8 brevissime lezioni di etica dalle formiche, maestre di cooperazione

Dopo aver esplorato il mondo delle piante e la dimensione etica che noi umani possiamo attingere da esse, sono andata a curiosare un po’ nel meraviglioso mondo delle formiche1. Questi minuscoli insetti, di cui tendiamo ad accorgerci solo quando osano camminarci per casa, sono straordinariamente interessanti. La loro capacità di auto-organizzarsi senza schemi verticistici è qualcosa che ancora tentiamo di comprendere per poter, possibilmente, emulare. In realtà, lo studio degli insetti sociali è già fonte di ispirazione per attività di ricerca in vari ambiti, come ad esempio la robotica e le discipline che si avvalgono dello studio di algoritmi e network. Ma la cosa più straordinaria è che gli insetti sociali sono un magnifico esempio di sistema complesso. La magia dei sistemi complessi risiede nel fatto che essi si formano dall’interazione di parti, il cui risultato finale è l’emergere di proprietà nuove e globali, tra queste anche i due fenomeni più straordinari dell’universo: la vita in generale e la coscienza umana.

I sistemi complessi, così come l’etica, prendono forma nella dimensione totalitaria dove gli individui o le parti non sono più soltanto porzioni ma diventano comunità interattiva. La complessa vita sociale degli umani non può prescindere dalla prassi etica, cioè quella dimensione “potenziata” del pensiero che emerge dall’abitare assieme.

Torniamo ora alle formiche e vediamo come possono assurgere per noi al ruolo di maestre. Ecco otto brevissime lezioni di etica della convivenza sociale:

1. Le formiche si aggregano in colonie e diventano “superorganismi” che si comportano come un tutt’uno. Ogni formica fa del suo meglio affinché il suo contributo miri al benessere della colonia. L’individualismo sfrenato è una prerogativa umana, nonostante una spiccata socialità, tendiamo a dimenticare che il benessere della collettività richiede lo sforzo di tutti.

2. Lo sforzo di tutte le formiche non segue un’imposizione dall’alto, la regina non è una governante che dà ordini, ma una grande madre che dà vita alla colonia.

3. L’autorganizzazione di cui le formiche sono abili protagoniste è per noi qualcosa di inimmaginabile. È un misto di predisposizione e flessibilità, continua attenzione all’ambiente e agli stimoli chimici emessi dalle altre formiche. Riescono addirittura a evitare ingorghi durante i loro flussi di approvvigionamento. Scelgono collettivamente dove spostare la sede della colonia, come costruire efficienti dimore e possono anche sacrificarsi per difendere il nido e la regina con la prole.
Noi dobbiamo eleggere dei rappresentanti per le decisioni collettive, è impensabile che tutti prendano parola ogni volta, avremmo il caos.

4. Le operaie più anziane proteggono le più giovani evitando loro i compiti che prevedono l’allontanamento dalla colonia, come difesa e approvvigionamento di cibo. Nei casi in cui occorra allestire un riparo di fortuna, le formiche possono diventare un nido vivente, allacciandosi tra di loro e dando vita a una conformazione ben salda. Possiedono anche uno stomaco sociale, dal quale far fuoriuscire un po’ di cibo per le compagne.
Nelle società umane moderne il senso del sacrificio per la collettività è qualcosa che forse abbiamo già perso.

5. Molte formiche intrattengono relazioni di mutuo aiuto con altre specie, come funghi, batteri e altri insetti. Spesso ne deriva un profitto per tutti.
Noi umani, invece, tendiamo a relazioni opportunistiche e consumistiche con le altre specie animali e, in generale, con l’ecosistema.

6. Come per tutti gli animali che vivono liberi, l’infezione è tra le principali cause di morte. Le formiche, però, hanno imparato a evitare compagne infette e cibo contaminato e ad autoescludersi per contenere il contagio. Inoltre, si avvalgono di buone abitudini igieniche, come la pulizia del nido, di loro stesse e delle compagne e possono coadiuvare queste azioni con sostanze chimiche disinfettanti.
Noi umani, invece, nonostante abbiamo inventato la scienza medica, siamo ridotti al punto da avere, in tempo di pandemia, negazionisti e movimenti “no mask”.

7. Anche le formiche apprezzano l’immunità di gregge e hanno in qualche modo imparato a esporsi solo parzialmente a compagne infette, soprattutto attraverso le operazioni di pulizia, per acquisire piccole dosi di agente patogeno e poterlo sconfiggere.
Tra gli umani, invece, parecchi mostrano ostilità ai vaccini.

8. Parità di genere? Non proprio, perché le femmine di formica all’interno della colonia fanno tutto, ma proprio tutto, dalla cura della prole alle soldatesse, giacché i formicai sono società matriarcali. Sarebbe ora che anche in tutte le società umane le donne potessero liberamente scegliere di cosa occuparsi, contribuendo attivamente, accanto agli uomini, alle scelte per il benessere della nostra grande colonia.

La lezione delle formiche, piccole creature solidali e laboriose, ci invita a guardare ai magnifici esempi della complessità che possiamo scoprire anche solo allungando lo sguardo verso i nostri piedi, negli angolini delle nostre case e nei pertugi dei nostri giardini.

A volte, per iniziare a fare filosofia, basta veramente poco!

 

Pamela Boldrin

 

NOTE:
1. D. A. Grasso, Il formicaio intelligente, Zanichelli, 2018.

[Photo credit Pixabay]

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Maternità surrogata, “consegne” sospese causa Covid-19

Il 30 aprile 2020 la BioTexCom, un’agenzia ucraina per la maternità surrogata, mette in rete un video che mostra come la hall di un hotel di Kiev sia stata allestita a reparto nido per accogliere 46 neonati che hanno da poche ore a settimane di vita. Decine di culle allineate e un’equipe di baby-sitter e puericultrici, supportate da medici pediatri, intente a nutrire e ad accudire i neonati, ovvero i figli dell’utero in affitto. I contratti con le madri surrogate sono scaduti al momento del parto e i genitori committenti provenienti da Paesi stranieri non possono recarsi in Ucraina poiché la pandemia di Covid-19 ha imposto la chiusura delle frontiere. Le immagini mostrano come vivono i bambini; un video diffuso evidentemente per tranquillizzare i genitori committenti sullo stato dei “loro figli” o per ostentare l’efficienza organizzativa in una situazione di eccezionale emergenza nel tentativo di assicurarsi nuovi clienti.

