C’era una volta…

Tutti cresciamo leggendo fiabe e favole o guardando le stesse in televisione.

Da bambini però è difficile capire l’enorme valore che esse celano dietro quegli strani personaggi che ci fanno così ridere e sognare; un valore che deriva da un significato profondo e da un messaggio che le favole e le fiabe vogliono trasmetterci.

Vi è mai capitato di osservare un bambino che guarda una fiaba in televisione o ascolta il genitore mentre gliela racconta? Che emozioni trasmettono i suoi occhi?

Meraviglia, stupore, sorpresa.

Eppure queste emozioni non nascono per caso, ma sono insite nell’essere umano da quando nasce per il bisogno di trovare il senso della sua vita, del mondo, per comprendere la realtà, per conoscerla e capirla.

Sono esigenze che necessitano di risposte e che i bambini trovano nei mondi incantati delle fiabe. Noi adulti, sempre pensando di sapere tutto, sorridiamo e proviamo tenerezza nel vedere l’attenzione incredibile con cui i piccoli guardano o ascoltano le fiabe, senza renderci conto che il loro inconscio sta assimilando esperienza di vita, principi etici e morali, educazione civica, consapevolezza e che tante di queste cose faranno parte della loro esistenza senza che nessuno se ne renda mai conto.

Le fiabe e le favole insegnano e il bambino è il migliore allievo che possano trovare, perché? Perché lui è curioso, ha voglia e necessità di conoscere, scoprire, rispondere ai più grandi interrogativi della vita, ad esempio “come sono nato?”, “dove è andata la nonna?”, “perché la mamma è diversa dal papà” ecc ma cerca risposte anche per gli interrogativi che, a nostro avviso, sembrano più banali, come “perché la Luna è gialla?”, “perché il Sole scotta?” e così via.

La fiaba e la favola permettono loro di riflettere senza snaturare la loro essenza pura e fantasiosa, mettendoli di fronte a situazioni che li inducono a pensare, ad escogitare le loro personalissime soluzioni. Con i racconti fantastici i bambini scoprono la morte, la ricchezza e la povertà, ciò che è buono e ciò che è cattivo, l’uguaglianza, la carità e la condivisione, tutti valori etico-morali che un ragazzino può ben apprendere se spiegati e raccontati in maniera fantastica perché vicina al loro modo di vedere la realtà. Tutti questi input si palesano nell’interiorità del fanciullo come conflitti (“lui è il buono, perché non lo capiscono?”, “perché il signore ha sparato all’orsetto?”, “perché il lupo ha mangiato la nonna?”) che poi cercano risposta nella sua mente e negli adulti che hanno accanto.

I libri di favole possono considerarsi i primi libri di Filosofia che un bambino può incontrare nella sua vita perché racchiudono tutte le questioni principali della nostra esistenza; ciò avveniva nel passato con le favole di Esopo e continua ad avvenire con le fiabe di Walt Disney. Basti pensare alla Cicala ed alla formica che insegna il bisogno di “guardare più in là del proprio naso”, o a Biancaneve e alla pochezza dell’esteriorità, a Pinocchio e al non dire le bugie, a Cappuccetto Rosso e al non fidarsi degli sconosciuti.

Ogni fiaba ed ogni favola racchiudono una morale, un insegnamento che attraversa il corpo fisico del bambino per arrivare a toccare le corde più profonde, smuovendo in lui un universo di emozioni e di consapevolezze; certo, un processo che è difficile che un bambino faccia da solo, ecco perché sono sempre necessari anche un dialogo ed un confronto costruttivi con gli adulti a lui vicino che lo aiutino a ragionare sul significato intrinseco di ciò che hanno letto o visto.

Questo processo mentale di acquisizione inconscia e rielaborazione logico-astratta di informazioni da parte dei bambini può considerarsi un “fare filosofia” , sicuramente grezzo, perché ancora non pienamente consapevole, ma comunque un “fare filosofia”.

