Un tempo per amare. La temporalità oltre Bergson e Nietzsche

Spesso si vive, a volte si percepisce, ogni tanto si ricorda, ma quasi sempre ci sfugge: questo è ciò che esprimiamo quando parliamo del tempo.
Cosa è davvero il tempo? Difficile definirlo. Potremmo dire che equivalga allo scorrere di attimi vissuti intensamente, dove il divenire dispiega la propria essenza e, a seconda del nostro stato d’animo, genera cambiamenti che spetta a noi subire passivamente o interpretare attivamente.
“Non mi fermo per nessuno”: è uno dei motti che spesso ritroviamo inciso nelle meridiane, come ad indicare che il tempo scorre nonostante noi stessi e non faccia soste di alcun tipo. Questo risulta in contrasto con ciò che, invece, viviamo. Infatti, per noi il tempo è anche apparente negazione di esso, come quando non abbiamo bisogno di guardare l’orologio per quantificarlo, perché, seguendo le lancette del nostro cuore, ci sembra di fermarlo o, addirittura, di essere diventati noi stessi quel principio che regola ogni istante.

Come si vive, all’interno della storia della filosofia, la questione del tempo? Prendiamo in esame due autori del periodo moderno.

Per Bergson il vero tempo è quello della coscienza che – contrapposto a quello della scienza, più ordinato e causale – è il luogo in cui l’io sperimenta l’avvicendarsi di diversi e particolari momenti che corrispondono a quel flusso inesorabile che è la vita in sé: «Tale è, precisamente, ogni nostro stato di coscienza, considerato come un momento di una storia in via di svolgimento […] È un momento originale di una storia non meno originale» (H. Bergson, L’evoluzione creatrice, 2012).

Molto diversa è la concezione del tempo in Nietzsche, presente in quell’eterno ritorno che è espressione della volontà di potenza in un mondo dove, sine Deus, la trasvalutazione dei valori permette di poter accettare così tanto la vita – con le proprie gioie e dolori – da essere in grado di tollerare l’inesistenza di ogni possibile luce metafisica. Roba da supereroe? No, piuttosto da Oltreuomo che, senza escatologia, sceglie di vivere in modo umano, troppo umano (Cfr. F. Nietzsche, Umano troppo umano, 2016).

Alla radice di entrambe le posizioni filosofiche c’è quindi una personalissima interpretazione della vita e, di conseguenza, del suo senso più profondo: il tempo può diventare espressione di pienezza o condanna all’infelicità eterna.

Andando al cuore della nostra quotidianità, però, uno degli elementi chiave delle nostre giornate è sicuramente quello degli affetti: i nostri attimi di vita sono spesso scanditi dalla presenza di chi amiamo. È con un abbraccio che risolleviamo la nostra cattiva giornata e, allo stesso tempo, è con una parola detta al momento sbagliato che possiamo rovinare la bellezza di una condivisione. In che modo misuriamo il tempo degli affetti? Quante volte guardiamo l’orologio con sguardo minaccioso pensando che “se avessi più tempo, starei con te per ore!”. Ore che non sono mai definite, per fortuna, e che somigliano a sfumature di eternità.
Non è allora piuttosto il contrario, ovvero che sono proprio gli affetti a scandire il tempo? E che più che quantificarlo, contribuiscono a spostare l’attenzione sulla qualità di esso?

Siamo ancora una società capace di sintonizzarsi con l’orologio del cuore, sospendendo la frenesia del quotidiano, per assaporare gli istanti eterni degli affetti? Questa visione contemporanea del tempo, fatta di schedule, planning, time management, è ciò che fa la nostra felicità? L’ossessione di programmare ed incasellare tutta la nostra vita all’interno di un definito arco temporale si alterna alla volontà di vivere alla giornata. Per noi, uomini del XI secolo, tertium non datur e l’unica collocazione che troviamo di noi stessi è quella agli antipodi delle cose. Anche del tempo.

Ma al termine del nostro cammino di vita, cosa resterà di tutto questo?
Passando ad una visione ontologica del tempo, non ricorderemo la nostra vita per la quantità di minuti che abbiamo cronometrato, piuttosto per gli attimi che abbiamo vissuto: l’esistenza diventa misura temporale
«Dicono che c’è un tempo per seminare / E uno più lungo per aspettare / Io dico che c’era un tempo sognato / Che bisognava sognare», direbbe Fossati, uno dei più grandi cantautori italiani.

