Punti su un cerchio. Il cammino comune di cristianesimo e islam

Negli ultimi decenni, l’area di Gaza, in Palestina, è diventata sinonimo di guerra, miseria, occupazione militare, terrorismo. Ovviamente non è sempre stato così: nei primi secoli dopo Cristo, infatti, la regione era uno dei centri culturali e spirituali più vivi, ferventi e innovativi del mondo, un punto di incontro di tradizioni, lingue e religioni, patria di santi, teologi, mistici e filosofi. Uno di questi, ingiustamente dimenticato, è S. Doroteo di Gaza, monaco a Abba Serid nel VI secolo d.C..

Innovativo sotto molti punti di vista, Doroteo è noto per gli insegnamenti impartiti ai compagni monaci raccolti in buona parte in Indicazioni per la formazione spirituale, testo che racchiude anche intuizioni sorprendenti su temi inaspettati, non ultimo la coabitazione e il reciproco rispetto tra fedi diverse. In una delle sue figure più efficaci, Doroteo immagina tutte le religioni come punti su una ruota, ognuno termine finale di uno dei raggi; il fulcro della ruota è Dio, l’Eterno che tutti cercano. La distanza dal centro della circonferenza è direttamente proporzionale a quella tra i punti sulla stessa: più questi sono distanti dal fulcro, più lontani sono anche l’uno dall’altro, mentre più si avvicinano al centro muovendosi lungo il raggio, maggiore sarà anche la vicinanza reciproca, indicando una ultima coincidenza dell’esperienza dell’Assoluto nella mistica. Il messaggio di Doroteo, però, si preoccupa di essere anche umanistico-sociale: più si tenterà di avvicinarsi ai fratelli di altre religioni (occupanti quindi gli altri punti dell’ideale circonferenza), più ci si farà prossimi, quasi automaticamente, a Dio.

Sono passati millecinquecento anni, ma il messaggio di Doroteo è più attuale che mai. È sotto il segno del dialogo, dell’accoglienza reciproca e dell’impegno comune che lo scorso 4 febbraio si sono incontrati ad Abu Dhabi Papa Francesco, capo della Chiesa cristiana cattolica, e Muhammad Ahmad Al-Tayyib, Grande Imam di al-Azhar e figura di riferimento per l’islam sunnita. Al termine dell’incontro, i due leader religiosi hanno redatto e firmato il Documento per la pace e mondiale e la convivenza comune (o Documento sulla fratellanza umana), un testo semplice e schietto che rifiuta la violenza e lo scontro come facenti parte della rivelazione cristiana e islamica, e che invita le due comunità religiose (che insieme comprendono quasi metà dell’attuale popolazione mondiale) a collaborare nelle sfide di giustizia sociale, di tutela dei deboli e degli ultimi, di difesa dell’ambiente e di costruzione della pace che le accomunano.

Non sono mancate reazioni ostili da esponenti di entrambe le comunità religiose: se i cattolici oltranzisti, che vedono nel confronto col mondo islamico la chiamata a una nuova Crociata in difesa della cristianità occidentale, hanno accusato il Papa di aver tradito la propria fede “arrendendosi” all’islam, musulmani altrettanto oltranzisti hanno invece rimproverato al Grande Imam di essersi “contaminato” stringendo accordi con gli infedeli imperialisti. Entrambe le voci hanno ampio sostegno nelle rispettive comunità, ma rimangono fortunatamente minoritarie, superate da una larga maggioranza di fedeli che non desidera che un percorso di pace – e, possibilmente, di amicizia – e soprattutto dalla Storia stessa che, al netto di corsi e ricorsi vichiani, non tollera di tornare sui propri passi.

Il cammino verso il centro della ruota, in un millennio e mezzo da quando scriveva Doroteo di Gaza, ha fatto molti passi avanti e altrettanti ne ha fatti indietro, in un assurdo balletto che non ha mai deciso fino in fondo quale direzione intraprendere. In anni di recrudescenza di antiche inimicizie, di violenza e di conflitti causati da un divario sempre più ampio tra classi sociali e regioni del mondo, un documento come quello firmato da Francesco e da Ahmad al-Tayyib parrebbe poca cosa, ma forse è proprio attraverso l’intuizione del monaco palestinese che può essere messo nella giusta prospettiva: se camminare insieme verso il centro si è rivelato troppo difficile, proviamo a camminare l’uno verso l’altro, a piccoli passi ma con costanza e fiducia. Il risultato sarà comunque lo stesso.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Averie Woodart via Unsplash]