Il caso di BioTexCom ha fatto scalpore per la pubblicazione del video ma, in realtà, è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più vasto. In Ucraina, come negli Stati Uniti e come in tutti gli altri paesi del mondo in cui la pratica dell’utero in affitto è consentita, sono a decine le agenzie di maternità surrogata che patiscono un inevitabile danno economico, causa della pandemia, inoltre si ritrovano a dover affrontare spese eccezionali per l’accudimento di tantissimi neonati sospesi in un limbo, nell’incertezza della loro sorte. Chi sono questi bambini? Di chi sono figli? Qual è il loro status? Chi li tutela?

Al momento della pubblicazione di questo mio contributo è probabile che le frontiere siano già state riaperte o che alcune coppie committenti, attraverso i Ministeri degli Esteri dei rispettivi Paesi, abbiano richiesto e siano riusciti ad ottenere dal governo ucraino un “permesso speciale”, in deroga alle regole del lockdown, per recarsi a ritirare i neonati. Nel frattempo è anche possibile che qualcuno dei committenti abbia deciso di recedere dall’impegno assunto. L’epidemia di Covid-19 ha stravolto le priorità di tante persone ed è facile che molti desideri di paternità e maternità siano svaniti di fronte all’emergenza economica e alle preoccupazioni per un futuro all’insegna della precarietà. 

Cosa ne sarà di questi bambini? Quali potrebbero essere le conseguenze psichiche del vissuto di quei giorni, settimane, mesi in cui sono rimasti “in attesa” come mercanzia in un magazzino o come pacchi postali non recapitati?

Oggettivamente non possiamo sapere se si presenteranno e quali saranno i postumi per questi bambini che hanno perso la madre biologica, sta di fatto che la letteratura psicoanalitica dice chiaramente che il neonato non possiede solo qualche riflesso e risposta automatica innati, ma è molto di più. Il neonato è un essere relazionale che possiede, già dalla gestazione, una serie di competenze motorie, sensoriali e cognitive.

Emerge costantemente nella letteratura psicoanalitica1, supportata da studi sui comportamenti del neonato e sul riscontro da adulto, la consapevolezza di un rilevante trauma infantile nel caso di separazione dalla madre biologica. Cambiare la figura di riferimento non è quindi irrilevante ma può essere alquanto pericoloso, ancor peggio in questo frangente in cui per giorni, per settimane o per mesi i neonati si sono trovati ad essere accuditi da una puericultrice diversa alla fine di ogni turno di lavoro, senza alcuna figura di riferimento stabile e nel periodo più delicato e determinante della loro esistenza.

Questo non significa che tutti i bambini che perdono, per molteplici cause, la madre nei primi giorni o mesi di vita vadano incontro a patologie psichiatriche gravi, ma piuttosto potrebbero essere sensibilmente più ricettivi. Allo stesso modo le madri surrogate che commercializzano il proprio corpo, perché si trovano in situazioni di povertà, spesso non sanno che affrontare quest’esperienza potrebbe rivelarsi psicologicamente destabilizzante, doloroso e traumatico. La comunicazione sensoriale ed emotiva fra madre e feto si avvia e si struttura già durante la gestazione, ciò implica che quel bambino è figlio di quella madre indipendentemente dalla genetica.

Dal mio punto di vista spero vivamente che questo video abbia fatto emergere una volta di più lo sfruttamento, le deformazioni e le deviazioni che sottostanno ad una pratica moralmente, fisiologicamente e psicologicamente devastante come realmente è la surrogazione di maternità.

 

Silvia Pennisi

 

NOTE:
1. Per citare gli autori più riconosciuti e autorevoli nel campo: Berry Brazelton (pediatra americano), Melanie Klein (psicoanalista austriaca), Donald Woods Winnicott (pediatra e psicoanalista britannico).

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Mangiare o non mangiare? L’etica del pluralismo dei corpi

Obesità e magrezza estrema sono le due facce della medaglia del mangiare. Oltre a essere condizioni patologiche da affrontare con adeguato supporto clinico e psicologico, rappresentano nodi etici non indifferenti per una filosofia pratica che punta a fornire strumenti di riflessione accessibili a tutti.

La grassezza è, da un lato, icona sociale dell’abbondanza, dall’altro emblema di fallimento e debolezza morale. Il primo caso non è difficile da spiegare: il nutrimento è sempre stato il pensiero primario dell’uomo, la fame lo spettro inquietante da tenere a distanza; primum vivere deinde philosophari: senza aver soddisfatto i bisogni primari, occuparsi d’altro è impossibile. Per questo motivo il grasso e il sovrappeso hanno sempre rappresentato l’abbondanza e la prosperità, una vita scevra di preoccupazioni materiali. Numerose sono anche le rappresentazioni artistiche e letterarie della prosperità o, quanto meno, del desiderio dell’uomo di attrarre a sé – spesso come favore divino – abbondanza materiale: si ricordi la celeberrima statuetta della Venere di Willendorf, risalente circa al 20.000 a.C., oppure la descrizione biblica della città di Babilonia.

Ma è proprio in contesto religioso che nascono, sotto una luce negativa, gli alter ego dell’abbondanza: il peccato e la colpa. La città ricca è promessa d’opulenza e sicurezza, ma è anche luogo dove si fanno spazio i vizi, primo tra tutti quello della gola, che si pone all’origine di ogni lussuria e quindi di ogni abbruttimento nella ricchezza e nel possesso materiale. Anche qui l’arte ci viene in soccorso: numerose sono le rappresentazioni dell’uomo grasso, circondato da lauti banchetti e otri, di cui spesso sembra prenderne le sembianze, a evidenziare quanto il macrocosmo del corpo sociale si rispecchi nelle forme individuali, quasi a sancire effettivamente che siamo ciò che mangiamo.