Oltre Bergson e Nietzsche, ciò che ci resterà del tempo sarà quel sospiro fatto di secondi ed emozioni che farà vibrare le corde del nostro cuore, sognando e ricordando che l’unica vita davvero degna di essere vissuta – citando il caro Socrate – è quella in cui abbiamo eternamente amato oltre ogni limite temporale.

 

Agnese Giannino

 

[Photo credit Ben White via Unsplash]

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L’insostenibile leggerezza dell’essere e il passato che non ritorna

«L’idea dell’eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell’imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all’infinito! Che significato ha questo folle mito?»1.

In questo modo Kundera si presenta ai lettori. Con parole quasi agghiaccianti, avvalendosi del pensatore tedesco, introduce nella sua opera principale, L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984), l’idea del passato che ritorna. 

Lo stesso ispiratore, Nietzsche, ne era terrorizzato. «Il pensiero più abissale»2 così definiva l’eterno ritorno dell’identico. Un’idea che è tanto complessa quanto antica. Il filosofo tedesco, infatti, in terre svizzere davanti al comparire di quel così strano ammasso di pietra, rischiarì una concezione presente già nell’antica Grecia, prima che il “tafanod’Atene, Socrate, comparse nei pensieri e nelle opere di Platone.

La differenza tra Nietzsche e i Presocratici, messi a confronto nella concezione del tempo, non si limita solo ai duemila anni di distanza dal loro umile comparire in «quest’atomo opaco del male»3Infatti, se per gli antichi greci l’eterno ritorno presupponeva una concezione ciclica del tempo, una ciclicità puntuale nella natura, per il pensatore tedesco anche il più insignificante evento è destinato a ripresentarsi all’infinito come a un succedersi di mondi perfettamente identici nei minimi particolari, separati gli uni dagli altri da periodiche conflagrazioni universali. 

«Il mito dell’eterno ritorno afferma, per negazione, che la vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna, è simile a un’ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza, e che, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla. Non occorre tenerne conto […] Cambierà qualcosa se si ripeterà innumerevoli volte? Sì, qualcosa cambierà: essa diventerà un blocco che svetta e perdura, e la sua stupidità non avrà rimedio»4.

Le cose «appaiono prive della circostante attenuante della loro fugacità»5. L’effimero scompare e con esso il fascino della nostalgia. In questi termini, l’idea dell’eterno ritorno dell’identico è capace di spaventare anche il più temerario degli uomini, consapevole del peso ineluttabile che dovrà sopportare. In confronto le sette fatiche di Ercole appaiono come una scampagnata in collina. Infatti, se ogni cosa è destinata a ripersi all’infinito «siamo inchiodati all’eternità come Gesù Cristo sulla croce»6. Il peso della responsabilità come un fiume che separa due regni, la vita e la morte, insorge come un macigno difficile da sviare; «il fardello più pesante che ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo»7.

In sintesi, indagare sulle conseguenze di questo concetto non è impresa facile. Troppi pensatori si sono imbattuti tra follia e risentimento nelle parole di Nietzsche, finendo poi per perirne: Deleuze, Löwith, Ferraris per fare qualche esempio. Possiamo però affermare con più sicurezza che in un mondo incompleto, mancando del ritorno del passato, eventi cruciali come il tramontare d’imperi, le innumerevoli guerre fratricide, o il comparire della ghigliottina francese in nome della Dea Ragione; tutto ciò ci può apparire come un umile comparsa nella Grande Marcia della storia tanto da lasciar perdere, quasi con ignoranza, perché non vissute in prima persona. In questo modo ci raccontiamo «è andata così, è il destino; non c’è nulla da farci»8Ci dimentichiamo, cioè, della profonda perversione morale che appartiene all’anima capace di tutto ciò. Scordiamo cosa significhi vivere un espediente, soccombere ai riflessi delle nostre azioni belle o angosciose che siano

Meglio dimenticare, girare le spalle al passato che tinto di porpora sembra svanire nel futuro prossimo che ci prestiamo a compiacere; cancelliamo connessioni celebrali, che potrebbero chiarirci chi siamo veramente; affoghiamo nel vino dell’ignoranza per poter andare avanti. Così che il masso dell’eterno ritorno si fa misero sassolino dentro le nostre tasche bucate e così passiamo la nostra esistenza. 

