Non illudiamoci di essere indispensabili

Ma cerchiamo almeno di risolvere problemi

Qualche settimana fa stavo parlando con due clienti, marito e moglie. «Di professione faccio il filosofo», spiego a loro. Ma vedo che i loro quarant’anni di matrimonio li riportano a un’epoca in cui la filosofia ancora non esisteva. Eppure avevo letto che si era diffusa già più di 2500 anni fa.

Allora continuo con una spiegazione più dettagliata su quello che faccio, e i due coniugi (proprietari di un’azienda veneta) iniziano a rasserenarsi perché inizio a parlare di efficienza, marginalità, fatturato. Dovevamo solo trovare una lingua comune.

«Quindi tu sei una sorta di lubrificante» se ne esce il marito, destando scompiglio e imbarazzo tra i presenti. E fortunatamente la moglie cerca di chiarire all’istante: «Aiuti le persone a relazionarsi tra di loro per produrre di più e lavorare meglio». Sì, indicativamente.
«Beh», continua la moglie, sperando che il marito non faccia altri riferimenti a lei poco graditi, «Qui da noi nessuno è indispensabile. Se qualcuno non lavora bene cerchiamo di rimpiazzarlo e di ripartire con qualcun altro. Abbiamo bisogno di persone che ci risolvano problemi, che li anticipino.»

Fortunatamente è nata una sincera amicizia lavorativa tra di noi, che mi ha portato a riflettere con loro su questo principio. Un modus operandi condiviso anche da altre realtà, da altre aziende. Forse è un po’ frutto dell’attuale cultura lavorativa: molto più mobile e flessibile, in cui nessuno (si dice) è indispensabile. L’azienda prima di tutto. Poi le persone. L’azienda c’era ancor prima che arrivassero la maggior parte di queste persone, e continuerà anche dopo. In un modo o nell’altro.

Il nostro ruolo sulla terra è insomma contingente, nulla di essenziale, di determinato, di indispensabile agli altri. Ma senza spingerci all’interno dell’esistenzialismo, rimaniamo in azienda. Il ruolo dei dipendenti, ma anche dei manager, sembra costantemente appeso a un filo (un fil di ferro forse, ma pur sempre un filo). In bilico tra l’incremento del fatturato e la sostanziale capacità di non creare problemi, ma risolverli.

A questo siamo chiamati. A risolvere problemi. A rimanere in costante stato d’allerta, con una spada di Damocle posizionata sulla testa, pronti a non dare fastidio e a ridurre il fastidio.

Non basta “essere” in azienda. Non basta essere presenti. L’Esserci di Heidegger non trova spazio. Non siamo su questa terra (ma abbiamo detto di star lontani dall’esistenzialismo, limitiamoci a parlare di azienda!), non siamo in quest’azienda soltanto per confermare la nostra presenza, per affermarci, per far emergere la nostra umanità. Né siamo qui soltanto per obbedire agli ordini. Ormai è troppo poco. Siamo chiamati a risolvere problemi. Altrimenti, avanti un altro.

Sembra una guerra, una lotta perpetua in cui non si può stare un attimo con le mani in mano in stato di quiete.

E Herbert Spencer (filosofo inglese, esponente del darwinismo sociale) ci direbbe questo:

«Pur concedendo che senza queste lotte perpetue le società civili non sarebbero sorte, ed era necessario vi concorresse una forma idonea di carattere umano, feroce e intelligente, possiamo nel tempo stesso ritenere che, formatesi tali società, sparisce la brutalità del carattere degli individui, resa necessaria dal processo produttivo, ma non più necessaria dopo che il processo è compiuto».

(Herbert Spencer, Principi di Sociologia, 1967, II, pp. 22-23)

Spencer pensa quindi che questa brutalità non sia più necessaria ora che le società sono formate, e che quindi possiamo tranquillizzarci e vivere senza il pensiero che il nostro vicino di casa ci potrebbe invadere da un momento all’altro.

Vero. Ma l’azienda è come se fosse una società non ancora formata. Perché non si forma mai, non arriva mai ad uno stato di “arrivo”, di compiutezza. È un’entità in continuo divenire, per cui c’è bisogno di persone che continuamente risolvano i problemi. E, se non ottengono il risultato, la brutalità è lì pronta ad uscire dal covo. Pronta a soppiantarci per qualcuno di più flessibile, o per una macchina robotizzata che non si rivolge nemmeno ai sindacati.

