L’Inno ad Arimane di Leopardi e la sofferenza del vivere

Leopardi ed Arimane sono due figure affascinanti. Il primo è un poeta filosofo vissuto tra Settecento e Ottocento, famoso per il suo pessimismo radicale ma anche per i suoi slanci eroicamente ribelli; il secondo è un’entità mitica, ovvero il presunto dio del male contrapposto ad Ahura Mazda nello zoroastrismo. Cosa le collega? Ebbene, Leopardi ha scritto nel 1833 un abbozzo di un Inno ad Arimane, che è rimasto in forma di appunto, ma che risulta essere di una profondità e di una forza emotiva sconvolgenti.

In questo testo, Leopardi, di fatto, invoca con rabbia Arimane, che viene definito come «Re delle cose, autor del mondo». Cioè il poeta ci sta dicendo che, nel momento in cui si sta apprestando a scrivere il suo Inno, egli concepisce l’intero sistema del mondo come creato e governato da un dio del male. E non un dio del male qualunque: si tratta di Arimane, ovvero l’equivalente del cristiano Satana. Può apparire strano che Leopardi, che si è sempre professato ateo, si rivolga ad una divinità. Tuttavia, è importante considerare che nelle indagini accademiche odierne relativamente al satanismo e alle sue forme, è spesso difficile distinguere tra satanismo ateo e satanismo teista. Dunque, mutatis mutandis, il “satanismo” di Leopardi, così come compare in questo Inno abbozzato, non è altro che una personificazione di quella Natura malvagia e matrigna di cui spesso ha parlato nelle sue opere.

Ci si può anche chiedere perché Leopardi nomini Arimane e non Satana. Ciò potrebbe essere stato dettato da una forma di erudizione, ma anche dal disprezzo che Leopardi portava nei confronti della religione cristiana, al punto tale da rifiutarne anche l’entità malvagia e preferire il suo equivalente in una diversa e più antica religione.

Il punto centrale di questo Inno si trova verso la fine. A fronte di una sofferenza fisica e psicologica prolungata, insostenibile e senza scopo, Leopardi prende atto di non poterne più della vita – «Non posso, non posso più della vita». E a questa consapevolezza segue la drammatica richiesta di morte ad Arimane, che viene pregato di non fargli superare i trentacinque anni. Abbiamo qui due giganti che si confrontano tra loro: da una parte un uomo disperato che vede l’unica possibile soluzione ai suoi tormenti nella morte, dall’altra uno spirito malvagio, autore di un mondo malvagio, che viene pregato, ma con disprezzo e rabbia, per ottenere la fine della vita. Leopardi non è mai stato così eroico come in questo Inno: anche di fronte alla morte, non si rivolge al cristiano dio del bene, ma preferisce un altro spirito, un dio malvagio che si è oggettivato in questo terribile mondo e che ne ha concepito lo schema con «somma intelligenza» e crudeltà. Rivolgersi a Dio (lo spirito buono), potrebbe richiamare l’idea del Paradiso e della redenzione in una interminabile gioia eterna; ma qui Leopardi insiste nella sua invocazione verso lo spirito del male, ben sapendo che forse tale spirito non è nemmeno reale e che dopo la morte tutto sarà finito, comprese le sofferenze.

Indubbiamente ognuno porta con sé i suoi drammi e i suoi dolori. Vi è chi è tormentato da sofferenze fisiche, chi da sofferenze psicologiche, chi da entrambe. Naturalmente l’intensità con cui esse si manifestano non è uguale per tutti. Tuttavia, è innegabile che nel mondo vi sia più male che bene, il che potrebbe portare allo scoraggiamento.
A volte, quando si parla della propria sofferenza con amici e conoscenti, ci si sente dire, ad esempio: “Ma dai, forza, coraggio, la vita è bella, le sofferenze passano, non essere così negativo…” Questi discorsi falliscono nella capacità di comprendere la sofferenza e quindi di creare una sorta di empatia che potrebbe giovare. Bisogna tenere conto che vi è chi soffre terribilmente e che queste frasi di circostanza, forse dettate più dall’imbarazzo e dall’impotenza che da un vero desiderio di aiutare, non fanno altro che porre una barriera ed aumentare il senso di disperata solitudine. Tuttavia, di fronte al dolore e alla sofferenza, può essere di conforto sapere che vi sono dei grandi artisti, poeti e filosofi che vi sono passati e hanno apertamente espresso le proprie idee e i propri sentimenti. E allora, l’Inno ad Arimane non risulterà scritto invano.

 

Francesco Breda

 

[immagine tratta da Unsplash]

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L’uomo dell’assurdo

«Giudicare se la vita valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto – se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie – viene dopo» (A. Camus, Il mito di Sisifo, 1942).

Così sancisce Albert Camus all’inizio di una delle sue opere più note: Il mito di Sisifo, saggio a metà tra la letteratura e la filosofia con il quale l’autore si confronta con estrema raffinatezza con l’irrazionalismo e l’esistenzialismo, correnti filosofiche che avevano messo in luce la crisi dell’uomo contemporaneo agli albori del Novecento.

Il testo inizia sottoponendo all’attenzione del lettore alcune considerazioni sul tema del suicidio e sul perché esso sia un concetto così ampiamente diffuso tra gli uomini, tanto nella riflessione teorica quanto purtroppo nei loro atti pratici: la scelta che molti individui compiono è indubbiamente tanto complessa quanto netta; non solo perché spesso è dovuta al sottrarsi dell’uomo alla propria razionalità ma anche e soprattutto perché segna un allontanamento definitivo dell’individuo dalla propria condizione esistenziale e dal continuo oscillare del pensiero umano tra la volontà di creare e l’intima consapevolezza della fugacità di tutte le cose.

Ha veramente senso compiere un cammino verso l’esistenza quando in realtà il destino è uno e comune a tutti gli uomini? Qual è il senso della vita se poi essa è destinata a svanire via?

