Film selezionati per voi: novembre 2017!

Se non ve ne foste accorti è iniziato anche novembre. Lo scorso week end le lancette dei nostri orologi (non tutto il mondo è digitale!) sono retrocesse di un’ora e in questa prima settimana di ora solare fatichiamo ad abituarci all’andarsene della luce troppo presto. Inizia ufficialmente la stagione delle serate al cinema, per ritrovarci in compagnia e lasciarci andare a qualche ora di svago di fronte al maxi schermo. Ecco a voi i consigli dei nostri esperti Alvise e Lorenzo!

 

FILM IN USCITA

finche-ce-prosecco la chiave di sophiaFinché c’è Prosecco c’è speranza – Antonio Padovan
Dal romanzo dello scrittore veneziano Fulvio Ervas, arriva nelle sale l’atteso adattamento cinematografico di “Finché c’è Prosecco c’è speranza”, thriller enologico che ha per protagonista l’inconfondibile Giuseppe Battiston nel ruolo dell’investigatore Stucky. Con il pretesto di scovare il responsabile di una serie di morti misteriose, il regista Antonio Padovan (al suo primo lungometraggio in carriera) confeziona un film molto riuscito, capace di raccontare con grande veridicità la natura intrinseca del popolo veneto. Menzione speciale per la fotografia e per l’ottima prova corale del cast. Un film imperdibile per scoprire la bellezza dei paesaggi della Marca trevigiana e, al tempo stesso, appassionarsi a un mistero ad alto tasso alcolico. USCITA PREVISTA: 31 OTTOBRE 2017
 
the-square la chiave di sophiaThe Square – Ruben Östlund
Con l’inizio di novembre sbarca finalmente nelle sale italiane anche il film vincitore della Palma d’oro all’ultima edizione del Festival di Cannes. Un’opera visionaria e coinvolgente, diretta dal regista dell’apprezzatissimo “Forza Maggiore”. Ambientato nel mondo dell’arte, “The Square” è una grande riflessione sul valore dell’estetica e sulla centralità che la figura dell’artista meriterebbe di ricoprire all’interno della società contemporanea. Ricco di ironia e momenti onirici, “The Square” si presenta come un film per palati raffinati, freddo e misurato a livello estetico. Debordante e difficile da dimenticare a livello contenutistico. Da non perdere. USCITA PREVISTA: 9 NOVEMBRE 2017

 

Seven sisters – Tommy Wirkolaseven-sisters la chiave di sophia
In un futuro distopico sette sorelle gemelle lottano per vivere un’esistenza normale fingendo di essere tutte la stessa persona. Le cose finiranno per complicarsi quando una di loro (Lunedì) sparirà nel nulla. Inizierà così una ricerca disperata da parte delle altre sei in un mondo pieno di pericoli e minacce. Adrenalinico thriller fantascientifico, “Seven sisters” è uno dei pochi film artisticamente validi prodotti quest’anno dal colosso dello streaming Netflix. Gli elevati costi di produzione e i grandi attori presenti nel cast, hanno però convinto i produttori a distribuire il film anche nei cinema di tutto il mondo. Un piacevole prodotto di intrattenimento per trascorrere una serata al cinema in compagnia degli amici. I livelli di “Stranger Things” sono ancora molto distanti ma le emozioni sono assicurate. USCITA PREVISTA: 30 NOVEMBRE 2017

 
UN DOCUMENTARIO
never ending man la chiave di sophiaNever ending man – Hayao Miyazaki
Miyazaki è senza dubbio uno dei più grandi geni dell’animazione mondiale. La sua carriera inizia quando viene assunto come animatore alla Toei Animation. Da allora, una serie di grandi capolavori ne hanno segnato gloria e fama negli anni. In questo documentario di Kaku Arakawa si raccontano le fasi più importanti della carriera di questo grande visionario. Immagini inedite, segreti sulla realizzazione dei film che l’hanno reso celebre e molte interviste esclusive fanno di questo documentario una testimonianza preziosa per tutti i suoi estimatori italiani che potranno conoscere da metà novembre tutti i segreti del maestro nipponico. USCITA PREVISTA: 14 NOVEMBRE 201
 
 
UNA SERIE TV

fargo-la-chiave-di-sophiaFargo

Non potete fare a meno dell’ironia macabra dei fratelli Coen? Allora non perdetevi questa serie, articolata in 3 stagioni, che Joel ed Ethan Coen hanno prodotto. «Fargo non è un luogo, è uno stato mentale. È una vera storia criminale dove la realtà è più strana della finzione e i buoni devono affrontare qualcosa di orribile»; dice lo sceneggiatore Noah Hawley. Fargo è un mondo popolato da cattivi senza pietà, da buoni che per occasione diventano cattivi e da un’esigua percentuale di buoni autentici, con valori saldi, che guardano con stupore la crudeltà che li circonda. Se vi piacciono le serie tv che in un’unica stagione articolano e concludono una storia (su modello di True Detective tanto per capirsi), allora Fargo è davvero un prodotto di qualità che fa per voi.

 

Alvise Wollner & Lorenzo Gineprini

 

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La meraviglia dell’album illustrato. Intervista ad Anna Castagnoli

Anna Castagnoli, illustratrice, autrice e teorica dell’album illustrato per bambini, con il suo blog Le figure dei libri, è da anni in prima linea nella comunicazione della cultura del libro per l’infanzia. Da poco è uscito il suo ultimo libro Il manuale dell’illustratore, Editrice Bibliografica.
In questa intervista ci invita a esplorare il mondo dell’album illustrato, a capirne il linguaggio. E scopriamo come la filosofia sia anche il modo naturale di un bambino di vedere le cose, facendosi sempre domande.

Come ti sei avvicinata al mondo dell’illustrazione e perché hai deciso di scrivere un blog su questo tema?

Ho iniziato a vent’anni proprio per caso, mia madre aveva scoperto i corsi d’illustrazione estivi a Sarmede e mi propose di partecipare. Poi però ho fatto tutt’altro: mi sono laureata in filosofia e ho lavorato nel sociale, mantenendo comunque la mia passione per la scrittura, il disegno e la poesia. Verso i trent’anni qualcuno ha visto le mie illustrazioni e mi ha detto che era un peccato non continuare, è stata la spinta che mi serviva: sono tornata a Sarmede e ho deciso di dedicarmi completamente agli album illustrati. Ho scoperto un mondo dietro ai libri per l’infanzia che non conoscevo e che riuniva tutte le mie passioni: il racconto breve, l’arte, le immagini, il tutto in un linguaggio destinato ai bambini, quindi forse con un filtro più dolce che però mi emozionava.

Per quanto riguarda il blog, invece, il merito è di mio marito. Lui è sempre stato più “tecnologico” di me, così mi spinse a realizzare questo progetto, Le Figure dei Libri, nel quale analizzo diversi tipi di album infantile e do alcuni consigli ad aspiranti illustratori. Il poter condividere con altre persone la mia passione, l’interazione con i lettori, la loro accoglienza entusiasta, mi hanno stimolata a investire sempre di più sul blog; questo mi ha aiutata anche a darmi un’organizzazione, a essere puntuale, ad avere una progettualità. Ho sempre scritto con un punto di vista molto personale, appoggiandomi alla storia dell’arte, all’estetica, ai miei studi di filosofia. E alla fine il blog mi ha permesso di costruire una carriera.

In questi anni ho visto come ci sia davvero molta gente interessata a capire come funzionano le immagini, credo sia una tendenza destinata a crescere. Diventa importante riuscire a tradurre la cultura visiva in un linguaggio semplice, il blog è un mezzo molto utile in questo senso.

 

Di che tipo di linguaggio parliamo quando ci riferiamo all’album illustrato infantile?

Mi sono chiesta a lungo se il linguaggio dell’album avesse una specificità.

