L’estetica del male in Arancia Meccanica

Tratto dal libro di Anthony Burgess, Arancia meccanica diviene famoso al grande pubblico grazie alla magistrale regia di Stanley Kubrick. Un’opera non sempre compresa fino in fondo e da molti considerata emblema della violenza gratuita. Ma a tutto questo c’è un motivo: l’autore del libro prima e successivamente Kubrick, non vogliono mettere in scena la mera violenza senza uno scopo più alto, ma scelgono di trattare una delle tematiche primarie della filosofia, ossia la questione del libero arbitrio.

Come ben sappiamo le leggi sottese allo Stato e la cultura, sono fondamentali per la stabilità della vita umana e sappiamo anche che l’idea di un’assoluta libertà, priva di ogni condizionamento esterno, sia da considerarsi un mero paradigma. Se si pensa, infatti, ai cosiddetti drughi, personaggi principali di Arancia meccanica e componenti della banda violenta che si pone al di là della legge compiendo atti inauditi, si comprende come l’essere umano, anche laddove contravvenga alle regole, se ne crei in qualche modo delle proprie, attraverso un processo di autoregolazione personale, che nel caso della banda coincide con il male. 

Ma il personaggio che più colpisce è quello del capo dei drughi, Alex, il cui nome già la dice lunga sulla sua personalità, che sia casuale o meno, se si prova a dividere l’iniziale dal resto del nome, verrà fuori A-lex e considerando la lettera “A” come un’alfa privativa, viene fuori questo: A = senza LEX=legge. Alex è, di fatto, il protagonista dell’opera e il suo comportamento rispecchia pienamente la concezione platonica della libertà basata sulla conoscenza del bene e del male e sulla scelta dell’uno piuttosto che dell’altro:

 «non sarà un demone a scegliere voi, ma sarete voi a scegliere il demone. […] La responsabilità è di chi sceglie […]» (Platone, La Repubblica, 617e).

Così come Platone ci porta nella sfera della libertà di scelta tra il bene e il male, anche il personaggio di Alex risulta molto ben caratterizzato da questo punto di vista: egli non è, infatti, un semplice teppista come gli altri, egli è la mente cosciente della banda; tutti gli altri compiono il male spinti dal carisma di Alex e in quanto figli di una società malata, lui invece compie il male scientemente, poiché le sue azioni si basano proprio sulla conoscenza della dicotomia bene/male e sulla scelta di compiere quest’ultimo. 

Alex è infatti l’incarnazione della dicotomia stessa, in quanto è un ragazzo molto colto, appassionato di opera, di Beethoven, sa benissimo cosa sia la bellezza, tuttavia sceglie deliberatamente di perseguire atti di estrema violenza, cosciente delle implicazioni negative della stessa, senza però interessarsene. La differenza fondamentale con gli altri componenti della banda è che questi compiono il male a fini materialistici e per porsi in antitesi con la legge; Alex, invece, sceglie la via della violenza per puro piacere personale, la sua si può considerare una sorta di “estetica del male”, in cui egli sfoga la sua personalità duale privandola da ogni inibizione.

Questo personaggio, nonostante sia consapevole di essere inserito in una società, si comporta come un essere umano in uno stato ancora primordiale, il cosiddetto “stato di natura”, ossia quella condizione nella quale l’uomo non è ancora inserito in una società e dunque dà sfogo alle sue pulsioni primarie compiendo anche il male. Ma come si comporta lo Stato nei confronti di tali atti di violenza? L’intento dell’autore e del regista di Arancia meccanica è quello di denunciare uno Stato che privilegia la via del lavaggio del cervello, rappresentato emblematicamente dal cosiddetto trattamento sperimentale Ludovico, che più che una cura rappresenta una vera e propria tortura atta a distruggere la violenza di Alex, per far sì che egli si trasformi in una sorta di automa congeniale alla società in cui è inserito. 

Ed è proprio il finale del film a rappresentare pienamente la naturale inclinazione dell’istinto umano: mentre Burgess nel libro preferisce un finale in cui Alex alienando pienamente se stesso allo Stato, si ricolloca pacificamente nella società, redento dalla violenza compiuta in passato, Kubrick fa decisamente di meglio! La scena con cui si chiude il film fa capire che la redenzione di Alex è solo apparente, poiché rimane latente nel suo inconscio la sua tendenza alla sregolatezza, a dimostrazione del fatto che le pulsioni umane non possono essere soppresse, poiché restano latenti nell’uomo che, come il protagonista del film, continua a proiettare nella sua mente tutte le sue perversioni. Dunque Alex rimane di fatto se stesso, incarnando un moderno Dioniso nietzscheano. 

 

Federica Parisi

 

[immagine tratta da un fermo immagine del film di Kubrick]

banner-riviste-2023-aprile                                                                                                                                          

 

Estetismo ed estetica del quotidiano in “La dolce vita”

Tentare di spiegare La dolce vita equivarrebbe a un’operazione almeno in qualche misura impropria: si tratta infatti di una pellicola che più di altre rinuncia a enucleare concetti, per proporre invece rappresentazioni sensibili di un vissuto. Con questa consapevolezza si possono rileggere alcune caratteristiche di un film la cui ampia celebrità ha talvolta offuscato l’indagine espressiva felliniana.

La dolce vita non si azzarda a proporre definizioni della vita, ma tanto più efficacemente la esibisce in quanto ne cristallizza i momenti in cui più intensamente se ne avverte il sentimento: il desiderio giocoso di una ingenua bellezza hollywoodiana, gli amori senza impegno, i divertimenti di una nobiltà vacua sono la straordinaria routine del giornalista Marcello Rubini. A una lettura ingenua verrebbe spontaneo riferire la dolcezza della vita cui accenna il titolo del film all’eccezionalità delle esperienze di cui si è spettatori, quasi simboli di una vita eletta o forzata a elevarsi a opera d’arte. Al contrario, è la ricerca di un’integrale autenticità che riesce a costituire il tessuto lirico della vicenda: lontano da estetismi rutilanti, La dolce vita pone in questione, prendendone ironicamente le distanze, l’impressione di una bellezza “grande” e artefatta.

Di fianco allo splendore di una vita votata all’eccezionalità, irrompono sulla scena figure appartenenti al sostrato quotidiano dell’esperienza esistenziale di Marcello. Così, trovano spazio il grottesco di un padre che non fornisce alcun punto di riferimento, la simpatia del tutto ordinaria di una giovane cameriera (Paolina), l’apprensione prosaica di una fidanzata delusa ma morbosamente legata al protagonista. La funzione comunicativa di queste immagini è quella di mettere in discussione il paradigma di vita proposto dalla fantasmagoria estetizzante del mondo dello spettacolo e dell’élite cui Marcello assiste in qualità di giornalista: ovvero da osservatore, in quanto tale solo parzialmente partecipe, di un mondo che si esaurisce nella propria spettacolarità.   

A tutto ciò fa da contraltare il personaggio di Steiner. Intellettuale rigoroso, egli è, significativamente, l’unico di cui conosciamo la famiglia e la casa, elementi della cui assenza Marcello – figlio di un padre assente e incapace di formare una propria famiglia con Emma – sembra soffrire; Steiner è il solo a indicare un’alternativa coerente all’erratica esistenza di Marcello. Su suo esempio il protagonista aspira all’approfondimento intellettuale in luogo della scrittura giornalistica, che assurge a metafora di un’esperienza esistenziale frammentaria. È proprio il ritrovamento di un’estetica, cioè di una teleologia e di uno scopo nella quotidianità che viene a mancare nel vissuto di Marcello, lacerato com’è dalle tensioni effimere di una vita “giornalistica” in quanto compresa nell’accadere di un singolo giorno. All’estetismo giornalistico si oppone così l’interrogativo su un’estetica del quotidiano: è possibile sentire la dolcezza in ciò che della vita costituisce l’usuale, o persino lo scontato?  

La morte di Steiner segnerà la chiusura di un percorso mai intrapreso: Marcello, ormai definitivamente dedito all’istantaneità senza significato della mondanità, si perde in un circo dove tutto è ridicola parodia del bello. La celebre sequenza finale vede la giovane Paolina rivolgersi a Marcello, reduce da una mascherata di eccessi e bagordi. E tuttavia la voce di Paolina non giunge al protagonista, ormai distanziato nel non-comunicabile, sordo a se stesso e a un reale del tutto spiazzante. Il motivo sotteso alla sequenza finale può essere valorizzato dalle parole dello stesso Fellini:

«ho sempre detto che […] il titolo del film non aveva nessuna intenzione moralistica o denigratoria, voleva soltanto dire che nonostante tutto la vita aveva una sua dolcezza profonda, irrinegabile»1.