Impossibile poter biasimare questa scelta. Dopotutto, lo stesso Nietzsche una volta scrisse «L’uomo si meraviglia di sé stesso, di non poter imparare a dimenticare e di rimanere attaccato al passato: per quanto possa correre lontano o velocemente, la catena corre con lui. […] Allora l’uomo dice: “Mi ricordo” e invidia l’animale che dimentica immediatamente»9.

Perciò, dimentichiamo. Anche quello che abbiamo appena letto: non era importante, «non occorre tenerne conto come una guerra fra due Stati africani del XIV secolo»10.

 

Simone Pederzolli

 

NOTE:
1.M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, 1984 
2.F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1883-85 
3.G. Pascoli, Myricae, 1897
4.M. Kundera, op.cit.
5.Ibidem.
6.Ibidem.
7.Ibidem.
8.G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, 1837 
9.F. Nietzsche, Considerazioni Inattuali, 1876 
10.M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, 1984

[Photo credit unsplash.com]

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“Il nichilismo europeo”, il frammento di Lenzerheide di Nietzsche

Per questa rubrica sulla riscoperta di un classico della filosofia ho pensato di analizzare il celebre frammento di Lenzerheide in cui Nietzsche racchiude il fulcro della sua riflessione sul Nichilismo occidentale, ma anche il suo pensiero sull’eterno ritorno, la trasvalutazione dei valori e sull’Oltreuomo che inesorabilmente si collega ad una presa di coscienza della condizione nichilistica dell’uomo. Lenzerheide è una località in cui il filosofo si recava spesso per riflettere e fare lunghe passeggiate; lo scritto che prenderò in analisi è una raccolta di brevi frammenti editi negli anni ’60 da Einaudi grazie all’attenta analisi filologica di Colli e Montinari.

Il filosofo si confronta con vari tipi di nichilismo e prende spunto per la sua riflessione dal nichilismo dei valori russo, dal nichilismo religioso e dal nichilismo del senso. Nietzsche si rende conto che oramai cercare una soluzione al nichilismo sembra essere anacronistico, perché la scienza e la presa di posizione dell’uomo nei confronti della natura e del sapere stesso lo ha messo di fronte il nichilismo stesso. Noi viviamo il nichilismo e l’uomo può solo accettare questa condizione e provare a farci conti e a tracciarne una genealogia.

Ma la domanda che il filosofo si pone è: l’uomo può riuscire ad accettare di essere frutto di una casualità, che la sua vita non abbia senso e può accettare di non avere un valore in quanto uomo?

L’indagine del frammento di Lenzerheide si apre con una analisi della morale cristiana occidentale, ragionando per idealtipi si potrebbe dire che l’uomo grazie alla morale cristiana e nella speranza di una vita futura ha dato valore alla sua stessa vita e ha accettato di credere in valori morali divini che segnavano un religamen con Dio.
Il gesto eroico di Nietzsche è nel far rendere consapevole l’uomo che quei valori che aveva creduto divini in realtà sono valori umani troppo umani che l’uomo ha creato per dare un senso, un orientamento alla sua vita rendendosi conto della sua condizione. La trasvalutazione dei valori è ammettere una nuova tavola di valori che si sanno essere umani, valori che si sanno soggettivi perché frutto di impulsi, passioni, desideri e ambizioni.

La morale non ha nulla in sé di oggettivo, ma solo di soggettivo e l’atto eroico dell’uomo sta nell’ammettere questo suo carattere e smascherarla dal suo carattere di veridicità che si è portato dietro per anni, e chi porrà valori nuovi sarà l’Oltreuomo. L’interpretazione dell’Oltreuomo per anni è stata oggetto di fraintendimenti dovuti ad interpretazioni filologiche non corrette e perché troppo spesso associata a teorie politiche successive. In realtà l’Oltreuomo è colui che accetta la condizione umana troppo umana dell’uomo priva di orientamento, è colui che porrà i valori nuovi sopracitati ed è colui che saprà affrontare l’Eterno Ritorno dell’uguale.

La concezione di tempo nietzschiana è sostanzialmente diversa da quella cristiana che prevede una progressione, si potrebbe assimilare ad una retta in cui individueremmo un prima, un ora, un sarà. Quello che invece il nostro filosofo ci prospetta è una visione circolare del tempo, un tempo che non ha fine, non è direzionato e si rinchiude in sé stesso facendo coincidere ogni inizio con la medesima fine.