Non che quello dell’avanzamento della tecnologia sia un problema. Non rientra nemmeno in un dilemma morale. Le macchine si occupano, per ora, problemi semplici, meccanici, per l’appunto. Quelli per cui non si è indispensabili in nessun caso.

Per far contenti i due coniugi veneti dovremmo riuscire a risolvere problemi ben più complessi. Come ad esempio la relazione tra le persone, i flussi di scambio di idee, comunicazioni, conflitti. Qualcosa di impalpabile, di utile e complesso. Con la genialità e con quel valore umano che − ancora − le macchine non riescono a riprodurre.

Giacomo Dall’Ava

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Arte e giustizia: la Pop Justice e Leonardo da Vinci

L’immagine della giustizia è una non immagine. Già il maestro del cinema Stanley Kubrick aveva stigmatizzato questa questione: un fatto umano tanto centrale nella vita cognitiva dell’uomo non vive di immagini e ciò comporta un grosso limite per la sua comprensione. Di contro, comprendere il diritto e, di conseguenza, comprendere la giustizia, vuol dire interpretare la società ed anche dare valore concreto al principio secondo cui la pena deve avere anche una funzione general-preventiva (cioè essere rivolta alla società). Senza immagini resta una giustizia liofilizzata, una meta-giustizia.

Persino l’arte ha dovuto uscire dal suo stereotipo dematerializzato dell’antichità e del Medioevo (prima con le armonie geometriche delle statue di uomini ideali e poi con l’assolutamente sacro della scultura e della pittura); è avvenuto nel 1473 quando Leonardo da Vinci ha disegnato il suo Paesaggio con fiume, che ha segnato il definitivo passaggio delle arti figurative verso una nuova dimensione paragonabile a quella che propose filosoficamente Heidegger nel 1927 con Essere e tempo ed il suo esser-ci come “progetto gettato” (nel mondo). L’uomo non vive fuori dal suo contesto. La storicità del proprio tempo, la condizione soggettiva, la sua “geolocalizzazione”, sono tutti elementi decisivi per l’espressione e la comprensione dell’essere e dunque del fare. L’arte lo ha compreso nel Rinascimento: l’individuo va collocato nel paesaggio, diversamente resta un meta-individuo.

La giustizia, come accennato, ha sempre difettato di immagini, ancorché il pubblico sia attratto dal giudizio e dal crimine: in parte come voyeurismo verso “il male”, in parte per controllare l’operato del giudizio, così da capire se gli uomini, chiamati a giudicare i propri simili, svolgono correttamente la loro funzione. La mancanza di immagini della giustizia ha portato la medesima a rappresentarsi in due modalità differenti: mediante il suo lato più crudele (Giordano Bruno bruciato in Campo dei Fiori o le moderne “manette in mondovisione”) oppure in modo caricaturale (Kafka e Manzoni in letteratura o Kubrick e Alberto Sordi nel cinema). Neppure l’avvento massificato dei media aveva realmente creato immagini che consentissero di avere una cognizione piena del funzionamento della macchina giudiziaria. La giustizia mediatica è stato uno strumento del consenso per l’attività dello jusdicere ma non ha mai rappresentato il suo reale funzionamento. Il capitalismo sfrenato del Duemila, che ha superato quello della produzione industriale, così mercificando anche i suoi valori e disvalori (in questo caso la giustizia ed il crimine) e dunque superando le tesi marxiane che si attestavano sulla “mercificazione delle merci” come prodotti industriali, ha creato “Il Paesaggio con Giustizia”, in una riedizione in chiave processuale del disegno rinascimentale di Leonardo.

È l’avvento della Pop Justice, la “giustizia-merce” fatta di spot pubblicitari e immagini. Questa forma di giustizia ha abbandonato il “processo vero” (cosa che non aveva fatto la giustizia mediatica) e ha trasformato le vicende giudiziarie in libri gialli a puntate, dove il colpevole non è quello che emerge dall’aula ma dal sentire popolare; e la vicenda è quella del fumetto costituito dalle immagini televisive e dai post sui social network. È del tutto evidente che questa giustizia pop non vive delle regole del codice, ma vive di altro. È accaduto quanto avvenne con “la svolta paesaggistica” di Leonardo che ha sfilato il meta-uomo e l’essere divino dall’arte, per calare il soggetto nel “suo mondo”, senza distinzione tra individuo e paesaggio. Questa non è solamente una mossa estetico-artistica ma una svolta cognitiva. È l’affondo al problema della giustizia come individuato da Kubrick. Assai spesso l’aula del tribunale smaterializza il diritto quando invece le scienze neuro-cognitive hanno un approccio heideggeriano. Per questo la giustizia rischia di non essere recepita come giustizia giusta. La Pop Justice è come il quadro di Leonardo. Ma il paesaggio della giurisdizione cambia. Diventa un thriller da libro giallo.