La chiosa del regista a La dolce vita è solo in apparenza disimpegnata. L’opera di Fellini appare mossa da un intento più umile e nel contempo più sottile di quello di spiegare la parabola di Marcello attraverso una critica propriamente sociale: a Fellini non interessa cioè denunciare la colpevolezza etica o l’ingiustizia politica di una determinata categoria. Se vi è un’attitudine critica rispetto ai bizzarri costumi delle élites dello spettacolo raffigurate nel film, essa non va ricercata tanto in una condanna morale, quanto piuttosto nella problematizzazione del valore della loro esperienza estetica, nevroticamente tesa fra il fitto succedersi di eventi singolari e la dimenticanza di sé. Fellini si chiede dunque se vi sia e dove sia una “dolcezza” nella vita, e si pone perciò l’obiettivo di descrivere in Marcello una condizione che rifletta la ricerca di questo sentimento del bello, insieme alla crisi che tale ricerca implica. La soluzione di questi interrogativi si rivelerà solo parzialmente positiva: è infatti con l’immagine del volto rasserenante della giovane Paolina, ma non con il suono delle sue parole, che Fellini chiude la sua rappresentazione di una vita e di un senso non còlti.

 

Marco Collatuzzo

 

Marco Collatuzzo studia filologia, letteratura e tradizione classica all’Università di Bologna, ed è allievo del Collegio Superiore istituito presso la medesima Università. Si interessa prevalentemente di storia della filosofia antica, letteratura greca ed estetica antica e moderna. Attraverso quest’ultimo àmbito di studio si avvicina a un più generale approfondimento della critica teorico-letteraria e alla cinematografia. 

 

NOTE:
1. G. Grazzini (a cura di), Fellini. Intervista sul cinema, Roma-Bari 1983, p. 108.

[In copertina un fotogramma del film]

Riflessioni sulla relatività del bello

Quando si pensa al concetto di bello, la prima domanda che viene da porsi è quella sulla diversità dei gusti e se esista o meno quello che i greci definivano to kalón, il bello assoluto.
Le esperienze estetiche provengono non solo dall’arte, ma anche dalla quotidianità – come tutte le volte che esprimiamo giudizi osservando semplicemente una persona, un oggetto o un fenomeno naturale – facendo sì che l’apprezzamento o la delusione diventino l’unico strumento di misura dell’esperienza appena fruita.

Ma quale parametro viene utilizzato affinché un giudizio di gusto possa ambire a divenire universalmente condiviso? E soprattutto, esiste davvero un modello perfetto di bellezza? Un’idea di bello platonico?
Se si pensa all’essere umano e al suo modo di giudicare i fenomeni, comprendiamo come egli si basi su un determinato modello di bellezza, che viene posto come ideale, per poi categorizzare oggetti e persone in base ad esso, fermo restando che tale idealizzazione sia inevitabilmente condizionata dalla cultura e dalla società. Esempi interessanti ci vengono dal mondo artistico, che per eccellenza risulta essere la culla delle esperienze estetiche: quando, ad esempio, a Parigi nel 1874 si tenne la prima esposizione delle nuove opere impressioniste, i fruitori la considerarono un’azione eversiva che poco aveva a che fare con le loro abitudini artistiche.
Come sappiamo, la pittura impressionista prendeva le distanze dal classicismo – e da quelle forme ideali e canoniche di bellezza – traendo spunto dal romanticismo e dal realismo che propendevano verso l’assoluta libertà dell’artista di esprimere le proprie emozioni.

L’arte rimanda a sua volta ad un altro tema concernente il giudizio estetico: il cambiamento nel corso dei secoli dei canoni di bellezza. Basti pensare a come si sia modificata nel tempo la visione del corpo di donna, che nelle rappresentazioni antiche veniva esaltato nella rotondità e generosità delle forme. Se oggi si pensa ad una donna “perfetta” non la si identificherà certo con la Venere del Botticelli o con la Maya desnuda di Goya, e questo perché sono visibilmente mutati i gusti della società e collettività. Il che porta a pensare alla labilità dei modelli che oggi i più inseguono per potersi omologare a ciò che viene ritenuto appunto “bello”.

Si pensi alle tendenze del momento dettate dai social network, in particolare da Instagram, e a quanto queste influenzino il gusto a livello universale, muovendo verso l’uniformazione delle personalità. Lo stesso accade anche per parte della musica di oggi, che tenta di cavalcare l’onda delle tendenze del momento. Tali brani musicali vengono chiaramente considerati “belli”, non perché lo siano realmente, ma per ciò che rappresentano all’interno della società, facendo appunto sentire i giovani più omologati. Lo stesso accade nel mondo dell’arte, in particolare quando si parla di mostre d’arte contemporanea o performativa, che espongono il più delle volte opere non propriamente belle ma ricche di concettualità; ed è proprio in favore di questa che molti considerano “belle” opere che di fatto non posseggono tale caratteristica.

Riflettendo su quanto detto, si è portati a pensare che il giudizio estetico collettivo si formi a partire da idealizzazioni primariamente soggettive, in quanto è necessario riconoscere la soggettività del gusto e dunque la sua relatività, cosa che ci potrebbe portare ad affermare che in qualche modo esista una sorta di “idea del bello” – che a differenza di quella platonica non si troverebbe in una dimensione iperuranica ma sarebbe frutto del gusto umano basato su esperienze fenomeniche. Contemporaneamente, ci si rende conto di quanto tali posizioni particolari, essendo solitamente influenzate da fattori esterni, vadano a formare un tipo di giudizio che potremmo definire universale.
Tuttavia, potremmo chiederci se tale universalizzazione di un determinato giudizio estetico conduca ad una definizione univoca e realistica di ciò che è bello. Secondo la famosa prospettiva di Kant ne La critica del giudizio (1790), i giudizi, per essere condivisi intersoggettivamente, non devono essere fondati su concetti ma devono svincolarsene.

Possiamo quindi affermare che il concetto di “bello” (ugualmente a quello di “brutto”) sia essenzialmente ambiguo, relativo e assolutamente mutevole nel tempo; ciò porta a concludere che tali concetti, non essendo liberi da condizionamenti esterni, rientrino nel campo del gusto personale, e che, come qualsiasi opinione, non stiano nella verità assoluta. Per questo, anche laddove venissero espressi giudizi di gusto negativi rispetto ad un qualsiasi fenomeno, persona, oggetto, opera d’arte è necessario ricordare che molto probabilmente un giorno ciò che attualmente viene considerato in un determinato modo potrebbe venir considerato nel modo opposto, a dimostrazione del fatto che non esistano il bello e il brutto assoluti.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit Erol Ahmed via Unsplash]

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L’arte nell’uomo o l’uomo nell’arte? L’esperienza del Museo del Cinema di Torino

Il buio, poi subito un gioco di immagini che scorrono in diversi schermi, una serie di poltrone dove potersi sdraiare ed ammirare il panorama scenografico allestito, un ascensore sospeso da mozzare il fiato: si tratta del museo del Cinema di Torino, che trova spazio all’interno della storica Mole Antonelliana, monumento simbolo della città sabauda. Un museo che racconta, attraverso le sue sale, la storia del cinema: dalla nascita della camera ottica fino ai giorni nostri, scorrendo decenni di sperimentazione ed evoluzione. Alle prime stanze, dedicate ai giochi ottici così come alle diverse tipologie di camere oscure, ne seguono altre che omaggiano i primi cortometraggi e lungometraggi, nonché gli studi che hanno portato allo sviluppo delle tecniche cinematografiche moderne. Infine, dopo un ricco passaggio tra l’antichità e i suoi modelli, si apre al secondo piano l’immensa sala sviluppata tutta in altezza, che offre al visitatore un panorama disorientante, quasi si trovasse in un’altra realtà. Nulla lo riconduce al prototipo del museo classico: non lo spazio, che di fatto ricalca la struttura della Mole, non le poltrone-sdraio che ricordano piuttosto una sala relax, o un cinema moderno, non l’esposizione, che invece di svilupparsi in stanze, percorre in altezza una spirale ascendente, sospesa nel vuoto. Insomma, un trionfo di arte e allestimento, che colpisce anche il soggetto più distratto.