La morte e l’eterno: intervista a Ines Testoni

L’Occidente ha un problema ingravescente con la morte. Non perché stia scendendo l’aspettativa di vita, che anzi, è piuttosto alta rispetto a tutto il resto del mondo. A partire dal ‘900 è cominciato il processo di estraniamento della morte dalla nostra quotidianità, mentre fino a prima essa è sempre stata, per quanto fenomeno individuale, un evento di comunità. I riti attorno all’ultimo passaggio hanno permeato tutte le culture fin tanto che l’unico antidoto contro la paura della morte sono state la solidarietà, la vicinanza, la relazione con i prossimi più cari. Questa storia di accompagnamento è stata improvvisamente interrotta dall’intromissione della tecnica medica, grazie al progresso della scienza. Abbiamo dovuto abbandonare le buone pratiche di accompagnamento al fine vita per mandare i malati a curarsi, fino alla morte, in luoghi protetti, specializzati, governati da professionisti determinati a lottare contro la malattia, ma che del malato spesso conoscono ben poco. Il luogo di cura per eccellenza, l’ospedale, è anche il luogo dell’occultamento della morte.

Attraverso il nichilismo, la filosofia ha già fatto i conti con la caduta dei valori, ma è forse necessario indagare come la morte, spesso definita come l’implosione di ogni valore, possa essere essa stessa un valore da salvaguardare.

Può la morte essere un orizzonte che, una volta riconsiderato sotto un’altra ottica, dona un nuovo senso al nostro rapporto con l’eternità? Per fare luce su questa possibilità e sulle questioni di fine vita che stanno cambiando la nostra società, abbiamo interpellato una grande esperta: Ines Testoni, professoressa di Psicologia delle relazioni di fine-vita, perdita e morte, nonché direttrice e fondatrice del master Death Studies & the End of Life dell’Università degli Studi di Padova.

 

Professoressa, la gestione della morte è diventata nell’ultimo secolo un problema peculiare. Quali sono le esperienze che sono venute meno nella vita degli individui da quando la morte è stata allontanata?

Da sempre l’essere umano cerca di dare senso alla perdita e in particolare a quella scomparsa che ritiene assoluta, come è quella causata dalla morte. Nella storia dell’umanità, la civiltà comincia ad apparire proprio a partire dalla costruzione di parole e simboli in grado di conferire senso a questa esperienza. Molti studi descrivono come fino alla fine del diciannovesimo secolo la ritualità religiosa regolasse le relazioni sulla base di rappresentazioni condivise di ciò che sta oltre la vita. Con la morte di Dio, che non consiste semplicemente nella perdita della fede quanto piuttosto nella consapevolezza della necessità di ridefinire i costrutti in cui affondano le radici dell’atto di fede, le persone non sanno più come gestire questo momento tanto importante quanto abissale. Nonostante l’essere umano si caratterizzi tutt’oggi per la consapevolezza della finitudine, viviamo in un’epoca che, avendo estinto la capacità di performare collettivamente il cordoglio, innanzitutto sembra voler rincorrere la celebrazione del corpo e della vita biologica, nascondendo l’evidenza del fatto che siamo comunque destinati a morire. Ci troviamo infatti immersi in una società che ha interamente esternalizzato dal soggetto e dalle relazioni familiari l’esperienza della malattia e della fragilità, affidando il momento del distacco al linguaggio della tecnica piuttosto che a quello degli affetti e della ricerca interiore. Anche la Chiesa cattolica sembra colludere con, se non addirittura promuovere, l’idea che l’amore si dimostri attraverso l’uso di ciò che il linguaggio bioetico internazionale chiama extraordinary meanings. Dinanzi alla morte, la pietas cattolica sembra volersi identificare con l’uso di dispositivi tecnologici sempre più raffinati ed invasivi, anziché proporsi come esperienza di condivisione della sofferenza nella vicinanza, attraverso abbracci, ascolto e ricerca intorno al significato che la vita già vissuta ha espresso o mantenuto segreto. In realtà, le cure palliative permetterebbero proprio questo tipo di conclusione, resa possibile dalla soppressione del dolore fisico che lascia aperto interamente il vissuto dell’angoscia che la consapevolezza della morte disvela. Al contrario, la disputa su come garantire fino all’ultimo, magari appellandosi alla speranza, il “rimedio vitale” distoglie dal compito di mantenere il focus sullo strazio del morire. E questo accade proprio perché sembra che nessuno voglia più scommettere su qualcosa che ci riguardi dopo la vita biologica.