La risposta a questa tendenza “ingrassante” del mangiare diventa quindi il digiuno, il non mangiare. Sebbene anche questa pratica abbia derivazione ascetica (il digiuno religioso è sempre stato una rinuncia-per, il privarsi di qualcosa in vista del raggiungimento di un bene superiore), nel corso dei secoli è arrivato a mutarsi in rinuncia fine a se stessa. Esempio contemporaneo di privazione estrema di cibo, apparentemente senza motivo, è l’anoressia. Benché inquadrata nello spettro delle patologie, così come l’obesità, l’anoressia è un male più subdolo perché meno evidente e, in un certo senso, socialmente “accettato”: generalmente si provano pena e pietà per un corpo molto magro, ma non di rado c’è una certa ammirazione per la forza di volontà e il rigore nel rispettare un regime alimentare ferreo.

Il mondo vuole, ottiene e consuma sempre più cibo, indipendentemente dalla sua qualità ma, intanto, sviluppa ostilità nei confronti del nutrimento: meglio essere estremamente magri che pagare il prezzo del pubblico ludibrio per non essere stati in grado di resiste alla tentazione di ingurgitare più del necessario; meglio il digiuno che l’abbuffata perché di entrambi saranno visibili gli effetti sul corpo.

Qualcuno potrebbe affibbiare la colpa della “mortificazione” del corpo proprio a una qualche dinamica ascetica già menzionata, all’orfismo, al dualismo origine di tutti i mali e di tutte le discriminazioni. In questo caso, invece, il corpo non è da maltrattare in favore dello spirito, ma è maltrattato perché è spirito, è in un certo senso mentalizzato e deve portare avanti un’etica del rigore, deve garantire forza di volontà, prestanza e resistenza alla stregua delle macchine con cui lavora. Se proprio si vuol parlare di dualismo, ne possiamo considerare uno in cui l’anima è assente e l’unico modello è rappresentato dall’efficienza delle creature tecnologiche. Sia l’ingordigia che il digiuno estremi possono essere letti, quindi, anche come tentativi di ribellione volontaria, episodica o continuata, al macrocosmo cittadino e sociale che ci spinge a divorare e consumare: c’è chi si tuffa a capofitto nella possibilità di decidere come, quanto, cosa vuole mangiare, convinto che la vasta gamma di scelta sia sinonimo di libertà e chi, schiacciato dal peso dell’abbondanza promessa, decide di difendersi rinunciando a tutto.

Come al solito, la via maestra è quella che si colloca tra i due eccessi del mangiare, ma è pur vero che, affinché la si percorra, occorre cambiare prospettiva morale: sarebbe auspicabile un’etica del pluralismo dei corpi, della tolleranza della diversità e della comprensione reciproca che non si fermi a una mera rivendicazione o richiesta di riconoscimento, ma che liberi sinceramente dal disgusto per il corpo (e non solo quello) “diverso”, o malato o sano o semplicemente umano.

 

Vittoria Schiano di Zenise

 

[Photo credits Tim Mossholder su unsplash.com]

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Parlare “con” gli altri e “agli” altri

«Poiché la forza del discorso sta nella guida delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia quante forme ha l’anima».
Platone, Fedro.

Parliamo sempre a frequenze elevatissime e di rimando le nostre orecchie sono sempre aperte al bombardamento delle note e dei colori delle voci altrui. Oggi più che mai, poter parlare e ascoltare gli altri sembrano due gesti indispensabili, perché l’emissione di un suono di condivisione è l’unica cosa che può riuscire a scavalcare la distanza fisica che ci separa. Eppure, per quanto banale possa sembrare chiederselo, sappiamo veramente parale con e agli altri? E di riverbero, sappiamo ascoltare con il giusto animo quello che gli altri provano a dirci? Colui che impara a parlare francamente e adeguatamente diventa filosofo, perché riconosce la natura dell’anima di chi lo ascolta e dice il vero attorno a ciò di cui sta parlando. Tuttavia come possiamo parlare in questo modo, impegnandoci eticamente in ciò che diciamo? In una parola, come possiamo diventare filosofi parlando?

Platone, in uno dei suoi dialoghi più enigmatici — il Fedro — lo spiega velatamente, con il suo solito acume e la sua profonda ironia. Egli ci ricorda che due metodi sono necessari per poter parlare agli altri mostrando e insegnando loro la verità. Da un lato chi parla con verità deve essere dialettico, ovvero deve essere un oratore che sa suddividere e conseguentemente raggruppare diversi argomenti o diversi aspetti di uno stesso argomento. Chi parla è una sorta di macellaio, che deve dividere il tema prescelto secondo le sue giunture e articolazioni naturali, lasciando così scorrere un senso di verità che l’ascoltatore ha il compito di percepire. Questa prima parte del metodo del parlar franco permette di pronunciare dei discorsi che hanno in sé la verità, e al contempo di “educare” l’ascoltatore, che attraverso un dialogo fondato su una conoscenza vera impara qualcosa di altrettanto vero. In Platone, ovviamente, una tale conoscenza è legata alle idee. Così, ritornando alla nostra metafora, le articolazioni attraverso cui si taglia l’animale (o il tema) sono le idee intelligibile dell’Iperuranio, che essendo imperiture ci permettono di incidere la carne nei punti giusti non spezzando l’unità dell’animale.