Ma cosa contraddistingue questo museo da quelli di impostazione più classica? Come mai dopo alcune ore trascorse all’interno del monumento, chi vi esce rimane impressionato dalla struttura e dall’esposizione? Di fatto una caratteristica peculiare emerge in questo piuttosto che in altri musei simili: ovvero il grado di interazione e di partecipazione che avvicina l’uomo all’arte, l’osservatore all’oggetto osservato. Nel caso del Museo del Cinema di Torino, infatti, ogni sala lascia la possibilità di provare, di interagire con gli oggetti, così come di sentirsi parte dell’allestimento. In un certo senso, chi vi entra e passeggia tra le opere, non è un mero spettatore, ma diventa anche lui astronauta come in Star Wars, piccolo chimico in un laboratorio o studioso di fotografia. La possibilità di prendere parte, anche per poco, al mondo che lo circonda, rende l’esperienza molto più significativa e allo stesso tempo memorizzabile dal soggetto. Facilitano questa immersione la costruzione di spazi ad hoc, con oggetti tridimensionali che li riempiono in tutte le loro parti.

Consideriamo, ad esempio, l’idea di inserire delle comode poltrone nella sala principale: questa scelta rimanda alla struttura di un cinema vero e proprio, piuttosto che a quella di un museo del cinema. In un certo senso è come se l’intero allestimento cercasse di far dimenticare a chi osserva di trovarsi in un museo e invece lo spingesse a sentirsi coincidente con ciò che viene osservato. Forse questo aspetto è stato particolarmente curato nell’allestimento proprio perché si tratta di un museo dedicato al cinema che, come osservava il filosofo Deleuze, abolisce la differenza con la realtà, perché entrambi sono costituiti di immagini che senza posa agiscono e reagiscono reciprocamente1. Non esiste dunque distinzione tra illusione e realtà, tra vero e costruito, ma in qualche modo chiunque entra a far parte della costruzione, almeno per qualche ora.

Insomma, per dirla con Oscar Wilde «l’arte trova la propria perfezione in se stessa e non al di fuori. […] Essa è un velo piuttosto che uno specchio, sono sue le forme più vere che il vero», quindi è necessario entrare davvero al suo interno per poterla comprendere, per poterne percepire le caratteristiche, le sfumature e lasciare che si immerga nella nostra memoria.

 

Anna Tieppo

 

NOTE
1. A. Costa, Saper Vedere il Cinema, Bompiani, Milano, 2011, p.41.

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Il sapere critico della filosofia per parlare di cinema: intervista a Enrico Magrelli

I cineasti, sosteneva Gilles Deleuze, «sono paragonabili a pensatori, più che ad artisti. Essi pensano, infatti, con immagini-movimento e con immagini-tempo, invece che con concetti». Il collegamento tra cinema e filosofia è antico e negli ultimi anni sempre più fertile; abbiamo deciso di approfondirlo tra le suggestive mura in mattoni di un cinema berlinese ricavato da un ex birrificio insieme a Enrico Magrelli, direttore artistico dell’Italian Film Festival di Berlino. Magrelli, uno dei volti e delle voci più note della critica cinematografica italiana, fattosi conoscere al grande pubblico attraverso i suoi articoli su riviste (Filmcritica, Cienma e Cinema, Cineforum) e sui quotidiani del gruppo L’Espresso e il programma radiofonico Hollywood Party, è infatti laureato in filosofia in indirizzo estetico alla Sapienza di Roma; una passione che ha lasciato segni profondi nel suo modo di parlare di cinema.

 

In che modo lo studio della filosofia l’ha aiutata nella sua carriera di critico cinematografico?

Credo sia stato utile soprattutto l’allenamento a ragionare, a smontare e ricomporre le idee e i giudizi, la capacità di mettersi in una posizione dialettica. Da studente ho fatto diversi esami con Emilio Garroni, che si è occupato molto di Kant. Ecco: avere un approccio critico nei confronti delle categorie concettuali con cui interpretiamo la realtà, in modo tale da saperle anche rinnovare, è fondamentale per parlare di cinema.

 

Da sempre la filosofia si è interessata al cinema, negli ultimi anni con particolare intensità. Sempre più filosofi ricorrono a film anche popolari per illustrare le proprie teorie (l’esempio più eclatante in questo senso è probabilmente Slavoj Žižek). Ritiene questo metodo interessante o crede che una lettura “filosofica” finisca per snaturare il cinema imponendogli categorie che non gli appartengono?

Ritengo che siano un processo e una tendenza molto interessanti. Del resto, come la filosofia è una disciplina che ragiona, tra l’altro, sul sapere, sulle forme simboliche sul pensiero stesso, sul come e sul perché stiamo al mondo, così il cinema è un dispositivo attraverso il quale le varie culture si autorappresentano e in tal modo si interrogano su loro stesse.  I film sono, talvolta, oggettivazioni del pensare o addirittura, nei casi migliori, modalità del pensare. Cinema e filosofia sono accomunati dal tentativo di ragionare su ciò che è invisibile, che non riusciamo a cogliere, per renderlo visibile, accessibile, comprensibile, decrittabile. Perciò credo che interpretazioni filosofiche siano del tutto legittime; di sicuro alcuni film evocano determinate teorie, pur senza spiegarle.

 

Se i filosofi si sono da subito dedicati al cinema, tale interesse non pare del tutto ricambiato. Certo ci sono stati film su alcuni grandi pensatori (Liliana Cavani su Nietzsche, Rossellini su Cartesio ecc…), ma paiono fenomeni isolati. Come mai i registi non sembrano attingere spesso a fonti filosofiche?

È normale, il regista fa il regista, che è un altro mestiere. Ci sono poi autori che si occupano direttamente di filosofia, come Terrence Malick, che ha anche tradotto Heidegger. Ma questo non sempre è un bene. Malick ad esempio, soprattutto negli ultimi film, rischia di sovraccariche troppo di senso le sue opere fino a svuotarle. A mio parere il buon cinema, quello che ha poi un contatto più forte con la filosofia, è capace di portare il pubblico a mettersi in discussione, a porre delle domande anziché offrirgli delle risposte.
Se poi i registi non si rivolgono spesso a testi filosofici è anche perché non mi pare che la filosofia sia in una fase particolarmente vitale.

 

Se, come ha suggerito, il cinema spesso non offre risposte, qual è il ruolo del critico?

Lo sforzo dovrebbe essere quello di sintonizzarsi ogni volta con il film che si sta vedendo, evitando di servirsi sempre della stessa gabbia concettuale. Bisogna saper mettere in crisi alcuni “pregiudizi” e rinnovare le proprie griglie interpretative; imparare, ad ogni film, a vedere di nuovo.
Altro elemento fondamentale è avere una profonda conoscenza del cinema. Spesso quando ho occasione di tenere seminari dedicata alla critica consiglio, soprattutto ai più giovani, di vedere tutti i film possibili. Perché solo così si può imparare a padroneggiare il linguaggio cinematografico, in modo da saper cogliere elementi innovativi, cogliere il rispetto o la trasgressione di uno standard narrativo e riconoscere, nelle citazioni, i prestiti, i debiti, gli omaggi nei confronti di altri film.  Solo una ampia memoria cinematografica aiuta a definire le evoluzioni, i collassi o le regressioni estetiche.

 

Nella critica, italiana in particolar modo, trovo però che ci sia sempre meno uno sforzo di interpretazione dei film. È d’accordo? E come mai succede?

Assolutamente d’accordo. Il discorso critico, di cui ci sarebbe un bisogno assoluto, si è indebolito, inflaccidito. Oggi spesso la critica sfocia nella cronaca, diventa solo racconto della trama, si cristallizza in giudizi da senso comune. O, peggio, il critico diventa una sorta di tifoso. Sarebbe auspicabile una critica della ragion critica nell’era contemporanea.
 

Come diceva, lo sviluppo tecnologico (ad esempio piattaforme come Netflix, lo streaming, i social) ha provocato profondi mutamenti nel cinema. Secondo lei si tratta più di un rischio o di un’opportunità?