Luca D’Auria

[Immagine tratta da Google Immagini]

Come stai? Bene! (sbagliato)

Come stai?

A volte dietro questa semplice domanda si nascondono le risposte più impensate, anche dalle persone che crediamo di conoscere bene. Spesso quelle risposte vengono bloccate, represse, ingoiate e rimangono dentro come macigni, mentre la nostra bocca pronuncia un flebile “bene grazie”.

L’apparenza a cui siamo costretti il più delle volte è un’abitudine deleteria, un’usanza che ci uccide dentro per dare dimostrazione della nostra perfezione all’esterno.

Perché siamo costretti a mentire, a fingere benessere, a pensare che tutto stia filando liscio? Per paura, per bisogno e necessità. Per gli altri. Si mente pensando all’altro, a chi potrebbe soffrire del tuo malessere, a chi potrebbe sì consolarti ma non aiutarti.

Eppure tutto poi viene fuori, in un modo o in un altro.

Occhi acuti, sguardi attenti e orecchie in ascolto percepiscono ogni minimo cambiamento, ogni espressione diversa e piano piano ti inducono ad estrarre dal petto quel macigno, senza che tu debba necessariamente dare spiegazioni.

La mente in queste situazioni è assolutamente assuefatta, percorre imperterrita la sua strada, ascolta le parole altrui ma le sente da lontano, come una eco, a volte fastidiosa, altre confortante, ma comunque inutile ad interrompere la sua corsa.

Quale corsa poi?

Un percorso ardito verso il nulla, verso qualcosa che si prospetta già determinato, finito, senza uscita eppure una strada che ti rapisce e ti inghiotte come un vortice senza darti il tempo nemmeno di respirare.

Arriva poi un giorno, quando la mente si ritrova sotto acqua, in apnea da troppo tempo, e, anche se lei continuerebbe lo stesso in tali condizioni, il fisico dice basta! e inizia a mandare segnali di malessere, quello stato che la mente aveva represso, vivendo di mezze felicità, di attimi di gioia e di gabbie costruite ad hoc.

E quella domanda ‘come stai?’ inizi a fartela tu. Sì, inizi finalmente a parlare con te stesso, a cercare chi sei o chi sei diventato e perché sei diventato così. Le risposte ovviamente non arrivano perché la mente continua a mentire e a non ascoltare il corpo.

E perché mente?

Perché vuole vivere!

Perché nonostante il dolore, la sofferenza che si possono provare in determinate situazioni, la mente si sente viva!

Il dolore non è qualcosa che va bypassato o da cui occorre scappare, il dolore è qualcosa che va attraversato, vissuto fino in fondo, perché no anche subìto per poterlo conoscere e per dire, una volta superato, di avercela fatta veramente, senza più la paura di ricadere nello stesso tunnel.

A volte la vita ti permette di avere queste esperienze che all’inizio sembrano casuali, capitate per chissà quale motivo, solo alla fine delle stesse ti rendi conto che niente è per caso e che erano le ennesime prove per conoscere di più se stessi.

Dire per ogni cosa “a me non capiterà mai” è sbagliato. Può capitare tutto a tutti ma questo non vuol dire essere persone cattive, false, amorali.

La nostra vita ha bisogno di scosse di amoralità, di finzione e di sorpresa per aiutarci a capire i nostri limiti, le nostre debolezze, le nostre mancanze o le nostre necessità, altrimenti se tutto filasse sempre liscio non potremmo mai capire cosa vogliamo veramente dalla vita, perché saremmo adagiati ad una routine in cui tutto scorre come sempre.

