Leggerezza

Milan Kundera scrisse L’insostenibile leggerezza dell’essere, ma non è della trama del libro che si occuperà questo promemoria filosofico, bensì del significato che si cela dietro il suo titolo.

L’impercettibilità della vita, delle scelte secondo Kundera sono irrilevanti. Seppur breve e fragile il suo valore sarà da ritenersi proprio così? Questa visione sfuggente della vita, che si fa in parte evanescente, entra in conflitto con la necessità umana di ricercarne un significato, originando un paradosso insostenibile. Tante, troppe domande senza risposta restano lì, sospese senza una via d’uscita, senza sapere per certezza se una soluzione esiste davvero.

Che cos’è che alla fine rimane? Qual è la risposta che l’uomo deve darsi vivendo in questo mondo? Es muss sein, il “così deve essere” è l’unica cosa l’uomo si possa permettere di dire rispetto all’esistenza, considerando la necessità (Ananke) intesa nel senso stesso dell’esistere, per caricarla di un significato che non si può trovare. E così si risuona il ritornello dell’Eterno ritorno dell’Uguale, in cui la necessità del divenire sopraggiunge e non lascia scampo nella fragilità della vita.

Resta dunque questa leggerezza a poterci sollevare da terra, a rendere più sopportabile il peso della necessità di tutti quei perché: prenditi un attimo e ascolta il tuo respiro, così è la vita. A volte dona meraviglie, altre volte volte dolori, ma l’unico modo per viverla è una questione di spirito. La gravità ci spinge verso il basso, ma se guardiamo il cielo siamo già proiettati verso il sole. La leggerezza non è solo una misura, è uno stato d’animo, un atteggiamento che ci rende la sua proprietà, anche se non è facile da conquistare.

Quante volte vorresti essere più leggero? Leggerezza ha una connotazione positiva, ci rende più liberi da qualcosa che ci opprime. Ed è come proprio librarsi, sollevarsi in aria. Leggerezza è comprensione delle realtà in una prospettiva diversa: ciò non toglie il non prendere seriamente questioni importanti, ma riguarda solo la propria capacità di affrontare gli avvenimenti dandogli però il giusto valore o, propriamente, peso.

Credo che sia un’abilità umana che si possa imparare. Come? Di propria volontà, rendendosi conto di quanto siamo ancorati, di quanto sia forte la pressione che ci opprime. La consapevolezza del nostro peso ci può anche rendere liberi da esso e darci la possibilità di superarlo.

Sii leggero e sii libero, per te stesso. Con queste parole termina questo articolo e vi auguro una buona fine estate.

Al prossimo promemoria filosofico.

Azzurra Gianotto

 

[Immagine tratta da Google immagini]

E se quest’attimo fosse il futuro?

«Il tempo è relativo.»
Quante volte abbiamo sentito questa frase? E quanti significati essa nasconde?

«Il tempo è relativo.»
L’attimo… Anche l’attimo è relativo. Cos’è l’attimo?

«Il tempo è relativo.»
E se fosse invece la relazione ad essere temporale? Se fossero i collegamenti tra le cose ad essere temporali, cosa sarebbe il tempo?