Credo che la comunicazione dell’album si possa riassumere nel cercare di utilizzare un linguaggio molto mimico e poco simbolico. Ci sono diversi tipi di illustrazione, ed effettivamente quella destinata al mercato editoriale adulto si carica spesso di significati simbolici, usa cioè molto la metafora. Invece nell’album per bambini la messa in scena è semplice, quasi teatrale, rivolgendosi a un pubblico che può essere anche a digiuno da riferimenti culturali. Dal punto di vista della pura percezione, l’immagine dell’album punta ad attivare i neuroni specchio, un particolare tipo di neuroni molto antichi, quelli impiegati nel riconoscimento delle emozioni e del corpo. È quindi un linguaggio molto più immediato, che però magari un bambino capisce subito e un adulto no, perché sulla sua capacità percettiva agiscono diverse sovrastrutture.

Poi c’è l’integrazione tra testo e immagini. Nella storia della letteratura c’è stata una vera e propria evoluzione fino al linguaggio dell’album illustrato così come lo conosciamo oggi. Per esempio, le fiabe tradizionali, come quelle di Perrault, non erano pensate per essere illustrate; successivamente la scrittura per album ha delegato alle immagini gran parte delle informazioni, ma le due dimensioni, il testo e l’illustrazione, devono essere complementari nella creazione del significato complessivo del libro. Facendo questo lavoro mi sono accorta di come in realtà ci sia una scarsissima cultura dell’immagine, spesso si pensa che con un libro illustrato il bambino impari meno, invece non si tiene conto di quanto il bambino possa fare esperienza nell’assimilare linguaggi diversi.

 

In questo periodo si è assistito ad un vero e proprio boom del libro illustrato per bambini, come te lo spieghi?

Credo che il mercato per bambini in realtà non sia mai stato in crisi, proprio perché è un settore nel quale si risparmia meno, oltre al fatto che leggere è una fase dell’educazione e della crescita assolutamente necessaria. Però, secondo me, questa rapida esplosione del mercato editoriale per bambini non è proporzionale alle vendite effettive.

Poi si può parlare anche di reazione generale al mondo digitale, perché comunque l’album illustrato è un oggetto che ti offre il gusto della scoperta sensoriale. Un po’ come il ritorno al vinile per i nostalgici. D’altronde ci vorranno ancora molti anni prima che si sviluppino dei linguaggi capaci di sfruttare e integrarsi appieno con il sistema di comunicazione digitale, come per ogni grande rivoluzione tecnologica. In questa fase di transizione c’è comunque il bisogno di appoggiarsi ancora a degli oggetti, e, soprattutto, il bambino ha bisogno di poter sfogliare un libro.

Anche i blog credo abbiano fatto il loro lavoro. Alcuni, per esempio, si propongono di aiutare maestre e genitori a capire come utilizzare al meglio gli album, quindi c’è probabilmente anche un rinnovato e diffuso interesse pedagogico alla base di questo sviluppo.

 

Come si costruisce un album illustrato?

L’album illustrato è un’opera creativa totale, che conta nella sua progettazione con l’aiuto di diversi attori: accanto all’illustratore e all’autore, hanno un importanza fondamentale l’editore, il grafico, la tipografia… tutto il libro va pensato nel suo insieme perché funzioni, non basta accostare delle immagini a un testo. E in questo senso il lavoro più importante è quello dell’editore, che agisce proprio come un grande regista, cercando di trovare un punto di incontro tra illustratore e autore, e integrando i due diversi linguaggi.

 

Che cos’è lo stile in un album illustrato? Quanto conta a livello di comunicazione?

Sicuramente lo stile segue delle mode, ad esempio alcune illustrazioni degli anni Ottanta forse oggi risulterebbero un po’ kitsch, ma credo che questo sia più un discorso per adulti che per bambini. Lo stile è certamente importantissimo, è un canale nel quale si riversa tutto il codice culturale dell’immagine, ma non è detto che il lettore bambino ne colga le diverse sfumature, perché magari non ha ancora elaborato un sistema di lettura o sostrato culturale che lo aiuti a decodificare tale immagine. Quello che il bambino riceve deve essere l’emozione, un elemento che accenda la sua curiosità, l’album deve trasmettere una certa emozione al di là della tecnica usata come medium.

Sul lato formale, oggi c’è una ripresa dell’estetica del primo Novecento, dove predomina il bianco. L’album in effetti nasce come spazio della pagina bianca, quindi penso che le preferenze siano un po’ cicliche.

Poi, personalmente, ci sono album che trovo esteticamente molto belli ma che magari mi lasciano fredda, trovo molto più interessante quando emerge qualcosa di inconscio e una certa sfumatura non del tutto ragionata.

 

Dopo la laurea in filosofia, come sei riuscita a conciliare questa disciplina con la tua attività di autrice, illustratrice e critica?

La filosofia mi ha insegnato a esercitare il pensiero, a costruire un ragionamento logico e ad arrivare a delle conclusioni attraverso l’analisi. Un metodo, quindi, che mi è utile non solo a livello lavorativo ma anche nella vita di tutti i giorni. Mi piace anche il fatto che non ci siano delle risposte, come per gli album, preferisco quando la domanda resta aperta, lasciando qualcosa su cui indagare.

Privilegiare le domande alle risposte è un sistema che nella progettazione di un libro infantile permette di evitare un discorso troppo retorico, che sarebbe poco fertile dal punto di vista creativo. La filosofia partecipa proprio nel modo in cui si usa la creatività per parlare di certi temi a un bambino. Sempre offrendo uno stimolo a farsi domande e ad essere curioso. Ti racconto questo aneddoto, perché spiega tutto: tempo fa ho letto La grande domanda di Wolf Erlbruch a una bambina; alla fine del libro ci sono due pagine bianche sulle quali il lettore deve scrivere la sua risposta, ma in realtà questa grande domanda non viene mai detta in tutto il testo. Ecco, lei scrisse “una cosa ci ha creati”, al che rimasi piuttosto sorpresa sapendo che la famiglia non era affatto religiosa, quindi mi decisi a indagare e le chiesi “e perché ci ha creati?” e lei rispose “è la grande domanda!”. Aveva perfettamente capito il senso del libro.

 

Proprio il farsi domande, un esercizio che appunto la filosofia ci insegna, è in qualche modo legato al concetto di meraviglia. Un’emozione che secondo me l’album illustrato può portare sia a bambini che ad adulti, e che credo sia fondamentale per conoscere il mondo. Che cosa significa per te questa parola?

Ho un ricordo molto vivido che posso portare ad esempio: mia madre alla finestra con dei pezzetti di vetro in mano. Me li mostrò sotto un raggio di luce dicendomi che erano pietre preziose. Sento ancora quella sensazione data dal luccichio delle pietre, dalla mano di mia madre che si schiude, dalle sue parole. Questa è per me la meraviglia, profondamente connessa al concetto di bellezza, o meglio, alla scoperta della bellezza. Molto diversa dal sublime, dove invece ti poni di fronte a qualcosa già con una certa predisposizione. La meraviglia è qualcosa che trovi dove non te l’aspetti. È certamente un’emozione più naturale per un bambino, per il quale ogni cosa è nuova, una scoperta.

Secondo me, poi, ha anche un significato legato alla semplicità, sento che è un’esperienza capace di restituirmi una certa armonia. La meraviglia di fronte alla bellezza dell’arte, per esempio, riflette una specie di ordine cosmico che quando lo riconosciamo ci riassetta. Lo vedo anche nei miei corsi: all’inizio i miei allievi sono spaventati e disegnano male, poi piano piano si rilassano, provano, sbagliano, fanno scoperte e i loro lavori risultano quindi più armonici.

 

Hai dei suggerimenti di lettura che ti piacerebbe condividere, magari tra le tue scoperte più recenti?

Recentemente ho letto Sole luna stella, testo di Kurt Vonnegut e illustrazioni di Ivan Chermayeff, un libro pubblicato negli Stati Uniti negli anni Ottanta, e ora edito in Italia da Topipittori. Lo trovo bellissimo perché è un testo che parla della nascita di Gesù in senso totalmente laico. Tutta la storia è narrata dal punto di vista del neonato che apre gli occhi e impara a vedere il mondo e riconoscere le luci e le forme.

Anche Dimodochè, di Gek Tessaro, Edizioni Lapis. Un libro semplicissimo che dà il senso del piacere del lavoro, della creatività, del costruire… mi ha fatto pensare un po’ alle Città Invisibili di Calvino.