Il cinema non è mai stato qualcosa di solido, con dei confini ben definiti, ma ha avuto decine e decine di metamorfosi e tutte le volte sembrava dovesse finire. Quando è arrivato il sonoro molti pensavano “Aiuto, è finita”. E così sé accaduto con l’arrivo del colore. Oggi siamo di fronte a una nuova trasformazione, una polverizzazione del cinema: il film si divide in più pezzi, frammenti, frattali che si trovano sul web, si può interrompere una visione e riprenderla giorni dopo, si può veder non in sala ma sullo schermo minuscolo dello smartphone (una vera e propria perversione dello sguardo). È una galassia in cui stanno cambiando i parametri e i confini ma questo non è per forza negativo. Come dicevo prima, bisognerebbe sforzarsi di ridefinire alcune categorie. Il cinema ha però anche grande vitalità, capacità di reinventarsi. Basti pensare al recente sviluppo delle serie televisive, che di fatto attualizza quel desiderio di narrazione tipico dei romanzi a puntate dell’Ottocento e di una parte del cinema muto.

 

Veniamo ora al contesto di questa intervista, ossia l’Italian Film Festival di Berlino, che presenta al pubblico tedesco una selezione dei migliori film italiani dell’anno precedente. Come sta il cinema italiano oggi?

Molto bene, c’è una grande vitalità e tanti giovani autori riscoprono il piacere di connettersi con il pubblico. Spesso c’è comunque un problema nel numero degli spettatori in sala, anche perché la figura stessa dello spettatore sta subendo una mutazione profonda. Fino a vent’anni fa il cinema era un modo privilegiato per passare il tempo libero ma soprattutto fare i conti con il mondo esterno. Ora lo stato delle cose è radicalmente diverso.

 

A questo proposito credo che la mia generazione, e ancor di più quella successiva, crescendo più con Netflix che con la televisione possa acquisire un gusto della visione diverso. Forse migliore?

Forse hai ragione, anche se una cosa che spesso manca su queste piattaforme, e che invece sulla tv resiste, con una certa fatica, sono i film del passato. Noto che spesso le nuove generazioni non sono abituate a certi ritmi, vedere un film in bianco e nero sembra quasi una pratica archeologica. Ma questo è in realtà un esercizio molto utile, soprattutto per il critico. Bisogna saper vedere anche film che si trovano noiosi. Anzi, in questi casi è più facile evitare di sprofondare nel film e si possono rintracciare meglio i temi affrontati, lo stile della messa in scena, l’architettura formale.

 

Chiudiamo con una domanda che facciamo a tutti i nostri ospiti: cos’è per lei filosofia?

Una capacità di interpretare la realtà non chiudendola in una gabbia dorata preesistente ma riuscendo a sollecitarla, pronti a modificare le proprie categorie a seconda di ciò che si ha di fronte. Una rigorosa flessibilità quotidiana. Un esercizio di interpretazione complesso, che è quello che dovrebbe fare anche la buona critica cinematografica. E che oggi ci servirebbe molto.

 

Lorenzo Gineprini

 

[Photo credits Lilia Andreotti]

Enten-Eller: Dialogo edificante tra un uomo etico e l’amico esteta

È il 20 febbraio 1843 quando a Copenaghen viene data alle stampe Enten-Eller – da noi conosciuta come Aut-Aut –, opera in due volumi, nella versione originale, concepita in soli nove mesi (è lo stesso Kierkegaard a ricordare: «ce l’avevo tutta in mente»). È uno scritto intreccio di più identità e personaggi, in cui il filosofo danese non compare come editore né come autore: questi infatti corrisponde al fittizio Victor Eremita.

Victor racconta la genesi di questa opera, la scoperta di alcune carte, ritrovate casualmente in un secrétaire acquistato presso la bottega di un rigatterie, nella capitale danese. Rinvenuti questi misteriosi scritti, lui decide di dividerli in due gruppi, riconducendoli a due autori differenti che decide di chiamare e B. Deve essere stata un’opera di divisione piuttosto facile: tali carte si presentano infatti ben diverse tra loro. Innanzitutto per la grafia (ricercata ed elegante quella riconducibile all’autore A, piana, uniforme, chiara quella di B), poi per il supporto cartaceo (carta velina raffinata per e pergamena solida per B) e infine per il contenuto (abbozzi di concezioni estetiche della vita in e due lunghe lettere di scritte per convertire l’esteta alla scelta di vita etica).

La prima parte dell’opera raccoglie le carte di A, l’esteta, la seconda le carte di B, l’uomo etico, il giudice in pensione Wilhelm. Ciascuno dei due è chiamato a difendere strenuamente una scelta di vita. La prima, edonistica, improntata sulla vita mondana, sul piacere, sull’indifferenza nei confronti dei princìpi e dei valori morali; l’altra basata sul dovere etico e sulla responsabilità.

vive esteticamente facendo del piacere il fine della propria esistenza, volatilizzandosi in molteplici forme di vita tra frammentarietà, dispersione e immediatezza. L’etica, al contrario, è riflessione, costanza, impegno, la dimensione che pone a proprio fondamento la libertà e la fatica della costruzione di ogni rapporto. Il fine di è quello di produrre un’armonia nell’anima, sviluppando compiutamente il proprio carattere. Wilhelm infatti afferma che quando un uomo sviluppa in sé la propria versione migliore, sviluppa la propria bellezza, la propria perfezione.

Nel saggio L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità, che compare tra le carte di B, Wilhelm scrive una missiva ad A, nell’intento di persuaderlo a cambiare il proprio stile di vita. Per B, esteta è chiunque faccia del principio-piacere del godimento il telos della propria esistenza, nonostante sia possibile essere esteti in modi assai diversi tra loro: c’è chi gode della propria salute, della propria bellezza, del proprio talento e chi cerca il godimento nell’accumulo di ricchezze, negli onori, e anche di chi gode della propria disperazione.

«Ogni essere umano […] ha un naturale bisogno di darsi una concezione della vita, una rappresentazione del significato della vita e dello scopo di questa. Anche colui che vive esteticamente fa così […]. Ora per grandi che possano essere le differenze all’interno dell’estetico, tutti gli stadi hanno parole in essenziale analogia che lo spirito non è determinato come spirito ma immediatamente determinato. […] La personalità è immediatamente determinata non spiritualmente, ma fisicamente»1.

delinea una fenomenologia dell’estetico (focus di questo articolo) che si caratterizza per due chiari punti fermi: l’immediatezza e l’esteriorità. La prima in quanto ciò per cui l’esteta vive (la bellezza ad esempio) è ciò per cui egli è immediatamente ciò che è. L’esteriorità, invece, perché l’esteta fa dipendere, tout court, il significato della propria vita da una condizione che è o esterna (per esempio riponendo il significato della propria vita nella ricchezza o negli onori) oppure è nell’individuo stesso ma in modo tale da non essere stato posto da lui stesso (come per esempio il talento). Wilhelm chiarisce il rapporto tra estetica e disperazione: ogni esteta è disperato in quanto ha edificato il significato della propria vita su qualcosa di caduco, effimero. È la disperazione di chi, avendo indirizzato ogni interesse a un bene determinato, una volta venuta meno la condizione del proprio godimento si sente perduto e dispera. L’esteta che gode della propria disperazione ha sempre saputo quanto fosse labile la bellezza, caduco il talento, effimera la ricchezza. Questa forma di disperazione non è, però, così profonda da spingerlo a trascendere quel finito di cui avverte il disperante limite: e questo perché tale disperazione è solo nel pensiero e non investe la personalità nella sua interezza. Ciò che non consente all’amico esteta di disperare veramente è, secondo B, la mancanza di passione: la sua incapacità di volere veramente blocca il movimento della disperazione (in quanto non la sceglie fino in fondo).

riattualizza così la figura di Nerone il quale, pur avendo a disposizione tutto ciò che permette di soddisfare ogni desiderio, sente la vanità a tal punto da chiedere ai cortigiani di inventare sempre nuovi piaceri (che riescono a placare, pur momentaneamente, l’angoscia che attanaglia il suo spirito). Egli però non partorisce mai se stesso, perché non sceglie la disperazione: soltanto l’individuo che versa nella disperazione può partorire se stesso (passando così dalla passività all’attività). Solo così, infatti, si troverebbe costretto ad accettare una risalita, un’ascesa, agguantando se stesso nel proprio eterno valore. Wilhelm però avverte che se l’esteta giungesse a questo punto, scoprendo così se stesso, diverrebbe uomo etico: per B, infatti, l’etica è la scelta di se stessi nel proprio eterno valore. L’etica è così la decisione di decidere, la volontà di volere, la scelta di scegliere. L’etica comporta un divenire, un punto di partenza e di approdo. Ciò che permette questo percorso è, come in Kant, la libertà che viene presupposta. Nel divenire, l’uomo etico passa dall’individuo immediato (che è tale per fattori contingenti), all’individuo così come dev’essere (il suo sé ideale) e infine a ciò che tra i due presenzia, cioè la libertà (che permette il passaggio da una determinazione all’altra). L’individuo morale passa dalla realtà all’idealità esercitando la propria libertà, e il primo momento di questo processo è la conoscenza di sé. È così, in vista dell’edificante per ognuno di noi, che si chiude Enten-Eller:

«[…] Non arrestare il volo della tua anima, non contristare ciò che v’è di meglio in te, non sfibrare il tuo spirito con desideri a metà e pensieri a metà! Domandati e continua a domandare finché troverai la risposta; perché si può aver riconosciuto una cosa mille volte, si può averla legittimata nel riconoscimento, si può aver voluto una cosa molte volte, si può averla tentata, e tuttavia unicamente il profondo intimo moto, unicamente l’indescrivibile intenerirsi del cuore, questo unicamente ti convincerà che quanto hai riconosciuto ti appartiene, che nessun potere riuscirà a strapparlo via da te; perché solo la verità che edifica è verità per te»2.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE
1. S. Kierkegaard, L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità, in Enten-Eller, Adelphi, Milano, 1989, volume V°, pp. 48-50.
2. Ivi, p. 274.

[Credit kevin laminto]

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La verità della bellezza

Spesso, quando parliamo di bellezza, facciamo un errore: ci fermiamo alla sua dimensione statica. Nel giudicare una bella donna, ad esempio, consideriamo aspetti precisi come gli occhi, le labbra, i seni; ma questi elementi, visti nella loro staticità, sono sufficienti a dare un giudizio completo?

Questa domanda ha senso anche riguardo alle rappresentazioni mediatiche della bellezza: pensiamo alle pose dei modelli, che mettono in risalto alcune parti del corpo (spesso quelle erogene) ma peccano di artificiosità, tanto che il docente di semiotica Alessandro Zinna le ha definite falso dinamismo1.

Se quelle pose sono artificiose, se quel dinamismo è falso, dove possiamo trovare la verità della bellezza? Nel suo linguaggio, consiglia il filosofo Franco Bolelli2. La bellezza, infatti, non è tale secondo elementi statici, ma in relazione ai contesti: gli occhi non sono banali occhi, ma sguardi che indagano gli spazi; le labbra non sono semplici labbra, ma parti dei discorsi che le attraversano; i seni sono curve tra le curve del mondo, movimenti della realtà.

Allo stesso tempo la bellezza non si cura di coloro che la guardano: come ha scritto Roland Barthes, essa «è una sagoma intenta al lavoro»3. Quale lavoro? Quello della vita, della sua manifestazione in situazioni quotidiane, libere dalla staticità. Sembra di sentire le parole di Leonard Shelby – protagonista del film Memento di Christopher Nolan (2000) – quando ricorda la moglie, brutalmente uccisa, recuperando «frammenti che si fanno sentire anche se non vorresti»: il suo lavarsi le mani, il suo maneggiare una forchetta, il suo lasciarsi sorprendere da un raggio di sole che entra dalla finestra.05

Momenti cui solitamente non prestiamo attenzione, ma che, nel loro fondere corpi e contesti, si rivelano gravidi di bellezza. Eventi, come li definisce il fisico Carlo Rovelli; perché se il cinema, la filosofia e la semiotica non ci bastassero, entrerebbe in gioco la scienza affermando che «la migliore grammatica per pensare il mondo è quella del cambiamento, non quella della permanenza»4. Allo stesso modo, la migliore grammatica per parlare della bellezza non è quella degli occhi da cerbiatto, delle labbra carnose e dei seni prosperosi che aspettano di essere notati, ma quella di uno sguardo che, mosso dalla curiosità, incontra una fonte di luce e, come per magia, comincia a brillare.

 

Stefano Cazzaro

 

NOTE
1. A. Zinna, Unico. Eliana Lorena. A cura di Marta Carboni, 2009
2. F. Bolelli, Si fa così. 171 suggestioni su crescita ed evoluzione, Add editore, 2013
3. R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, 2014
4. C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, 2017

[Photo credit: Amy Luo via Unsplash.com]

 

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Forme di Sophia: l’incontro tra la forma e il pensiero

La luce rossastra di un tramonto di inizio primavera che mi stavo lasciando alle spalle, filtrava dal finestrino sporco del treno su cui stavo viaggiando, di ritorno dal Salone del Mobile a Milano. L’ennesimo Salone. L’ennesima Milano, maestri entrambi a vestire benissimo il vuoto. Se c’è una sensazione che ho sempre amato, è quel senso vibrante di ebbra sazietà di bellezza che si prova in seguito a esperienze d’arte, siano esse luoghi, mostre, incontri. Bene, quella sera, in quel treno, percepii un senso di vuoto profondo, inevadibile. Mi sentivo impotente di fronte alla sfrontata degenerazione di un Segno che aveva completamente perso il suo valore classico, la sua responsabilità nel farsi portatore di funzione, conoscenza e di armonia. Un segno che era diventato volgare, svuotato di senso, e dunque di valore.

Il movimento grazie al quale le persone avevano sempre seguito le evoluzioni delle forme, ammirato l’innovazione delle geometrie degli oggetti plasmati da grandi menti ancor prima che grandi mani, sembrava essersi inesorabilmente invertito, e ciò che vedevo era un’industria ormai deprivata di identità e dignità, seguire servilmente il gusto (o l’assenza di esso) di mercati emergenti ricchi di denaro ma non di cultura etica ed estetica per spenderlo bene.

In quel viaggio ebbi una mia personale illuminazione, e decisi su quella poltrona polverosa che volevo nel mio piccolo restituire al design la coscienza della materia. E il pensiero alla forma.

Cominciai così ad immaginare proiettati sul vetro, mentre il paesaggio scorreva veloce tra le campagne emiliano-lombarde, oggetti dotati di una mente e un corpo. Del resto già Cicerone asseriva che l’etica sta all’estetica come l’anima al corpo, ed io volevo riappropriarmi di quella classicità che sapevo scorrermi storicamente nel sangue, e che sentivo tradita dal design odierno. Stiamo dimenticando che la nostra cultura affonda le sue radici in un passato che risale all’antica Grecia e agli ideali etici della classicità.

Dovevo solo REIMPARARE a fondere insieme questi due elementi miliari: Etica e Estetica

Utopia quindi? Pensare che le persone potessero scegliere un oggetto anche per la valenza concettuale e filosofica e infine poetica oltre che quella estetica e funzionale? Forse.

Ma io conoscevo la sorella minore di Utopia: Eutopia.

Ossia la pulsione verso il luogo migliore possibile. Un luogo esistente dunque, al contrario del luogo utopico.

E così ho fatto, non ho guardato mai in alto per non vedere la vetta della montagna perdersi tra il denso bianco delle nuvole, ed ho concentrato piuttosto lo sguardo su ognuno dei miei singoli, ma volitivi passi.

Non scelsi di creare librerie di design, esse nacquero spontaneamente, come se fossero proprio i libri quel luogo “possibile”. I libri avrebbero rappresentato la mia Eutopia, e creare dunque un contenitore all’altezza del contenuto. Custodire, contenere e proteggere, ma soprattutto celebrare quei piccoli oggetti portatori di conoscenza, era l’intento fondante delle Forme di Sophia. La libreria era l’oggetto che meglio poteva farsi portatrice di “significato”.

Già dalle prime opere ho attinto a piene mani dal mare magnum delle nozioni dei sistemi euclidei, dall’etica geometrica aristotelica e ancora dalle proporzioni auree e gli studi sui rapporti di Fibonacci.

Mi accorsi che stavo creando vere e proprie sculture con una funzione, le quali trovavano il loro senso solo se capaci di comunicare conoscenza. Monumenti domestici, dunque, dal latino monere, ossia ammonire, avvertire, rendere coscienti, capaci di trasmettere un messaggio potente che potesse elevarsi esso stesso ad opera d’arte e raggiungere e commuovere e far vibrare le corde interiori dell’osservatore. La scultura era soltanto un tramite, mentre la trasmissione del pensiero che vi soggiace era il vero scopo dell’eutopia delle Forme di Sophia. Non esiste geometria senza filosofia.

Non esiste materia senza pensiero.

Esiste la geometria del pensiero.