Tuttavia, secondo Platone, per parlare adeguatamente non basta conoscere la vera natura delle cose, poiché è sempre possibile, pur conoscendo la verità, cercare di persuadere gli altri del contrario. Per questo, è necessario che chi parla sia eticamente impegnato in ciò che dice, avendo cura di comprendere l’anima di colui con cui e a cui parla. Parlare non è mai un semplice occupare il silenzio del mondo con dei suoni sconnessi e poveri di significato; parlare è sempre pronunciare un discorso vivo, che tocca e plasma l’anima di chi lo ascolta. Chi parla svolge metaforicamente lo stesso lavoro del medico che cura il corpo malato dei suoi pazienti. E non è un caso che Platone citi Ippocrate, il fondatore della medicina, per il quale un medico deve saper adattare una cura al corpo personale che si trova in una situazione di malattia. Perché ogni corpo è diverso dall’altro e ha bisogno che le sue specificità vengano rispettate e ascoltate. C’è quindi una praticità essenziale nella cura che dipende da quella miriade di circostanze particolari del corpo che viene curato. E lo stesso vale per l’oratore che pronuncia un discorso a un amico, a una cerchia di persone o davanti a un pubblico fedele. Chi parla agisce come il medico, poiché deve capire, analizzando l’anima di chi gli sta di fronte, con che tipo di anima sta parlando e che discorso gli si addice, dimodoché egli si possa impegnare a curarla con le parole.

In conclusione, Platone ci insegna un metodo per diventare filosofi delle parole e ci mostra che il parlare è molto di più di un semplice discorrere per passare il tempo. Esso, invero, deve farsi esercizio etico di intima unione con gli altri e di impegno solidale per la verità, attraverso cui si impara a conoscere l’anima di una persona. E questo parlar franco è un metodo che dobbiamo imparare noi tutti, perché il parlare è la nostra linfa vitale e simultaneamente la nostra macchia quotidiana. Nel parlare, quindi, dovremo sempre ricordarci che nessun discorso potrà mai essere trascendente e astratto, ma che ogni discorso è immerso nelle viscere della persona che ci ascolta, ed è in base alla natura della sua anima che va sempre modellato e scolpito.

 

Gaia Ferrari

 

[Photo credit Kristina Paparo via Unsplash]

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Lo stravolgimento dell’etica medica ai tempi del Covid-19

Abbiamo imparato a conoscerlo bene in queste ultime settimane il Covid-19: una patologia infettiva respiratoria acuta causata da un virus della famiglia dei coronavirusSiamo consapevoli che una parte consistente dei soggetti con diagnosi di infezione da Covid-19 richiede supporto ventilatorio a causa di una polmonite interstiziale caratterizzata da ipossiemia severa e che, circa un decimo di pazienti infetti, richiede un trattamento intensivo con ventilazione assistita, invasiva o non invasiva.

Il covid-19 è la malattia che, da un mese a questa parte, sta letteralmente mettendo in ginocchio le terapie intensive dei nostri ospedali e che ha stravolto non solo l’etica dell’allocazione delle risorse sanitarie nelle terapie intensive, ma l’etica medica in generale. I casi crescenti di insufficienza respiratoria acuta sono tali da causare un importante sbilanciamento tra le necessità cliniche reali della popolazione e l’accessibilità alle risorse intensive, di conseguenza si decide chi curare e chi non curare e lo si decide per età e per condizioni di salute, come in tutte le situazioni di guerraNon vale più il principio di accesso alle terapie intensive secondo cui il primo arrivato è il primo assistito, perché ciò equivarrebbe a scegliere di non curare pazienti successivi che presentano una maggiore speranza di vita e che rimarrebbero esclusi da una terapia intensiva ormai all’apice delle sue possibilità di contenimento.

Il principio cardine è dare la precedenza e favorire pazienti con una maggiore aspettativa di vita. Questo significa stravolgere i principi etici e operativi del nostro sistema sanitario che cura e opera anche per i pazienti in età avanzata che hanno una possibilità di farcela, perché la disponibilità di risorse nel nostro sistema sanitario, solitamente, non è tra i criteri da considerare nel processo decisionale relativo alle scelte mediche.

Ad oggi, il triage medico delle terapie intensive è stato costretto a subire un rivoluzionamento tale che la SIAARTI (Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva) ha redatto un documento per fornire una guida etica che possa essere di supporto ai medici che si trovano a gestire un’emergenza smisurata rispetto alle loro possibilità di cura1. L’obiettivo è indirizzare le decisioni cliniche complesse, urgenti e incombenti degli operatori della sanità e sollevarli da una parte della responsabilità delle scelte prese.

Secondo le raccomandazioni della SIAARTI il criterio base su cui lavorare è privilegiare la maggiore speranza di vita. Di conseguenza, tra i criteri base per l’accesso alla terapia intensiva e alla ventilazione assistita ci saranno: la valutazione della condizione medica generale, la presenza di patologie concomitanti, la potenzialità del beneficio e l’età del paziente. Tali parametri saranno utilizzati per determinare l’accesso alle cure intensive non solo per i pazienti affetti da Covid-19, ma anche per quelli colpiti da altre patologie gravi. I “malati ordinari” non cessano di esistere e hanno gli stessi diritti degli altri. La scelta di non intraprendere trattamenti intensivi o la loro sospensione andrà comunque motivata, comunicata e documentata. Se si nega la ventilazione meccanica, al paziente devono comunque essere garantite cure alternative o la sedazione palliativa.

È evidente che operare in un contesto di emergenza e pressante urgenza porta all’inesorabile e involontario accantonamento di tutti quelli che sono stati, fino a poche settimane fa, i principi cardine dell’etica in medicina. Non c’è spazio per il rapporto medico-paziente, troppo spesso non c’è tempo per il riconoscimento del diritto del paziente al consenso informato, del rispetto delle sue volontà e della sua autonomia decisionale. Viene accantonato quello stile partecipativo proprio dell’alleanza terapeutica che si fonda sul dialogo, sulla capacità di ascolto, sulla comunicazione empatica tre il medico, il paziente e i suoi familiari. Non hanno più la possibilità di esistere le decisioni condivise. Riemergono, dopo decenni, i principi paternalistici di beneficenza e giustizia, riemerge involontariamente quella deontologia medica che attribuiva al medico il potere di decidere, non solo se e come intervenire, ma anche se e quando informare il paziente sulle sue condizioni.