Un tempo, in nome di Dio, gli esseri umani sacrificavano la stessa vita, perché erano convinti che così facendo avrebbero guadagnato la salvezza eterna. La morte non era il temibile, lo era invece il peccato e il dedicare al corpo più attenzioni di quelle dedicate all’anima.

 

Quali conseguenze derivano dall’occultamento della morte, dal suo allontanamento dalla società?

I riti di passaggio hanno sempre segnato il cambiamento dell’individuo da una condizione ad un’altra nel ciclo della sua vita all’interno della comunità. Prima del secolo scorso, anche la ritualità funebre assolveva a siffatto compito, definendo il passaggio dalla condizione della vita biologica all’esistenza ultraterrena. Oggi questo non accade più e la ritualità funebre sta progressivamente tramontando, lasciando spazio a mode e complesse espressioni di manipolazione della salma con funzione apotropaica.

A causa di questo cambiamento, che ha caratterizzato la seconda metà del secolo scorso, chi muore si trova spesso in solitudine e dipende da sempre più complessi dispositivi medici, all’interno di strutture sanitarie che sostituiscono le relazioni interumane con sostanze chimiche e apparecchiature elettroniche. Questo comporta che, intorno al morire, si sviluppi un deserto meccanizzato che isola i sofferenti, peggiorando drammaticamente la loro condizione esistenziale. L’esito potenzialmente infausto che tale stato determina è caratteristico di tutte quelle malattie sempre più numerose che prevedono un esito fatale a decorso prolungato. Se un tempo esse causavano una morte rapida, come per esempio il cancro o le malattie neurodegenerative, oggi grazie alla medicina vengono cronicizzate e la loro terminalità è sempre più estesa. Quando diviene evidente che solo la morte può porre fine a tale condizione, allora l’angoscia prende il sopravvento e con essa le strategie di negazione, rimozione e inautenticità messe in essere tanto dal malato quanto dai suoi famigliari e dalla comunità curante. Tale periodo, che inizia con l’annuncio della bad news, ovvero da quando viene data la notizia dell’impossibilità di porre rimedio alla patologia destinata ad avanzare irresistibilmente, in realtà potrebbe essere, come ritenevano gli antichi, un tempo utile per chiudere bene la vita in accordo con gli dei e con i propri simili. Invece è esattamente ciò che più si teme: una lunga sofferenza che toglie progressivamente facoltà e potere, lasciando il malato in balia di macchine e sostanze chimiche, spesso percepite come intrusioni violente che non ripristinano affatto il benessere.

 

Quali sono le strategie che filosofia e psicologia propongono per la gestione di questo problema?

A partire dal secolo scorso, insieme alla pedagogia e alla sociologia, la psicologia ha costruito delle procedure relazionali che hanno fatto corrispondere ai riti di passaggio i cosiddetti “compiti evolutivi”. Dopo Nietzsche, la diffusa convinzione che Dio sia solo un atto di fede e dunque un’illusione perché siamo profondamente certi che l’esistenza della realtà sia indipendente dalla volontà (credenza, desiderio, speranza) individuale, la parte finale della vita, essendo considerata affacciata al nulla e dunque non un momento importante di passaggio, ha perso il proprio compito evolutivo. Siamo drammaticamente incapaci di offrire senso alla sofferenza perché non ci aspettiamo che al di là dell’ultimo respiro ci attenda una realtà che ci riguarda interamente.

