Nightmare Alley e l’illusione dell’essere umano

Nightmare Alley, il più celebre dei romanzi di William Lindsay Gresham, è un viaggio all’interno dell’animo umano e dei suoi meandri: i personaggi rappresentano le tensioni dell’essere umano tra redenzione, vendetta e riscatto sociale. Il protagonista, Stan, è un uomo misterioso di cui si riesce a scorgere ben poco, un uomo che riesce a mascherare le sue emozioni ed il suo passato ma che arrivato a Nightmare Alley – luogo simbolo dell’occulto e dell’inganno, ovvero luogo in cui si esibiscono circensi, veggenti e i così definiti freaks – egli man mano mostra la sua vera natura.

La parabola di Stan inizia con il parricidio che commette e che rappresenta la morte della sua moralità, la sua purezza che degenera in vendetta; scappa e giunge casualmente a Nightmare Alley, dove inizialmente lavora come semplice apprendista di Zeena, un’affascinante cartomante, fin quando non comincia a cimentarsi nell’arte dell’occulto, nella cartomanzia e nella lettura del pensiero mettendo a punto numeri sorprendenti che incantano tutto il pubblico grazie all’aiuto dell’amata Molly, che rappresenta di contro l’ingenuità e la purezza perdute dallo stesso Stan.

Stan viene accecato dal successo e dalla brama di riscatto sociale: come il Faust vende la sua anima in nome dell’assoluto, così Stan vende la sua in nome della brama, illudendosi di potersi ergere oltre ogni valore morale senza alcuna ripercussione e arriverà, infatti, ad ingannare un uomo disperato alla ricerca di redenzione per un errore passato, mettendo in scena un raccapricciante spettacolo che verrà smascherato con conseguenze tragiche.

È interessante notare come allo stesso tempo ci sia uno scambio e quasi una coincidenza tra l’ingannatore e l’ingannato: se è vero che Stan inganna e fa di questo la sua arte, è altrettanto interessante notare che gli uomini che vengono ingannati si sottopongono lucidamente ad un’arte che sanno in fondo essere fittizia, cercando speranza. Nightmare Alley rappresenta il luogo della lucida illusione delle mente umana, il luogo dove l’essere umano si rifugia quando il reale non riesce a rendergli giustizia e il luogo da cui è difficile evadere se non si recupera il contatto con sé stessi e con il mondo. È curioso che Stan alla fine della sua tragica storia ritorni a Nightmare Alley per divenire non più il soggetto ma l’oggetto dell’attrazione, ossia la così detta “bestia umana” che rappresenta il regresso dell’uomo al suo stato più bruto.

Si potrebbe obiettare che l’essere umano, tentando di evadere da ogni vincolo morale come fa Stan, non diviene altro che un bruto: ossia ritorna allo stato di natura alla Rousseau, nel quale non è in grado di stringere un vincolo sociale. La critica intrinseca alle pagine di Gresham è senz’altro alla borghesia del suo tempo: una classe media che si lasciava raggirare da giochi di prestigio che erano in voga, noncuranti dei reali problemi che li circondavano e lucidamente ingannati da un’atmosfera nebulosa che loro stessi avevano creato.

Il monito sempre attuale, infine, che Gresham lascia trasparire tra le sue pagine è che l’uomo nel momento in cui cade preda del lucido inganno di poter superare sé stesso ed i propri valori, di poter andare oltre quella che è la sua moralità e quindi la sua stessa umanità, diviene egli stesso ciò che aveva cercato di dominare: un bruto. L’uomo contemporaneo, oggi, servendosi della tecnologia tenta di superare se stesso, candendo vittima del falso mito del progresso; l’uomo, piuttosto, dovrebbe imparare a vivere nel rispetto dei suoi vincoli naturali perché solo in questo modo può rispettare se stesso e la natura di cui fa parte, preservando il suo posto nel mondo. Oggi più che mai è necessario fare riferimento a questo monito.

Il romanzo di Gresham mostra come non ci siano colpevoli o vittime, mostri o santi, ma che il vero pericolo risiede nella natura dell’essere umano e che il compito dell’uomo per non cadere nell’istintività tipica del bruto sia coltivare la sua natura rispettandone i limiti, che è il presupposto per la sua stessa conservazione e progresso, per poter essere sempre il soggetto del suo mondo e per diventarne, invece, l’oggetto.

 

Francesca Peluso

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Le nature della Natura: un termine tanto usato quanto sconosciuto

«Natura è forse la parola più complessa nel linguaggio» scrive Raymond Williams nel suo Parole chiave – Un vocabolario di cultura e società, pubblicato nel 1976. Eppure, viene subito da pensare, “natura” è anche uno dei lemmi più usati nel linguaggio quotidiano: “scoprire la propria vera natura”, “stare a contatto con la natura”, “essere una forza della natura”, sono espressioni che utilizziamo molto spesso, senza quasi pensarci. L’ambiguità e la diffusione del termine si amplificano l’un l’altra, in un circolo virtuoso… o vizioso?
In tempi di crisi ecologica, la parola “natura” è sulle bocche di tutti con una frequenza ancora maggiore, presente nei discorsi di ambientalisti, opinionisti, critici, e in generale della cittadinanza tutta.
Spesso, però, chi la usa non è pienamente consapevole del significato che le sta attribuendo, e non si pone nemmeno troppi problemi in proposito. Ma qual è la vera essenza di questo termine tanto usato quanto sconosciuto?

Per provare a rispondere, facciamo riferimento proprio all’interpretazione che propone Williams nel
suo saggio. Innanzitutto, è bene specificare come non esista un significato di “natura”, ma piuttosto ce ne siano molteplici. Limitandosi a considerarne l’utilizzo all’interno del panorama linguistico occidentale, Williams individua tre principali aree semantiche per il termine “natura”. Analizziamole una per volta.

In primo luogo, “natura” è la qualità essenziale di qualcosa. Quando parliamo della “natura umana”, o della “natura dell’amore”, ci stiamo riferendo proprio a questa accezione, che a sua volta si rifà all’etimologia della parola stessa. “Natura”, infatti, deriva dal verbo latino nascor (nascere). In questo senso, essa corrisponde alla caratteristica che contraddistingue una cosa nel momento della sua nascita (una qualità innata, appunto) e che la accompagna per il resto dell’esistenza. Tale significato sta alla base di quella che viene definita dagli accademici come “la grande divisione” tra natura e cultura.
Se “natura” corrisponde a ciò che è innato, e dunque immutabile, “cultura” rappresenta il suo opposto, ossia quanto viene sviluppato e acquisito artificialmente, ed è perciò soggetto a mutamento. Questa divisione sta alla radice dell’opposizione, che soltanto negli ultimi anni ha iniziato a vacillare, tra scienze della natura e discipline umanistiche, con tutte le implicazioni epistemologiche – di conoscenza – che ne conseguono.