Non ci sono abbastanza risorse: questa è la realtà e a tale realtà gli operatori della sanità devono adeguarsi. È necessario concentrarsi sulla giustizia distributiva e su un’appropriata allocazione delle risorse sanitarie che al momento risultano limitate. Ma nonostante tutto l’obiettivo rimane sempre lo stesso: pro vita contra dolorem semper.

 

Silvia Pennisi

 

NOTE:
1. SIAARTI, Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili.

[Photo credits pixabay.it]

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La legge umana e divina nell’Orestea di Eschilo

Poeta e drammaturgo, Eschilo (Eleusi, 525 a.C. – Gela, 456 a.C.) è autore, fra le altre, delle tragedie raccolte nell’Orestea, ossia Agamennone, Coefore ed Eumenidi. L’articolo seguente, che non pretende di sviscerare appieno la trama di queste ultime, intende soffermarsi – attraverso brevi riferimenti agli eventi narrati nell’intera trilogia – sul tema del conflitto tra la legge umana e divina come appare articolato e risolto da Eschilo, nonché commentarne proprio la soluzione.

Protagonista della trilogia è Oreste, figlio di Agamennone. Proprio nell’Agammennone, Eschilo descrive il ritorno in patria, dopo il conflitto a Troia, del re acheo. Un ritorno che è stato lungamente atteso dalla regina Clitemnestra, ma per motivi tutt’altro che romantici: la donna infatti ha, con l’aiuto dell’amante Egisto, ordito un complotto contro il sovrano, il quale, appena tornato nel suo palazzo, viene ucciso. È però importante soffermarsi sulla giustificazione che Clitemnestra espone agli spettatori della sua azione. Vendetta: la regina ha deciso di uccidere il marito perché quest’ultimo, per primo, aveva deciso di sacrificare Ifigenia al fine di poter salpare verso Troia. La legge umana è addirittura categorica in merito, afferma Clitmnestra: è moralmente giusto vendicarsi uccidendo se si è prima ricevuto un torto mortale, anche se, e la donna ne appare consapevole, è altrettanto corretto essere considerati appieno responsabili delle conseguenze che, come in un circolo vizioso, ne scaturiscono.

Un circolo vizioso che si coglie già nella tragedia successiva, Coefore. Afflitto tanto per le sorti del padre, quanto perché non era in patria al momento del suo ritorno, è l’incontro con la sorella Elettra, l’aver appreso da lei sia l’identità degli assassini del padre e sia il destino cui è andata incontro Argo negli anni in cui essi vi hanno governato che spinge, con molta riluttanza, Oreste a pianificare l’uccisione della madre e del suo amante. Ma è proprio qui che, secondo Eschilo, quel circolo vizioso di vendette si spezza: Oreste non decide autonomamente di versare sangue, è il dio Apollo, al quale si rivolge in preghiera perché lo aiuti a comprendere come meglio agire per onorare la memoria paterna, che gli comanda di uccidere Clitemnestra ed Egisto. Ciò pare suggerire il drammaturgo, si può dire al termine di Coefore: se comandata dagli dei, persino un’azione che secondo i concetti etici umani è riprovevole (come l’omicidio) muta in atto morale; la legge divina primeggia sempre su quella umana.

Paradossalmente, coloro che, nella trilogia, tutelano l’inviolabilità delle leggi umane riguardanti la vendetta, coloro che puniscono duramente i suoi trasgressori sono entità non umane: le Erinni, le divinità figlie della Notte, personificazioni mitologiche, appunto, della vendetta. Le quali, nell’ultima tragedia dell’Orestea, Eumenidi, vengono descritte da Eschilo come desiderose di tormentare Oreste per ciò che ha compiuto, perché ha infine ucciso Clitemnestra ed Egisto. Ma il protagonista viene soccorso da Apollo e dalla dea Atena, la quale sancisce che siano altri a giudicare se Oreste abbia compiuto un’azione moralmente corretta obbedendo al dio Apollo e versando il sangue di chi, con l’inganno, ha ucciso Agamennone, oppure se abbia compiuto un atto non etico, come sostengono le Erinni, ghermendo la vita della propria madre; chiamati a decidere sono gli uomini dell’Areopago ateniese. Ma, e con grande delusione delle Erinni, il tribunale di Atene stabilisce infine che Oreste non debba essere punito per il suo gesto: l’uomo ha ucciso su comando divino.

Ma che ne è della moralità oggettiva degli atti?, si potrebbe obiettare al grande drammaturgo. Sebbene anche le azioni umane descritte nell’Orestea spesso non colpiscano affatto per la loro eticità, la figura delle Erinni rappresenta, nella trilogia, un limite all’arbitrarietà dell’agire, arbitrarietà che sembra sempre in agguato dietro i proponimenti dei personaggi non divini. Essi possono, in altre parole, violare le leggi umane che proibiscono di versare il sangue, ma così facendo ne pagheranno le conseguenze – i tormenti inenarrabili inferti dalle Erinni. Ciò però non avviene nel caso in cui sia un dio a violare le leggi umane: Apollo, infatti, comanda ad Oreste di compiere un’azione oggettivamente immorale. Le divinità non subiranno le vessazioni delle Erinni – proprio perché sono divinità. Ma per Eschilo anche un’azione che umanamente è immorale diventa etica se comandata da un dio – la libertà divina, arbitraria perché non regolata da norme etiche, primeggia sulla necessità umana, su azioni che invece sono soggette agli imperativi etici, questo il vero punto della questione. Proprio quello che suscita anche le maggiori perplessità filosofiche nei lettori.