Ora la routine a me fa paura, come mi fanno paura il mare calmo o il cielo sereno. Sono tutti momenti di apparente stasi in cui tutto può succedere all’improvviso. La vita che ti sorprende ogni giorno, il mare mosso o il cielo tempestoso ti turbano sicuramente perché non danno certezze, però ti mettono alla prova, ti sfidano, minando le tue certezze, mettendo alla prova la tua coerenza, cercando di farti guardare dentro per trovare la forza che nella routine non hai bisogno di manifestare.

Recentemente, la scrittrice di Harry Potter, J.K.Rowling, durante il discorso ai laureandi di Harvard ha speso bellissime parole per il concetto del “fallimento”:

Fallire ha voluto dire spogliarsi dell’inessenziale. Ho smesso di fingere di essere qualcos’altro se non me stessa e ho iniziato a indirizzare tutte le mie energie verso la conclusione dell’unico lavoro che per me aveva importanza. Non mi occupavo davvero di nient’altro, se non trovare la determinazione nel riuscire in un campo a cui credevo di appartenere veramente. Ero finalmente libera perché la mia più grande paura si era davvero avverata, ed ero ancora viva […]

Una certa dose di fallimento nella vita è inevitabile. È impossibile vivere senza fallire in qualcosa, a meno che non viviate in modo così prudente da non vivere del tutto – in quel caso, avrete fallito in partenza.

Fallire mi ha dato una sicurezza interiore che mai avevo raggiunto superando gli esami. Fallendo ho imparato cose su me stessa che non avrei mai imparato in un altro modo. Ho scoperto che ho una volontà forte, e più disciplina di quanto avessi pensato; ho anche scoperto che avevo amici veramente inestimabili.

Il sapere che vi rialzate più saggi e più forti dalle cadute significa che sarete, da allora in poi, sicuri nella vostra capacità di sopravvivere.

Non conoscerete mai voi stessi, e la forza dei vostri legami, fino a quando entrambi non saranno provati dalle avversità.

Una tale conoscenza è un vero dono, per tutto ciò che avrete vinto nella sofferenza, e per me ha più valore di ogni altra qualifica abbia mai guadagnato.

Il fallimento come il dolore, come il senso di colpa o il senso di assenza e mancanza, sono occasioni!

Occasioni per liberare noi stessi dalle gabbie mentali in cui ci ostiniamo a vivere.

Occasioni per sentirci liberi di dimostrare chi siamo senza vergognarci.

Occasioni per urlare agli altri che sì, nemmeno noi siamo perfetti!

Una volta raggiunta la consapevolezza del fallimento come occasione, ci saremo davvero rialzati più forti di prima e avremmo capito la forza di noi stessi che prima era celata dentro di noi.

Stay hungry

Stay foolish

è un frase ormai anche troppo utilizzata, eppure è un motto che deve far parte della nostra vita sempre e comunque.

Essere affamati, avere voglia di prendere a morsi la vita, qualunque cosa essa ti presenti davanti è lo spirito che ti permette di affrontare le avversità.

Essere folli è andare incontro all’imperfezione, abbandonando la strada del consueto, del banale e del finto perfetto, perché solo nella follia assapori veramente il gusto della vita, dolce o amaro che sia, e solo la follia ti concede il lusso di osare, sbagliare e ricominciare.

L’abitudine spesso sbiadisce i colori

Ravviviamoli perdendo, ogni tanto, l’equilibrio.

Valeria Genova

[Immagine tratta da Google]

Etty Hillesum: vincere l’isolamento intellettuale

In tempi difficili come quelli che stiamo attraversando, particolarmente negli uomini di pensiero si erge spesso forte e spontaneo il desiderio di “affrontare” la realtà rifugiandosi nei libri, nei poeti, nella speculazione, nel silenzio di librerie, biblioteche e scrittoi. Questo peculiare stile di vita può essere fonte di nutrimento e di elevazione interiore. Anzi, per l’intellettuale esso diviene propriamente un habitus. Ma siamo sicuri che questo, anche per il pensatore, sia il modo migliore per stare nel mondo? Siamo certi che basti a fare dell’intellettuale una persona completa? Non c’è forse il rischio di una fuga dalla realtà, in favore di un intellettualismo solipsistico?