“Natura” è, in seconda battuta, la forza intrinseca presente in tutte le cose. La parola spesso si fregia, in questa nuova accezione, della N maiuscola. Qui “Natura” corrisponde infatti a una causa prima, un soffio vitale che anima dall’interno tutte le cose. Questa concezione vitalista porta a una nuova e differente divisione: non più tra natura e cultura, bensì tra ciò che è vivente e ciò che non lo è. Mentre la vita è di per sé attiva e dinamica, il mondo minerale e in generale inorganico potrebbe apparire a prima vista inerte. L’ecologia in quanto scienza, però, ci porta sempre più prove a dimostrazione del contrario: tutti gli elementi di un ecosistema sono interconnessi, e gli esseri viventi non lo sarebbero affatto senza ciò che etichettiamo come “non vivente”. Secondo alcune teorie, la Terra tutta potrebbe corrispondere a un immenso organismo vivente.

Infine, “natura” comprende l’intero mondo materiale. Vi sono però due diverse varianti di questa terza definizione, che divergono sulla base dell’inclusione o meno dell’essere umano. Se come specie non ci consideriamo inclusi nel mondo naturale si crea, di nuovo, una frattura tra ciò che è naturale e ciò che è artificiale. Questa è forse l’accezione più comune del termine dato che, al suono della parola “natura”, la maggior parte di noi associa un bosco verdeggiante, uccellini che cantano soavi e nessun essere umano nei paraggi. Tale concezione sta anche alla base di quell’imperativo ambientalista per cui è necessario, vista la crisi ecologica attuale, “proteggere la natura” e “salvare il pianeta”. Il conservazionismo, infatti, è la politica più comune che discende da questa visione, per cui la natura è vista come qualcosa da proteggere dall’azione distruttiva dell’Uomo. Quando invece, nella seconda variante, anche l’essere umano è incluso nella definizione, emergono altre domande: se siamo parte della natura, anche tutto ciò che facciamo, incluso il destabilizzare le dinamiche ecologiche, è naturale?

Ha senso dunque porre dei limiti al nostro vivere insostenibile? Una prima risposta a quest’ultima domanda è: sì, ha senso, se vogliamo che la nostra specie non venga espulsa dal gioco della vita. Detto ciò, si potrebbe andare avanti per l’eternità a discutere delle varie questioni qui solamente accennate. Chiara risulta però la necessità di adoperare il concetto di “natura” con più consapevolezza, dal momento che da esso discendono le più svariate, e fra loro talvolta contraddittorie, politiche del nostro tempo.

 

Petra Codato

 
[Photo credit pixabay]

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Una specie speciale: essere umano e regole ecologiche

Ci siamo sempre considerati una specie speciale. Quantomeno nella cultura occidentale, quantomeno dai tempi dei greci. Aristotele, il primo a classificare le forme di vita secondo le caratteristiche fisiologiche di ognuna – immenso lavoro per cui è ritenuto, e a buon vedere, il padre della biologia – pone l’essere umano al vertice della piramide dei viventi, a causa della sua natura razionale. Da un punto di vista evolutivo, è vero che l’homo sapiens ha investito in modo anomalo nella dimensione del cervello, ma perché mai questo tratto dovrebbe permetterci di piazzare la nostra specie sulla sommità di una piramide gerarchica che noi abbiamo costruito sulla base dei nostri parametri?

Questo senso di superiorità determina due principali convinzioni, tra loro intrecciate: quella di detenere un diritto sulle entità non-umane che ci circondano – il cosiddetto “ambiente” – e quella di essere indipendenti dalle regole ecologiche a cui le altre specie, invece, rimangono soggette. Nel corso dello sviluppo dell’ecologia, intensa come disciplina, sono state individuate quattro principali leggi che determinano la struttura e il funzionamento degli ecosistemi: la rinnovabilità delle fonti di energia, la biodiversità, la ciclicità della materia e il controllo della popolazione. Per iniziare a sciogliere l‘intricata matassa della crisi ecologica, potrebbe allora forse tornare utile provare a capire, per ognuna di queste regole, come la nostra società si è comportata fino ad ora, e come potrebbe comportarsi in futuro.

La maggiore fonte di energia per il nostro pianeta è quella proveniente dal Sole, che è costante e, perciò, rinnovabile. Mentre i processi biologici fondamentali, come la fotosintesi nelle piante, sono innescati proprio dalla luce e dal calore provenienti dal Sole, l’energia utilizzata per alimentare le nostre fabbriche, le nostre case, i trasporti ecc., è ricavata dai combustibili fossili. Questi, oltre a rappresentare la prima fonte di emissione di anidride carbonica, non sono rinnovabili. Da quando si è capito che la crisi climatica ed ecologica non poteva essere più ignorata, sul fronte delle risorse si è tentato di intraprendere il cammino della transizione energetica. La strada da percorrere è senza dubbio ancora lunga, ma attesta una prima volontà di reinserirsi all’interno delle dinamiche ecologiche.

La seconda regola è la bio-diversità, e anche in questo campo gli errori compiuti sono palesi. Negli ultimi tempi, infatti, si è assistito a una perdita considerevole di specie viventi, tanto che ormai si è soliti sentire l’espressione “sesta estinzione di massa” – la quale, ricordiamolo, potrebbe coinvolgere anche l’essere umano. Proprio a causa di queste previsioni poco rassicuranti, sono state intraprese azioni di studio, monitoraggio e conservazione: un buon esempio è quello della reintroduzione dei lupi nel Parco di Yellowstone, che non solo ne ha aumentato la biodiversità ma ne ha addirittura modificato la geografia fisica.

Per quanto riguarda il ciclo della materia, il concetto più all’avanguardia è quello di economia circolare, che tenta di scardinare l’impostazione di una società del rifiuto. Il fatto che la maggior parte degli oggetti che utilizziamo quotidianamente, in particolare quelli mono-uso, vengano buttati e in seguito comunemente depositati in discariche, si scontra infatti con la dinamica di trasformazione continua che la materia subisce attraverso i processi biogeochimici. L’economia circolare suggerisce proprio di impegnarsi a reinserire in questi cicli anche i prodotti artificiali, principalmente attraverso il riciclo e il riuso.