 

Riccardo Coppola

 

[Crediti immagine: dichatz via Unsplash.com]

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8 brevissime lezioni di etica dalle piante, maestre di sostenibilità

«Andai per i boschi perché desideravo vivere con saggezza» scriveva Henry David Thoreau nel 1854. La natura è certamente maestra di saggezza, ma come possiamo cogliere i suoi insegnamenti noi che frequentiamo così poco i boschi? In questo ci viene in aiuto chi ha studiato a lungo le piante, come uno dei più autorevoli studiosi di neurobiologia vegetale: Stefano Mancuso, direttore del LINV (Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale). Le sue appassionanti opere divulgative sono un’occasione per svelare come le piante possano essere un modello di ispirazione per i principi dell’etica e della bioetica. Infatti, mai come ora abbiamo bisogno di sensibilizzarci alla cura dell’ecosistema “Terra”, la nostra casa, dove tutto è intimamente connesso. Eppure, sentire la Natura come un sistema di interconnessione tra tutte le forme di vita diventa sempre più difficile, se dalla natura viviamo distanti; ripromettendoci di passare più tempo immersi nel verde, possiamo subito iniziare a rimediare con gli strumenti che ci offre la conoscenza.

Cosa possono insegnarci le piante? Ecco otto brevissime lezioni di etica1:

1. Le piante non possono scappare di fronte a una minaccia ma se vogliono sopravvivere devono trovare una soluzione, per questo si sono ingegnate in una varietà di risposte tra le più originali e diversificate. Hanno solo bisogno di tempo, perché la velocità non è il loro forte. Forse anche per questo ci sfuggono le loro strabilianti performance. Noi, invece, fuggiamo facilmente ma, al momento, da questo pianeta non ce ne possiamo andare. Dovremmo sforzarci di essere più originali.

2. Non potendo scappare, le piante hanno fatto della cooperazione il loro successo. Ad esempio, attraverso le radici e i funghi possono inviare nutrimento a piante più piccole, oppure, grazie agli animali, al vento o altri espedienti più bizzarri attuano lo spargimento dei loro semi affidando alla buona sorte il futuro della loro prole. In natura il “mutuo appoggio” (teorizzato da Kropotkin2) è la strategia più diffusa di proliferazione della vita. Anche Darwin aveva visto nella cooperazione il punto focale dell’evoluzione.

3. Le piante consumano pochissimo e producono tantissimo. Ricordiamo che il nostro pianeta sarebbe senza la vita che vediamo se non fosse che pazientemente le piante hanno preso luce e anidride carbonica, loro nutrimento, restituendo al mondo ossigeno prezioso. Noi, invece, prendiamo di tutto restituendo perlopiù montagne di rifiuti.

4. Le piante sfruttano il fatto di essere mangiate: sembrano sacrificarsi ma questo consente, in vari modi, di garantire la sopravvivenza della loro specie. Soltanto gli umani tendono a mettere in crisi questo ciclo, ad esempio: impoverendo la diversità genetica mediante produzione di frutta senza semi; concentrando le coltivazioni in poche culture (mangiamo meno varietà di vegetali, soprattutto cereali, rispetto a tutta la nostra storia passata); cementificando il suolo e attraverso altri diabolici espedienti.

5. Le piante non conoscono le gerarchie, sono le paladine dell’uguaglianza. Primo, perché non hanno un corpo specializzato in organi, ma hanno una struttura modulare. Secondo, non avendo un apparato peculiare decisionale (come per noi è il cervello), realizzano le loro scelte olisticamente, grazie anche a una fitta rete di relazioni con l’ecosistema. I sistemi decisionali decentrati sono più diffusi in natura di quanto pensiamo e, in caso di minaccia, garantiscono più probabilità di successo. Le gerarchie, invece, tendono a produrre effetti dannosi come l’incompetenza e il declino di responsabilità (si pensi alla formula “ho soltanto eseguito gli ordini”, il cui scenario più tremendo è quello emerso durante il processo del nazista Eichmann).

6. Le piante modulano la loro crescita in base alle risorse presenti di volta in volta, mentre noi umani mangiamo anche a scapito di tutto.

7. Le piante sanno aspettare pazientemente il momento buono per farsi vive. Vi siete mai chiesti quanto possono sopravvivere dei semi? Finora, si è riusciti a far germogliare semi vecchi di circa duemila anni!

8. Le piante sono maestre di resilienza, di fronte alle difficoltà dimostrano una forza impensata, mai brutale e prevaricatrice (di cui siamo spesso protagonisti noi). Ne sono testimonianza la rigogliosa vegetazione che, nonostante le radiazioni, invade Cernobyl da quando gli umani sono scappati o gli alberi sopravvissuti a pochi metri dall’impatto della bomba a Hiroshima, onorati dai giapponesi col nome speciale di Hibakujumoku.

Insomma, questi e altri aspetti della vita delle piante ci invitano a considerarle molto di più di quanto facciamo quotidianamente, sia per promuovere la loro presenza, sia per emulare le loro virtù! Appena possibile allora, cerchiamo di allungare lo sguardo esplorando parchi o boschi, quando invece stiamo ricurvi su libri e cellulari, proviamo a sfruttare l’accesso alla conoscenza che essi offrono. Scienza ed etica sono due pianeti della conoscenza che non sempre dialogano in sintonia, ma in questo caso la scienza delle piante ci può fare da guida per ripensare un‘esistenza umana più etica, perché anche noi, come le piante, non possiamo vivere senza Terra.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE:

1. Alcuni dei suoi libri, utilizzati qui, sono: L’incredibile viaggio delle piante, Laterza, 2018; Plant Revolution, Giunti, 2017, La nazione delle piante, Laterza, 2019.
2. L’opera Il mutuo appoggio fattore dell’evoluzione di P.A. Kropotkin, è scaricabile gratuitamente qui.

[Immagine tratta da unsplash.com]

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Intrudere ed estrudere: l’inaccettabile opposizione di Jean-Luc Nancy

Nel 1992 il filosofo francese contemporaneo Jean-Luc Nancy ha subito un trapianto di cuore.