Come penserebbe il Superuomo l’Eterno Ritorno?

Questa è la domanda con cui si conclude la dissertazione del frammento in analisi; è difficile pensare che esista un uomo che si prenda la responsabilità di sperimentare, vivere ed accettare l’insensatezza della vita giorno dopo giorno. Eppure questo uomo deve volere l’insensatezza della vita, deve volere una nuova tavola di valori. Qui entra in gioco il concetto di Volontà di Potenza che sembra per certi versi essere un fine o l’unico valore incontrovertibile a cui si possa fare affidamento. Ma dichiarare un fine non sembra essere in contrasto con il pensiero di Nietzsche?

È una domanda a cui spesso si è cercato risposta, ma risulta difficile darne una certa.
Ciò che resta è l’eroica riflessione di un filosofo che rompe gli schemi con la metafisica precedente ed è capostipite della Storia della filosofia contemporanea come dirà Heidegger nelle sue celebri lezioni degli anni ’40; Nietzsche ci prospetta un nuovo scenario d’azione dell’uomo e mette l’uomo al centro del suo universo. L’uomo vuole il volere, l’uomo è artefice di sé stesso, l’uomo è libero e consapevole della sua condizione. L’uomo trova la sua forza nell’accettare la sua indeterminatezza: è questo il messaggio che spaventa, ma che fornisce un nuovo motivo di speranza all’uomo nelle sue capacità.

 

Francesca Peluso

 

[Photo credit Breno Machado via Unsplash]

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Il nichilismo europeo. L’eco di Nietzsche tra passato, presente e futuro

Svizzera, 8 giugno 1887. Nietzsche arriva a Lenzerheide, località al passaggio del colle tra Coira e Tiefencastel. Di questa alta valle a 1500 m di altitudine sono i fitti boschi ad attrarlo. Si fermerà qui per quattro giorni, per poi cercare ristoro nella più fresca Sils-Maria: «[…] il mio corpo (come d’altronde i miei pensieri) sente di dover ricorrere al freddo quale elemento per la sua conservazione», scriverà.

È in questo contesto, di totale isolamento, che crea il Nichilismo europeo, cioè il nichilismo dell’occidente, della sua storia. Insieme di frammenti che descrivono quel percorso esistenziale dell’individuo europeo, di fine Ottocento, che inizia con la scoperta della morte di Dio e si conclude con l’ipotesi dell’oltreuomo, in un tentativo di superare il nichilismo, presente nell’Europa di allora così come in quella attuale.

È uno scritto ritrovato in uno dei suoi quaderni di appunti, isolato tra annotazioni occasionali. Composto da sedici punti annotativi, in cui vengono evocati i tre pilastri del suo pensiero: volontà di potenza, eterno ritorno e nichilismo come verità.

Così Nietzsche si confronta con la minaccia del nulla, definendo se stesso come un nichilista, ma immune dalla disperata ricerca di un accesso, pertugio, a qualcosa o di una via d’uscita da altro. «Disse di essere polacco; il cognome originale è Niecki, l’Annientatore, il Nichilista, lo Spirito che sempre nega, e questo gli piace». Così dirà Joseph Paneth dopo aver incontrato il filosofo a Nizza, nel gennaio del 1884.

Nichilismo che durante tutto l’Ottocento tocca gran parte del vecchio continente, per condensarsi in geografie di significati specifiche: nichilismo russo, tedesco, francese. È proprio dal patrimonio culturale francese che Nietzsche ricava stimoli per la sua riflessione sulla decadenza, del dominio del sovrasensibile, e sul nichilismo. Definito come

sintomo del fatto che i disgraziati non hanno più consolazione; che distruggono per essere distrutti; che, svincolati dalla morale, non hanno più nessuna ragione per «rassegnarsi» – che si pongono sul piano del principio opposto e, a loro volta vogliono la potenza, costringendo  i potenti a essere i loro carnefici. È la forma europea del buddhismo, il far no, dopo che ogni esistenza ha perduto il suo «senso»1.