Mi imposi che ogni progetto lavorasse per l’etica, in una sorta di auto-giuramento di Ippocrate. E presi questo giuramento nell’unico modo in cui credo si debba prendere un giuramento: seriamente. Artisticamente.

Capii in quel periodo la potenza insita nella Filosofia. In quanto essa lavora sull’uomo, il quale arriva ben prima del professionista. E quest’ultimo può solo guadagnarne, insieme la mondo nel quale esso opera.

Ora, dal 2010, produco quelle che amo definire Sculture-librerie, che vendo in tutto il mondo grazie a internet e a poche ma coraggiose gallerie di design che sposano la mia visione, e soprattutto la mia fiducia nelle persone. In quelle persone che scelgono le opere delle Forme di Sophia perché le sentono come oggetti Pieni. Ove per “pieno”, intendo qualsiasi opera umana sia essa un piatto di pasta, un palazzo, un ponte, un quadro, un bicchiere, una sedia, un vino, plasmati da un pensiero profondo, una visione, una filosofia precisa del loro creatore. Ed evidenziare così una differenza che a mio parere esiste ancora tra Design e Moda, tra Durata ed Effimero.

Per quanto mi riguarda, ognuna delle librerie che disegno e realizzo artigianalmente sono un simbolo materico concepito per dare forma alle parole, frasi, pagine e riflessioni incontrate nei libri che ho amato, e che hanno trasformato la mia persona, e la mia vita. E in esse auspico possa resistere e pulsare ancora l’energia di quel cambiamento, e inondare l’anima e gli occhi di coloro che vi si troveranno dinnanzi.

Perché se è vero che questa “utopia” è diventata un lavoro, nonostante si affermi quotidianamente che siamo un paese che non legge, significa evidentemente che quella esigua comunità di lettori italiani, i libri li amano davvero, ed amano tutto ciò orbita intorno ad essi.

Sono oggi profondamente grato per aver fatto vincere, almeno temporaneamente, una scommessa che sulla carta, era perdente da tutti i punti di vista. Una scommessa apparentemente personale, ma in realtà profondamente collettiva.

Forme di Sophia è una Forma di Resistenza.

 

Andrea Riccò

Sono l’ideatore di Forme di Sophia – Design Filosoficoun progetto che ha visto la luce dopo svariati anni di intima decantazione, durante i quali la vita scorreva apparentemente lineare al di fuori, mentre una lenta ma inesorabile mutazione stava maturando nel suo interno. Trascorrevo il giorno a lavorare nella banca presso la quale operavo allora, e la notte sui libri a studiare Filosofia, mosso da una determinazione inscalfibile, certo che quello studio matto e disperatissimo, mi avrebbe condotto in un altrove di cui non avevo alcuna coordinata, ma che sentivo di voler perseguire con tutto me stesso.

 

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L’estetica di Pavel Florenskij: il ferro, il cartone e la calamita

La notte tra il 7 e l’8 dicembre di circa ottant’anni fa, dopo un viaggio estenuante di mare e di terra proveniente dalle isole Solovki (nel Mar Bianco), in uno scantinato nei pressi di Leningrado (l’odierna san Pietroburgo), veniva fucilato Pavel Florenskij (1882-1937).

Chi fu Pavel Aleksandrovič Florenskij, oltre che una delle migliaia e migliaia di vittime del delirio rivoluzionario bolscevico? Srotolando a ritroso il nastro della sua esistenza ritroviamo le orme lasciate dal cammino di uno straordinario studioso, di un amato custode della spiritualità ortodossa, oltre che padre premuroso di cinque figli. Il fatto che egli sia stato1 poco conosciuto negli anni che seguirono la sua vicenda storica, va necessariamente contestualizzato nel periodo di estrema ostilità e chiusura che caratterizzò la vita del popolo russo in quell’epoca di totale sconvolgimento politico e sociale2.

Florenskij come pensatore e come uomo di cultura fu molte parti: fu scienziato, filosofo, epistemologo, esperto d’arte, biologo, linguista, teologo, chimico, fisico, ingegnere elettrotecnico, ma una cosa fu prima di tutto: fu un originale e convinto matematico, e questo rimarrà per tutta la durata della sua vita, anche quando gli argomenti affrontati potevano sembrare così diversi rispetto alla scienza dei numeri e delle forme3. Il suo incontro giovanile con la matematica, in particolare con l’aritmologia appresa seguendo lezioni del celebre professore Nikolaj Bugaev4, non solo segnò una tappa fondamentale del suo cammino, ma lo connotò in maniera indelebile con il bisogno di soddisfare una sostanziale concretezza verso la vita, così come viene percepita.

La dimensione sensibile, ovvero estetica, della conoscenza assume un posto prioritario all’interno della visione del mondo integrale di Florenskij, anche se, e questo è il punto fondamentale, esso non rimane fine a se stesso. Nella prospettiva organica del conoscere, essere sensibili alla bellezza non significa lasciarsi sopraffare da essa, ma per il nostro autore essa implica necessariamente una presa di coscienza da parte del soggetto; ovvero la consapevolezza che i valori che orientano il pensare e l’agire, tra cui appunto la bellezza, non appartengono né all’uomo né alle cose indipendentemente, ma solo alla possibile relazione che può venirsi a creare tra loro. Relazione è partecipazione e partecipare è, a sua volta, il relazionarsi di parti che hanno qualcosa in comune tra di loro, che va oltre di loro.

Nel testo Lo spazio e il tempo nell’arte5 scritto nel 1923 in occasione di un ciclo di lezioni Sull’Analisi della spazialità, Florenskij ricorse ad un esempio che risulta emblematico per cercare di capire la portata della «partecipazione». Prendiamo una calamita; se nelle sue immediate vicinanze noi poniamo un pezzo di ferro, esso, rimanendone attratto, manifesterà l’esistenza del relativo campo magnetico. Se al posto del ferro invece noi mettessimo un pezzo di cartone, ecco che allora rileveremmo una sostanziale indifferenza tra le parti. Cosa vuol dire questo? Che, nel caso del ferro, il campo magnetico esiste, mentre nel caso del cartone no? Sarebbe chiaramente un’assurdità ammettere ciò, ma non solo, perché, come afferma Florenskij, «se c’è un pezzo di ferro in grado di recepire l’azione del campo, allora riconosciamo anche l’esistenza di una forza magnetica; [mentre], se non c’è [ma c’è un pezzo di cartone], allora non si scopre nemmeno la forza»6. Questo implica che il fenomeno magnetico, preso di per sé, non nega la sostanziale differenza tra ferro e calamita, ma, contrariamente, che proprio su di essa si fonda quella precisa realtà partecipativa che noi riconosciamo come un fenomeno magnetico.

È facile attribuire a questo esempio una valenza paradigmatica che va ben oltre la sua dimensione fisica e adeguarlo anche a contesti di realtà entro cui l’essere di un uomo si trova inserito; infatti, cosa ci impedisce di farlo valere anche all’interno della nostra quotidianità, fatta sostanzialmente di percezioni derivanti da relazioni con persone, oggetti e situazioni varie? Non siamo noi stessi a volte ferro, a volte cartone e a volte calamita? Cosa ci attrae e cosa ci lascia indifferenti? E perché?

A conclusione del nostro discorso, citiamo la celebre frase del principe Miskin nell’Idiota di Dostevskij: «La bellezza salverà il mondo» … ma con Florenskij precisiamo: «…a condizione che ci saranno occhi belli che la sapranno riconoscere».

 

Mauro Beltrami

Sono nato a Codogno (Lodi) nel 1968, dove tutt’ora risiedo.
Nel 1993 ho iniziato la mia professione di educatore, dapprima non professionale, con utenti caratterizzati da grave disabilità sia psichica che fisica, e tutt’ora professionale con i minori affidati dal Distretto del Servizio Tutela di Piacenza ovest.
Nel Febbraio del 2002 mi sono laureato in filosofia, presso l’Università di Pavia, con una tesi sull’empirismo inglese del ‘700. Nel 2005 ho conseguito il diploma presso la Scuola Superiore di filosofia comparata e orientale di Rimini, con una tesi sul pensiero cinese antico e nell’Ottobre dell’anno seguente ho completato questo corso di studi laureandomi ad Urbino in “Antropologia ed epistemologia delle religioni”, con una tesi sull’autore russo Pavel Florenskij.
Recentemente, come dicevo sopra, ho conseguito la qualifica di educatore professionale conseguendo la laurea trimestrale in Scienze della formazione e dell’educazione”, presso l’Università cattolica di Piacenza. Anche in quest’ultimo caso, il lavoro finale di tesi è stato dedicato alla figura di Florenskij, ed entrambi i lavori hanno contribuito alla pubblicazione del mio primo libro, nel Settembre di quest’anno, presso la IPOC di Milano, col titolo di: Estetica della partecipazione. Pavel Florenskij: la vita come opera d’arte, che qui ho l’onore di presentare.