Etty Hilleusm, giovane pensatrice olandese di origine ebraica, morta ad Auschwitz nel 1943, si pone tali domande e ad esse tenta di fornire risposte. È il 1941 quando, su consiglio del proprio psicoanalista, inizia a tenere il Diario e l’Olanda è sotto il dominio nazista da quasi un anno. Ella coglie da subito, molto lucidamente, lo scenario di morte che si delinea per gli ebrei olandesi. L’apocalittico finale inizia però con una serie di eventi via via più crudeli: arresti, privazione delle più elementari libertà, suicidi di professori universitari. Hillesum comprende che si stanno perdendo diversi punti di riferimento etici, sociali, culturali e valoriali. «È tutto un mondo che va in pezzi»[1] scrive nel proprio Diario. Una profonda e comprensibile malinconia pervade la sua giovane e debole anima. Come donna di pensiero sperimenta il forte desiderio di fuggire questa tragica situazione rifugiandosi nella filosofia, nella letteratura, nella psicologia, nella sapienza religiosa, circondandosi della compagnia di Kierkegaard, Rilke, Jung, Freud, Hegel, Agostino, Tolstoj, Dostoevskij, l’evangelista Matteo e l’apostolo Paolo. Lo comprendiamo quando scrive:

«A volte vorrei essere nella cella di un convento, con la saggezza di secoli sublimata sugli scaffali lungo i muri e con la vista che spazia su campi di grano, devono proprio essere campi di grano, e devono anche ondeggiare al vento. Lì vorrei sprofondarmi nei secoli in me stessa. E alla lunga troverei pace e chiarezza»[2].

Come biasimare la volontà di crearsi un’oasi di serenità dimenticandosi del mondo esterno, della realtà, dell’avverso destino che l’attende?

Tuttavia, Etty Hillesum ci stupisce. Vuole vincere l’isolamento intellettuale e di seguito afferma:

«Ma questo non è poi tanto difficile. È qui, ora, in questo luogo e in questo mondo, che devo trovare chiarezza e pace e equilibrio. Devo buttarmi e ributtarmi nella realtà, devo confrontarmi con tutto ciò che incontro sul mio cammino, devo accogliere e nutrire il mondo esterno col mio mondo interno e viceversa» [3].

Sente di dover e di poter vivere a diretto contatto con il mondo esterno, con la tragica storia che la attraversa, dispensando nel mondo la saggezza e l’amore che vibrano nel profondo della sua giovane anima.

Il rapporto fra interiorità ed esteriorità è centrale nel percorso personale e intellettuale della ragazza di Amsterdam. La massima esistenziale che guida la sua vita sino alla morte, sono le parole che scolpisce nel Diario il 25 marzo 1941: «vivere pienamente, verso l’esterno come verso l’interno, non sacrificare nulla della realtà esterna a beneficio di quella interna, e viceversa: considera tutto ciò come un bel compito per te stessa» [4]. E’ dunque un “bel compito” il saper utilizzare la sapienza letteraria, filosofica e spirituale per esistere e trovare un senso alla vita, nel pezzo di storia che ci è toccato in sorte. Anche, come per la giovane ebrea olandese, nel profondo dell’inferno umano rappresentato prima dal campo di smistamento di Westerbork e successivamente dal campo di sterminio di Auschwitz.

Mentre l’isolamento è pensiero cieco ed esistenza incompiuta, la vita e le parole di Etty Hillesum sono testimoni di una sapienza incarnata, di una vita alimentata dal pensiero e di un pensiero reso fertile dalla vita. La filosofia, sin dalle sue origini, non ha a che fare con una riflessione astratta e lontana dalla quotidianità, bensì, come sostiene Hadot, con un «saper vivere […] con un certo modo di essere» [5]. La modernità di Etty consiste propriamente nell’aver riportato l’esercizio del pensiero a concreta pratica di vita e nell’aver dimostrato, come gli antichi sapienti, che la bellezza della saggezza si esprime solo quando essa incontra la realtà e con essa dialoga ininterrottamente. In effetti «la verità della “teoria” filosofica dipende dal modo in cui il discorso filosofico si realizza» [6].

Il messaggio forte e profondo che l’anima libera di Etty Hillesum ci ha trasmesso, è espresso nelle incisive parole che scrive nel Diario il 30 settembre 1942:

«E dovunque si è, esserci “al cento per cento”. Il mio “fare consisterà nell’essere”!» [7].