Ha raccontato questa estenuante esperienza nel libro L’intruso, edito da Cronopio e uscito nel 2000. Nancy basa la sua riflessione, breve ma densa, sulla coppia di sostantivi intrusione/estrusione, due termini che si oppongono ma che al contempo si richiamano cercandosi, abbinandosi, dandosi reciprocamente un senso. Non potrebbe esserci estrusione senza intrusione: quando, infatti, scegliamo di estrudere qualcosa – ossia di eliminarla, allontanarla – è perché essa viene percepita da noi come un intruso da scacciare, come un estraneo che ci crea problemi, ci invade o richiede troppo da noi; magari un impossibile che non possiamo o non vogliamo dare.

Il cuore di Nancy, quello con il quale è venuto al mondo, diventa l’organo da estrudere: appare come un intruso all’interno del suo stesso sistema corporeo, un intruso che non è più in grado di svolgere il suo compito e che mette a rischio la salute del filosofo. Si rende quindi necessario un trapianto: un altro cuore, un cuore che si attende come un libro fuori catalogo ordinato in libreria. Il cuore di un altro, capace di salvare la vita di Nancy, ma solo dopo un’intrusione violenta, fantascientifica, quasi impossibile da immaginare.

Scrive Nancy: «Dal momento in cui mi fu detto che era necessario un trapianto, tutti i segni parvero vacillare, tutti i riferimenti capovolgersi» (J.L. Nancy, L’intruso, 2000). Il suo cuore, che gli «saliva alla gola come un cibo indigerito», lo stava abbandonando. Per sopravvivere, avrebbe dovuto ospitare in sé qualcosa di estraneo.

Ma come si fa ad accogliere un intruso, che per sua stessa definizione giunge imperioso e si introduce in un ambiente familiare con aggressività e potenza, con scaltrezza e imprevedibilità? L’intruso arriva «senza permesso e senza essere invitato. Bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero che, altrimenti, perderebbe la sua estraneità» (ivi). Bisogna accettare un’inaccettabile.

I medici devono estrudere per poi includere.

Di fronte a questa scomoda e temibile realtà, Nancy si sdoppia, così come doppio si fa il senso della sua stessa esistenza. La sua vita sarà la morte di un altro essere umano. Ciò che sente è «di essere caduto in mare pur restando ancora sul ponte» (ivi). Egli è in due luoghi contemporaneamente: in balia della morte che incombe, della quale il suo cuore malandato si fa messaggero; in balìa della vita che ancora lo trattiene a sé con la promessa di una speranza, di una soluzione. Nancy è al di qua e al di là, così come sarà e resterà se stesso con in petto l’organo di un altro.

Il filosofo capisce anche che se si vuole sopravvivere bisogna prima diventare estranei a se stessi. Prima dell’arrivo dell’intruso il suo sistema immunitario viene preventivamente preparato a essere neutro, ossia inutile, per facilitare la sua venuta. Esso viene quasi cancellato, per minimizzare il rischio di un rigetto. «L’intruso è in me e io divento estraneo a me stesso» (ivi), spiega Nancy. L’estraneità si moltiplica e i farmaci anti-rigetto gli causano un abbassamento delle difese immunitarie che sfocia in cancro. Questa nuova malattia lo costringe a ulteriori sofferenze che paiono infinite e che sbalzano ancora e ancora la bussola della sua identità.

Ma egli sopravvive. E lo fa perché l’uomo ha imparato a superare se stesso divenendo «colui che snatura e rifà la natura, colui che ricrea la creazione» (ivi).

Per sopravvivere dobbiamo continuamente estrudere qualcosa e includere qualcos’altro di nuovo. Lo facciamo con il nostro organismo – le unghie troppo lunghe o i capelli, che vanno tagliati ma che poi ricrescono. Lo facciamo con persone e situazioni che, come il vecchio cuore di Nancy, ci divengono indigeste. Il ciclo della vita esclude per accogliere, e accoglie sapendo a priori che quella venuta resterà, come dice Nancy, scomoda e dal sapore straniero fino a che seguiterà a venire, fino a che non sarà divenuta qualcosa di familiare – ma quella familiarità durerà sempre e soltanto per un tempo determinato, sfociando poi in una nuova estrusione che sa di auto-defezione.

«L’intruso non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso. Non è nessun altro se non lo stesso che non smette di alterarsi […] intruso nel mondo come in se stesso» (ivi).

Un paradosso che va accettato, compreso, abbracciato.

 

Francesca Plesnizer 

[Photo credit Ali Hajiluyi via Unsplash]

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“Idda” di Michela Marzano: un viaggio sull’amore, l’identità e la memoria

A fine febbraio, in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo Idda, abbiamo avuto il piacere di incontrare per la seconda volta nella nostra Treviso, presso la libreria Lovat di Villorba, la filosofa e scrittrice Michela Marzano. E non c’è dubbio, la sua straordinaria capacità di trattare l’umano da vicino, cogliendone la vulnerabilità estrema e le fragilità, riuscendo a nominarla con una delicatezza e una sensibilità rara, ha nuovamente travolto e attraversato i cuori del pubblico. La sala era gremita e gli applausi si alternavano a istanti di commozione durante i quali il racconto dell’autrice lasciava spazio alle storie di vita delle persone sedute in sala.

Michela Marzano è docente ordinario di filosofia morale all’Université Paris Descartes e si occupa principalmente delle questioni legate alle tematiche di etica medica, al corpo, all’identità, alla violenza di genere e ai diritti civili. Oltre ai numerosi saggi, ricordiamo il best-seller Volevo essere una farfalla, L’Amore è tutto, è tutto ciò che so dell’amore, vincitore del 62^ premio Bancarella nel 2014 e i due primi romanzi L’amore che mi resta (Einaudi, 2017) e Idda (Einaudi, 2019).

 

Idda è il secondo romanzo che hai scritto. In precedenza ti sei dedicata ai saggi. Da che cosa ha avuto origine questo spostamento dalla precisione della struttura argomentativa propria del saggio alla libertà narrativa della fiction di un romanzo?