Sono proprio questi gli interrogativi e i sentimenti che secondo Camus caratterizzano l’uomo dell’Assurdo, nel perenne conflitto che colloca l’uomo contro la vita e l’attore contro la propria maschera. Svanita la prospettiva di un’esistenza eterna, infatti, risultano messi in crisi tutti i concetti umani che su di essa trovavano un solido supporto: l’uomo non sa più come comportarsi con il tempo, dato che esso è limitato; non avverte più il fondamento di una morale, che è quindi destinata a dissolversi con la fine della vita umana; infine, sembra non avvertire più l’esistenza di certezze e di verità irrefutabili, rendendo quindi vano ogni sforzo atto a comprendere il mondo o ad attribuirgli un reale significato.

L’uomo sembrerebbe quindi destinato a vivere giorno dopo giorno la stessa punizione che gli dei inflissero a Sisifo, personaggio della mitologia greca che a causa delle proprie astuzie (e quindi del proprio intelletto) fu costretto in eterno a portare lo stesso masso sulla cima di un monte. Svolto il proprio compito, però, ecco che il masso rotolava nuovamente in basso, rinnovando eternamente la punizione e rendendo futile ed irrazionale l’intero processo.

Il paragone tra la figura di Sisifo e quella dell’uomo contemporaneo risulta quindi essere estremamente preciso, non solamente per la nota irrazionale che caratterizza le loro esistenze ma ancor più profondamente per le cause dell’irrazionalità stessa che in entrambi i casi sono riconducibili alla facoltà intellettiva e quindi al pensiero umano: così come Sisifo fu condannato dagli dei per l’utilizzo improprio della propria ragione ecco infatti che l’uomo contemporaneo appare intrinsecamente condannato dal proprio intelletto ad avvertire pungente il senso dell’assurdo e dell’irrazionalità di tutte le cose, che viene percepito ed evidenziato dal pensiero umano e dalla riflessione filosofica.

L’estrema attualità della Filosofia risiede proprio nella sua intima capacità di permettere all’uomo di adattarsi all’assenza di certezze non sottraendogli però la perenne brama di conoscenza e di significato che lo rende tale: uomo nelle proprie fragilità ma anche e soprattutto uomo nella propria capacità di oltrepassarle, mettendosi radicalmente in discussione e ricostruendo tutta la propria esistenza daccapo.

Secondo Camus, infatti, anche Sisifo, ad un certo punto della propria punizione divina nell’Aldilà,  avrà accettato il proprio destino e avrà rifiutato la speranza e gli Dei, abbracciando un universo senza padroni, né sterile né tanto meno futile. Ed ecco che si delinea la prospettiva di un nuovo atteggiamento per l’uomo dell’Assurdo: essere fedele al processo, a se stesso e a quella che Nietzsche chiamava la propria fiamma. D’altronde, «anche la lotta per la cima basta a riempire il cuore di un uomo» (ibidem).

 

Gabriele Iacono

 

[Photo credit Grag Rakozy via Unsplash]

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Una divagazione sulla morte

«Tutto scorre», diceva Eraclito. Le cose entrano ed escono in continuazione dal dominio dell’esistenza. Nascita e morte sono gli estremi tra i quali tutta la vita si svolge, si srotola, si dispiega nelle sue infinite forme e tonalità. Ogni cosa è una cristallizzazione momentanea di questo movimento che, senza inizio né fine, continua eternamente a fare ciò che gli è proprio: muoversi.

Tra questo pulviscolo di cristalli vi siamo anche noi, che pur facendo sempre parte dell’enorme flusso che è la vita universale, ci costruiamo i nostri piccoli, personali movimenti, che entrano in contatto gli uni con gli altri: spesso si allontanano, a volte si sfiorano, talora si toccano e, quando siamo fortunati, si intersecano. Poi, uno alla volta, questi movimenti si interrompono bruscamente, lasciando spazio ad altri centri che disegneranno nuovi percorsi.

Benché la morte sia ciò che vi è di più naturale a questo mondo, ci scuote profondamente quando ci tocca da vicino. La scomparsa di una persona cara costituisce un dolore difficile da sopportare: sentiamo la privazione, la negatività della mancanza. Questo sentimento è soffocante perché non c’è nulla che possiamo fare: siamo completamente impotenti di fronte alla situazione, ed è come se avessimo perso, assieme alla persona scomparsa, una parte di noi. Sembra quasi che per quanto possiamo costruire e stringere legami, tutto sia comunque destinato a scomparire. Ma al tempo stesso la vita è per sua natura relazione: inseriti in un contesto, ci rapportiamo a esso e a coloro che lo abitano; ci rapportiamo agli altri in vari modi, e a questo non ci si può sottrarre. In questo senso, come possiamo affrontare la scomparsa nel nulla di ciò che costituisce l’essenza stessa delle nostre vite?

Non vogliamo qui discutere se la vita dopo la morte continui in una qualche forma oppure se la morte sia una scomparsa definitiva. Ciò non cambia il fatto che quando l’affrontiamo qui, in questo mondo, la sentiamo come separazione. E poiché noi abitiamo questo mondo, è di essa che vogliamo parlare.

Quando viene a mancare qualcuno è come se venissimo privati di una parte di noi. Questo sentimento è qualcosa di più rispetto ad una permanente variazione nelle nostre abitudini, nel senso che mentre prima lo vedevamo sempre, ora non più. Un pezzo della nostra vita ci viene tolto perché la nostra esistenza è una continua relazione a ciò che ci circonda. Tuttavia vi è relazione soltanto tra entità dinamiche: nella misura in cui è l’entrare in contatto di due poli, essa va a cambiare la natura di entrambi. Conoscenze, amicizie, amori, tutto ciò va a modificare il nostro modo di stare al mondo: le nostre coscienze variano nella risonanza con le altre e si arricchiscono in un processo di continua crescita che conferisce nuove colorazioni alle nostre quotidianità. Le vere relazioni ricreano continuamente lo spirito.