E poi, uno degli ultimi che ho recensito nel blog, Il Viaggio Incantato di Mitsumana Anno, di Emme Edizioni: un delicato racconto senza parole di un lungo viaggio intorno al mondo, dentro alla nostra cultura e attraverso il nostro immaginario fantastico.

Come libro di studio sull’album illustrato mi è piaciuto molto Il bambino estraneo. La nascita dell’immagine dell’ infanzia nel mondo borghese, di Dieter Riechter. Un saggio che parla della storia dell’infanzia, ovvero di come il bambino venga concepito all’interno della società borghese, attraverso un’analisi storica della letteratura infantile. Ci dà la misura di quanto l’idea di una società d’infanzia influenzi tutta la produzione editoriale per bambini e viceversa.

Infine, un classico di ricerca estetica, da leggere assolutamente: Per una semiotica del linguaggio visivo, di Meyer Shapiro.

 

Claudia Carbonari

 

Immagine di copertina: Anna Castagnoli durante il corso da lei tenuto a Sarmede. Fonte: Martina Cavaglia

 

 

Arte e fenomenologia delle emozioni: la prospettiva di Andrea Bruciati

In occasione della doppia mostra trevigiana Lost in Arcadia, allestita al Museo Bailo e da TRA – Treviso Ricerca Arte, intervistiamo Andrea Bruciati, curatore, storico dell’arte e nuovo direttore di Villa Adriana e Villa D’Este a Tivoli. Riferimento della scena artistica italiana, Bruciati ci racconta la sua idea di arte come fondamentale strumento di lettura della realtà e macchina di pensiero, ed invita il pubblico a sviluppare un dialogo più soggettivo ed intimo con le opere.

 

Nella sua professione di storico dell’arte e di curatore deve essere capace di trovare i giusti riferimenti nel passato, ma anche di rielaborare e presentare questi stessi stimoli in un’ottica attuale. Come si può dunque costruire il dialogo tra storia e contemporaneità?

L’artista è sempre un pioniere, deve essere in grado di sperimentare e fare ricerca, spingendosi aldilà delle conoscenze prestabilite, mettendosi in discussione e cambiando i canoni del nostro immaginario. Ma questo lavoro sono in grado di compierlo solo i grandi maestri che sanno da dove vengono e chi sono. La storia e la memoria sono i punti di partenza fondamentali perché solo con profonde radici si possono costruire grandi architetture di pensiero. L’importante è che il passato non rimanga un riferimento passivo ma che si faccia vivo ed edificante. L’artista infatti deve compiere una rielaborazione personale della storia, per rispondere ad inquietudini del presente e cercare risposte per il futuro.

Spesso i giovani artisti scelgono la strada del facile consenso, ovvero percorrono istanze già sperimentate per inserirsi nella moda del momento. In questo caso possiamo parlare di contemporaneità derivativa perché manca la parte di ricerca e rielaborazione personale. E non è il tipo di lavoro che personalmente mi interessa.

L’hanno spesso definita difensore e promotore di un fare dell’arte tutto italiano, ma in un mondo globalizzato come quello attuale, può esistere una realtà italiana in grado di confrontarsi come corpus unitario con modelli esteri? D’altronde i grandi movimenti storici che si sono generati in Italia con risonanza internazionale, come l’arte povera o la transavanguardia, fanno ormai parte del passato.

Oggi l’artista ha un linguaggio trasversale e internazionale, poiché viviamo in un mondo dove ovunque possono arrivare le informazioni e nuovi stimoli. Però, riprendendo anche il precedente discorso sull’importanza dei riferimenti storici, dobbiamo sempre sapere chi siamo. Se un artista ha successo all’estero è perché trae in maniera vivificante dei semi, una koinè (lingua comune, n.d.e), dalla sua storia. Prendiamo ad esempio Maurizio Cattelan, Francesco Vezzoli, o Vanessa Beecroft. Sono tutti artisti italiani che hanno rielaborato delle specificità attraverso la nostra cultura: tramite l’ironia, nel caso di Cattelan, che si presenta come una specie di Pinocchio del Ventunesimo secolo, o parlando della donna attraverso la moda, come nel caso della Beecroft; o ancora, affrontando un discorso legato ad un vintage del nostro immaginario, ad un passato perduto, come con Vezzoli.

Poi da curatore posso anche fare un altro tipo di discorso. Ci troviamo in un sistema internazionale in cui tutti difendono i loro artisti, quindi è naturale per me cercare di portare avanti i nostri. In questo caso è puramente una questione di politiche culturali: certamente artisti anglosassoni e tedeschi in un panorama internazionale si trovano spesso più avvantaggiati. Poi, aldilà di tutto, credo che la qualità della ricerca sia sempre la cosa più importante, ed è un valore che non ha bandiera.

In una precedente intervista ha affermato che la cultura è il valore etico su cui una comunità sana si costruisce. In che modo si crea un dialogo con il pubblico senza scendere a troppi compromessi con scelte commerciali?

Secondo me la responsabilità è degli organi di formazione della collettività, a partire proprio dalle basi, quindi dalle scuole. Oggi il linguaggio visivo è la nuova forma di analfabetismo. Non riusciamo spesso a distinguere lo stimolo che ci proviene da una bella immagine pubblicitaria da quello di un’espressione artistica, perché non abbiamo dei parametri valutativi. L’educazione è quindi la risposta per conferire all’individuo gli strumenti per capire quando un’espressione è ricerca, che va aldilà di quello che noi vediamo, e quando invece è massificazione dell’immagine. Un’immagine che in questo caso ci deve piacere e sedurre per vendere. L’arte deve essere invece uno strumento che ci aiuti a interpretare la realtà che ci circonda e non estetica fine a se stessa.

Se l’arte deve essere in grado di dirci qualcosa, quali sono i valori che rendono un’opera costruttiva in una prospettiva sociale? Dal suo personale punto di vista, vale di più la partecipazione collettiva, forse oggi la scelta più diffusa o comunque con più risonanza mediatica, o la riflessione autonoma?

Credo che l’arte debba sempre rivolgersi alla fruizione in modo attivo, invitando il pubblico a riflettere. Ma nelle mie scelte come curatore prediligo un pensiero suggerito, a partire dal singolo artista, dalla sua soggettività e intimità. È una forma di comunicazione fortemente diversa da quella del manifesto d’avanguardia, per esempio, ma non per questo meno efficace, penso che il fruitore debba avere la libertà di interpretare ciò che vede. Quando organizzo una mostra mi piace considerarla una piattaforma di pensiero propedeutica alla cittadinanza, quindi funzionale alla riflessione, ma dove ognuno è libero di intraprendere il percorso di ricerca che preferisce e più consono al suo essere.

Che cosa consiglierebbe a quei pochi giovani coraggiosi che scommettono ancora sulle carriere umanistiche e che desiderano inserirsi nel settore dell’arte in qualità di storici, teorici o curatori?

Bisogna avere molto coraggio, tracciare delle nuove strade. È un po’ lo stesso discorso fatto con gli artisti: o ti adegui a quello che il sistema dominante ti impone, oppure sviluppi delle ipotesi di pensiero personali.  Direi di non aver paura di indagare diversi campi di studio e di avere una certa versatilità, il settore va preso da tanti punti di vista.

In una realtà come quella italiana in cui le istituzioni sono le prime che sembrano non credere nel valore e nel potenziale della cultura, c’è ancora spazio per questa sperimentazione di cui parla?

È vero che in Italia la situazione è difficile, il sistema del Paese non aiuta. Andarsene però è una sconfitta, per quanto mi riguarda ho una forma mentis un po’  “Don Chisciottesca”, e credo che anche tra le difficoltà basti un piccolo passo per offrire un po’ di linfa vitale. Noi, che lavoriamo in questo settore, in fondo trattiamo di elaborati culturali ed estetici, oltre che certo dati scientifici e storici, ma dobbiamo soprattutto imparare a muoverci con altri strumenti, forse più legati alla nostra soggettività. Da una parte penso sia sempre arricchente fare un’esperienza di studio o professione all’estero, dall’altra se l’arte contemporanea necessita di problematicità, forse questo è il Paese ideale dove l’arte può svilupparsi. I limiti possono rappresentare uno stimolo.