Alessandro Tonon

NOTE:
[1] E. HILLESUM, Diario, tr. it. di C. Passanti e T. Montone, Milano, Adelphi, 2013, p. 98.
[2] Ivi, p.125.
[3] Ivi, p. 125.
[4] Ivi, p. 99.
[5] HADOT, La felicità degli antichi, Milano, Raffaello Cortina, 2011, p.84.
[6] R. MADERA e L. V. TARCA, La filosofia come stile di vita, Milano, Mondadori, 2003, p. 200.
[7] E. HILLESUM, Diario, op. cit., p. 779.

Non dimentichiamoci di esserci

Ogni giorno ci alziamo, facciamo colazione, ci prepariamo per una nuova giornata. La maggior parte delle volte però non ci accorgiamo di noi stessi, troppo immersi dal traffico mondano, dalla fretta scandita dalla società, dai doveri imposti e che ci imponiamo relativi ai ruoli che pensiamo di dover assumere. Non ci rimane tanto tempo per pensare, per comprendere quanto invece si è perso di essenziale, perché altri ci dicono cosa pensare e come pensarlo. I messaggi e le comunicazioni sono caotiche, i valori sembrano essersi dissolti. Gli eventi sembrano ac-cadere in modo irreversibile, senza che vi sia la possibilità che qualcosa o qualcuno possa cambiare e senza forse voler cambiare per pigrizia o abitudine. Assumiamo la maggior parte delle volte per vero ciò che ci troviamo di fronte, senza filtrare, senza mettersi nei panni degli altri e anche questa volta solo per convenienza. Vengono ripetute frasi già fatte, vengono date mezze verità e ritornano alla memoria parole vuote, senza significato di discorsi sentiti o riportati. Tutto ad un tratto è diventato troppo scontato, troppo confuso, troppo impostato e monotono: vediamo solo tanta nebbia all’orizzonte e il grigio predomina nella vista.

Forse abbiamo dimenticato qualcosa: ci siamo dimenticati chi siamo veramente.

Nascendo in questo mondo cadiamo nell’illusione dei sensi; crediamo a ciò che appare. Ignoriamo che siamo ciechi e sordi. Allora ci assale la paura e dimentichiamo che siamo divini, che possiamo modificare il corso degli eventi.[1]

Dov’è andata a finire la nostra scintilla di vita?

Dovremmo riaprire gli occhi da tutto questo torpore e scoprirci di nuovo come esseri capaci di esserci, di prendere in mano la propria vita, vederne tutti i colori e scegliere la direzione dove andare. Imparare a essere coraggiosi di fronte alla verità e di non farsi condizionare da tutto ciò che è più facile o conveniente, ma lottare per quello in cui crediamo veramente. Le cose belle sono difficili[2].

Bisognerebbe essere capaci di riscoprire la bellezza anche nelle piccole cose, in quei piccoli gesti che a volte diamo per scontato e ringraziare. Pensare (Denken) è ringraziare (Danken), dire grazie per questa esistenza che è stata donata nelle nostre mani e di cui noi e solo noi siamo responsabili. Abbiamo la possibilità di scegliere ciò che vogliamo essere in base alle nostre aspirazioni, non per accontentare altri o per seguire una moda.

Dovremmo capirci di più, comprendere i propri limiti: prendere la distanza da sé e dagli altri per ritrovarsi poi. Quando se ne sente la necessità, bisognerebbe stare da soli, per stare in silenzio, per pensare. Il silenzio racchiude tutte le risposte che cerchiamo da sempre.

Ciò di cui forse abbiamo bisogno è il tempo: concediamoci del tempo per crescere, per rimarginare le nostre ferite. Un seme non diventa un albero dopo un giorno o una settimana, ha rispetto del suo ciclo. Rispettiamo i nostri tempi e regaliamo il nostro tempo a persone per cui proviamo affetto, è il più bel dono che possiamo far loro.

Sarebbe bello ritagliarsi dei momenti che non appaghino solo i bisogni materiali, ma che dissetino il nostro spirito. Si dovrebbe leggere, leggere di tutto per far fiorire la nostra cultura e il sapere che ci circonda. Squarciare il velo dell’apparenza e esserci.

Bisognerebbe fare di questa vita un’opera d’arte, di cui noi stessi siamo gli artisti per guardarsi dentro ogni giorno e riconoscersi felici.