Tutto ciò rimane anche una volta che una delle controparti viene a mancare. Certo, è evidente che in questi casi la relazione subisce un troncamento; tuttavia il tempo – per fortuna probabilmente – non è reversibile, e durante tutto il percorso che abbiamo affrontato insieme a qualcuno, comprese le impasses relazionali, ci siamo evoluti: esso ha modificato il nostro spirito, che si è arricchito di nuove sfumature prodotte proprio dal contatto con l’altro.

Nella sua opera Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), Bergson mostra come il tempo sia spesso pensato come una serie di momenti giustapposti come in fila, separati l’uno dall’altro e per questo isolabili e pensabili indipendentemente tra loro, la cui successione sarebbe ugualmente percorribile in avanti o all’indietro. La separazione e la giustapposizione sono però proprietà che appartengono allo spazio: ciò a cui pensiamo non è quindi la durata, bensì la sua rappresentazione spaziale. Gli stati di coscienza, mostra Bergson, si compenetrano l’un l’altro in quanto si svolgono nel tempo: non è possibile isolarli se non contravvenendo alla natura di questo. Ogni stato di coscienza riflette la personalità intera dell’individuo, perché egli è il risultato di tutte le esperienze che l’hanno formato e modificato fino a farlo diventare quello che è oggi.

Insomma, il nostro modo di stare al mondo cambia perché la nostra vicinanza con l’altro ci cambia.

Quando diciamo che qualcuno continua a vivere in noi, questa ci sembra una banale frase fatta, detta per consolarci, perché non ne cogliamo il senso; in realtà questa sentenza potrebbe racchiudere un messaggio filosofico molto profondo, a condizione di saper vivere a pieno la relazione, così da lasciarci arricchire ed arricchire a nostra volta gli altri, venendo a costruire delle profonde e fertili reti intersoggettive.

 

Pietro Bogo

[Immagine tratta da Unsplash]

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Van Gogh: cosa significa essere Vincent?

La vita di Vincent Van Gogh, per come la conosciamo, è intrisa di sregolatezze e fragilità: ci basta pensare alla sua nomea di maudit, artista pazzo e depresso che è arrivato a tagliarsi un orecchio per la disperazione. Il tormento che riempie la sua esistenza è indubbio, ma a cosa è dovuto? O meglio, possiamo tentare a cercarne una radice nel nome che gli ha dato la madre, Vincent? Massimo Recalcati, in Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, ci spiega come la scelta della madre del nome Vincent sia la radice su cui poggia l’animo melanconico dell’artista.

A cosa può essere dovuto questo? Vincent, in effetti, è il nome di un altro poiché Vincent Van Gogh nacque il 30 marzo 1853, giorno apparentemente uguale a tutti gli altri per noi, ma non per la sua famiglia: esattamente il 30 marzo 1852 sua madre vide morire il suo primo figlio maschio, Vincent Van Gogh. Recalcati ci porta a riflettere sulla decisione di Anna, la madre dei due Vincent, di dare al secondo figlio il nome del figlio perduto: con questa decisione lei potrebbe non aver particolarizzato l’esistenza del pittore, ma averla intesa come sostituzione del primo figlio, scegliendo così la via definita da Recalcati come la via più breve per superare lo scoglio di questo lutto impossibile da simbolizzare.

Queste coincidenze attirano indubbiamente lo psicanalista che considera il nome come prima tappa di umanizzazione della vita e atto con cui il genitore dà il diritto di esistere al figlio nella particolarità della sua esistenza. Nel caso di Van Gogh, il nome è alienante, se consideriamo questa interpretazione, poiché lui è inchiodato nella sostituzione del fratello morto. Jacques Lacan insegna che la scelta del nome è la prima manifestazione dell’incidenza del desiderio dell’Altro sulla vita di un soggetto e, per questo, in questa scelta sembra cristallizzarsi un frammento di destino. Il destino di Van Gogh parrebbe essere quello di esistere solo in quanto sostituto del fratello, destino suggellato dal giorno della sua nascita. Questo è il campo di iscrizione, o potremmo dire non iscrizione, di Van Gogh nell’Altro: la sua vita, con queste considerazioni, è desiderata in quanto rende possibile la vita di qualcun altro e, dunque, il suo nome non potrà mai indicare desiderio di vita, anelito di gioia, ma solamente desiderio di rimozione del passato.

Ecco, l’esistenza del pittore consolida l’imago di una ferita narcisistica mai cicatrizzata, a causa del persistere dell’imago idealizzata del primo Vincent. Se riteniamo che Vincent abbia sentito la scelta del suo nome come atto egoistico della madre, potremmo ipotizzare che il suo nome sia la radice della melanconia originaria che persisterà nell’animo del pittore per tutta la vita e che sarà sua musa nella creazione artistica. L’identificazione di tipo melanconico, che Vincent vive in prima persona e che è in atto, sarebbe prodotta dall’identificazione costituente, come la definisce Lacan, che si regge sul perduto, sul morto, e, dunque, sull’ideale ancor più del vivo, sulla perfezione idealizzata. E, forse, Vincent percepiva proprio così la sua esistenza.

La malinconia potrebbe poggiare su questa sua colpa, la colpa, semplicemente, di esistere. In questa cornice, poco chiara ma emotivamente provante per il pittore, Van Gogh si dedicherà all’arte non per affermare il proprio nome e la propria esistenza, bensì per eclissarsi in nome della forza della pittura che trascende il nome del singolo per rivolgersi all’assoluto, a Dio. Nell’arte di Van Gogh permane sempre qualcosa di infinito. L’arte non ha potuto salvarlo dal suo destino sofferente, cristallizzato nel suo nome oppure no, ma lui persisterà nella sua ricerca ariostesca di una qualche serenità: mangerà pittura gialla, colore simbolo della felicità, per trattenerla in sé, atto che rivela le sue vane illusioni. I suoi tentativi inconsistenti continueranno finché l’eclissi della sua esistenza non diventerà totalizzante. E il pittore stesso lo sa, infatti, afferma: «Che cosa sarebbe la vita se non avessimo il coraggio di fare tentativi?»