Oltre ad una ricerca estetica personale che è l’essenza stessa della sua professione, come si relaziona nel quotidiano il suo lavoro con un’indagine di tipo filosofico?

L’arte è conoscenza emotiva e inintelligibile, la mia è una ricerca rivolta alla fenomenologia delle emozioni. Non mi interessa la logica fine a se stessa, ma piuttosto se funzionale al miglioramento della condizione dell’uomo.

 

Claudia Carbonari

[Immagine tratta da Artribune.com]

 

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Introduzione senza parole: “La Metamorfosi di Narciso”

Oggi ai filosofi si rimprovera di usare come oggetto d’indagine preferito il concetto di arte attribuendole una specie di missione metafisica, che le farebbe, parafrasando Heidegger “mettere in opera la verità”. Così si risente del fatto che l’arte venga sottratta dall’azione della pratica artistica, dal suo luogo, dai suoi ateliers, come un territorio di silenzio che l’analisi concettuale verrebbe a disturbare. L’arte e la filosofia sono giunte a superare l’esercizio di una “teoria estetica” dando vita ad una simbiosi, dove ciascuna ha bisogno dell’altra per comunicare. Assioma che richiama la necessità di almeno due interlocutori − non a caso, il termine “comunicare” significa in primo luogo “condividere”. Questo non vuol dire che la relazione instaurata con gli oggetti non sia comunicazione: tali relazioni non possiedano le stesse caratteristiche della comunicazione tra due soggetti, ma ne condividono parte dei processi percettivi che costituiscono qualsiasi esperienza umana.

Non approfondiremo questa riflessione, ma proporremo a partire da essa, un salto di dimensione “artistica” e “corporea”, che spieghi la scelta di un’opera, come la Metamorfosi di Narciso (1937) di Salvador Dalì. La comunicazione artistica “eccede” qualsiasi linguaggio, collocando i soggetti in una “quarta dimensione”: non solo temporale, contingente all’atto del fluire, ma piuttosto il frutto della sintesi tra creazione e osservazione. Essa è il luogo che ciascun professionista dovrebbe raggiungere per dar vita ad una comunicazione “artistica”. L’idea emerge dalla struttura del quadro, dalla coesistenza delle sue parti secondo le regole di cui non sempre si è capaci di esternare le formule. L’artista compone la sua opera rivolgendosi al potere di interpretare tacitamente il mondo e gli uomini e di coesistere con loro. La forza dell’arte è di mostrare come qualcosa diventi significato dalla disposizione spaziale/temporale dei suoi elementi. In una delle sue autobiografie, Diario di un genio Dalì scrive: «Tutti vogliono sapere il metodo segreto del mio successo: si chiama metodo paranoico-critico. Da più di trent’anni l’ho inventato e lo applico con successo, benché non sappia ancora in che cosa consista. Grosso modo, si tratterebbe della sistemazione più rigorosa dei fenomeni e dei materiali più deliranti, con l’intenzione di rendere tangibilmente creative le mie idee più ossessivamente pericolose».

Metodo che applica in quest’opera, dove ripropone la trasformazione del personaggio mitologico calandolo nell’estetica e nel suo surrealismo. A sinistra del quadro si vede dipinta, con colori caldi, la figura umana di Narciso, in posizione fetale e pronto alla trasformazione. Sulla destra, con colori più freddi e con la precognizione della morte, si staglia una mano che ha le stesse forme del corpo di Narciso. Una mano tiene tra le dita un uovo dal quale nasce un fiore. Sullo sfondo una serie di personaggi, statue e figure che richiamano al Rinascimento; a cui si aggiungono elementi contrastanti, per dare sfogo all’inconscio e complicare il lavoro interpretativo dei critici.

La speranza di recuperare la condizione perduta, i tentativi di adattarsi al nuovo stato, i comportamenti familiari e sociali, l’oppressione della situazione, lo svanire del tempo sono gli ingredienti con i quali l’autore elabora la trama dell’uomo contemporaneo, un essere condannato al silenzio, alla solitudine e all’insignificanza. Da qui ne scaturisce, a mio avviso, la necessità di ritirarsi e chiudersi in un mondo tutto personale nel quale ritrovare un possibile sollievo e la negata serenità, ossia l’identità per sempre perduta. Si è incapaci di accettare le diversità, di rompere la realtà convenzionale, le abitudini di una società che rimane primitiva, ferma e ben salda su pregiudizi infondati e aberranti, che ha paura di scoprire qualcosa di nuovo, qualcosa che possa scontrarsi contro i principi, molto spesso assurdi e incomprensibili, alla base della vita. Diversità non è sinonimo di follia, di malattia o di mostruosità, ma può produrre in noi la necessità di una vera e propria “metamorfosi”. Ci si trova di fronte ad un livello di significato eccedente che si pone al di là di ogni intenzione simbolica di comunicare un contenuto.

Così l’arista si trova nell’opera, nella psiche del creatore e del fruitore, intessendo un dialogo attivo con le vari sfere della cultura. L’opera d’arte in questo senso crea una struttura sociale, comunicativa ed interpersonale. Il suo messaggio (finalizzato come opera d’arte), non deve mai essere inteso come dato e dogmaticamente statico, esso è sempre una proposta, l’esempio dialogico di un lavoro creativo che comunica con il mondo e con noi.

Rosaria Iacovino

Rosaria Iacovino, nasce in Basilicata ventotto anni fa in un piccolo paesino di provincia, Castelsaraceno. Tra le sue passione c’è l’arte e la letteratura di tutti i generi, tranne quella mielosamente romantica. Ama viaggiare, conoscere usanze e posti nuovi.
Verso i quindici anni s’innamora profondamente della filosofia, un amore a prima vista, che la porta a trasferirsi a Firenze dove frequenta il Dipartimento di Filosofia, ed è prossima alla laurea in Scienze filosofiche con una tesi in Neuroestetica.
Adora scrivere sulla sua scrivania, ma presto dovrà comprarsene una nuova perché è quasi finito lo spazio sul piano di quella che ha adesso.
Sogna un domani da insegnante.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Il valzer esistenzialista del tempo

«Che cos’è il tempo? Se non me lo chiedi lo so; ma se invece mi chiedi che cosa sia […], non so rispondere»1.

Molti conoscono il dilemma di S. Agostino sulla natura del tempo, ma qual è il tentativo di risposta fornitoci dalla musica? Per scoprirlo ci addentreremo in quella branca della filosofia chiamata estetica, nella quale l’uomo, con un misto di stupore e autocompiacimento, si pone domande sul prodotto della sua stessa arte.

Ora, se crediamo che il pensiero filosofico si sia limitato a riflettere su forme artistiche composte di parole e linguaggio, come la poesia e il teatro, ci sbagliamo di grosso. La velleità intellettuale dei filosofi si è spinta ben oltre, sino al tentativo di descrivere la musica, forse la più evanescente tra le forme artistiche.

Priva di una parvenza visibile o tangibile e priva di un testo, la musica pura, quella strumentale, si presenta a noi come un flusso di stimoli sonori difficilmente descrivibili dalle parole e dai concetti del linguaggio. Essa ci scorre addosso e rimane in un certo senso impalpabile e indescrivibile, come la natura stessa del tempo. Ed è proprio il tempo quell’elemento che sta alla base di ogni composizione musicale. Non c’è infatti musica priva di ritmo. È questo che rende possibile l’esistenza di una melodia, ovvero di una successione di suoni scanditi, per l’appunto, dallo scorrere degli istanti. Se infatti il ritmo di tamburo potrà sussistere senza melodia, non è data la possibilità a nessuna melodia di prescindere dal ritmo o, almeno, da una cadenza temporale. Le note si incasellano quindi all’interno di un arco di tempo, così come le immagini della pittura e le forme della scultura si inscrivono in uno spazio visibile o tangibile. È proprio nella natura delle note che troviamo lo scorrere all’interno del tempo, l’avere pertanto una durata, un inizio e una fine.

