’è una cosa che accomuna l’antropologia alla filosofia è la reciproca assenza di forma. La filosofia, è vero, costruisce le sue forme, cerca di dare un assetto al mondo, ma se è profonda e sincera con se stessa sa anche discutere quell’assetto e sa farsi da parte quel che basta per accogliere altre riflessioni. Una filosofia forte sa amare la sua opinabilità. L’antropologia, questo fantasma disciplinare che perde sempre più oggetti, dispensa buoni, ottimi consigli. Risveglia l’etica, appunto, ci rammenta la nostra arbitrarietà e insieme la nostra libertà, quindi la possibilità di amare quella stessa arbitrarietà. Ci porta a contemplare il fondo comune che alla fine non è nulla: una patina di vuoto che possiamo pensare come il divenire, il movimento. L’antropologia scioglie l’universo e lo rende semplice. Parla, guizza, espone, per poi scomparire. E in quel momento speciale, dopo che hanno scoperto chi sono, i coinvolti si trovano a dover rispondere a un invito disarmante: riconoscere il proprio potere e prendere una decisione.

 

Leonardo Albano

 

NOTE:
1. Cfr. J. Clifford, Culture in viaggio, in Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Bollati Boringhieri, 1999
2. Cfr. A. L. Tsing, Friction. An ethnography of global connection, Princeton University Press, 2005

 

[Photo credit: Adolfo Félix via Unsplash.com]

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Il trapianto di testa tra realtà umana e ricerca del postumano

L’impegno costante dell’uomo moderno-contemporaneo è sempre stato rivolto al miglioramento delle condizioni della propria vita. Questo obiettivo ha indotto l’uomo stesso ad avviare ricerche per la progettazione di strumentazioni che gli permettessero di superare eventuali ostacoli legati alla sua naturale fisicità.

La scienza attuale aspira ad oltrepassare il tradizionale modello antropologico per forzare le barriere poste in essere dalla natura cercando di superarle attraverso il progresso scientifico e la tecnologia.

Le differenti correnti di pensiero etico e filosofico hanno sempre inciso, ovviamente in modo contrapposto, sui mezzi realizzati dalla capacità produttiva dell’uomo e sui fini verso i quali rivolgere tali strumenti.

Tra i tanti propositi emerge quello del neurochirurgo italiano Sergio Canavero che, nel febbraio del 2015, aveva presentato l’ambizioso e dibattuto progetto HEAVEN/AHBR, nell’ambito del quale si proponeva di eseguire il primo trapianto di testa.

Nonostante le perplessità sollevate dalla comunità scientifica, nel novembre scorso Canavero e il suo collega Ren Xiaoting dell’Università di Harbin, hanno annunciato il successo del trapianto di testa su un cadavere attraverso la congiunzione di colonna vertebrale, nervi e vasi sanguigni, durante un intervento chirurgico di circa 20 ore. A detta dei due neurochirurghi, il prossimo passo sarà eseguire la procedura su un paziente vivente tetraplegico.

La prima questione che pongo, riguardo il possibile successo di tale pratica, è di ordine prettamente scientifico ed è relativa alla natura del cervello stesso che, senza la necessaria ossigenazione, inizia a deteriorarsi e a morire in pochissimi minuti: sarebbe quindi possibile mantenerlo in vita abbastanza a lungo da avere il tempo di ricollegare le innumerevoli connessioni neurali?

In secondo luogo, volendo essere precisi, un intervento su due cadaveri non può essere definito trapianto e pertanto risulta inadeguato parlare di trapianto di testa; ma anche a voler tralasciare questo aspetto, si può intendere come riuscito un intervento su pazienti già morti sui quali non è quindi possibile riscontrare gli esiti dell’operazione effettuata? Relativamente agli esiti dell’intervento, cosa succede alla testa trapiantata nel nuovo corpo e, viceversa, cosa succede al corpo nel quale è stata trapiantata una nuova testa?

È scientificamente noto che le altre parti del corpo condizionano la nostra neurologia, ovvero la modalità con cui generiamo pensieri e azioni, quindi, la nostra attività mentale può essere condizionata da fattori esterni al cervello; ciò significa che trapiantare una testa in un nuovo corpo potrebbe dar vita ad una nuova persona, oppure la testa manterrà inalterata la sua antecedente coscienza? Se, come è stato dimostrato da numerosi ricercatori, lo stesso ecosistema batterico del nostro corpo influisce sul modo in cui le persone pensano e sentono, con un trapianto la testa verrebbe inserita in un microbioma estraneo originato dall’essere stata innestata in un nuovo corpo. Detto ciò risulta improbabile che tutti i nostri tratti psicologici dipendano esclusivamente dalle cellule presenti nella nostra testa, è invece credibile che la maggior parte dei nostri tratti psicologici derivino dal passaggio di informazioni tra corpo e cervello.

Nonostante non sia chiaro in quale percentuale un cambiamento nel corpo potrebbe alterarne le caratteristiche psicologiche, il cervello verrebbe comunque sommerso da sostanze chimiche e segnali estranei del nuovo corpo che non è possibile ritenere ininfluenti o secondari.

Le perplessità etiche relative a queste tipologie d’intervento richiamano alla necessità di adottare una condotta cautelativa e non sono fonte della paura legata al progresso scientifico o del prospettarsi di scenari futuri aberranti, ma riguardano la concreta possibilità di ledere la vita umana nel tentativo di liberare l’uomo stesso da vincoli naturali che egli stesso ritiene restrittivi e che tenta di superare attraverso il progresso scientifico-tecnologico che, a sua volta, agisce spesso dimentico di reale concretezza e scevro di ogni riflessione etico-antropologica.

 

Silvia Pennisi

 

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