La quarta regola ecologica è probabilmente quella che ci risulta più difficile da accettare, ed è infatti la più controversa. La popolazione umana ammonta attualmente a 7.8 miliardi e alla fine del secolo, data una fertilità costante, potrebbe raggiungere i 25 miliardi. Dovremmo ormai aver imparato però che, superata una certa soglia, vari fattori entrano in gioco a ridurre l’aumento di una determinata popolazione, tra cui i virus. Eppure, mentre per le altre tre questioni siamo arrivati alla conclusione che è necessario cambiare le cose, al problema della sovrappopolazione è difficile trovare soluzione, anche concettuale. Infatti, seguendo la prescrizione biblica (Genesi 1:28), siamo abituati a pensare che l’esistenza sulla superficie terrestre di tanti esseri umani non possa che essere apprezzabile. Ma, a questo punto, viene da chiedersi: perché la nostra specie dovrebbe avere più diritto delle altre a usufruire delle risorse di questo pianeta? Siamo senza dubbio una specie speciale – come qualsiasi altra, dopotutto – ma viviamo su questa Terra, e potrebbe tornarci utile imparare a capirne e rispettarne le leggi.

 

Petra Codato

 

[Photo credit pixabay]

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Se il problema c’è, l’essere umano non risponde

Aristotele nella sua Politica, opera del IV secolo a.C., attribuisce all’essere umano una socialità innata, un istintivo senso di aggregazione che si può facilmente riscontrare nella presenza di variegati gruppi sociali, ognuno con la sua storia, le sue leggi, le sue identità culturali.
Ancora oggi troviamo difficile poter pensare a noi stessi in un’isola deserta, alla Robinson Crusoe o alla Cast Away, senza provare un vasto senso di smarrimento o angoscia che può indurre alla follia; ci collochiamo sempre all’interno di una famiglia, una compagnia di amici, un gruppo etnico-regionale, una nazione.

Nonostante ciò è capitato a tutti noi di provare un senso incolmabile di solitudine, causato da dinamiche fuori dal nostro controllo, o in altri casi ricercato spontaneamente, in modo da separarci per un periodo più o meno breve dal resto del mondo.
La domanda che sorge spontanea è: come può un animale sociale sentirsi solo?
La risposta può essere individuata sulla natura della socialità dell’essere umano, quindi aggiungiamo un’altra domanda: perché siamo animali sociali?

L’essere umano utilizza la socialità, la forza che solo una collettività può fornire, per realizzare i propri sogni; in altri termini l’essere umano è consapevole di non poter sopravvivere – fisicamente in natura, materialmente nell’epoca contemporanea – senza far parte di una società di suoi pari.
Aggiungendo per completezza un aggettivo all’affermazione aristotelica, l’essere umano è contemporaneamente un animale sociale e individuale.

A questo punto possiamo rispondere anche alla prima domanda: l’animale sociale può sentirsi solo perché quando si trova in difficoltà spicca la sua specificità di singolo e gli animali sociali che lo circondano difficilmente provano empatia per qualcosa che non appartiene a loro.
Proprio nei momenti difficili emerge questo atteggiamento, quando l’individuo risulta più fragile emotivamente.
Gli esempi sono innumerevoli, ma individuando i più estremi, di conseguenza siamo in grado di comprendere tutti gli altri.

Suicidio e tossicodipendenza sono due tematiche tristemente comuni in tempi difficili come quelli che stiamo attraversando, pur essendo delle costanti storiche, eppure facciamo ancora fatica a concepirle come mali che, sebbene colpiscano individui, ricadono inevitabilmente sull’intera collettivitàIn passato attorno a questi due drammi si è costruita una moralità che prevedeva l’ostracizzazione, il bando, l’emarginazione, sia della persona sia, in ambito religioso, della sua anima, concetti molto forti che oggi tendiamo a non comprendere ed erroneamente a confinare in epoche ormai sorpassate.

Tuttavia è sufficiente leggere i commenti sui social sotto a notizie di cronaca nera, per rendersi conto che le cose non sono molto cambiate. Negli anni c’è stato un approfondimento, un arricchimento nozionistico, per malattie emotive in passato totalmente ignorate, sconosciute o banalizzate a semplici sbalzi d’umore di persone deboli, eppure ci si scontra quotidianamente contro un muro di incomprensione.
Un commento alla notizia dell’ennesimo decesso per overdose nella mia città, mi ha particolarmente colpito e sostanzialmente recitava così: “Non capisco perché una persona debba drogarsi, non lo capisco e non lo voglio capire”Mentre se si fosse trattato di suicidio, in un contesto completamente diverso, sono certo che avrei raccolto numerosi e laconici “Egoista” rivolti al malcapitato.

Oltre all’immensa superficialità con cui molte persone affrontano mali dai confini molto poco definiti, e per i quali non esiste una cura specifica o un farmaco particolare proprio perché attaccano l’animo e l’autoconsapevolezza del singolo, il problema si concentra sulla sbagliatissima convinzione implicita che possano essere circoscritti a persone predisposte, fragili, deboli eccNon si prendono minimamente in considerazione le variabili che intervengono nell’arco dell’esistenza di ciascuno di noi, che se per anni possono sorriderci, possono anche farci precipitare da un momento all’altro in un baratro senza fine.
Non si comprende che imparando a conoscere queste problematiche potrebbe essere anche più agevole affrontarle quando ci colpiscono direttamente, o quando colpiscono un nostro amico, un figlio, un nostro caro.

E infine c’è la disumanizzazione della vittima, che non è più un nome, una persona con dei sogni andati alla deriva, con delle difficoltà superabili se solo non avesse trovato silenzio attorno a sé. Chi muore diventa un numero per la statistica, finisce in pasto a chi condanna l’uso della droga, a chi vorrebbe ammazzare gli spacciatori e i discorsi sull’immigrazione spiccano il volo che è un piacere. Così gli animali sociali preferiscono litigare sfruttando le vittime dell’indifferenza, piuttosto di affrontare la realtà.

 

Alessandro Basso

 

[Photo credit Pixabay]

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La parola di una donna e la violenza epistemica

«Dire che la parola di una donna non è bastata a far calare la scure della legge su Harvey Weinstein è esatto ma incompleto. La verità è più sgradevole. Nella primavera del 2015 il produttore di Hollywood riconobbe di aver messo le mani addosso a una donna senza il suo consenso, ma per la procura non fu abbastanza per mandarlo a processo».