 

Andreea Elena Gabara

 

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La questione del senso e la logica della gratuità

L’essere umano non può non domandare il senso della sua esistenza. Non a caso Martin Heidegger in Concetti fondamentali della metafisica afferma che “la pietra è senza mondo, l’animale è povero di mondo, l’uomo è formatore di mondo”, proprio per sottolineare quanto l’essere umano sia capace di dare significato alla sua esistenza.

Siamo animali che si rendono conto della propria finitezza, ed è proprio comprendendo la preziosità del tempo che possiamo rispondere responsabilmente alla chiamata della vita. Savater ne La vita senza perché sostiene che il mondo in cui ci muoviamo noi esseri umani manca di senso e significato, siamo noi ad attribuirgliene uno. Ma perché dovremmo porci il problema del senso?

È soltanto indagando il perché del nostro esistere, attribuendo senso alle nostre azioni, che possiamo progettare la quotidianità, dandole forma. Ciascuno di noi porta dentro di sé il profondo desiderio di dare un senso al suo esistere e di assumere positivamente la condizione di gettatezza a cui è assegnato.

Non possiamo esimerci da tale ricerca, facendo trionfare la condizione di insecuritas tipica del postmoderno. Ed è soltanto mediante la riflessione che possiamo trovare risposta al quesito più grande che può porsi l’umano. Non appena ci saremo dati risposta scorgendo il progetto autentico del nostro esistere, comprenderemo anche che in questa superficie terrestre non siamo soltanto catapultati, ma sostenuti mediante la logica della gratuità.

La bellezza dell’abitare il mondo sta nel fatto che tantissime cose provocano sgomento al nostro animo, ma altrettante cose sono capaci di offrire quella leggerezza che tanto desideriamo. Ed è proprio nella quotidianità che si cela la ricchezza dell’umano. Nel sorriso di un bambino, nella contemplazione di un tramonto, nel tendere la mano all’Altro possiamo scoprire il “senso” del reale e quella logica che non si identifica con lo strumentale.

Non appena avremo raggiunto la consapevolezza del nostro trovarci nel mondo e appreso l’importanza della gratuità e del donarsi si comprenderà qual è il vero compito di coloro che partecipano alla chiamata della vita, ovvero fare del bene perché lo si sente dentro di sé, perché, in fondo, si sa che è ciò che conta di più.

 

Alessio Marsala

Alessio Marsala, classe 1998. Studia Scienze filosofiche presso l’università di Palermo e nel tempo libero si diletta a scrivere su temi strettamente filosofici che riguardano la sfera della quotidianità.
Amante della chiarezza, della riflessione critica e, soprattutto, del dialogo autentico. Ritiene indispensabile affinare le proprie idee grazie al contributo dell’altro che è diverso, strutturalmente, da noi e, di conseguenza, arricchisce la nostra visione della realtà sociale.

 

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Come canne (pensanti) mosse dal vento

Ci si potrebbe chiedere perché a scuola si studino tutti i Nobel per la letteratura italiani – Montale (Nobel nel 1975), Pirandello (nel 1934), Carducci (nel 1906) e Quasimodo (nel 1959) – tranne due: Dario Fo (nel 1997) e Grazia Deledda (nel 1926). Per il primo la risposta è abbastanza semplice: Fo è vissuto troppo recentemente perché i programmi scolastici di letteratura arrivino a lambirlo. Ma che dire di Deledda, deceduta nel 1936 ovvero lo stesso anno di Pirandello? Qualcuno a volte mi accusa di voler essere femminista a tutti i costi, ma a me la faccenda puzza un po’ tanto di maschilismo.

Non è questa la sede per approfondire il tema, ma è il motivo per cui ho deciso di andare in libreria e comprare uno dei romanzi più noti (all’epoca) dell’autrice, Canne al vento. Sono arrivata a Deledda tramite un altro personaggio femminile italiano di mastodontica portata, Eleonora Duse, attrice geniale di fama internazionale il cui nome ormai passa tra i banchi di scuola con l’appellativo di “l’amante di Gabriele D’Annunzio”: come se il suo nome da solo non fosse abbastanza, come se non sia stata lei (o per lo meno anche lei) ad aver dato a D’Annunzio tutta quella fama recitando come protagonista nei suoi drammi. Mentre non mi resta che augurarci una rivalutazione della donna e attrice Eleonora Duse nel 2024, centenario della morte, torniamo dunque a Grazia Deledda, il cui romanzo Cenere del 1904 fu scelto proprio dall’attrice come sceneggiatura per l’unico film in cui abbia mai recitato, nel 1916. Olì, protagonista della storia che ha luogo in Sardegna, è una donna delusa dall’amore, tradita dall’uomo amato, che partorisce in solitudine un figlio che è costretta a lasciare da bambino.