Ritorniamo però al dilemma di S. Agostino. È dunque possibile che la difficoltà di spiegare la natura della musica derivi da quella di spiegarne il suo elemento essenziale? D’altra parte, dalla problematicità di descrivere il tempo deriverebbe quella di spiegare l’uomo, essere caratterizzato anch’esso, come la musica, da una natura temporale, ovvero da un inizio e una fine? E ancora, ascoltiamo la musica per comprendere noi stessi? È forse questo l’obbiettivo dell’arte dei suoni?

Secondo la filosofa francese Gisèle Brelet le cose stanno all’incirca così. La musica non solo ci aiuterebbe a scoprire la nostra natura, ma anche a godere di questa nostra essenza temporale. Nella musica, l’angoscia legata allo scorrere degli attimi lascerebbe il posto al piacere legato ad un impulso ritmico capace di coinvolgerci a tal punto da farci muovere passi di danza.

Musica come terapia esistenziale?

La posizione della filosofa francese è all’incirca questa. Forse è un po’ esagerato pensare che la musica possa portarci a sconfiggere la paura della morte o, ancor peggio, della vecchiaia. Eppure, anche se non vogliamo credere ad una visione così radicale, non possiamo non soffermarci a pensare al potere di questa forma artistica. E se già ci eravamo stupiti per il fatto che essa potesse suscitare emozioni talmente forti da consolarci nei momenti di tristezza, farci ballare in quelli di gioia, incitarci durante gli sforzi fisici, tanto da farci dimenticare la stanchezza, ora scopriamo persino che essa è capace di filosofare. Certamente non si tratta di ragionamenti deduttivi, ma di quelle profonde intuizioni che solo l’arte può essere in grado di porgerci. Ed ecco che l’intuizione del tempo ci viene indicata dalla musica, la quale, almeno per la durata di un brano, ci fa vivere attivamente il cadenzare temporale e non più subirne gli effetti angosciosamente. Il ritmo sonoro dà forma al flusso dei secondi, così come le parole erano riuscite a dar forma al flusso delle sensazioni.

Ci ritroviamo così a godere attivamente di ciò che non avremmo mai pensato: il nostro scorrere.

Giulia Gaggero

Contemporaneamente agli studi di Filosofia presso l’Università Statale di Milano porto avanti la mia passione per la musica diplomandomi in violino presso il Conservatorio G. Verdi di Milano. Incuriosita poi dalla metodologia scientifica e dalle tematiche di filosofia della mente, decido di iscrivermi al Master in Cognitive Science dell’Università di Trento. Attualmente interessata alle neuroscienze della musica e alle tematiche di neuroestetica, sto svolgendo un tirocinio presso il centro di ricerca MIB (Music in the Brain) dell’università di Aarhus (Danimarca).

NOTE:
1. Agostino, Confessiones, Libro XI

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Appunti di uno ancora in vita. David Casagrande intervista sé stesso (II parte)

«Se lei crede che io mi lasci abbindolare da cose tipo

“Sono un’artista, non ho bisogno di spiegare”, è fuori strada».

(Paolo Sorrentino, La Grande Bellezza, 2013)

 

Tutte le sue teorie mi sembrano abbastanza preconcette. Non mi ha fornito dati empirici a loro giustificazione: mi ha semplicemente detto che “è così e basta”.

Cerco di venirle incontro: osservando il mondo, ho capito che tutte le azioni dell’uomo rispondono all’Amore o all’Odio. Lei prenda qualsiasi gesto, lo semplifichi giungendo al substrato che l’ha generato, e ne studi il fine: si accorgerà che base e fine sono (sempre!) l’Amore o l’Odio. Aggiungo: non solo le scelte esistenziali, ma anche le attitudini mutano la loro essenza a seconda che le s’indirizzi all’Odio o all’Amore.

Mi farebbe un esempio di attitudini che possono essere rivolte sia all’Odio che all’Amore?

Pensi alla musica: se la si produce per diletto puro, allora siamo nell’Amore, perché generiamo meraviglia. Ma se invece (ci) costringiamo a praticarla per competere o per volontà di superioritàebbene, siamo diretti all’Odio (e quanti genitori vedo imboccare questa strada, sfruttando i figli! Dominus parcat illis).
In realtà, ciò che vale per la musica, o qualunque tecnica particolare, vale per l’arte. In effetti, concordo con Hegel: l’arte è morta, e chi s’ostina a praticarla s’accanisce terapeuticamente s’una carcassa. Gli artisti d’oggi, animati da Spirito-di-competizione, ovvero dall’Odio, anche se si spacciano da Cristo che resuscita Lazzaro (perché pretendono di far bellezza, come in passato) sono dei Frankenstein che costruiscono mostri-nuovi con cadaveri-vecchi.
Tenga conto che la letteratura è esclusa da questo ragionamento: essa, infatti, non è arte, è Meraviglia, solo ed esclusivamente Amore. Nella letteratura non c’è traccia di Odio, perché manca di competizione.

Qual è il rapporto tra esistenzialismo e arte?

È un reciproco sospetto, direi. Fra i molti autori che potrei citare, ne eleggerò tre.

  1. Per Kierkegaard, l’arte è un rimando: in quanto tale, è un significante che indirizza al mondo e con esso mantiene rapporto inscindibile. Il problema è che, nel momento cui questo rapporto si mantiene nella mondanità, esso è – già da sempre – inautentico e non-libero.
  1. Sartre definiva la pratica artistica un “annichilimento della realtà”. Con un ottimo esempio, afferma che, sin quando stiamo a fissare un quadro di re Carlo VIII, non sapremo nulla di costui: egli “apparirà alla nostra coscienza” quando ci libereremo dall’influsso artistico per darci al “pensiero” del re.  In altri termini, l’arte impedisce alla coscienza di agire in modo consono alla sua missione.
  1. Bergson, riflettendo sull’essenza della realtà, si concentra su percezione e memoria pura. Ora, tale essenza è (per farla molto semplice) la realtà ontologica del tempo, che si dà all’uomo come intuizione-delle-cose. E l’intuizione, facoltà tanto conoscitiva quanto rivelatrice del tempo, non si trasforma mai in capacità artistica. L’arte dunque, è certamente a-temporale (il che, potrebbe essere positivo) ma, nondimeno, è a-logica.

Io, personalmente, ritengo che una vera comprensione dell’esistenza porterebbe all’implosione dell’arte. Se riuscissimo a capire che è la vita la nostra opera più grande! Che non occorre musica quando basta il suono del cuore! Che è la voce di chi amiamo la canzone più bella!

Lei cosa consiglia? Interdire la pratica dell’arte?

Superarla. Considerando che l’Odio nasce dalla competizione (meglio: si lega a essa) un’ottima idea potrebbe essere quella di favorire il ritorno all’arte-pura, eliminando i concorsi o le gare di disegno, di musica, di canto. E quegli squallidi show in TV… Terrei invece aperti, come depositi di “storia della purezza”, accademie e conservatori.

Torniamo alla sua filosofia. Lei sostiene che l’Universo invoca l’Amore, eppure ha scritto un Elogio del dolore. Come possono convivere dolore e Amore?

Amore e Dolore sono tutt’altro che opposti! Un amore può essere doloroso, e aggiungo: l’Amore-Vero necessita del Dolore per mostrarsi. Badi bene: il Dolore è doppio; esiste il Dolore-che-patisco e il Dolore-che-provoco e sono essenzialmente diversi: il primo conduce all’Amore, il secondo all’Odio, e io lo chiamo Egoismo.

Odio e Amore. Le due categorie fondamentali dell’uomo…

La interrompo. Le categorie dell’essere-umano (non dell’uomo!) non sono queste: l’Odio e l’Amore sono le Sorgenti e gli Orizzonti che raggiungiamo percorrendo le Grandi-Vie dell’Egoismo e del Dolore. Le categorie sono coppie di opposti atteggiamenti, che rispondono a due Trascendentali, che a loro volta dipendono dall’Universale. A ciascuna delle Grandi-Vie corrispondono due categorie.

Me le elenchi e me le esplichi.