Questo l’esordio dell’articolo Cento donne contro Harvey Weinstein, traduzione italiana dell’originale pubblicato non molto tempo fa sul New York Magazine. L’articolo descrive i passaggi che hanno condotto a processo il produttore cinematografico, accusato di decine di stupri e molestie. Sappiamo che in seguito la condanna è stata fissata a ben 23 anni di carcere. Quindi, riguardo al caso, potremmo esserci messi tutti il cuore in pace. E invece no.

Nel leggere l’articolo, un’affermazione mi ha colpita più delle altre, ovvero quella pronunciata dall’avvocato di Weinstein: «Se non vuoi essere una vittima, non andare nella stanza d’albergo». Di più, mi ha colpita il fatto che tale avvocato sia una donna. Infatti continua: «Quando noi donne non vogliamo accettare certe responsabilità per le nostre azioni, ci comportiamo da bambine». Ripetere per l’ennesima volta che viviamo in un mondo ancora profondamente maschilista non sarebbe inutile ma mi preme, piuttosto, sottolineare un altro aspetto. Propongo infatti una breve riflessione su un concetto che non viene spesso evocato, ma che considero particolarmente efficace, ossia quello di violenza epistemica.

Il termine, coniato da Gayatri Chakravorty Spivak, filosofa statunitense di origine bengalese a noi contemporanea, va a indicare la relazione che si instaura tra dominanti e subalterni, analizzandola da un punto di vista simbolico. In particolare, il meccanismo che si crea è quello di una introiezione delle categorie elaborate da chi domina all’interno degli strumenti cognitivi di chi viene dominato. Questa forma di violenza, secondo Spivak, è più pericolosa e subdola di altre, dal momento che non viene individuata come tale ed è dunque più difficile da estirpare. Facciamo un esperimento. Quanti di voi provano una sensazione di profondo fastidio ogni volta che sentono utilizzare la parola uomo per indicare l’intero genere umano?

La filosofia occidentale, antica, moderna e contemporanea, è costellata di affermazioni sull’uomo e la sua natura, il suo valore, la sua dignità. Vi è un’enorme portata epistemologica nella differenza che sussiste quando si parla di natura dell’uomo e di natura dell’essere umano; differenza che, nella lingua italiana, è particolarmente esplicita. Si tratta dell’assegnazione o meno dello statuto di soggetto a metà dell’umanità. Banalmente, nel nostro immaginario comune, si può definire soggetto colui che parla e che agisce. Chi parla quando ci si riferisce all’uomo? Chi ha compiuto le azioni che vengono riferite all’uomo? La risposta è scontata. Si potrebbe obiettare che, per quanto riguarda la storia e la storia della filosofia, è corretto parlare dell’uomo maschio come unico soggetto, dal momento che le donne hanno ricoperto un ruolo del tutto marginale nella storia. Ma è sufficiente non agire per non essere responsabili? Qui è il punto cruciale. Davvero non hanno nessuna colpa le donne che non hanno immediatamente denunciato i crimini di Weinstein, magari accettando una somma di denaro in cambio del silenzio?

Per il filosofo francese Gilles Deleuze (1925 – 1995) la gioia consiste nell’effettuazione di una potenza, intesa come attuazione di sperimentazioni vitali che eccedono l’individuazione personale. Potersi trasformare continuamente in qualcosa d’altro, facendo esperienza di tutte le sfaccettature del mondo e intrattenendo con esse una relazione profonda, proprio perché diveniente. Il che è molto diverso dall’idea che è penetrata all’interno del nostro immaginario comune e che è quella della potenza come sopraffazione sull’altro. Quest’ultima corrisponde invece, secondo Deleuze, al potere. Egli infatti sostiene che qualsiasi forma di potere è di per se stessa malvagia, dal momento che impedisce la realizzazione di quella stessa potenza vitale che prima citavamo, producendo debolezza. In questa concezione, dunque, ogni potere è intrinsecamente violento. Su quest’ultimo punto si potrebbe discutere in eterno, ma una cosa è sicura: è necessario riconoscere la violenza come tale, in qualunque modo essa si presenti, prima di poterla combattere. Questo compito è più difficile per coloro che detengono il potere, spesso inconsciamente avviluppati nel meccanismo di riproduzione della violenza stessa, che si perpetua a livello culturale e sociale senza guardare in faccia nessuno. 

Ma anche i subalterni hanno una voce, sebbene forse sia più comodo pensare di non poterla usare.

 

Petra Codato

 

[Photo credit Tim Mossholder via Unsplash]

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Una prospettiva etico-filosofica della magia

La magia oggi non riveste alcun ruolo nella cultura. È scaduta a prodotto di nicchia per creduloni e ambito di perizia per ciarlatani. L’unica magia che si salva è quella oggetto di studio dell’antropologia. È di qui che dobbiamo passare se vogliamo interrogarci sull’eventualità che la magia abbia ancora qualcosa da dirci.

L’universo del pensiero magico potrebbe avere un importante messaggio filosofico da darci. Esso ha a che fare con una domanda cruciale: perché la mente umana, fin dalle sue manifestazioni più remote, ha creato un mondo simbolico immenso? Dall’oscuro serbatoio dei pensieri umani in cui germinano sogni di gloria e incubi di dissolvimento si espande un cosmo di proiezioni cariche di inesauribili contenuti. Questo accade almeno da quando alcuni esseri umani hanno iniziato a trasferire i loro pensieri sui dipinti all’interno delle caverne in cui vivevano. Un mondo in cui magia, spiritualità e conoscenza erano solo sfaccettature della stessa impresa: la fabbricazione di senso.