Anche in Canne al vento, pubblicato nel 1913, i personaggi sono dei miserabili della sorte, né buoni né cattivi ma costantemente in balìa di una forza più grande di loro, proprio come delle canne mosse dal vento. Questa immagine torna più volte all’interno dell’opera, il cui protagonista è Efix, servo fedele delle tre dame Pintor cadute in disgrazia, nella cornice di un paesello rurale sardo la cui pesante immobilità è scossa dall’arrivo di Giacinto, giovane nipote delle nobildonne. La precarietà dell’esistenza umana, il tentativo vano di resistere alla sorte, il sentirsi soccombere a un destino ineluttabile: questi i temi che sottotracciano il romanzo, capitolo dopo capitolo, e di cui si fanno portatori tutti i personaggi ma più di tutti forse proprio Giacinto, che continua a perdere al gioco senza riuscire a smettere, nella speranza – vana – che la sorte prima o poi giri in suo favore. Come se non fosse chiaro, tra le ultime pagine del romanzo viene riassunto il messaggio dell’autrice:

«Non è una gran cattiva sorte la nostra? […] Perché questo, Efix, dimmi, tu che hai girato il mondo: è da per tutto così? Perché la sorte ci stronca così, come canne?»
«Sì,» egli disse allora, «siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento».
«Sì, va bene: ma perché questa sorte?»
«E il vento, perché? Dio solo lo sa».
«Sia fatta allora la sua volontà», ella disse chinando la testa sul petto […]1

L’immagine della canna piegata dal vento in verità stuzzica da secoli e forse millenni la fantasia umana. È attribuita a Esopo una favola in cui una canna e un ulivo discutono la reciproca forza, con l’albero che si fa vanto della resistenza del suo tronco; con il passaggio di una forte tempesta, tuttavia, secondo la storia la canna continua a piegarsi sotto le sferzate del vento mentre l’ulivo resiste, resiste, resiste fino a spezzarsi. Scemata la tempesta e passato il vento, invece, per quanto forte sia stato, la canna si risolleva.

Come non pensare poi al filosofo francese Blaise Pascal, per il quale l’individuo non è altro che «una canna pensante»? Lo scrive in un famoso frammento dei suoi Pensieri (1670) con l’intenzione di esaltare invece l’umano nel paragonarlo a una canna. Come per i personaggi di Deledda, non c’è un reale giudizio etico – non importa che l’individuo sia buono o cattivo – ma la semplice constatazione che, per quanto fragile sotto i colpi del vento (è l’Universo per Pascal a schiacciarlo), trova proprio nel suo accorgersi di essere colpito tutta la dignità dell’essere umano:

«Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale»2.

Una conclusione piena di speranza per tutti coloro che, prima o poi nella vita, arrivano a sentirsi come i protagonisti di Grazia Deledda.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1. G. Deledda, Canne al vento, Garzanti, Milano 2022, p. 195

[Photo credit: unsplash.com]

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Lo sguardo sulla persona per una buona cura

La scena è intensa. Il montaggio veloce. Serrato il dialogo, che apre lo straordinario film La forza della mente (regia di Mike Nichols), fra il prof. Harvey Kelekian, famoso oncologo (interpretato da Christopher Lloyd), e la prof.ssa Vivian Bearing (Emma Thompson), nota ricercatrice universitaria di letteratura inglese.
Kelekian incombe sulla Bearing: «Lei ha un cancro». La comunicazione della diagnosi è una sentenza. «Un cancro metastatico dell’ovaio in stadio avanzato», continua, che si presenta ai medici come «un insidioso adenocarcinoma».
«Insidioso?» chiede Vivian.
«Insidioso significa non rilevabile a uno stadio iniziale», spiega Kelekian.
«Insidioso significa subdolo», commenta Vivian.
Visibilmente infastidito, Kelekian continua la sua dettagliata dissertazione. Illustra la situazione clinica, i trattamenti consigliati e i rischi. Poi, fingendo una improbabile simmetria, riprende: «il tumore si sta espandendo molto velocemente e questa cura è molto aggressiva». L’unica cura possibile. Grazie al consenso al trattamento, la Bearing darà inoltre «un significativo contributo alla ricerca e alla conoscenza».
«La conoscenza, sì», ripete sopraffatta Vivian prima di sottoscrivere i moduli a un appagato Kelekian.

Il dialogo è una rappresentazione di quell’attitudine clinica a osservare esclusivamente la malattia e non il malato. Foucault la definiva «sguardo clinico»1. Nello sguardo clinico il malato non entra mai nel campo visivo del medico. Il centro della scena è consegnato alla malattia e ai saperi che la definiscono. È uno sguardo disumanizzante e alienante, tanto per il paziente quanto per il curante. L’uno è oggetto, l’altro è un tecnico-controllore. Fra di loro nessuna relazione. I loro mondi si incrociano per un “sintomo”, ma non si incontrano in una relazione. L’idea di conoscenza di Kelekian, ad esempio, non è la conoscenza a cui aspira Vivian. L’uno e l’altra attribuiscono, persino, un significato diverso agli stessi termini: cosa significa “insidioso”?
La sequenza drammaturgica è anche metafora di una scena di cura quotidiana, nella quale emergono il potere e i limiti della tecnica: capace di insinuarsi nelle nostre vite, ma anche inadeguata a darle un senso.

Certamente gli sviluppi tecnologici hanno determinato grandi progressi e cospicui vantaggi per la vita di ciascuno, ma la questione è un’altra: parliamo, infatti, di un modo di approssimarsi alla realtà oggettiva – fisiopatologica – della malattia, ma non alla realtà soggettiva, antropologica, del malato. Un modo, che definiamo tecnico-procedurale, che chiude la porta a una realtà più grande. La cura non è, infatti, il solo intervento tecnico-specialistico. La cura è «il lavoro del vivere e dell’esistere», è la «fabbrica dell’essere» (L. Mortari, Filosofia della cura, 2015). L’uomo «si trova consegnato all’esistenza secondo la modalità della cura» (ibidem). Noi assumiamo la nostra esistenza avendone cura, questo vuole dire che se abbiamo cura di certe relazioni il nostro essere sarà costruito dalle cose che prenderanno forma in queste relazioni. Se ci prendiamo cura di certe persone, quello che accade nello scambio relazionale con l’altro diverrà parte di noi.