Detesto la parola categorie, preferisco il termine Esistenziali: sono le caratteristiche fondamentali dell’esistenza (assunte da quel particolare essente che ha, nella sua propria essenza, il tratto fondante che si occupi del suo essere) al momento dell’imbocco di una delle due Grandi-Vie.
Detto in parole povere: gli Esistenziali sono le caratteristiche fondamentali dell’essere-umano, e cambiano a seconda che si scelga l’Amore o l’Odio. Tali Esistenziali sono: Essere/Apparire e Avere/Possedere.
Essere e Avere conducono all’Amore seguendo la via-del-Dolore, e si acquisiscono praticando la compassione. Apparire e Possedere conducono all’Odio, seguendo l’Egoismo, e si producono in chi non conosce compassione. I due Trascendentali (dai quali gl’Esistenziali dipendono) comuni a tutti gli uomini, indipendentemente dalla Grande-Via che imboccano, sono Scelta-Libera e Ripetizione-Consapevole, possibili solo grazie all’Universale della Libertà.

Come la giustifica la Libertà?

Fondandola nella Speranza.

Concluderei con una domanda difficile. Lei teme la morte?

Non è una domanda difficile… e le rispondo che non la temo. Temo l’immobilità di una vita senza passione. Temo la gabbia di un corpo sfigurato dal tempo. Temo l’agonia… ma la morte non mi spaventa. In effetti, una delle mie speranze più grandi è proprio questa: svegliarmi una mattina, e cogliermi (senza strappi, sofferenze o pianti) non più come “indegno velo”, ma come presenza del ricordo, luce di me stesso, naufrago in un oceano di silenzio.

Cosa immagina ci sia, dopo la morte?

Lasci che le risponda con le parole di Tolkien:

«Infine, in una notte di pioggia, Frodo sentì nell’aria una dolce fragranza, e udì canti giungere da oltre i flutti. Allora gli parve che, come quando sognava nella casa di Bombadil, la grigia cortina di pioggia si trasformasse in vetro argentato e venisse aperta, svelando candide rive e una terra verde al lume dell’alba».

Non aggiungerei una sillaba.

David Casagrande

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Architettura ed etica del verde: intervista a Stefano Boeri

In occasione della XX edizione del Festivaletteratura, lo scorso settembre abbiamo incontrato l’architetto e urbanista Stefano Boeri, che quel giorno presentava il suo libro Un bosco verticale. Libretto d’istruzioni per il prototipo di una città foresta (Corraini, 2015).
Quello del “Bosco verticale”, due torri residenziali nel quartiere Isola a Milano, è un progetto molto apprezzato che ha consolidato il suo riconoscimento come architetto a livello internazionale. Il suo lavoro presso lo studio Stefano Boeri Architetti (che tra le altre cose ha collaborato alla delineazione del masterplan di Expo 2015) viene affiancato dal suo incarico di professore ordinario di Progettazione Urbanistica al Politecnico di Milano, nonché di visiting professor in alcune università di tutto il mondo; dal 2004 al 2007 è stato alla direzione di Domus e dal 2007 al 2010 di Abitare, entrambe riviste d’architettura note a livello internazionale; ad oggi collabora ancora con alcune riviste (non solo d’architettura) tra le quali Wired.
Con lui abbiamo cercato di capire come l’architettura possa dialogare con la dimensione naturale dell’ambiente e anche di come possa intervenire all’interno della crisi ambientale in corso; si tratta di una disciplina molto affascinante e nonostante la sua applicazione sia puramente tecnica, essa scaturisce da profonde riflessioni sull’uomo, la sua natura e i suoi bisogni.

 

Nel 2014 ha vinto l’International Highrise Award per il suo Bosco Verticale, scelto dalla giuria secondo “parametri” legati alla sostenibilità, alla qualità estetica esteriore ma anche di vivibilità dello spazio; ai non addetti ai lavori tuttavia balza evidentemente agli occhi il lato “verde” del progetto. Nel mondo di oggi, come può e deve rientrare in architettura il tema della natura e dell’ambiente?

Entra in tanti modi: entra come fenomeno di ricolonizzazione da parte Boeri_Progetto Bosco Verticale1 - La chiave di Sophiadella natura di parti di città o di territorio antropico abbandonati, entra come questione nel rapporto con le superfici verdi, cioè il fatto che oggi le nostre sono città minerali con pochi spazi lasciati al mondo vegetale, e noi dovremmo invece – in prospettiva anche di contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico – sia moltiplicare gli spazi vivi e verdi tradizionali (parchi, giardini, viali, boschi…), sia (come nel caso del Bosco Verticale) sperimentare forme nuove di presenza del verde in città. Poi c’è anche il tema della biodiversità, che è un altro tema fondamentale: aumentare superficie verde è anche un metodo per aumentare la biodiversità, non solo della flora ma anche della fauna.

Boeri_Progetto Bosco Verticale2 - La chiave di Sophia

In un’intervista del 2007 Zaha Hadid espresse la sua sensazione che le persone in Italia fossero spaventate dal cambiamento e che dunque tendessero ad evitarlo. Il suo Bosco Verticale s’inserisce nella cornice di una Milano in continua crescita in cui i nuovi progetti d’architettura fanno da specchio a questa tendenza, cercando forse di recuperare una sorta di iato venutosi a creare con altre grandi metropoli europee. Lei cosa ne pensa? Aveva ragione Hadid, o in Italia siamo capaci di equilibrare l’innovazione e il contemporaneo con la tradizione?

Aveva ragione Hadid, nel senso che l’Italia per molti anni ha avuto paura di affrontare il contemporaneo nell’architettura, e questo per diverse ragioni: per esempio perché abbiamo avuto una stagione straordinaria negli anni Cinquanta e Sessanta di trasformazioni che invece sono state molto coraggiose e in cui domina il contemporaneo; inoltre perché la presenza della storia, con quella grande stagione fertile verso il recupero, hanno messo in secondo piano la necessità del contemporaneo. Negli ultimi anni invece le cose sono un po’ cambiate e devo dire che è vero  (anche se a volte non sempre in modo, come dire, felice), il contemporaneo ha ripreso possesso di alcune immagini delle nostre città: quindi sì, adesso sappiamo equilibrare la tradizione con il contemporaneo.

Il suo progetto di riqualificazione del porto de La Maddalena per il G8 del 2009 è probabilmente l’esempio lampante di come un buon progetto d’architettura sia in realtà soggetto a molteplici e a volte incontrollabili forze esterne. Ha qualche speranza di un esito positivo?

Mah non lo so, sono abbastanza disperato. Sono ovviamente sempre attivo su quella faccenda e sono informato su Boeri_Progetto La Maddalena - La chiave di Sophiaquello che sta succedendo: ci sono delle promesse, ci sono delle risorse… E’ un problema sostanzialmente di accordo tra la concessionaria Marcegallia, la Regione Sardegna e la Protezione Civile; il problema è che o la Presidenza del Consiglio riesce a risolvere o sennò nonostante le risorse, nonostante le buone intenzioni, non si farà nulla. E ogni mese che passa si perdono anni di qualità di architettura, di materiali, quindi… Quindi sono disperato, è proprio una brutta storia.

L’uomo è sempre stato particolarmente curioso del futuro, anche della quotidianità del futuro, e soprattutto attraverso il cinema ha provato anche a rappresentarlo – pensiamo a Star Trek, piuttosto che Blade Runner. Lei come pensa appariranno la metropoli e la cittadina del ventiduesimo secolo?

Io penso che il modo migliore per pensare al prossimo secolo sia di pensare al secolo scorso, cioè proiettare nel futuro la distanza temporale verso un passato che conosciamo: questo per capire l’accelerazione, le tendenze… La città del prossimo secolo sarà una città probabilmente per certi aspetti totalmente altra, e per una ragione, cioè che c’è una questione ambientale che se non viene gestita – come ora non viene gestita – nei prossimi anni in modo sempre più radicale si rischia di creare una situazione drasticamente nuova, per cui molte città saranno sommerse dall’innalzamento del livello degli oceani, molti spazi e molte città verranno abbandonati per la desertificazione… ci sarà forse l’opportunità e la necessità di immaginare una migrazione su altri pianeti, ci sarà… ci saranno problemi enormi. Io per esempio sto lavorando su un’idea di Shanghai 2116, perché insegno alla Tongji University di Shanghai e lì abbiamo messo in campo anche l’idea di costruire una nuova Shanghai su un altro pianeta.