Il pensiero magico ha sempre accompagnato la vita degli umani, ma ad un certo punto non ce l’ha più fatta, non è riuscito a sopravvivere a due fatali eventi: l’Inquisizione e la Rivoluzione scientifica. Il mondo è cambiato molto da allora, per molti aspetti in meglio, ma non per tutti. Ma torniamo all’antropologia.
Dobbiamo a Frazer, agli inizi del ‘900, il primo importante approccio antropologico alla magia. Sebbene laureato in giurisprudenza, Frazer era molto più interessato agli studi sul folclore e sulle culture cosiddette “primitive”. La sua più famosa opera è Il ramo d’oro1, in cui partì dall’idea di confrontare la singolare pratica, secondo un’antica leggenda italica, di sottrarre un ramo dall’albero nel santuario della dea Diana, a Nemi, per poi procedere all’uccisione del sacerdote in carica e prenderne il posto. Da qui continuò allargando l’indagine su pratiche magiche in culture di tutto il mondo.
Il suo lavoro diventò il punto di riferimento, nonché di critica, per molti autori successivi, come Wittgenstein2 , ad esempio, il quale denunciò come l’idea di “selvaggio” e il punto di vista sulla magia fossero permeati di forte etnocentrismo. Fatto sta che sia Frazer, sia Wittgenstein, ma in generale l’antropologia, sentirono il bisogno di esplorare e spiegare la magia perché fondamentalmente, da un bel po’, non siamo più in grado di capirla. Eppure lei era qui, in mezzo a noi, è stata lume della nostra relazione con il mondo fino qualche secolo fa.
Ma che cos’è la magia? Detto con le parole di Guidorizzi, la magia è “un orientamento del pensiero” che si presenta «come visione obliqua e perturbante del mondo, come una possibile risposta al tentativo di indirizzare la realtà affidandone la guida all’Uomo»3.

La magia come guarda al mondo? In questa risposta credo risieda il potenziale valore etico di questa modalità del pensiero. Secondo la magia l’universo è un tessuto la cui fitta trama lega tutti gli elementi, visibili e invisibili. Potremmo dire che la magia vede a priori quei collegamenti che la scienza cerca di discernere man mano, organizzandoli in termini deterministici. Nella magia tutto è connesso e le formule magiche servono a sollecitare l’intercessione di forze occulte per fini pratici umani.

Nella nostra epoca di sapere parcellizzato e fortemente dominato da un approccio riduzionistico, fatichiamo a cogliere la preziosità della complessità che la magia invece dava come presupposto dell’esistenza. È proprio l’incapacità di vedere la complessità che ci porta a infliggere danni ormai irreversibili all’ecosistema, insensibili alle intime connessioni che tengono in vita il nostro pianeta e noi stessi.
Molte analogie e contrapposizioni sono state evidenziate tra magia e scienza. La seconda, lungo tutto il corso della sua emancipazione, si è resa autonoma proprio a partire dalla magia. Il primo a voler depurare un approccio “proto-scientifico” da uno magico fu Ippocrate, il quale affermò che ogni malattia ha una causa naturale e le pratiche di cura basate su esorcismi, ad esempio, sono fuorvianti se non dannose. In questo caso la superstizione, come la chiamiamo noi ora, era il risvolto di una modalità di visione iper-connessa. Il fatto è che se tutto è potenzialmente interconnesso, è possibile che il risultato sia il caos. Vedere lo spirito maligno al posto di un difetto di conduzione nervosa a carico del cervello, come aveva già compreso Ippocrate nel caso dell’epilessia, distoglieva da più concrete possibilità di cura. Questo accade purtroppo ancora oggi, quando persone che professano poteri guaritivi anti-scientifici arrivano a plagiare alcuni malati, con il risultato di allontanarli da possibilità di cura più efficaci. I veri maghi di un tempo – naturalmente esistevano anche gli impostori – non erano affatto dei ciarlatani: la magia era piuttosto una forma di sapere pre-scientifico.

Dunque, è chiaro che la capacità di orientarsi nella realtà deve essere un compromesso tra una visione eccessivamente “iperconnessa” e una totalmente “sconnessa”, cioè riduzionista e anti-complessa.
Un altro grande pensatore che si dedicò all’antropologia fu Ernesto de Martino. Muovendosi da un background filosofico, egli si approcciò allo studio della magia con l’intento di comprenderne lo sfondo esistenziale. Anche lui la confrontò con la scienza, definendo quest’ultima come un sapere che ha gradualmente ritirato la “psichicità” dalla naturalità4.
Tutte le proiezioni che la mente magica vedeva stagliarsi nell’universo, la scienza le ha man mano dissipate, lasciando solo la materia con le sue connessioni causali. Chiarezza al prezzo della perdita di complessità. La magia, per de Martino, è una risposta all’angoscia prodotta dall’incertezza della propria presenza, quotidianamente messa alla prova dal rischio di scomparire.
Insomma, è lo stesso motivo per cui esiste la filosofia.

La magia è la risposta al rischio di non esserci e lo sciamano è il grande esploratore del limite, colui che possiede le virtù per sfidare il rischio, portarsi alle soglie del caos e porsi come ordinatore della labilità.
E noi progrediti occidentali, digiuni di pratiche collettive e sguarniti di visioni di armonia universale, come ci poniamo di fronte alla nostra angoscia di scomparire? La scienza è preziosa, ma non possiede i requisiti per placare la nostra naturale inquietudine. La magia si è estinta, certamente aveva i suoi difetti, ma non la filosofia. È lei che ci può ancora guidare nell’esplorazione del perduto terreno delle sconfinate connessioni tra gli elementi del cosmo, costruendo significati, mentre la scienza è ormai fondamentale per scartare alcune connessioni rivelatesi fuorvianti. Un approccio complesso alla realtà sulla scorta della capacità “visiva” del pensiero magico è quanto di più etico la filosofia può desumere dalla storia della magia. Con una certa urgenza, oserei dire, visto che cogliere la complessità è la premessa per salvarci.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE:
1 J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Newton Compton Editori, 1992, Roma.
2 Note sul Ramo d’oro di Frazer. Ludwig Wittgenstein. Adelphi, 1975, Milano.
3 G. Guidorizzi, La trama segreta del mondo. La magia nell’antichità, Il Mulino, 2015, Bologna.
4 E. de Martino, Il pensiero magico. Prologomeni a una storia di magismo, Boringhieri, 1973, Torino.

[Immagine tratta da Google immagini]

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Caro lettore, tu un giorno morirai. Un’eco di Elisabeth Kübler-Ross

Caro lettore, tu un giorno morirai.

Qualcuno potrebbe già aver smesso di leggere quest’articolo, ma queste mie parole vanno a chi le vuole ascoltare, a chi non si impressiona, o a chi lo fa ma non rinuncia a conoscere le cose, ad indagarle oltre le apparenze.

Chi mi sta ancora leggendo, magari davanti alla prima colazione o intento alle prime letture della giornata proposte dalla bacheca Facebook, è il lettore giusto, quello che in un certo senso è già avanti agli altri, ha già compiuto il primo passo (o l’ultimo).