Rispetto al tema che stiamo affrontando, appaiono, quindi, del tutto insufficienti le cosiddette procedure di “umanizzazione dei servizi sanitari”. Occorre piuttosto ri-scoprire la visione di una buona cura. Di un lavoro esigente, che riempie ogni attimo di tempo, vissuto con gentilezza, attenzione ed empatia; che accoglie la fragilità come forma di vita mediatrice di valori. Un lavoro nel quale si mantiene sempre il contatto con la persona, nel quale non si distoglie mai lo sguardo da essa: uno sguardo pronto a ricevere il massimo di realtà possibile, allenato a focalizzarsi su ciò che si cerca, ma pronto a cogliere anche ciò che resta nell’ombra. Un lavoro nel quale si ascoltano tutte le parole del sofferente perché parlano della malattia, ma vanno al di là di essa. Un lavoro fatto di complessi intrecci e profonde dinamiche relazionali tra tutti gli attori coinvolti. Tutti impegnati, momento per momento, nella ricostruzione dei loro contesti di consapevolezza, inseparabilmente emozionali e cognitivi, pragmatici e simbolici (cfr. R. Lusardi, S. Manghi, I limiti del sapere tecnico, 2013).

«Una buona cura tiene l’essere immerso nel buono. Ed è questo buono a dare forma alla matrice generativa del nostro vivere e a strutturare quello strato di essere che ci fa stare saldi fra le cose e gli altri. Fare pratica di cura è dunque mettersi in contatto con il cuore della vita» (L. Mortari, Filosofia della cura, 2015).

 

Massimo Cappellano

Massimo Cappellano, giornalista, dirige l’Ufficio Stampa dell’Asp di Catania. Laureato in Storia Contemporanea all’Università di Catania, è stato docente invitato presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia. È studioso di tutto ciò che si muove nel crocevia in cui si incontrano antropologia, filosofia, sociologia, politica e religione. È autore dei saggi Il grido e l’incontro. Due figure per ripensare la modernità (2009) e Comunicare partecipazione. Comunicazione pubblica e partecipazione civica come leve per il cambiamento della Pa (2019), e co-curatore del volume Lessico Sturziano (2013).

 

NOTE
1. Cfr. M. Foucault, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, 1998.

[Photo credit Towfiqu barbhuiya via Unsplash]

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Il “De rerum natura” di Lucrezio

Il De rerum natura (Sulla natura delle cose) è l’unica opera che abbiamo di Lucrezio – conservata integralmente da due codici del IX secolo denominati per la loro forma O (Oblongus) e Q (Quadratus) e riportata alla luce dall’umanista Poggio Bracciolini nel 1418 – ed è la prima opera di poesia didascalica della letteratura latina. Pietra miliare della storia del pensiero occidentale per l’afflato universale di quel Lucrezio “relativamente ottimista”, secondo l’analisi di Francesco Giancotti (1989), o al contrario poeta dell’angoscia, secondo le riflessioni di Luciano Perelli (1969).

Articolato in sei libri e composto in esametri, il poema, sin dal titolo – che traduce l’opera più importante di Epicuro, Sulla natura appunto – intende divulgare l’epicureismo, dottrina eversiva e antitradizionalista che invitava al disimpegno dall’attività pubblica (si pensi al làthe biósas di Epicuro, cioè “vivi in disparte”) e al piacere, inteso come sommo bene intellettuale cui pervenire mediante l’atarassia, cioè l’assenza di turbamenti. Inoltre, altri cardini dell’epicureismo erano sostenere che gli dei esistono ma non intervengono nelle vicende umane e non fare alcuna distinzione tra religio e superstitio. Ciò viene esemplificato nel primo libro (vv.62-101) dove Lucrezio sceglie il sacrificio di Ifigenia come exemplum per affermare i delitti della religione: « […] la vita umana giaceva sulla terra, turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione […] fu proprio la religione a produrre scellerati delitti […] Tanto male poté suggerire la religione».

Riprendendo modelli antichi quali Esiodo ed Empedocle, sebbene Epicuro avesse condannato la poesia come fonte di inganni che allontana dalla comprensione razionale dell’universo, Lucrezio sceglie la poesia epico-didascalica per raggiungere anche gli strati più alti della società – proprio quelli che non si erano opposti all’influenza della cultura greca – e perché considera la dolcezza dei versi un antidoto all’amara medicina della filosofia, come spiega ad esempio nel proemio del quarto libro: «Come i medici quando cercano di somministrare ai fanciulli l’amaro assenzio, prima cospargono l’orlo della tazza di biondo e dolce miele, affinché l’ingenua età puerile ne sia illusa fino alle labbra  e intanto beva l’amaro succo dell’assenzio […] così io, poiché questa dottrina appare spesso troppo ostica  […] ho voluto esporla a te nel melodioso carme pierio e quasi aspergerle del dolce miele delle Muse» (vv.10-25).

Lucrezio indaga le cause dei fenomeni, esortando il lettore-discepolo a seguire un percorso educativo, proponendogli una verità sulla quale lo chiama a prendere posizione e sostituisce alla retorica del mirabile la retorica del necessario, articolando spesso le sue argomentazioni intorno alle formule non est mirandum, nec mirum, necesse est (non c’è da meravigliarsi, è necessario) cioè i fenomeni della natura sono necessariamente concatenati tra di loro e connessi con una serie di cause oggettive. Altra cifra stilistica propria del poema è il sublime: gli scenari e i toni grandiosi sono volti a spronare il lettore affinché sia specchio della sublimità dell’universo, affinché si emozioni per la natura e affinché sia egli stesso un eroe come Epicuro, che ha liberato l’umanità dai terrori ancestrali.