NOTE:
1. Il tempo passato è d’obbligo, considerato il fatto che già da alcuni decenni Florenskij è oggetto, soprattutto in Europa, di una vera e propria renaissance culturale.
2. Cfr. Orlando Figes, La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924, Oscar Mondadori, Milano 2016.
3. Cfr. Renato Betti, La matematica come abitudine del pensiero. Le idee scientifiche di Pavel Florenskij, Centro Pristem, Milano 2009.
4. Florenskij nel Settembre del 1900 si iscrisse alla facoltà di fisica e matematica dell’Università di Mosca.
5. P.A. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, Adelphi, Milano 1993.
6. P.A. Florenskij, Op. cit., pp. 44-45.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Nel regno della fantasia: Monica Monachesi sulla mostra di Sarmede

Anche quest’anno Sarmede, piccolo, piccolissimo comune della marca trevigiana, diventa per i mesi autunnali polo della fantasia, dell’illustrazione e dell’immaginazione, popolandosi di artisti internazionali, autori, poeti, atelieristi e narratori, ma anche di visitatori sognatori. Tutto questo grazie alla Mostra Internazionale d’Illustrazione per l’Infanzia Le immagini della Fantasia, giunta alla sua 35esima edizione.

Questa annuale magia è resa possibile dalla Fondazione Štěpán Zavřel e oggi chiediamo alla sua curatrice, la dottoressa Monica Monachesi, di condividere con noi alcune riflessioni da cui è scaturita questa mostra e tutte le attività che nei prossimi mesi coloreranno l’iniziativa.

 

La fantasia e l’immaginazione superano ogni confine geografico e storico, ma vanno anche oltre l’età anagrafica. Se questo ci unisce alle persone del presente, passato e futuro e di tutti i popoli, si riscontrano delle diversità culturali nella grammatica dell’illustrazione e del racconto nei vari paesi?

Le rispondo subito così: imprevedibile e stupefacente è l’esito dell’osservazione che ogni anno si conduce sul mondo dell’illustrazione. Questo mondo bellissimo, che ogni volta ci sorprende, è fatto di racconti, è fatto di parole che ci avvicinano, ci dispongono all’ascolto e fanno bene all’anima di grandi e piccoli, qualcosa di cui oggi abbiamo bisogno più che mai. Parole per stare bene dentro e con gli altri. Parole pacificatrici, anche quando generano piccole necessarie rivoluzioni. Io credo che sia proprio questa la chiave di tutto il lavoro che la Fondazione svolge ogni anno attraverso la Mostra: diffondere con gioia racconti dal mondo e per il mondo.
Dare spazio, dare voce a belle storie, far sapere e condividere che la bellezza esiste e fa bene, condividere la consapevolezza rasserenante che, su un foglio prima bianco, su un pezzetto di carta, l’uomo sa creare universi meravigliosi che prima non esistevano, l’uomo sa fare l’impossibile, sa realizzare anche l’utopia; questo si fa attraverso la Mostra.

Poi ognuno può leggerla a modo suo, e questo è l’altro aspetto che dà un risvolto universale e di grande libertà a questo lavoro. Come ogni volta capita per qualsiasi libro, anche la Mostra vive pienamente e in modo sempre diverso in relazione al suo lettore/visitatore. Si tratta di una passeggiata attraverso il libro illustrato, immancabilmente completata dall’interiorità di chi, passo dopo passo, osserva e legge.
Bellissimo, no?

Per questo motivo ogni scelta è fatta con grande attenzione, mettendosi in ascolto del lavoro sviluppato da autori e editori di tanti Paesi. Ascoltiamo e poi organizziamo i contenuti che riguardano l’illustrazione in tre modi diversi: una mostra personale per raccontare il lavoro di un ospite d’onore con cui lavoriamo per quasi un anno, una mostra collettiva per portare lo sguardo sull’editoria internazionale attraverso 30 libri, una mostra tematica, sulla cultura particolare di un Paese o di un’area geografica vista attraverso l’albo illustrato.

 

In particolare quest’anno proponete un’ “immersione” nel mondo un po’ strano ed estremamente interessante del Giappone. Che cosa ci può raccontare in proposito?

Al ritmo di parole come Mukashi Mukashi che vuol dire c’era una volta, nella musicale lingua giapponese e attraverso tre progetti  – anzi quattro – concepiti appositamente per la Mostra, Le immagini della fantasia apre percorsi dedicati all’immaginario di questa straordinaria cultura che ci ha investiti con tutto il suo fascino millenario.
Alla poesia Haiku, fiore della poesia giapponese è dedicata un’antologia di Bashō e Issa, illustrata dagli allievi della Scuola Internazionale di Illustrazione (con le docenti Mara Cozzolino e Linda Wolfsgruber);
alle fiabe tradizionali giapponesi è dedicato il 13° albo della collana Le immagini della fantasia che si intitola appunto Mukashi Mukashi, c’era una volta, in Giappone; alle più terrificanti figure dell’immaginario è infine dedicato un gioco, il Memory Yōkai, mostri e spiriti giapponesi.
Tutti questi progetti sono stati ideati e curati in modo da creare un dialogo genuino con la cultura giapponese, per sillabare assieme a Bashō e Issa immagini del trascendente percepito in attimi di contemplazione del mondo terreno; per rinarrare, attraverso la scrittura di una grande autrice come Giusi Quarenghi, le fiabe più amate dai bambini giapponesi, con piccoli eroi che cambiano il mondo; e per giocare a conoscere quali forme sono state date a paure ancestrali e recenti, disegnate per noi da sei artisti giapponesi, stampate in serigrafia in Italia, confezionate con grande cura e raccontate in un libriccino cucito a mano.

img-intervista-monica-monachesi_la-chiave-di-sophiaPerò ho scritto sopra: – anzi quattro – , perché raggiungiamo il Giappone anche passando attraverso uno specialissimo Torii (portale che si trova davanti ai tempi shintoisti) preparato dall’ospite d’onore Philip Giordano, che ha vissuto sette anni a Tokyo e anni fa passò da Sàrmede per frequentare i corsi estivi come allievo molto emergente. Varcata la soglia che separa il mondo reale da quello immaginario, nella sua mostra Storie dall’Arcipelago sottosopra, l’illustratore si racconta con testi inediti che collegano il bambino Philip al disegnatore/autore di oggi e che ci fanno conoscere alcune delle più belle fiabe giapponesi, come Oshirasama, Urashima Taro, La principessa splendente, confermandoci la passione di Giordano per i lungomentraggi di Miyazake (Nausicaa nella valle del vento, Principessa Mononoke e altri) e dando forti motivazioni alla presenza dell’elemento del viaggio nei suoi ultimi albi illustrati da lui firmati come autore unico.

Riguardo al Giappone c’è anche un quinto punto, anche se non nato appositamente per noi, ma presente nel Panorama dell’albo illustrato: sono presenti in Mostra, nella sezione collettiva, anche cinque illustratori a rappresentare questo ricchissimo mondo con albi tra di loro molto differenti: dagli esilaranti e deliziosi  menu di Yocci a due libri nati in Francia grazie ad un ‘crogiolo italo-nipponico’, come lo ha chiamato l’autore italiano Gabriele Rebagliati che ha visto pubblicati in Francia due suoi racconti illustrati di giapponesi Susumu Fujimoto e Michico Watanabe (Le panier à pique-nique e Tout une vie pour apprendre), fino ad un silent molto giapponese in cui il confine tra mondo animale/naturale e quello umano fluttua o neppure esiste: La visite di Junko Nakamura; e infine altro libro in cui si coglie tutta la speciale relazione con gli oggetti d’uso quotidiano sentita in Giappone: il delicatissimo e toccante  Botan –chan  di Chiaki Okada – lo sapete che per i giapponesi dopo 100 anni gli oggetti d’uso acquistano un’anima? Meglio trattarli bene!

 

In quale senso intendete il libro illustrato, che è uno dei protagonisti della vostra mostra, come “strumento di conoscenza e veicolo di bellezza”?