Quanto è difficile accettare la nostra finitezza? Raggiungere la consapevolezza di non esserci più fisicamente in questo mondo, di abbandonarlo per come lo conosciamo e percepiamo ora? Interrogativo che non ci coinvolge se non a ridosso del nostro ultimo momento, nel fine vita. Non solo, lo stesso Albert Camus ne Il mito di Sisifo poneva tale interrogativo nell’arco dell’intera esistenza, convivendo con la possibilità della fine volontaria della propria vita, ovverosia il suicidio, eleggendolo addirittura ad unica questione di una certa validità filosofica.

Perché continuare a vivere? Perché l’essere piuttosto che il nulla? Abbiamo davvero una vaga percezione o idea di che cosa sia questo nulla o la fine del mortale?

Spostandoci dalla filosofia e passando al campo psicologico, nel caso del suicidio v’è una valenza non indifferente, specie in relazione alla fase adolescenziale. Quel che risulta, solitamente, è una totale inconsapevolezza della morte, della propria fine in questo mondo, il tutto legato all’atto, all’esecuzione isolata dalla ragione. L’azione suicida, come fuga dal mondo da una vita assolutamente impossibile, richiede una forza e una determinazione potenti, ben lontani dal gesto esibizionista, egocentrico ma soprattutto curioso delle reazioni seguenti. Il dato di inconsapevolezza sta tutto in quest’ultima proposizione, nel fatto di voler sapere che cosa succederà dopo la nostra morte, chi ne soffrirà, chi rimarrà colpito e sorpreso; con l’unica differenza che il soggetto non sarà lì a vedere tutto ciò.

Il mio memento mori iniziale è diretto anche e soprattutto ai giudici di atti compiuti da parte di adolescenti.
L’inconsapevolezza, secondo due direzioni diventa reciproca,  mostrando l’analfabetismo emotivo dei grandi giudizi di valore del nostro tempo, quelli virtuali e banali. Chi diventa adulto, spesso, ricorda nostalgicamente i bei tempi passati, la scuola e gli amici; dimentica tuttavia la totalità delle sensazioni e delle emozioni provate. La rimozione è facile, è un meccanismo consueto e porta con sé una buona dose di inconsapevolezza da offrire al popolo.

In fondo, tutti siamo più o meno inconsapevoli di fronte a quello che Hegel nella Fenomenologia dello spirito definiva il signore assoluto, ovverosia la morte da cui ne deriva una profonda paura, un’angoscia nel porsi davanti alla totalità della propria esistenza. Lo stesso Seneca scrive:

«Ci vuole tutta una vita per imparare a vivere, e, ciò che forse ti stupirà di più, ci vuole tutta una vita per
imparare a morire»1.

In tal modo ci riscopriamo tutti nella medesima situazione, tutti abbiamo intrapreso lo stesso cammino nel
quale dare un senso alla nostra vita per poi riuscire ad abbandonarla.

All’inizio dell’articolo parlavo di accettazione, passaggio fondamentale quanto difficile da raggiungere. Elisabeth Kübler-Ross lo pone, appunto, come ultimo stadio affrontato da un malato terminale nella convivenza con la sua malattia e con l’imminente morte. La psichiatra svizzera, ne La morte e il morire, traccia un preciso disegno della processualità del malato terminale suddividendolo in cinque stadi: rifiuto, rabbia, negoziazione, depressione, accettazione2.

Nella sua esperienza negli ospedali, racchiusa nell’opera sopraccitata, si possono leggere le varie interviste rivolte ai suoi pazienti, all’interno delle quali si possono cogliere le profonde sfumature emotive. Il rifiuto iniziale, il non riuscire a credere ad una tale notizia che implica inevitabilmente un pensiero che non occupa uno spazio così ingombrante nel quotidiano, che non ci tormenta. La rabbia, appena ci spostiamo dall’atteggiamento di chiusura, ci pervade e ci rende collerici nei confronti delle persone che ci stanno accanto, con il mondo stesso perché lo odiamo nella sua totalità. La negoziazione richiama a quella speranza che non viene mai a mancare in tutti i passaggi e ci fa pensare a qualche via di fuga, ai compromessi vari. La depressione non può che essere conseguente alla, seppur incompleta, realizzazione dell’evento. L’accettazione si fa ultimo traghettatore, una condizione che se raggiunta effettivamente riesce a farci congedare con la pace totale, la quiete e l’armonia con quel che è stato, che è e che sia avvia alla sua naturale conclusione.

La forza, la potenza e la complessità di questo percorso sono nella non-immediatezza, nell’intreccio necessario con la temporalità che sa essere tiranna. La pazienza dovrà prendere il posto dell’impulsività, l’attesa quello della pretesa che vuole tutto subito, nel qui ed ora. Altri non è che un’illusione e forse questo è l’insegnamento più prezioso che ci dà Kübler-Ross, ovverosia il riuscire a porci nei confronti della vita stessa, prima che della morte, con un atteggiamento capace di riflettere questo equilibrio. Essere in grado di «guardare in faccia il negativo»3, direbbe ancora una volta Hegel, e che superi le contraddizioni, le necessarie contraddizioni che ci compongono e che ci rendono così dannatamente e piacevolmente imperfetti, finiti di fronte all’infinito.

 

Alvise Gasparini

 

NOTE
1. L.A. Seneca, De brevitate vitae, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano 1993, p. 57
2. E. Kubler-Ross, La morte e il morire. Assisi: Cittadella, 2015.
3. G. Hegel, Fenomenologia dello spirito. Bompiani 2000

 

[Photo credits: Noel Nichols via Unsplash]

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Scimmie clonate in Cina: si riapre il dibattito etico-scientifico

La rivista Cell dell’Istituto cinese delle scienze a Shanghai ha annunciato la nascita di due esemplari di macaco clonati con la stessa tecnica utilizzata nel 1996 per “creare” la pecora Dolly.

Zhong Zhong e Hua Hua, questi i nomi delle due scimmiette, sono stati originati tramite la tecnica del trasferimento nucleare che consiste nel trapiantare il nucleo di una cellula dell’individuo da clonare in una cellula uovo non fecondata e precedentemente privata del suo nucleo. 