Con vivace concretezza espressiva, quasi con una percettibilità corporale della vasta gamma di esempi esplicativi volti a illustrare l’argomentazione astratta, da un punto di vista contenutistico l’opera tratta l’origine della vita sulla terra e la storia dell’essere umano. Né gli animali né gli uomini sono stati creati da un dio ma si sono formati per particolari circostanze come il calore e l’umidità del terreno; il nostro mondo, nato dall’aggregazione di atomi che si muovono nel vuoto e si urtano tra di loro, è un casuale circuito di nascita e di morte e anche l’anima non si sottrae ai processi di disgregazione e muore con il corpo. Afferma così il poeta filosofo nel terzo libro (vv.839-842):

«Nulla è dunque la morte per noi, e per niente ci riguarda, poiché la natura dell’animo è da ritenersi mortale […] quando non esisteremo più e si produrrà la separazione del corpo e dell’anima […] di certo nulla potrà accadere a noi che allora più non saremo […]».

L’opera è maestra anche per l’uomo contemporaneo; Lucrezio si contrappone alle visioni teleologiche del progresso umano e confuta la tesi stoica della natura provvidenziale: non c’è stata nessuna mitica età dell’oro, la natura è matrigna, segue le sue leggi e nessun dio può piegarla alle esigenze dell’individuo. Egli inoltre valuta positivamente il progresso materiale se volto al soddisfacimento dei bisogni primari, lamenta invece con una visione sconsolata la decadenza morale che il progresso porta con sé e che fa sorgere bisogni innaturali come l’ambizione e la guerra che corrompono la vita dell’uomo, che avrebbe invece bisogno di poche cose, secondo la dottrina epicurea.

 

Rossella Farnese

 

[photo credit Robert Lukeman via Unsplash]

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Meaning seeking come dimensione della motivazione

Montale diceva che il solo vivere non basta. Ancora prima, per Platone l’umano è come un otre forato: la biologia non basta. Le pulsioni e le funzioni biologiche non sono abbastanza: ognuno di noi è un progetto incompiuto con la vocazione a realizzarsi. Essa passa attraverso la ricerca di un significato, di un senso, che è ciò che si vive e si sente. Noi siamo esseri alla ricerca di un significato, viviamo secondo il principio dello scopo. Il nostro essere desideranti passa attraverso lo scopo.

Ciò che gli anglofoni chiamano meaning seeking è una dimensione fondamentale della motivazione ed è ciò che permette la realizzazione delle possibilità. Possibilità che spesso richiedono una profonda trasformazione dell’Io per essere portate a compimento. La motivazione è ciò che contagia sia l’Io sia gli altri permettendo la realizzazione di progetti di senso. Ognuno di noi necessita di un significato per affrontare l’esistenza. La sofferenza e la tensione monopolizzano la coscienza, che si libera dalle catene solo con il vento della motivazione e del valore.

Ciò che ha davvero significato richiede impegno e fatica. Solo la motivazione avvia, guida e mantiene comportamenti mirati. Solo la motivazione ripaga gli sforzi e gli ostacoli affrontati. L’impulso motivazionale si ha ogni volta che l’individuo avverte un bisogno, che rappresenta di fatto la percezione di uno squilibrio tra la situazione attuale e quella desiderata. Il bisogno è, quindi, uno stato di insoddisfazione che spinge l’uomo a procurarsi i mezzi necessari per riuscire a realizzarlo o sublimarlo.

Una suddivisione divenuta ormai classica distingue tra le motivazioni intrinseche e quelle estrinseche. Le prime inglobano i bisogni innati che provengono dall’interno dell’individuo stesso. Le seconde, invece, sono basate su una spinta che si volge a ottenere un beneficio esterno. L’essere umano si muove in funzione di ottenere vantaggi materiali (buoni voti, fama) o immateriali (carriera, potere).
A tal proposito, affascinante è la piramide di Maslow, ideata nel 1954 dall’omonimo psicologo, che si propone come un modello motivazionale dello sviluppo umano basato su una gerarchia di bisogni. In base ad essa, la soddisfazione dei bisogni più elementari è condizione necessaria per fare emergere quelli di ordine superiore. Alla base della piramide ci sono i bisogni essenziali alla sopravvivenza; salendo verso il vertice, si incontrano i bisogni più immateriali. Si parte dai bisogni primari e fisiologici, come cibo, acqua ed impulso sessuale a quelli di sicurezza (protezione, lavoro, salute e famiglia). Salendo, si incontrano poi i bisogni di appartenenza (famiglia o amici), quelli di stima (essere riconosciuto, realizzato) fino all’autorealizzazione, la quale altro non è se non l’aspirazione individuale a essere ciò che si vuole sfruttando le facoltà mentali e fisiche.

I bisogni fondamentali, una volta soddisfatti, tendono a non ripresentarsi, mentre i bisogni sociali e relazionali rinascono con nuovi e più ambiziosi obiettivi da raggiungere, almeno secondo Maslow. Una concezione che viene messa in dubbio dal neurologo e psicologo Viktor Frankl, che non esitò a provare come spesso, nonostante i bisogni più bassi non siano soddisfatti, un bisogno più alto, quale la ricerca di significato, può diventare più urgente. Mentre per Maslow l’essere umano è mosso dal bisogno, per Frankl, invece, dal desiderio di significato. Una “vita” significativa è, per quest’ultimo, una vita ricca di compiti, ovvero di appelli alla capacità umana di rispondere ad una problematica nella convinzione di poterla risolvere. L’essere umano sarebbe così libero di agire facendo leva sulle proprie risorse, compiendo così necessariamente degli sforzi1.

Per quanto la tematica richiederebbe un approfondimento maggiore, basti qui considerare il rischio lucidamente individuato da Frankl insito nell’autorealizzazione referenziale e solitaria. Essa, da sola, non rappresenta un criterio esaustivo per una teroria motivazionale. Da qui il concetto di autotrascendenza, che il neurologo spiega utilizzando la metafora dell’occhio. Un occhio può vedere se stesso solo in una condizione patologica di cataratta o glaucoma. Allo stesso modo, l’essere umano deve dimenticarsi di sé e porsi al servizio di una causa, dell’attuazione di un senso o della dedizione a un compito o a una persona.