Forse in parte ho già risposto, ma bene riprendere questo punto. La letteratura è forma di meravigliosa conoscenza dell’umano, e un libro illustrato, nel suo specifico di piccolo grande spazio letterario con immagini rivolto soprattutto ai bambini, ha una valenza pedagogica che Stepan Zavrel vide chiaramente 35 anni fa e coinvolse altri entusiasti estimatori dell’illustrazione, oggi strutturati nella Fondazione Štěpán Zavřel, a costruire un appuntamento che sembrava impossibile, all’insegna della meraviglia. Che cosa voglio dire? Un libro illustrato ha molto a che fare con altre arti, ha molte similitudini con uno spettacolo teatrale, è in qualche modo come uno spazio scenico: davanti ai nostri occhi si muovono personaggi, entriamo in mondi anche lontanissimi lì raffigurati. Mentre guardiamo tutto è possibile e in quel momento siamo ben predisposti alla conoscenza, desideriamo ascoltare ancora e ancora, sono attimi bellissimi che spesso si svolgono anche consolidando relazioni preziose: tra genitori e figli, con altre persone care, a scuola, tra amici. E si diventa più capaci di esprimersi a propria volta frequentando il libro illustrato che ci offre linguaggi su linguaggi, e che cosa c’è di più importante al mondo della capacità di esprimere pienamente se stessi?  Si potrebbe rispondere: “ascoltare gli altri!” e leggendo avviene proprio tutto questo!

 

Altro tema indagato e che da sempre è un filo conduttore delle attività della Fondazione Štĕpán Zavřel e della mostra Le immagini della fantasia è quello della migrazione, un fenomeno quanto mai attuale e generatore di riflessioni. In che modo il vostro festival riflette su tale argomento?

L’immagine del viaggio è usata spesso per raccontare la mostra e a volte rischia di divenire scontata, un semplice ‘volo della fantasia’ di Paese in Paese.
Prendiamo però molto sul serio la fantasia, come risorsa irrinunciabile dell’essere umano, e l’immaginazione da tenere sempre allenata, per aprire strade inattese, e crediamo che nella conoscenza reciproca ci sia molta speranza. Ogni anno raccontiamo ai più piccoli le fiabe dal mondo, per la vocazione di scambio culturale che la mostra ha da sempre e sempre più cerchiamo il dialogo genuino con il Paese ospite, con la sua cultura e con chi la racconta.
Mai come quest’anno in questa edizione il viaggio è esperienza di vita che la letteratura e l’arte visiva trasformano e mettono a disposizione come esperienza estetica e, di conseguenza, etica. Anche nella personale dedicata a Philip Giordano, ospite d’onore dell’anno – di madre filippina che lasciò il suo Paese e padre svizzero – si può leggere il medesimo tema. Questo autore nato e cresciuto in Italia si muove tra Occidente e Oriente e pone nei suoi picture book una tensione serena, piena di speranza e il suo disegno è un mezzo per stare al mondo, per resistere, per rispecchiarsi.

img2-intervista-monica-monachesi_la-chiave-di-sophiaInoltre, in questa 35esima edizione, c’è un gruppo di cinque libri più una piccola esposizione che arriva dal Cile, un punto in cui fare una sosta di riflessione: Pianeta Migrante.
Il fenomeno della migrazione è planetario, non esiste un luogo della Terra che non ne sia interessato. Le illustrazioni di Amélie Fontaine raffigurano persone, cose, strade, recinzioni, muri, ma soprattutto il libro comincia con una domanda: Che cos’è un migrante?

In mostra questo sfaccettato argomento prende luce in modi diversi per raggiungere lettori delle età più varie. Dal ritratto spietato di ciò che accade in mare, e in terra, dipinto da Armin Greder in Mediterraneo, alla rivisitazione moderna del classico di De Amicis Dagli Appennini alle Ande (illustrato da Francesco Chiacchio) che cambia la rotta e diventa Dall’Atlante agli Appennini, fino a Guridi che dall’Andalusia fa nascere un vero e proprio libro dalla suggestione del tema propostogli dalla Mostra e racconta la storia di un bambino che dovendo partire, non si rassegna a lasciare la sua balena rossa, vuole metterla in valigia (Como meter una ballena en la malleta). Il libro parla della forza delle risorse interiori, della creatività che diventa vitale, nella crisi, per la sopravvivenza.

E poi dal Cile arriva una processione di figurine in viaggio, anche loro in valigia, di Francisca Yañez. La parete è brulicante di piccole figure di carta, che sembrano volare, sono in cammino incessante, si muovono piedi, valigie, pensieri, ricordi. Ci sono sguardi da incrociare, vite da immaginare, occhi da ascoltare nel silenzio di un flusso che, mentre osserviamo la mostra, esiste davvero, in più di un luogo, nel nostro pianeta. Al centro ci sono pagine di passaporto che raccontano una storia: quella di Francisca esule dal Cile dittatoriale che con la sua famiglia scappa in Europa negli anni Settanta. Un racconto di chi al viaggio è costretto, di chi cerca di portare con sé un pezzetto di qualcosa, il sapore di un cibo, il profumo di un fiore, la gioia di un gioco.
Figurine di carta che, fatte quasi di niente, nella loro vulnerabilità insistono a raccontare le loro storie per creare empatia e consapevolezza, per cominciare a immaginare un pianeta solidale. Assieme ai Bambini Francisca parla e riflette e poi crea altre figurine: un laboratorio fatto di materiali semplici, ripetibile ovunque, con poco, come la mostra stessa, fatta per poter viaggiare più possibile.

 

Delle proposte culturali del festival ammiro molto i laboratori, che sono aperti a tutte le età: calligrafia, xilografia, acquerello. Quale valore hanno per voi questi laboratori? Per quale motivo la sola contemplazione di un’opera d’arte non è sufficiente?

La sola contemplazione è molto importante e non è affatto messa in discussione, ma semmai confermata da attività didattiche che creano esperienze attorno ai contenuti della mostra. 
Quest’anno abbiamo per esempio proposto la xilografia giapponese e credo che il corso abbia dato la possibilità di un’esperienza molto profonda, un vero viaggio nel tempo assieme a Mara Cozzolino che si reca continuamente in Giappone per specializzarsi sempre di più e per conoscere strumenti e materiali di antichissima tradizione che ancora oggi sopravvivono e danno nuovi frutti.

La parola contemplare che lei ha usato ci porta poi in qualche modo nella sfera dello spazio interiore, e questo mi piace molto. Si contempla per concentrarsi, per raggiungere… i bambini sanno farlo molto meglio di noi adulti ed è una forma di ascolto attento che va stimolata è una forma anche di nutrimento, nel nostro caso di contenuti visuali e narrativi, bene farne scorpacciate perché coltivare la bellezza nella vita è fondamentale non solo per il singolo ma per l’intera comunità.
Inoltre il disegno è strettamente collegato alla contemplazione, nel senso che le immagini che si possono contemplare in mostra derivano certamente a loro volta da numerose e attente contemplazioni da cui discende il fare artistico. Un collegamento necessario tra fare e vedere che mette in circolo energia creativa e fa anche incontrare tante persona che condividono passioni e desideri che a volte possono sembrare folli, visti uno ad uno, invece insieme si ritrova anche maggior determinazione a perseverare. I corsi possono essere vere fonti di nuove progettualità.

 

Che cosa sperate si portino a casa i bambini dall’esperienza delle vostre mostre, incontri, letture e laboratori? E gli adulti invece?

Curiosità, entusiasmo, immaginazione stuzzicata, pensiero portato lontano, la voglia incessante di scoprire che cosa c’è da ascoltare tra le pagine, la consapevolezza che ognuno di noi è speciale e può, con impegno, saper dire gran belle cose.
Amore per l’impegno, per l’applicarsi, per il riuscire a fare capolavori.
Amore per la poesia, per l’arte, per cose che se perdessero il loro valore, sarebbe perduto il mondo.
Vorremmo contagiare tutti, riempire le teste di bei pensieri, di sogni, di speranza, perché al mondo ci sono davvero molte belle umanità.

 

L’inaugurazione ha avuto luogo sabato 21 ottobre alla Casa della Fantasia a Sarmede e le attività arriveranno a conclusione il 28 gennaio 2018. Vi rimandiamo al sito della Mostra per maggiori informazioni, invitandovi caldamente a prendere parte a questa meravigliosa manifestazione.

Buona fantasia!

 

Giorgia Favero