La nascita dei macachi arriva a 19 anni dalla prima clonazione di un primate, la femmina di macaco Tetra, creata nei laboratori dell’Oregon National Primate Research Center grazie ad una tecnica che prevede la scissione dell’embrione ai primissimi stadi dello sviluppo, imitando sostanzialmente il processo naturale all’origine dei gemelli identici (monozigoti). 

A differenza di quanto accaduto con altri mammiferi, nelle scimmie i tentativi di clonazione attraverso la tecnica del trasferimento nucleare sono tutti falliti poiché nei nuclei delle cellule differenziate di tali esemplari sono presenti dei geni cosiddetti “spenti” che impediscono all’embrione di svilupparsi. Gli scienziati cinesi sono riusciti per la prima volta a riattivarli grazie all’utilizzo di “interruttori” molecolari creati ad hoc, incorporati successivamente al trasferimento del nucleo. L’esito positivo del processo di clonazione è stato poi ulteriormente incrementato prelevando il nucleo da cellule fetali invece che da cellule adulte (come era avvenuto per la pecora Dolly)1.

Quanto incidono questi due piccoli di macaco sul futuro dell’umanità, che impatto avrà la loro nascita sull’evoluzione della ricerca scientifica?

Studiare la crescita di questi due macachi sarà utile, promettono gli scienziati, per conoscere l’impatto delle malattie anche sull’uomo e aprire nuove prospettive per la cura di molte patologie umane gravi come le malattie del sistema nervoso (Alzheimer, Parkinson, Ictus), ma si tratta anche di un’operazione scientifica che può suscitare importanti problemi etici, proprio perché le scimmie sono una specie geneticamente molto simile a noi umani: a seconda della specie, hanno tra il 93% e il 99% di DNA identico al nostro.

Molti in questi giorni hanno congetturato scenari fantascientifici paventando la possibilità teorica di un utilizzo snaturato di queste nuove conoscenze. La venuta al mondo di Zhong Zhong e Hua Hua ha riportato alla luce questioni riguardanti quanto in là possa spingersi la scienza nell’esplorare e nello sperimentare prima di sconfinare nell’aberrazione.

La clonazione dei due macachi da inevitabilmente dato origine ad un dibattito etico relativo alla possibilità che questa tecnica venga in un prossimo futuro trasferita sull’uomo: ma a quale scopo? A cosa servirebbe creare un clone umano?

Secondo alcuni ricercatori, allo stato attuale delle conoscenze, probabilmente avremmo gli strumenti per tentare di clonare l’uomo, ma questo non significa  che sia automaticamente una via praticabile. Nelle clonazioni più semplici, come quelle dei roditori, si ottiene un successo dopo decine di esperimenti, senza contare che spesso gli animali nascono con deficit neurologici, malformazioni o altre patologie. Per portare a termine la clonazione delle due scimmie i ricercatori cinesi hanno dovuto fare tantissimi tentativi. Si può ipotizzare che per clonare l’uomo sarebbe necessario l’impiego di centinaia di ovuli, tra l’altro difficilmente reperibili senza mettere in pericolo la salute delle donne donatrici. Inoltre, rimane ingente il rischio che i bambini clonati nascano con problemi neurologici e una serie disfunzioni fisiche. Oltre a ciò, deve essere chiaro che il genoma può essere clonato, ma l’individuo stesso ovvero il fenotipo, no. Le caratteristiche che costituiscono l’individuo che non siano rigorosamente anatomiche e fisiologiche non sono determinate con precisione dal genotipo, quindi, la condizione di copia rispetto ad un altro individuo potrebbe essere una grave minaccia per l’identità psichica di soggetti pensanti e coscienti.

In questo senso la scienza che sembra non avere limitazioni teoriche deve assolutamente imporsi dei limiti di fronte al reale e di fronte alla possibile attuazione di pratiche inedite conseguenti al progresso scientifico-tecnologico.

Le nuove possibilità di manipolazione della vita umana e animale sollevano interrogativi legati alla consapevolezza che non tutto ciò che è scientificamente e tecnologicamente possibile sia eticamente lecito.

Per quanto possano essere interessanti ed affascinanti gli scenari che vanno delineandosi con il progresso della tecnoscienza vi sono anche molti rischi non sempre prevedibili che possono comportare danni irreversibili e inquietudine per la vita dell’uomo, nonché per quella sulla terra.

Una scienza responsabile e guidata da principi etici estremamente solidi è l’unica arma che abbiamo per regolamentare la ricerca ed evitare che la corsa verso il progresso sia così veloce da perderne il controllo.

 

Silvia Pennisi

 

NOTE
1. La pecora Dolly venne soppressa nel 2003 in quanto presentava disturbi da invecchiamento precoce, tipici di ovini anziani. Infatti, i geni della sua cellula non si erano tutti riprogrammati, alcuni avevano conservato la memoria di una cellula somatica adulta.

 

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Il contratto sociale: Rousseau e la contemporaneità

<p>defocused crowd of people --- Image by © Images.com/Corbis</p>

È indubbio che l’Occidente stia vivendo un momento molto interessante della sua storia politica: anche grazie al concretizzarsi di alcuni scenari socio-politici che si credevano impossibili, assurdi, si ha un risveglio – forse lento, forse ancora iniziale – della coscienza politica dei cittadini occidentali. C’è voglia di occuparsi di politica e si è tornati a parlarne quotidianamente: quel che manca, a volte, son le categorie con cui interpretare alcuni fenomeni politici e la discussione pubblica diventa chiacchiericcio. In un sistema di mondi possibili ve n’è uno in cui ogni cittadino è adeguatamente informato a proposito di ciò di cui parla, in cui il discorso pubblico si colloca opportunamente rispetto ai fenomeni di cui si fa interprete. Questo mondo è ben lungi dall’essere identificabile con il nostro, in cui viviamo una tensione, un conflitto tra la voglia di partecipare al discorso pubblico e l’inadeguatezza della formazione generale dei cittadini: tra gli esiti di questo conflitto, vi sono alcune forme insane di partecipazione politica. Diciamo insane per intendere quelle forme di partecipazione alla cosa pubblica che mancano l’obiettivo, che illudono il cittadino di avere una qualche influenza sulla dimensione politica del mondo in cui vive.

Come si può risolvere questo conflitto e rendere possibile per tutti, cioè per chiunque abbia voglia di formarsi adeguatamente, la partecipazione al discorso pubblico?