Ciò che innanzitutto la filosofia può mettere a disposizione della psicologia è la consapevolezza di come la sofferenza che precede la morte sia un prezioso periodo di passaggio. Per quanto, infatti, esso sia caratterizzato da dolore, molto simile al lutto completo (anticipatory mourning), si tratta comunque di una fase in cui è possibile prepararsi al distacco e negoziare nella relazione il senso dell’esperienza passata. Ciò che la filosofia può restituire alla disperazione dell’umanità è la consapevolezza che si tratta di un momento oltre il quale altro ci attende e non perché dipenda dalla nostra fede, quanto piuttosto perché è necessario e non esiste alcun nulla che possa annientare ciò che è. Quando parlo di filosofia, ovviamente mi riferisco non alla metafisica, definitivamente confutata dal pensiero contemporaneo, che ha avviato l’inclemente pensiero del disincanto su cui la crisi del senso del morire affonda le proprie radici. E non mi riferisco neppure a una filosofia neo-positivista o debole, da ultimo modellate sulla sostanziale coerenza di tutto il pensiero occidentale, grazie al quale il sapere medico e scientifico-tecnologico guadagna il proprio valore, ovvero il credere che la morte significhi annientamento assoluto per cui ogni strumento che garantisca la moltiplicazione dei giorni di permanenza nel mondo è a priori dotato di senso. Il punto di non ritorno del pensiero filosofico da cui può prendere origine una rivoluzione scientifica e anche ermeneutica è quello di Emanuele Severino, ovvero l’indicazione della necessità dell’eternità dell’essente. A partire dalla comprensione di siffatto concetto imperniato nella “struttura originaria della verità” che ha modificato il linguaggio, in quanto esso non può più essere identico a sé stesso da quando è apparsa la testimonianza del destino della necessità dell’eternità dell’essere, la rappresentazione della morte non può che considerarsi irreversibilmente cambiata.

Sapere che morte non può significare annientamento non è come non saperlo e saperlo significa lavorare seriamente per dare senso all’ultimo tratto della vita.

La filosofia può offrire l’opportunità di riorganizzare il compito evolutivo della fase più importante del passaggio nel mondo, insieme all’esperienza più significativa, quella del distacco da chi ci lascia per raggiungere l’ulteriorità.

 

Dobbiamo educare sia le figure professionali ma anche l’intera società, per questo lei parla di diffondere una death education, addirittura nei bambini, giusto?

Sì, a partire dalla riflessione inerente al che cosa crediamo che significhi morire realizzo da anni percorsi di death education tanto con i bambini quanto con gli adulti. L’interesse per questi temi è esorbitante. Quanto più essi vengono censurati nella vita quotidiana, quanto più le domande crescono nel cuore e nella mente di tutti.  L’importanza di tali forme di riflessione, che si sviluppa intorno alla malattia grave e alla morte, è destinata a crescere, per due motivi, che renderanno sempre più significativa la death education.

Il primo motivo riguarda il fatto che verrà progressivamente inverato quanto richiesto dalla convenzione di Oviedo e dalla legge 219/17, che ci destina a diventare ammalati competenti rispetto alle cure, affinché il nostro consenso sia consapevole e autentico. Poiché non sempre gli interventi medici garantiscono il ritorno a uno stato ottimale di salute, sarà prezioso il lavoro di chi saprà sostenere psicologicamente chi deve cominciare il percorso del proprio declino proprio o di quello di una persona cara. Il secondo motivo inerisce al fatto che le carenze economiche dei servizi sanitari ridurranno drasticamente la possibilità di morire in strutture ospedaliere, e ricominceremo dunque a vivere l’ultimo periodo della vita a casa, anziché in ospedale. L’attuale inesistenza di una cultura diffusa intorno alla dimensione esistenziale dell’ammalarsi e della finitudine, in rapporto al senso della morte e del morire aggiunge al dolore e alle difficoltà concrete della malattia anche l’angoscia derivante dall’incapacità di rappresentarsi il problema e di comprendere le risposte che la tecnica sta progressivamente promuovendo in forma sempre più sistematica. L’assenza quasi totale di competenze diffuse al riguardo, relative a come si gestisce una malattia terminale e la morte a casa, abbandona tanto i morenti quanto i famigliari alla casualità dell’improvvisazione e alla contingenza delle situazioni.

La death education può aiutare ad affrontare questa situazione, aprendo gli orizzonti della riflessione al fine di supportare gli individui nella gestione dell’angoscia e nella scoperta dei significati che la sottendono. L’uomo agisce sempre in base a ciò che comprende e se la comprensione di questi temi è autentica, la death education può agevolarli nel compito di affrontare gli importanti cambiamenti e le loro ripercussioni che la morte porta con sé.

 

Prima di occuparsi della psicologia della morte si è dedicata a lungo alla psicologia delle differenze di genere e della condizione femminile, c’è qualche ponte concettuale che le viene in mente tra morte e femminile, in senso filosofico o sociale?