Ecco che allora è necessario immergere da subito i nostri piccoli nel mondo fantastico delle fiabe, per fare loro il regalo più bello, quello del comprendere il mondo per comprendere se stessi e non viceversa: più si capisce il mondo attorno a noi, con le sue differenze, i suoi pregi e i suoi difetti, più si ha una visione di se stessi ridimensionata, come parte del tutto così come tutti gli Altri.

Valeria Genova

[Immagini tratte da Google Immagini]

Il gioco dell’abitudine

Sembra che tutto si giochi sul l’abitudine: abituarsi al cambiamento, abituarsi alla presenza o assenza di una persona, abituarsi ad un nuovo luogo, a nuove attività o a nuove persone.
Abitudine come sinonimo di routine, non rimane il tempo per abituarci a un qualcosa che subito siamo chiamati a disabituarci a qualcos’altro. Può considerarsi questo l’effetto del nostro desiderio di regolarità? Della nostra tendenza ad aver tutto sotto controllo? Può l’abitudine essere la nostra risposta ad un profondo desiderio di sicurezza?

Tutti noi abbiamo delle abitudini e siamo abituati ad averne, il solo fatto di essere abituati a qualcosa comporta il non prestarci attenzione o addirittura a non farci caso. Molto spesso riteniamo che l’abitudine e l’abituarci a sia la soluzione perfetta di fronte a dei cambiamenti non voluti, a delle novità che difficilmente accettiamo, alla perdita di tua persona o di qualcosa a noi caro; “l’abitudine rende sopportabili anche le cose spaventose” direbbe Esopo.

Siamo convinti che questa possa ridurre il rischio di eventi accidentali, la possibilità di incontrare ostacoli insormontabili o di vivere situazioni a noi estranee e ingestibili. Sembra che la vita sia il grande gioco delle abitudini, sia buone e cattive che siano.

Il termine abitudine deriva dal latino habitudo, da habitus che indica una nostra qualità o una caratteristica e che deriva a sua volta dal verbo habere, possedere. Abitudine quindi come il possesso di una caratteristica o comportamento stabile, acquisito attraverso la ripetitività o la consuetudine ad essere o agire in un determinato modo. Aristotele definiva l’abitudine

 come una cosa che somiglia alla natura: la natura è ciò che si fa sempre, l’abitudine ciò che si fa spesso Metafisica

Se da un lato è evidente il ruolo fondamentale dell’acquisizione di abitudini all’interno del processo di sviluppo della persona, pensiamo alle conoscenze di tipo pratico-procedurale (saper fare) dall’altro non ci rendiamo conto di quanto l’abitudine spesso diventi una vera e propria strategia di vita. L’abitudine sembra essere la nostra risposta alle sfide che la vita quotidianamente ci pone, il miglior modo per economizzare le nostre energie fisiche e mentali, il mezzo più semplice per reagire a diverse situazioni.

Forse confondiamo troppo spesso l’abitudine con l’avere tutto sotto controllo, emozioni e sentimenti compresi, cerchiamo l’abitudinarietà delle cose perché cerchiamo fondamentalmente la regolarità, la sicurezza, il controllo; vediamo l’abitudine quale luogo sicuro e protetto, attraverso l’abitudine ci sentiamo meno vulnerabili e più forti e con essa teniamo lontano l’ignoto.

Da grandi abitudinari che siamo ci dimentichiamo di apprezzare e riconoscere il valore di tutte le nostre azioni, anche di quelle più semplici, di provare sempre lo stesso entusiasmo delle prime volte; schiavi dell’abitudine ci dimentichiamo di rinnovare ogni giorno l’amore, l’amicizia e l’affetto che ci lega alle persone care della nostre vita e troppo spesso, offuscati dalla routine della nostra vita non riconosciamo più l’importanza della spontaneità, del mettersi in gioco e del rischiare.

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine: chi non rischia la certezza per l’incertezza nel seguire un sogno”Pablo Neruda

Elena Casagrande

[immagini tratte da Google Immagini]