Il tempo è sempre stato un mistero nella storia dell’uomo. Fin dalle sue origini, transitando per la fisica quantistica contemporanea, il tempo è un enigma che sembra irrisolvibile. Eppure a prima vista appare come una delle cose più immediate: ha a che fare con la nostra quotidianità, è la misura delle nostre giornate, il metro della nostra esistenza.
Nella Teoria della Relatività Generale, il tempo viene descritto come la quarta dimensione, e la sua origine viene fatta coincide con il Big Bang. Si può affermare, quindi, che questa ipotesi annulli il “prima”, dato che parlare di un “prima del Big Bang” sembra perdere significato se assumiamo che il tempo, lo spazio e la materia hanno avuto origine da esso. Sarebbe come chiedere cosa ci fosse prima del tempo, ma il concetto di “prima” non può prescindere da quello di “tempo” e la richiesta, quindi, cade nel vuoto. Il problema sta nel fatto che ultimamente non siamo più così certi della validità di questa teoria – a causa della sua incompatibilità con la meccanica quantistica – e ci stiamo quindi muovendo verso altre ipotesi – come quella del Multiverso, della ciclicità infinità, della teoria delle stringe ecc. – che non hanno ancora raggiunto un definitivo riscontro empirico.
Ci stiamo concentrando molto sul passato, l’uomo sembra alla ricerca della propria identità, e cosa c’è di più naturale se non rivolgere lo sguardo alle radici? Eppure – riflettendo – un dubbio mi sorge: perché non alziamo la testa? Perché non superiamo il tronco, i rami, le fronde e volgiamo gli occhi al cielo?
Il futuro. Solo a pensare ad una sua definizione il terreno frana sotto i pedi. Passato, presente, futuro… mi sembrano barattoli tappati e vuoti. Impossibili da riempire non perché non sapremmo con cosa riempirli, ma perché non possediamo neanche la forza per stapparli. Forse perché non ci rendiamo conto che dietro a questi ce n’è un quarto. Molto grande e già stappato, ma di un materiale più trasparente del vetro, quasi impossibile da vedere. Sulla sua etichetta c’è scritto “Attimo”.

«Guarda questa porta, nano!» continuai io «Ha due facce. È il punto di convergenza di due strade: nessuno le percorse mai fino in fondo. Questa lunga via fino alla porta: dura un’eternità. E quella lunga via al di là della porta – è un’altra eternità.
Si contraddicono questi due cammini; cozzano con la testa uno contro l’altro: – e qui, a questa porta maestra, è il punto dove convergono. Il nome della porta maestra è scritto lassù in alto: “Attimo”. Ma chi ne percorse uno dei due – sempre avanti, sempre più lontano, credi, nano, che questi cammini si contraddicano in eterno?» – «Tutto quel che è rettilineo mente» mormorò con disprezzo il nano. «Tutte le verità sono ricurve, il tempo stesso è un circolo». «Tu spirito di gravità!» dissi io adirato «Non prendertela troppo alla leggera! O ti lascio accoccolato dove stai ora, piè storpio, – io che ti portai in alto! Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta maestra detta Attimo si diparte all’indietro una via lunga ed eterna: dietro di noi si stende un’eternità. Quelle che tra le cose possono camminare non devono per forza aver percorso una volta questa via? Non deve ogni cosa che può accadere essere già accaduta, compiuta, passata oltre? E se tutto è già esistito: che cosa pensi, nano, di quest’attimo? Anche questa porta maestra non deve essere già per forza esistita? E non sono forse tutte le cose saldamente annodate fra loro, cosicché quest’attimo attira a sé tutte le cose venture? Dunque – – ancora se stesso? Poiché ogni cosa che può camminare: anche per questa lunga via al di là della porta deve ancora una volta andare! – E questo lento ragno che arranca al chiaro di luna e lo stesso chiaro di luna e io e te presso la porta maestra, sussurrando fra noi, sussurrando di cose eterne, – non dobbiamo essere tutti già esistiti? – e ritornare e andare per quell’altra via, al di là della porta, davanti a noi, per quella lunga orrida via – non dobbiamo tornare eternamente?»

Queste le parole di Zarathustra nel Terzo omonimo libro di Nietzsche. In questo breve estratto è condensato uno dei suoi pensieri più alti, celebri, e soprattutto dibattuti: la Teoria dell’eterno ritorno dell’uguale. Nietzsche pensava – forse presuntuosamente, forse no – che la sua pubblicazione non sarebbe stata semplicemente un libro, ma piuttosto un evento. Ci sarebbe stato un prima e un dopo lo Zarathustra. In Ecce homo descriverà il pensiero dell’eterno ritorno come “la più sublime formula di affermazione che in generale possa essere raggiunta”. È un dire «sì» alla vita; a tutto ciò che accade, nulla escluso.
Forse il tempo rimarrà un mistero, i tre barattoli resteranno vuoti e chiusi, e il quarto è stata una semplice allucinazione.
O forse il tempo è un riconoscimento dell’eternità della vita e delle sue declinazioni nell’immenso, infinito e sublime attimo che in questo momento stiamo vivendo.
E se quest’attimo fosse il fututo?

Massimiliano Mattiuzzo

[immagine tratta da Google Immagini]