Questo tema mi è molto caro, in particolare mi interessa il rapporto tra le differenze di genere e la generatività. Fino a qualche anno fa sembrava che questa dimensione fosse una peculiarità femminile, in quanto la donna è stata da millenni educata ad impostare la propria vita in funzione della vita che può dare mettendo al mondo i figli ed offrendo loro la possibilità di aprirsi al mondo. Oggi questa caratteristica viene sempre più conquistata anche dagli uomini, tanto che ormai si tratta di un patrimonio che non può più essere considerato solo femminile. In Occidente, come la donna sta imparando a trasformare la società con il proprio lavoro, così l’uomo sta acquisendo una nuova competenza, ovvero quella di gestire le relazioni nell’intimità in funzione della crescita dell’altro. Su questo cambiamento ormai inevitabile e sulla diversa idea di morte hanno fatto perno le mie ricerche, ipotizzando che gli uomini siano più propensi a vedere la morte come annientamento in totalità e le donne come passaggio. La generatività entra in rapporto con questo aspetto: quando si ama qualcuno a cui si è dato la vita è difficile immaginare che possa essere annientato con la morte. In passato questo caratterizzava la donna, e mentre gli uomini si organizzavano per uccidere il nemico, le donne pregavano per i propri figli e i propri cari. Oggi tanto gli uomini quanto le donne in Occidente stanno imparando il valore della pace, anche se essa sembra sempre a rischio. Ciò che devono scoprire è che si può vivere senza guerre e che insieme si può contemplare il senso dell’eterno. Certo, detto così sembra facile, in realtà l’impegno di studio e ricerca che questa consapevolezza richiede è esorbitante. Ma se pensiamo a quanti anni dedichiamo allo studio e quanta disponibilità di informazioni è offerta a ognuno in ogni momento grazie alla tecnica, pare proprio che non ci manchi niente per poter fare sul serio nell’affrontare le questioni più importanti che riguardano il rapporto tra la vita e la morte.

 

Un’ultima domanda. Che cos’è per lei la filosofia?

Io la definirei così: la necessità dell’apparire del linguaggio che testimonia il destino, ovvero la verità dell’apparire dell’esser sé dell’essente in quanto tale (ossia di ogni essente), che implica l’apparire del suo non esser l’altro da sé. Tale linguaggio mostra l’impossibilità dell’essente del divenir altro da sé, ossia del suo essere eterno. A partire da questo fondamento, filosofia è anche tutto il lavoro di risoluzione del nichilismo, ovvero del toglimento dell’errore.

 

Pamela Boldrin

 

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Dove vanno i morti?

Dove vanno i morti? Rimangono sottoterra o ascendono al cielo, magari tra le stelle? Scendono nel triste e tenebroso Ade con una moneta sotto la lingua per pagare il traghetto di Caronte? Li aspetta la prateria degli Asfodeli, dove le anime degli ignavi subiscono un tedio senza fine, o il Tartaro, in cui i dannati, come scriveva Omero, perseguitati da mostri infernali che rimproverano loro le colpe commesse in vita stridono di terrore come uccelli fuggenti? O, se giusti e virtuosi, i Campi Elisi? O ancora, dopo l’Elisio, le isole beate tra i cui boschi si trovano le anime di coloro che nacquero tre volte e ogni volta vissero virtuosamente? Oppure, una volta compiuto il rituale della pesa del cuore, li attendono i Campi Iaru, ricchi di giunchi e segnati da ruscelli?

E se dinanzi ai morti si estendesse solo il grande nulla?

Andando oltre ciò in cui ognuno crede o vorrebbe credere, vi è un luogo che ispira profonda serenità e dolcezza in relazione alla morte e al dopo. Si tratta del mausoleo di Galla Placidia, un piccolo edificio che si erge timido a fianco dell’imponente chiesa di San Vitale a Ravenna. Galla Placidia (386-450), sorella dell’imperatore Onorio, artefice del trasferimento della capitale dell’Impero romano d’Occidente a Ravenna nel 402 d.C, fece costruire per sé tra il 425 e il 450 un mausoleo a croce greca. In verità, secondo ricerche effettuate, il suo corpo non riposa in esso, bensì a Roma dove la morte la colse nel 450. La pianta e l’esterno sono piuttosto semplici e modesti, soprattutto se paragonati allo splendore musivo che accoglie il visitatore non appena varca la soglia. Infatti, il livello superiore delle pareti è interamente ricoperto di mosaici, i quali decorano anche archi, lunette e cupola. Il mausoleo assume la connotazione di un luogo di transito dalla vita nel tempo all’esistenza nell’eterno.