La guida più vigorosa di Nietzsche, nella sua discesa verso l’oscurità della decadenza e del nichilismo europeo, è Paul Bourget, per il quale l’epoca vissuta era priva di un credo generale, caratterizzata dalla morte di tutti gli dèi. Nei suoi Essais (1883) ne parla come della fine delle vecchie religioni, della bancarotta della scienza, del dilettantismo, del cosmopolitismo, della diffusione del buddhismo, della ὕβϱις (hybris: eccesso, superbia, prevaricazione, orgoglioanalitica. Segni dell’usura fisiologica, della generale impotenza alla vita e, appunto, del nichilismo. La sfida è tra l’orrore dell’Essere e l’appetito furioso del Nulla. Egli scorge così il filo rosso tra il nichilismo europeo e quello russo, che si annoda nell’ironia crudele e nell’inesausta forza di negazione che accomuna quegli uomini che non credono a niente, ma hanno bisogno del martirio. È quella volontà del nulla di cui si nutre la decadenza.

In Nietzsche la prospettiva del superuomo, come possibilità estrema del nichilismo, passa attraverso l’affermazione del Chaos sive naturanell’eterno ritorno. Un divenire che nel suo immanentismo polverizza ogni residua ombra di Dio. Ombra cioè del soprasensibile, degli ideali e dei valori che forniscono all’uomo uno scopo e una destinazione. Il “nichilismo” è quel processo storico attraverso il quale l’ultraterreno diventa cadùco e nullo nel suo dominio.

Disgregazione e incertezza sono proprietà di fine Ottocento: nulla poggia su una base solida né su una fede in se stessi. Si vive per l’attimo che supera il presente, perché il dopodomani è già troppo incerto. Si tratta di vincere il terribile sentimento del deserto che ci afferra davanti agli orizzonti liberi, alla prospettiva in tutte le direzioni che si apre con la fine delle vie prefissate e autoritarie della tradizione.

La morale, al contrario, «ha preservato dal nichilismo i disgraziati attribuendo a ciascuno un valore infinito, un valore metafisico, e inserendolo in un ordinamento che non concorda con quello della potenza e gerarchia corrente […]»3. Ma svanita la fede in questa morale, svanisce anche la consolazione per i disgraziati che, così, perisconoIl Dio morale viene, così, superato.

La morale ha dunque protetto la vita dalla disperazione e dal salto nel nulla presso quegli uomini che sono stati violentati e oppressi da altri uomini: giacché è l’impotenza nei confronti degli uomini, e non l’impotenza nei confronti della natura, che genera la più disperata amarezza nei rischi dell’esistenza4.

In Nietzsche la morale ha imposto come nemico chi deteneva il potere: era da costui che l’uomo comune doveva essere protetto e rafforzato. La morale ha così insegnato a disprezzare la volontà di potenza, peculiarità del dominatore. 

La prova di forza sta nel confrontarsi affermativamente con il nichilismo. Ed è una sfida accessibile solo per quegli uomini capaci di superare l’horror vacui, quegli uomini moderati che non devono ricorrere al mito e alla metafisica perché hanno saputo attraversare il deserto. Coloro «che sanno pensare all’uomo con una notevole riduzione del suo valore, senza per questo diventare deboli»5.  Quelli che «non hanno bisogno di articoli di fede estremi»6 ma che anzi amano una parte di caso e di assurdità. Si tratta di coloro che sapendo gestire le proprie disgrazie, non ne temono di nuove: sono «gli uomini che sono sicuri della loro potenza, e che rappresentano con consapevole orgoglio la forza raggiunta dall’ uomo»7.

Così Nietzsche conclude, con quella domanda che lo assillerà fino al momento della morte: «Come penserebbe un tale uomo all’eterno ritorno?»8.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE
1. F. Nietzsche, Il nichilismo europeo. Frammento di Lenzerheide, tr. it a cura di Giuliano Campioni, Adelphi Edizioni, Milano, 2006, p. 17.

2. Con questa espressione Nietzsche si riferisce alla natura che né espressione di una volontà divina o dispiegarsi di un qualsiasi principio ad essa immanente o trascendente e neanche un ambiente creato a disposizione esclusiva dell’uomo, a sua immagine e somiglianza, è in realtà un abisso oscuro e indifferente in cui non si ritrova alcuna armonia o stabilità, ma soltanto variazione, divenire, molteplicità, contrasto, contraddizione, guerra.
3. F. Nietzsche, Il nichilismo europeo, op. cit., p. 16.
4. Ivi, p. 15.
5. Ivi, p. 19.
6. Ibidem.
7. Ivi, p. 20.
8. Ibidem.