Azzurra Gianotto

[1] Cit. Giordano Bruno, filosofo rinascimentale italiano (1548-1600)

[2] Antico detto greco (Χαλεπά τά καλά)

Uno sguardo all’etica della cura in medicina

Mentre Cura stava attraversando un certo fiume, vide del fango argilloso. Lo raccolse pensosa e cominciò a dargli forma. Ora, mentre stava riflettendo su ciò che aveva fatto, si avvicinò Giove. Cura gli chiese di dare lo spirito di vita a ciò che aveva fatto e Giove acconsentì volentieri. Ma quando Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio nome. Mentre Giove e Cura disputavano sul nome, intervenne anche Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché essa, la Terra, gli aveva dato il proprio corpo. I disputanti elessero Saturno, il Tempo, a giudice, il quale comunicò ai contendenti la seguente decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu Cura che per prima diede forma a questo essere, finché esso vive, lo custodisca. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è stato tratto da humus”.

Il mito di cura, Igino, I sec. a.c.

L’interpretazione filosofica più rilevante del mito di cura è sicuramente quella data da Martin Heiddeger in Essere e Tempo. Cura è per Heiddeger la condizione che permette la possibilità di tutte le modalità dell’Esserci di essere nel mondo. L’autore individua in questo mito la testimonianza della concezione di cura come di ciò che ha dato forma all’uomo e ciò a cui l’uomo appartiene per tutta la vita. L’essere che chiamiamo uomo ha origine dalla cura ed è governato da essa fintanto che è nel mondo.

Da un punto di vista specificamente etico, spetta a Warren Reich il merito di aver avviato una sistematica ricerca sull’etica della cura valorizzandone la dimensione antropologica. Reich, nella sua interpretazione del mito di Cura, focalizza l’attenzione sulla profonda oggettività della cura: il mito ritrae efficacemente l’idea che la cura ci circonda fin dal momento della nostra creazione, in questo senso essere coinvolti nella cura è precisamente ciò che significa essere umani. Il ruolo di Cura è determinante per concentrarsi sulla dimensione umana della nostra vita.

Essere al mondo nell’ottica della cura significa quindi: co-esistere, con-vivere, costruire il proprio essere in relazione con altri e fare di altri un valore. Se entriamo nei luoghi della pratica medica vediamo come sia importante sollecitare la formulazione di principi atti a strutturare adeguatamente la relazione di cura intesa come protezione e responsabilità. Nella lingua inglese la cure, ossia la prassi terapeutica, viene distinta dalla care, ovvero il prendersi cura di qualcuno. Curare senza aver cura è un’assurdità, una contraddizione, per questo la bioetica individua la necessità di strumenti etico-metodologici che favoriscano un rapporto incline al sostegno del paziente, impegnato per il bene globale della persona e preoccupato per il riconoscimento della sua individualità e particolarità.

Se le potenzialità guaritrici di Cura si applicano alla vita umana nella sua globalità, si rivela particolarmente efficace la sua funzione terapeutica in rapporto all’esperienza umana della malattia, riferita all’uomo nella sua totalità e non solamente al suo aspetto biologico. L’aspetto centrale dell’etica della cura indicato da Reich consiste proprio nella necessità di instaurare un rapporto di interdipendenza tra la valenza terapeutica della cura e quella antropologica, cioè tra la capacità della cura di esprimere le finalità appartenenti alla pratica medica e quella di relazionarsi con la struttura antropologica dell’umano.

È sicuramente questa la sfida più grande per un’etica della cura in medicina, ovvero la necessità di combinare il to cure con il to care nella singola relazione con il paziente: la cura come aver cura di quelle che sono le proprie responsabilità cliniche-professionali e la cura come prendersi cura del paziente.

Etica della cura in medicina significa: attenzione allo sviluppo di un approccio globale, contraddistinto dal fatto che la cura è rivolta al malato come persona prima che alla malattia e attenzione a valorizzare, specialmente per quanto concerne tutte le terapie a lungo termine, la rete delle relazioni di cura entro cui si dipana la vita del paziente. Etica della cura significa anche disponibilità alla collaborazione tra differenti professionalità centrate sulla cura sulla base della centralità del paziente, pur da prospettive differenti e specifiche.

L’etica della cura in sanità può riuscire meglio di altre prospettive etiche a promuovere e supportare l’integrazione tra competenza tecnica e sensibilità umana, in mancanza della quale risulta fortemente indebolita la capacità di vedere oltre la patologia clinica.

Silvia Pennisi

[Immagine tratta da gruppomedicid’archivio.it]