Credo che lavorando su questioni che riguardano la vulnerabilità dell’esistenza, la finitezza, le fratture, le contraddizioni dell’umano,  il saggio rappresenti, almeno per me, uno strumento troppo stretto, nel senso che non era più sufficientemente capace di parlare di tutti questi temi.

Quando si scrive un saggio si hanno delle ipotesi, ci si poggia su una determinata bibliografia, si argomenta e si spiega. Il problema, però, è che quando si affrontano le questioni legate alla fragilità al plurale, più che spiegare e argomentare, abbiamo bisogno di mostrare e di raccontare. Già Umberto Eco diceva che quando viene meno l’argomentazione si deve narrativizzare, cioè “narrare per mostrare”, al fine di permettere alle persone di identificarsi in determinate situazioni, che sono poi quelle che a me piacciono, di cui mi piace parlare.  Ho quindi avuto la sensazione, pian piano, che la scrittura narrativa mi permettesse di andare molto più lontano rispetto alla scrittura saggistica.

 

Puoi raccontarci da che cosa è emerso il bisogno di scrivere Idda?

Io direi che ci sono due punti di partenza dietro al bisogno di scrivere questo libro. Da un lato, ciò che mi ha spinto è stata  la domanda esistenziale-filosofica riguardante l’identità personale, cioè: chi siamo quando pezzi della nostra esistenza scivolano via? E quindi, siamo sempre le stesse persone di prima quando cominciamo a non riconoscere più le persone care oppure, quando cominciamo a non riconoscerci guardandoci allo specchio? Questi quesiti hanno costituito la guida direzionale per affrontare e dare un tassello supplementare alla questione dell’identità personale.

Dopodiché, c’è stato l’Evento, che per me è sempre importante, e che, nel caso specifico, riguarda la mamma di mio marito, Renée. Renée si è ammalata di Alzheimer e se n’è andata in punta di piedi ad ottobre dell’anno scorso. Idda nasce dall’urgenza e dall’esigenza di raccontare com’è e che cos’è la vita di una persona che comincia effettivamente a mescolare tutto, dimenticando pezzi della propria storia dove tutto dventa confuso.

Ho voluto raccontare quindi anche quello che ho scoperto confrontandomi con la mamma di mio marito, cioè il fatto che in realtà non è vero che, con una malattia come quella dell’Alzheimer, una persona cambia drasticamente. In realtà, ciò che resta è l’essenziale, l’essenziale di una vita, quegli episodi che ci hanno talmente tanto marcato da costituire la nostra identità, quegli istanti che non scivolano via, quell’affettività che noi teniamo sempre accanto, all’interno di noi anche quando razionalmente ci allontaniamo dagli altri. Quell’affettività e quell’amore che nemmeno l’oblio più profondo riesce a cancellare.

 

Nel libro si parla di quello che ciò che gli specialisti definiscono residui di sé. Come secondo te possono essere definiti questi residui del sé?

Io direi che questi residui di sé possono essere rappresentati dall’affettività, dalla familiarità con le cose care. Annie, la protagonista del libro, talvolta, non riesce più a riconosce Pierre, il figlio, come tale; tuttavia, nemmeno per un istante pensa che Pierre sia un estraneo perché egli resta sempre all’interno della sua sfera affettiva. Anche se a volte Pierre diventa il marito, altre volte il padre, dentro di lei resta quel “qualcosa” che fa sì che, di fatto, quello che c’è stato non scomparirà mai,  quell’amore resterà per sempre.

 

La filosofia in Italia solo in tempi recenti sta tentando di ridurre quella distanza esistente tra la ricerca e lo specialismo filosofico, proprio dei contesti accademici, e le esigenze culturali di un pubblico popolare. Se e in che modo secondo te la ricerca filosofica e la sua divulgazione possono dialogare in modo sinergico?

Ritengo che la ricerca filosofica e la divulgazione dovrebbero dialogare in modo sinergico. Basti pensare al pensiero di Socrate, il quale camminava per le strade della città e dialogava con i cittadini, cercando maieuticamente di far maturare la riflessione, lo spirito critico. Se dunque partiamo dal presupposto che la natura della filosofia è di essere dialogica, il pensiero stesso non può essere rinchiuso all’interno della torre d’avorio. Forse, infatti, dovrebbe dimenticare un po’ di quei tecnicismi che lo stanno facendo soffocare.

Dobbiamo tornare a dialogare e a permettere alla filosofia di essere filosofia, un pensiero alla fine incarnato. Credo che però, in questo, ci sia una grande responsabilità da parte di molti accademici che hanno immaginato di poter fare della filosofia una disciplina da laboratorio. Al contrario, fare filosofia significa trattare le questioni sull’umano, ed è per questo che un tale oggetto di ricerca non lo si può trattare se non con e attraverso gli umani.

 

Obiettivo de La Chiave di Sophia è quello di aprire la filosofia ad un pubblico eterogeneo e neofita, proponendo questioni centrali per l’individuo e connesse fortemente con la vita quotidiana. In che modo secondo te la filosofia può sempre più avvicinarsi a chi non ha mai avuto modo di approcciarsi ad essa?

Ritengo che alla base della filosofia ci sia, nonostante tutto, una grande domanda di senso, una richiesta di strumenti per trovare una propria direzione verso cui andare. Per questo, penso che possa essere anche “facile” avvicinarsi alle persone. Queste, infatti, non aspettano necessariamente delle risposte, anche perché non è proprio lo scopo della filosofia sempre e solo dare delle risposte; al contrario, trovare il modo di porre delle buone domande e poter elaborare degli strumenti critici per poi costruire il proprio futuro: questa è la ragione dell’esistenza del pensiero che poi non è altro che ciò che accomuna ciascuno di noi. Proprio per questo, può diventare “semplice” avvicinarsi al pubblico: in questo momento storico, le persone dispongono di domande di senso e esprimono il bisogno di strumenti capaci di permettere loro di dare un senso alla propria esistenza.

 

Greta Esposito e Sara Roggi

 

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