[Photo credit Askhar Dave]

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L’eterno ritorno dell’immortalità digitale

«Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudine e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!»1, scriveva Nietzsche ne “La gaia scienza”. Il filosofo dell’eterno ritorno ci costringeva a riflettere sulla nostra intera vita e a cedere a una disperazione esistenziale qualora il demone, portatore del suddetto suggello, si fosse realmente palesato.

Se il demone nietzschiano si presentasse oggi, nel nostro mondo contaminato inevitabilmente dalla singolarità tecnologica del digitale, il suo pensiero si intreccerebbe probabilmente con il linguaggio dei social network e il risultato sarebbe più o meno questo: “A cosa penseresti per l’eternità”?
Cadremmo di nuovo nello sconforto a causa del nostro essere-temporale, e non essere-del-momento, oppure supereremmo a pieni voti il test esistenziale del demone 3.0?

Questa è la domanda che ci viene posta da Eter9, una sorta di Facebook che anziché chiederci “A cosa stai pensando?” domanda “A cosa penseresti per l’eternità?”. Il sito è un progetto creato dal programmatore portoghese Henrique Jorge.
Eter9 presenta una bacheca in cui vengono visualizzati i post degli utenti, proprio come in Facebook, ma differisce dal primo, in quanto utilizza le risorse del data mining per l’elaborazione dei contenuti condivisi al proprio interno2. Questo sistema porta alla creazione di un automatismo in grado di pubblicare post anche quando gli utenti risultano offline. La finalità ultima è quella di sviluppare un alter ego virtuale che possa comunicare con il resto del mondo, digitale e non, anche quando saremo passati a miglior vita.

Eter9 non è altro che una delle numerose invenzioni tecnologiche che cercano di concretizzare l’immortalità digitale. La loro finalità è far sopravvivere la propria identità alla morte oggettiva della nostra vita offline. Eppure è opportuno chiedersi se esista ancora una netta divisione tra offline e online. Seguendo il pensiero di Luciano Floridi si dovrebbe oggigiorno parlare di «esperienza onlife»; il confine tra le due abitazioni – offline e online – è infatti sempre più labile3.
Le due realtà si mescolano reciprocamente a tal punto da non distinguersi più l’una dall’altra, ed inevitabilmente siamo costretti a ripensare totalmente anche l’idea di morte e al suo legame con il pubblico e il privato. Si giunge, pertanto, a quello statuto paradossale del morto, ove la dialettica tra presenza e assenza, se tecnologicamente rimaneggiata, può costituire il punto di partenza per ricomporlo attivamente al di fuori di una mera fotografia, inficiando la vita umana in modo irreversibile.
Probabilmente è proprio questo il motivo dell’urgenza tecnologica, colmare o lenire il dolore e la sofferenza causata dalla perdita di chi si ama. Quindi, non tanto l’immortalità di se stessi, ma la vita eterna delle persone amate. Jacques Deridda descrisse l’esperienza del lutto come «la fine del mondo nella sua totalità, e ogni volta come la fine del mondo come totalità unica e quindi insostituibile e quindi infinita»4.
Ma un alter ego virtuale può davvero essere utile all’elaborazione del lutto emotivo?
La tecnologia inoltre non considera la variabile del cambiamento, dell’evoluzione dell’essere. L’avatar in formato digitale non sarà altro che l’eterna presentazione di ciò che siamo stati o meglio di ciò che vorremmo essere stati – se consideriamo il gioco dell’apparenza sui Social Network.

Nell’immortalità digitale, il nostro essere non potrà proseguire, evolversi, cambiare, ma rimarrà intrappolato nei pensieri che sono stati, nei luoghi in cui abbiamo vissuto, nelle azioni che abbiamo intrapreso. Il tempo della nostra immortalità digitale sarà intrappolato in quel cerchio senza evoluzione, ritornando eternamente, come nella descrizione del demone di Nietzsche.
Dunque, caro lettore, “A cosa penseresti per l’eternità?

 

Jessica Genova

 

NOTE
1. F. Nietzsche, La gaia scienza, Libro IV, n.341.
2. Tratto da D. Sisto, La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale, Bollati Boringhieri, Torino 2018.
3. L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Cortina, Milano 2017
4. J. Deridda, Ogni volta unica, la fine del mondo, Milano.