Infine, rimangono alcune domanda aperte: un percorso di autorealizzazione referenziale non porta l’essere umano sul baratro della solitudine? In che misura continua ad avere senso la ricerca di autodeterminazione? E ancora: quale senso può avere l’espressione individuale fuori da un orizzonte relazionale? D’altronde, per dirla con Dante, «Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante, Divina commedia, Inferno Canto XXVI).

 

Sonia Cominassi

 

NOTE
1. Cfr. Maria Teresa Russo, Etica del corpo tra medicina ed estetica, Rubbettino, Catanzaro 2008; L’uomo in cerca di senso. Uno psicologo nei lager e altri scritti inediti, presentazione di Daniele Bruzzone, Milano, Franco Angeli, 2010.

[Photo credit Alexis Fauvet via Unsplash]

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La profezia di Gurdjieff. Conoscenza ed essere

Nel 1915, durante il susseguirsi degli eventi che portarono al primo conflitto mondiale, il filosofo Georges Ivanovic Gurdjieff disse al proprio allievo P.D. Uspenskij:

«vi sono periodi nella vita dell’umanità, che generalmente coincidono con l’inizio del declino della civiltà, in cui le masse perdono irrimediabilmente la ragione e si mettono distruggere tutto ciò che era stato creato in secoli e millenni di cultura. Questi periodi di demenza, che spesso coincidono con cataclismi geologici, perturbazioni climatiche ed altri fenomeni di carattere planetario, liberano (disperdono) una grandissima quantità di questa materia di conoscenza» (P.D. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, 1976).

In tali circostanze è necessario un lavoro di recupero: combattere contro lo spreco della conoscenza.

L’idea di fondo di Gurdjieff descrive l’individuo come diretto responsabile dei diversi fenomeni del mondo comprese le conseguenti dinamiche che includono il propagarsi, smistarsi e trasformarsi della conoscenza. Quest’ultima assume, nell’idea di Gurdjieff, tutte le caratteristiche della materialità ed è quantitativamente limitata al pari di un panetto di burro, limitata in un certo tempo e in un certo spazio. Essa «non può appartenere a tutti e non può appartenere a molti» (ibid.) poiché come ogni altra cosa finita, se divisa eccessivamente non garantisce un effetto positivo sufficiente; anzi, contrariamente a quanto ci possiamo aspettare, essa può avere degli effetti nefasti a causa della propria insufficienza e incompletezza.

Non bisogna pensare, tuttavia, che la conoscenza non sia concessa alle persone in virtù di questo principio: non vi è alcun meccanismo “contro giustizia” che possa creare un accentramento di conoscenza nelle mani di pochi. Piuttosto, la realtà è che molte persone rifiutano e trascurano la parte di conoscenza che gli è assegnata per i bisogni della vita. Non v’è inoltre alcun sapere segreto e inaccessibile ma al contrario è tutto alla portata della volontà e disciplina, le quali consentono di avervi accesso. Scrive ancora Gurdjieff: «[…] un’analisi imparziale della vita dell’uomo medio, dei suoi interessi, di ciò che riempie le sue giornate, mostrerà immediatamente che è impossibile accusare gli uomini che posseggono la conoscenza di nascondere di non volerla trasmettere o di non desiderare di insegnare agli altri ciò che essi sanno» (ibid.).

Oggigiorno, probabilmente, la disinformazione globale trova in questa massiccia, estrema e sperticata diffusione di conoscenza un alleato importante: ognuno ha raccattato un pezzettino di sapere prevaricando i consueti sistemi di ricerca. Risultato: tante persone che sanno poco di tutto. E se in passato i complottismi e le dietrologie erano relegati nelle nicchie degli eventi, oggi sono più che palesi e diffusi, integrati nelle dinamiche sociali del nostro tempo, grazie anche ai nuovi mezzi di comunicazione.

Se il mondo, quindi, è capace di ingannare il giudizio e illudere gli uomini, diviene allora più importante essere maestri di se stessi e rendere possibile il proprio atto della conoscenza: in particolare, combatterne la dispersione incontrollata e imbelle; un vero e proprio spreco al quale noi stessi diamo adito smettendo di interessarci all’opinione avversa, smettendo di verificare e ricercare strenuamente la verità, smettendo di voler capire questa realtà sempre più complessa. Rimangono in pochi coloro che ottengono la conoscenza e si sforzano di non mutilare la propria capacità di ricerca e approfondimento; la conoscenza non può arrivare a chi non si sforza costantemente per raggiungerla.

La nostra mente, tuttavia, non è un semplice vaso vuoto da riempire, ci ricordava Platone nel suo Simposio. È importante essere consapevoli di cosa significa “conoscere” e cosa rappresenta la conoscenza entro il contesto della nostra vita: dal momento che capiamo cosa conosciamo e come siamo arrivati al nostro grado di conoscenza, possiamo capire anche cosa siamo e chi siamo. Se saremo sinceri con noi stessi, avremo un quadro piuttosto completo della nostra persona e di come potremmo farla evolvere: come dovremmo comportarci, quali atteggiamenti mettere in atto, a cosa credere, etc. È importante capire se il nostro essere sia o meno in linea col nostro sapere. Senza lo sviluppo del primo, il secondo non può andare oltre un certo livello qualitativo; viceversa, non avremmo altro che una serie di nozioni accompagnate da atteggiamenti totalmente inadeguati. Chiedetevi quindi: cosa ci impedisce di essere in un certo modo? La mancanza di un proprio essere crea uomini senza comprensione, senza apprezzamento. Progredire nel Mondo non è un mero esercizio di potere esercitato grazie ad un sapere quantitativo: è altrettanto importante ritagliare i contorni di noi stessi, come una statua che scolpisce se stessa. Il medesimo senso è contenuto nella frase: bisogna assomigliare alle parole che si pronunciano e ai pensieri che si producono.

 

Matteo Astolfi

 

[Photo credit Brett Jordan via Unsplash]

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