Quali significati assumono l’etica e l’estetica applicate all’architettura?

Beh evidentemente sono intrecciate ed evidentemente, come dire, si parlano, nonostante siano anche due dimensioni molto diverse. L’estetica comunque non è mai una categoria generalizzabile, ha degli interlocutori e dei destinatari, una cosa bella non è bella in assoluto ma bella rispetto ad alcune aspettative, bisogni ed alcuni immaginari… anche solo pensando a questo si scorge il dialogo tra le due.

Etica ed estetica sono in effetti branche della filosofia: sentire questi termini legati ad una disciplina apparentemente esclusivamente tecnica come l’architettura avvalora la nostra concezione di filosofia. Che cos’è per lei la filosofia?

E’ un’interrogazione sul senso della vita.

 

Non è così scontato. Ritengo che molte delle conflittualità, degli orrori e degli errori del nostro tempo siano dovuti proprio alla banalizzazione del senso della vita, che non viene più indagato veramente, perché si pensa la vita come una batteria che si consuma e non come un dono. Anche l’architettura (come tutte le nostre altre discipline) interroga e fa interrogare noi stessi su questo: per esempio, perché un terremoto fa crollare così facilmente un edificio, e che valore hanno dato alla vita le persone che l’hanno costruito? Ne hanno dato abbastanza? Ma non solo. Pensiamo al ponte più moderno di Venezia e a tutte quelle pecche che lo rendono così problematico da attraversare: chi l’ha progettato si è veramente immedesimato nelle persone che quotidianamente viaggiano da una riva all’altra? Ai loro bagagli, ai loro passi, alle loro esigenze nel farlo? Oppure ancora: che cosa rappresentano opere come il Pantheon di Roma, la Grande Muraglia, l’Empire State Building? Di quali vite, di quali sogni raccontano? In effetti potremmo non smettere mai di farci domande sulla vita soltanto guardando un’architettura.
Ecco dunque che non è così scontato riflettere sul senso della vita. Come risolvere molte problematiche del nostro mondo? Semplicemente continuando a pensare.

Giorgia Favero

[Immagini di proprietà di Stefano Boeri Architetti]

Il bacio, “scrigno dell’essere”

Filosofia del bacio: si intitola così un breve ma interessante libretto di Franco Ricordi pubblicato qualche anno fa da Mimesis. Certo, sulle prime si potrebbe rimanere interdetti: che cosa ha mai a che fare la filosofia, una forma di sapere apparentemente così arida, astratta e speculativa, con la vivida concretezza passionale racchiusa in un bacio?

Eppure l’archetipo del bacio (e dell’amore che travolge ogni limite), se ci si pensa, è stato forse illustrato e descritto proprio da un uomo che, oltre che sommo poeta, è stato anche un filosofo di eccezionale statura: Dante Alighieri. Ci riferiamo, naturalmente, al celebre episodio di Paolo e Francesca, i due sfortunati amanti che Dante incontra nel suo viaggio ultraterreno (siamo nel canto V del­l’In­ferno).

I famosi versi del poema dantesco possono introdurre bene al motivo di fondo del volumetto di Ricordi (ma moltissimi sono poi gli autori a cui egli fa riferimento nel corso della trattazione). Secondo l’autore, infatti, il bacio «non è soltanto un atto che si possa considerare estetico», ma ha anche un «senso etico», nonché delle implicazioni che – usando un termine “tecnico” e impegnativo – potremmo definire “ontologiche”. In altri termini, per Ricordi il bacio non è soltanto un’intensa fonte di piacere, ma anche la piena espressione delle potenzialità insite nell’essere.

In primo luogo – dice l’au­to­re proprio in apertura del suo libro – «il bacio in bocca si può considerare come un fondamentale atto di libertà», che è in grado di schiudere completamente agli umani l’ac­ces­so alla “gioia dell’essere” (non importa – tiene inoltre a sottolineare Ricordi fin dalla prima pagina – che a scambiarsi un bacio siano un uomo e una donna o due persone dello stesso sesso). Atto di libertà, il bacio, che risulta difficile inquadrare come “peccato”, anche se a volte ci viene esplicitamente presentato come tale. Tanto più che esso, secondo Ricordi, è addirittura «una delle fonti più belle e più importanti della [stessa] filosofia». In questo senso, se Dante è arrivato «a una concezione del­l’A­mo­re in quanto motore e chiave dell’universo», diventando così «il maggior teorico del­l’a­mo­re in senso filosofico e metafisico» è forse proprio perché è partito con il considerare e il descrivere il bacio tutto terreno di Paolo e Francesca, che – sostiene Ricordi – «è talmente bello, talmente importante, profondo e pieno di significato anche etico, da non poter essere rappresentato come semplice peccato».

In seconda battuta, si pensi alle capacità generative e trasformatrici proprie dell’amore: tutti sanno che le persone innamorate cambiano, vengono trasformate e “ricreate” dal loro amore quasi fino al punto di non sembrare più le stesse. Non va inoltre dimenticato che il bacio prelude all’atto amoroso, «quindi all’essere di noi tutti, alla nostra nascita, vita e morte». E se nelle favole il bacio è in grado di ridonare la vita, di spezzare incantesimi o di trasformare i rospi in principi, anche nella realtà la “respirazione bocca a bocca” «può essere intesa come una sorta di “bacio della vita”, un soffio che restituisce l’anima a chi, verosimilmente, potrebbe essere lì lì per perderla».

Tenendo presente tutto questo, Ricordi, sfruttando e capovolgendo uno spunto heideggeriano (la morte come «scrigno del nulla»), propone suggestivamente di considerare il bacio come il vero e proprio «scrigno del­l’es­se­re».

Per dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la fondamentale connessione sussistente tra bacio e filosofia, Ricordi analizza non solo la “quintessenza” del bacio (espressione che compare come titolo del primo capitolo del libro), ma tutte le sfumature che esso ha assunto al­l’in­ter­no della cultura occidentale, spingendosi alla ricerca di quella che egli definisce un’eti­ca del bacio. In particolare, tra tutte le declinazioni possibili di esso, troviamo due estremi: da un lato il “bacio etico” compiuto nella cerimonia matrimoniale, che ha la funzione di ratificare la fedeltà dei coniugi (il cui prototipo, secondo Ricordi, è il bacio di Otello e Desdemona) e, dal lato opposto, il “bacio libertino” o “rubato” (prerogativa dalle avventure amorose di Don Giovanni).

Il saggio di Ricordi non si limita comunque a essere una semplice rassegna fenomenologica o una ricognizione tipologica del bacio e del baciare, ma intende anche invitare a riflettere sui cambiamenti di mentalità e quindi sul diverso modo di rapportarsi al bacio da parte della società umana nel corso della storia: ancora negli anni ’70 – afferma ad esempio Ricordi – il bacio era considerato un peccato la cui gravità era direttamente proporzionale alla durata dell’atto, mentre ora è considerato una profonda espressione d’affetto o tutt’al più un innocente preliminare.

Al fine di valutare le evoluzioni e i cambiamenti a cui il bacio è stato soggetto con il passare delle epoche, la parte centrale del libro si divide in tre sezioni: Il bacio nell’epoca tragica, dove a tema è il bacio nell’antichità classica (ma si parla anche di Foscolo, Leopardi, Nietzsche, Kleist); Il bacio nel­l’e­po­ca teologica, la quale – al contrario di quanto si potrebbe pensare – è proprio essa l’“epoca d’oro” del bacio in bocca; e infine Il bacio nell’epoca economica, dove lo sguardo si spinge nella contemporaneità, per tentare di valutare e comprendere il «degrado nichilistico in cui [versa] il bacio d’amore nella nostra epoca». Chiude il libro il capitolo intitolato La possibilità etica del bacio, in cui Ricordi tira le fila della propria indagine, giungendo alla conclusione che il bacio non è soltanto un «contatto carnale» o il «simbolo […] della vita erotica dell’uomo», ma anche uno «straordinario viatico etico e morale» e quindi «uno degli atti più alti della vita».