Entrando si prova la sensazione di trovarsi in un luogo magico e, al contempo, irreale, simile a uno spazio di sospensione. A nutrire questa impressione è soprattutto il color blu della cupola, una tonalità profonda ed intensa dotata di una propria luminosità. Il cielo notturno è ricamato con cerchi concentrici di stelle d’oro a richiamare la conformazione dell’universo. Il colore non è uniforme e piatto, piuttosto può contare su sfumature differenti, grazie all’accostamento di tessere tra loro peculiari che contribuiscono a creare una profondità indefinita. I cerchi concentrici assomigliano a delle apparizioni luminose, altrettanto irreali come il manto blu che vi si stende al di sotto. Avanzando gli occhi incontrano Dio, raffigurato simbolicamente da una croce d’oro e circondato da altre stelle, le quali, per la loro vicinanza, emanano una luminosità soffusa e dorata. Lateralmente, vicino alle immagini degli apostoli, compaiono alcuni animali, tra cui colombe e cervi, la cui presenza contribuisce a rendere l’atmosfera notturna ancora più dolce e rasserenante. Ovunque l’alabastro diffonde una luce calda e si assicura che le tessere musive, con le loro diverse inclinazioni, producano innumerevoli riflessi. L’immagine della morte e dell’aldilà che emerge da ogni parete ispira un mondo assolutamente altro rispetto a quello reale, uno spazio dove sopravvive lo spirito, dove la materia perde le sue connotazioni terrestri e si abbandona alla leggerezza del puro spirito.

Una simile consolazione si avverte ammirando L’isola dei morti di Arnold Böcklin, olio su tela (111 x 155 cm) conservato al Kunstmuseum di Basilea. Fin dalla sua realizzazione nella primavera del 1880 per una giovane donna che aveva da poco perso il marito, il dipinto esercitò un fascino ipnotico e inimitato dalle quattro varianti successive. Si è al crepuscolo: una strana luce si estende fino a definire l’orizzonte. Non è né giorno né notte. Il silenzio trova una raffigurazione vera e propria grazie alla barca a remi che occupa discretamente la parte centrale del dipinto. I remi non toccano l’acqua, non la muovono: essa rimane immobile e calma nella sua oscurità. Sulla barca è adagiata una bara coperta da un drappo bianco e dietro ad essa compare una figura ritta, fasciata di veli bianchi, quasi a richiamare una mummia. La barca sta impercettibilmente approdando a un’isola, la quale si compone di elementi naturalistici pur emanando un’aura di irrealtà. Sembra una creazione onirica. Il bosco di cipressi, collocato nel mezzo della composizione, è circondato da falesie scoscese e brunastre. L’isola è un cimitero. A suggerire questa idea vi sono le numerose tombe scavate nella roccia, ancora vuote. La figura bianca che sta ritta a prua, per quanto ancora illuminata, sembra ormai pronta a ricevere l’abbraccio del buio. Tutto accade al di fuori del tempo. Non c’è né un tempo né uno spazio specifici. È l’ovunque e il sempre. Il dipinto combina armonicamente paesaggi, stili e culture diverse. Böcklin fonde il mito classico con il romanticismo nordico e il paesaggio mediterraneo. Si richiama alla barca di Caronte, alle tombe etrusche, alle rupi svizzere e ai cipressi della Toscana.

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Nel complesso il dipinto trasmette un’idea di solitudine e nostalgia: il mondo antico è morto e certi miti sembrano ormai anacronistici. Forse, nell’animo dell’artista, l’isola poteva ancora rappresentare un ingresso per l’oscura discesa al Tartaro o per la luminosa ascesa ai Campi Elisi. È il crepuscolo: forse l’isola è l’ultimo ingresso. Rispetto al mausoleo di Galla Placidia non si avverte la certezza di un aldilà di pace e serenità: la figura velata di bianco potrebbe pure discendere al Tartaro. Nonostante questa possibilità, che getta un’ombra di inquietudine sull’intera composizione, predomina un’aura di conforto e quiete che sembra appartenere a un mondo altro rispetto a quello terreno.

Forse l’inquietudine di fondo di Böcklin era legata alla possibilità di trovare (o ritrovare) l’isola dei beati. Forse si estende oltre questo cimitero. Forse è l’isola che non c’è.

 

Sonia Cominassi
[In copertina: Particolare della volta d’ingresso del mausoleo di Galla Placidia, Ravenna;
Nel testo: Arnold Böcklin, L’isola dei morti, olio su tela, 1880. Basilea, Kunstmuseum.
Immagini tratte da Google Immagini]

 

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