Bisogna tornare a riflettere sulle origini della comunità politica in cui il cittadino si propone di agire, tentare di comprendere le ragioni di questa estraneità che la generalità delle persone vive rispetto ad essa, per poi ricalibrare adeguatamente le forme di partecipazione: la politica – intesa qui in senso ampio – va evolvendosi a ritmi serrati e non è pensabile che i cittadini non elaborino forme di azione e discorso politico altrettanto evolute, a meno che non si voglia rinunciare del tutto a questa dimensione. La qual cosa significherebbe accettare tacitamente una qualsiasi forma di dispotismo, poiché verrebbe meno la forza politica del cittadino e, con essa, il principale limite di ogni limite costituito.

Per riflettere circa la formazione della comunità politica, è opportuno farsi guidare da quei pensatori che hanno dedicato a questo tema il meglio della loro riflessione filosofica.

Uno tra questi è senza dubbio Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che ha riflettuto a proposito dei momenti costitutivi della comunità politica, quelli in cui gli esseri umani entrano a far parte di un grande e unico corpo politico, attraverso la stipulazione di un contratto sociale. Quanto v’è di peculiare nella riflessione di Rousseau, a ben vedere, è il fatto che il cittadino debba rinunciare del tutto alla propria sovranità, di cui godeva in stato di natura, senza con ciò subire alcuna diminuzione: la cittadinanza riconsidera tutti e sana ogni deficit di potere. È nella partecipazione alla vita della comunità che l’essere umano è pienamente autonomo e libero: e ciò è possibile per il fatto che il cittadino partecipa alla nascita della comunità di cui sarà parte, esercitando in prima persona il proprio potere.

Ciò che sembra mancare alla nostra contemporaneità è la disponibilità ad assumersi, da parte di troppi singoli, porzioni seppur ridotte di responsabilità: a tale resistenza fa da contraltare, ad ogni modo, la richiesta sempre più forte di spazi d’azione critica rispetto alla vita politica. Sembra, cioè, che alcuni cittadini vivano una relazione posticcia con la propria comunità, alla cui ideale fondazione non prendono parte, restando inevitabilmente in una situazione conflittuale tra i propri desideri e le condizioni di attuabilità degli stessi.

Emanuele Lepore

[Immagine tratta da Google Immagini]

Ascoltarsi: come la malattia diventa un alleato

<p>Stack of pebbles in shallow water with blue sky background</p>

L’incontro Ascoltaci, ascoltati e scegli: non alimentare la malattia, tenutosi presso Villa Fior di Castelfranco la sera del 23 novembre e organizzato da Rebellato Center, ha cercato di mettere al centro delle relazioni del dottore Mark Pfister e della dottoressa Federica Becherin, un aspetto focale della medicina contemporanea: il significato della complessità e, insieme, dell’unicità di ciascun essere umano.
Lungi dall’essere considerata come un ‘castigo degli dei’ oppure come ‘una macchina non funzionante’, la malattia dovrebbe invece costituire un momento inevitabile – anzi, di certo si può ben parlare di più momenti necessari – di quel complesso insieme di funzioni biologiche che è il nostro corpo. Un corpo che abbiamo, quindi. Ma anche, e soprattutto, un corpo che siamo. Un corpo oggetto che entra in interazione con l’ambiente esterno e un corpo vissuto, attraverso il quale ciascuno di noi si esprime. Un insieme di leggi biologiche rispondenti agli input esterni, e una dimensione coscienziale che continuamente ne è chiamata all’appello. 
Esisterebbe una fisiologia normale, definita normotonia. Nel nostro organismo però, essa non può realizzarsi in termini assoluti.
Pertanto, quella umana è una fisiologia speciale, che entra in relazione con ciò che accade su più livelli.
Così chiamata simpaticonia, essa ci permette di attivare, nel nostro organismo, precise funzioni fisiologiche rispondenti ad un avvenimento inaspettato e improvviso, ovvero a ciò che in altri termini chiamiamo comunemente shock.
Lo shock, generante il momento di stress psicofisico, costituisce un periodo necessario e fondamentale.
Questa fase conflittuale, già precedentemente definita simpaticonia, ci permette in seguito di rispondere biologicamente all’iper-stress, attraverso un momento di compensazione e riparazione: la fase vagotonica.
Ciò che è risultato interessante nella relazione del Dottor Pfister è stata l’esplicazione del legame esistente tra l’accadimento generante lo stress emotivo nel presente e il richiamo – inconscio – ad un avvenimento passato, generalmente della nostra infanzia. In questo senso, possiamo perciò affermare di non essere unicamente il nostro corpo. Le relazioni fisiologiche che ci attraversano sono spesso legate a un richiamo al passato, facente sorgere in noi il momento ‘conflittuale’. È necessario tuttavia saper bilanciare momenti di stress con fasi di riposo, affinché la tensione accumulata in simpaticonia non produca in seguito un’eccessiva stanchezza fisica e mentale.

La seconda parte dell’incontro, invece, avente come relatrice la Dottoressa Federica Becherin, era focalizzata sul cibo e sul rapporto di quest’ultimo con la medicina.
Malgrado gli alimenti possano moderare e influenzare una simpacotonia oppure una vagotonia, essi non possono avere un valore assoluto circa i cambiamenti del nostro corpo.
Avere un regime alimentare corretto non è facile. E non lo è soprattutto in un’epoca come la nostra, in cui siamo tempestati da modelli alimentari incitanti la performance (per esempio, nel caso di una preparazione sportiva) e da ‘mode’ alimentari presumibilmente salutari.
Tutto dipende dalle ragioni che ci spingono a escludere un cibo, piuttosto che ad assumerne un altro. Vivere con il proprio corpo e la propria mente la scelta di seguire, per esempio, una dieta vegana significa farlo con serenità, senza sentirsi privati da qualcosa. Senza resistenze, né tanto meno restrizioni.

L’alimentazione rappresenta dunque parte del nostro ‘esserci’: include in essa desideri e bisogni. È importante, perciò, non fare del cibo che assumiamo la nostra identità, la nostra ‘etichetta’: l’individuo sopravvive grazie a ciò che mangia; tuttavia, il cibo rappresenta solo una delle componenti di cui abbiamo bisogno per vivere serenamente.
Il consiglio, come lo suggerisce bene il titolo della conferenza, è ascoltarsi. Ascoltarsi e comprendersi. Comprendersi e cercare di ristabilire un’armonia con se stessi.
Solo così, l’evento della malattia può trasformarsi da nemico a alleato.

Sara Roggi

In collaborazione con Salute+ Treviso

 

[Immagine tratta da Google Immagini]