Nel bacio, infatti, si incontrano e si fondono assieme afflato mistico (e dunque religiosità) e sensualità, istinto di conservazione (e dunque biologia) e poesia: se Heidegger avesse potuto leggere il libro di Ricordi, avrebbe ben volentieri parlato anche del bacio (oltre che della “brocca”) come di una “quadratura” o “quaternità” (Geviert) in cui si incontrano e congiungono «la terra e il cielo, i divini e i mortali». Alla luce di questo intreccio, appare chiaro che più che singole discipline settoriali, è forse solo la filosofia quel sapere che è in grado di poter offrire una panoramica dell’essenza intima e delle manifestazioni del bacio senza rischiare di impoverire tale fenomeno, in virtù della possibilità che solo essa ha di poter comporre e tenere insieme, grazie al suo sguardo inclusivo e onniavvolgente, tutte le prospettive e le dimensioni che in esso sono racchiuse.

Oltre alla prospettiva storica, un altro aspetto su cui l’autore vuole concentrare l’attenzione è la straordinaria capacità, propria del bacio, di riuscire a conservare intatto il «mistero della [sua] bellezza» anche al giorno d’oggi, in cui pure si assiste a una «infinita spettacolarizzazione», «reificazione» e «mercificazione» del bacio in bocca e degli atti dell’amore. Secondo Ricordi, tale circostanza è un segno inequivocabile dell’ine­sau­ribile capacità di significazione propria del bacio (e quindi dell’amore che esso esprime), che pertanto non risulta rinchiudibile all’interno di un “sistema” che ne sveli una volta per tutte la natura, dato che esso dimostra costantemente di essere costitutivamente aperto a nuovi, infiniti e imprevedibili sviluppi – proprio come la vita e la libertà di cui esso è simbolo.

 

Gianluca Venturini

 

[Immagine tratta da Google Immagini, Paolo e Francesca di William Dyce]

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“Ti piace perché è bello o è bello perché ti piace?” La bellezza e i suoi perché

Ho veduto una sola volta l’unica, colei che la mia anima cercava, e la perfezione che noi collochiamo al di sopra delle stelle, che noi allontaniamo sino alla fine del tempo, questa perfezione l’ho sentita presente. Era là, questo essere supremo, là nella sfera dell’umana natura e delle cose esistenti. Non vi domando più dove essa è: è esistita nel mondo e può tornarvi; vi è soltanto nascosta. Non domando più che cosa essa sia, l’ho veduta, l’ho conosciuta. Oh, voi che cercate il sommo bene nelle profondità del sapere, nel tumulto dell’azione, nell’oscurità del passato, nel labirinto del futuro, dentro le fosse o sopra le stelle, conoscete il suo nome, il nome di ciò che è uno e tutto? Il suo nome è bellezza. 1

Siamo davanti a un tramonto, ci sfugge un sospiro e pensiamo che non ci sia niente di più bello in quel momento, un po’ come quando guardiamo negli occhi la persona che amiamo. Reputiamo bello ciò che ci piace, ciò che alla fine ci procura piacere, ma anche Kant sarebbe d’accordo nel denotare che nell’istante in cui definiamo qualcosa “bello” stiamo dando soltanto un nostro giudizio personale: si tratta di un giudizio di gusto, non logico, ma bensì estetico. A riguardo del piacevole, Kant usa il termine tedesco Angenehm e afferma che esso “è ciò che piace ai sensi nelle sensazioni”2.

ll bello è per prima cosa una forma, legata all’oggetto delle nostre rappresentazioni estetiche: bello è qualcosa di definito nel materiale, ma inesprimibile in un concetto, può essere bella una rosa o una statua o un giardino fiorito in primavera, ma non si riesce a dire perché è bello. A questo punto si può pensare allora alla sua finalità: può esserci un bello con finalità senza scopo o un bello strumentale. Nel bello senza scopo vi è un nostro totale disinteresse nel dare il giudizio, il bello appare per se stesso e si mostra in sé. Il bello strumentale semplicemente è legato all’utilità dell’oggetto di cui noi vogliamo disporre. Riprendiamo l’ultimo esempio fatto, quello del giardino di fiori in primavera. Se io per la prima volta entro in questo giardino e vedo tutti i fiori ben curati, che sbocciano, di tutti i colori, rimando meravigliata per la bellezza intorno a me, ma non esprimo questo giudizio perché mi interessa o mi serve per qualche motivo preciso, ma perché denoto che è bello di per sé e può essere un giudizio universalmente valido, che tutti posso esporre. Ma se io sono il giardiniere di tutti quei fiori, li trovo belli anche per mio interesse, perché è mio lavoro occuparmi di tutto il giardino e curarlo. Risulta essere in ogni caso una percezione soggettiva che a seconda dell’interesse o disinteresse assume un validità differente perché personale.

Alla fine “Non è bello ciò che bello, ma è bello ciò che piace”, i detti popolari non sbagliano mai.

Ma cosa produce la Bellezza?

Hölderlin scrive che la bellezza ha tre figlie: la prima figlia è l’arte, fonte divina di giovinezza per l’uomo; la seconda figlia è la religione, amore della bellezza; infine la terza è la filosofia, la figlia mancante, poiché essa è limitata da una conoscenza del contingente. La filosofia trova possibilità solo attraverso l’intuizione immediata, che procede dalla bellezza ai sensi, divenendo fondamento logico e ontologico.

Vorrei solo concludere questo articolo con questa citazione:

Il saggio ama proprio lei, la bellezza che tutto racchiude. Il popolo ama i suoi figli, gli Dei che gli si manifestano in forme molteplici. […] E senza tale amore per la bellezza, senza questa religione, ogni Stato non è che scheletro secco senza vita e spirito e ogni pensiero e ogni azione un albero senza cima, una colonna cui è stato troncato il capitello. 3

Al prossimo promemoria filosofico!

Note

1] Holderlin F., Hyperion oder der Eremit in Griechenland (1799), cit p. 59

2] In tedesco “ist das, was den Sinnen in der Empfindung gefallt

3] Holderlin F., Hyperion oder der Eremit in Griechenland (1799), cit p. 89

Azzurra Gianotto

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Sogni in saldo

Qualcosa si è insinuato nelle nostre vite, qualcosa di astratto che non riusciamo ancora ad afferrare pienamente è strisciato nella nostra quotidianità senza che ce ne accorgessimo, ad annunciarne la venuta cartelloni pubblicitari e messaggi mediatici: i brand. “Nel nostro negozio le migliori firme” annunciano i cartelloni, mentre la pubblicità di un negozio di abbigliamento promette “sconti su tutte le firme”, e avanti così…Ne siamo così invasi che ormai fanno parte del nostro mondo quotidiano: “Vado in quel negozio perché hanno le firme che mi interessano”, solo per fare un esempio. Questi brand, o firme, come la mitiche figure dei consumatori e delle consumatrici sanno bene, sono i prodotti firmati da stilisti famosi o di grossi gruppi aziendali, meglio se si il marchio si vede il più possibile.

I brand ancor più dei prodotti continuano a essere oggetto del desiderio, di attrazione, anche in questo periodo di crisi, anche se ridotti ormai a resti polverosi di una moda superata, scartati sia dagli acquirenti più altolocati, quei pochi che pagano a prezzo pieno, sia da quelli che sono pronti ad acquistare in saldo. Ma ci sono persone, evidentemente, che comprano questi oggetti firmati non perché li trovano belli o comodi, o ne hanno bisogno, ma appunto perché sono firmati da quello stilista o sono stati prodotti da quella determinata compagnia, i cui nomi evocano mondi di fascino e celebrità. E’ come sentirsi un po’ un divo o una diva, una celebre indossatrice, una principessa, un attore famoso, perché, come loro, ti sei potuto o potuta permettere “una firma”. Insomma è come comprare una favola, una fuga dalla propria vita quotidiana molto più dura soprattutto in questi tempi così avari di speranza.

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