Esercizi di libertà con Jonathan Livingston

Nel nostro quotidiano affannarci cercando di compiere i nostri tanti doveri può capitare che non ci si interroghi affatto sulla libertà né sulla mancanza di essa. Non è affatto semplice, infatti, comprendere se un concetto così bello e, allo stesso tempo, inafferrabile faccia parte della nostra vita e se la libertà che crediamo di avere corrisponda alle nostre più profonde esigenze. In questo senso, forse, sarebbe utile riappropriarci del diritto di comprendere come e dove sentiamo che essa si eserciti affinando la capacità di guardare dentro noi stessi, attività spesso trascurata per mancanza del tempo necessario all’introspezione. Una persona, per esempio, potrebbe sentirsi libera se riesce a dedicarsi ad un’attività che ama senza alcuno scopo preciso oppure se può gestire il proprio tempo in autonomia. Queste e altre innumerevoli forme di libertà, spesso, provengono da una ricerca individuale durante la quale, probabilmente, sorgeranno spontanee alcune domande “preliminari”: io sento di essere libero? Ho un mio spazio libero? O, in una fase successiva, dove si è cacciata la mia libertà che sento di aver perduto?

Esattamente a questo genere di domande si trova a rispondere il famigerato gabbiano Jonathan Livingston nel romanzo di Richard Bach che, riletto oggi, appare davvero illuminante. il gabbiano, infatti, rivendica una libertà particolare: la libertà di chi desidera con tutto se stesso seguire una voce altra che non è quella del gruppo sociale al quale, comunque, appartiene ma è una voce interiore, alla quale sente di non poter resistere:

«A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso il largo. E fu data voce allo Stormo. E in men che non si dica lo Stormo Buonappetito si adunò, si diedero a giostrare ed accanirsi per beccare qualcosa da mangiare. Cominciava così una nuova dura giornata.
Ma lontano di là solo soletto, lontano dalla costa e dalla barca, un gabbiano si stava allenando per suo conto: era il gabbiano Jonathan Livingston. […] La maggior parte dei gabbiani non si danno la pena di apprendere, del volo, altro che le nozioni elementari: gli basta arrivare dalla costa a dov’è il cibo e poi tornare a casa. […] A quel gabbiano lì, invece, non importava tanto procurarsi il cibo, quanto volare. Più di ogni altra cosa al mondo, a Jonathan Livingston piaceva librarsi nel cielo» (R. Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston, 1977).

Potremmo dire, quindi, che la fase più delicata, importante ed emozionante nella ricerca della propria libertà sia proprio accorgersi della mancanza di essa, solo avendone la percezione, infatti, si può agire concretamente per riconquistarla nonostante non sia sempre semplice. Per conquistare l’agognata libertà potrebbe essere necessario operare delle scelte anche drastiche e, spessissimo, si rischia di non venir compresi dagli altri. Jonathan Livingston stesso prova l’esperienza dell’emarginazione dal gruppo sociale perché nessuno dei suoi simili riesce a comprendere la sua inquietudine e le sue idee che, di fatto, se fossero accolte romperebbero un equilibrio, un ordine costituito, una serie di riti già ben collaudati. Per questo motivo, al nostro gabbiano non resta che recidere, almeno temporaneamente, alcuni legami e andar via verso un mondo nuovo dove troverà altri simili a lui coi quali confrontare le proprie idee, perfezionare le tecniche di volo che ama tanto e tramandare la sua idea di libertà, ovvero trarre felicità e soddisfazione personale nel compiere un atto senza un fine concreto«In capo a sei mesi, Jonathan aveva sei allievi, tutti esuli e reietti, ma pieni di passione. E curiosi di quella novità: volare per la gioia di volare!» (ivi).

Ed ecco come, pur nella sua brevità, il romanzo di Bach ci invita a cercare con tutte le nostre forze quella libertà che fa parte di noi, anche quando ci sembra di averla smarrita. Nelle ultime pagine il cerchio va a chiudersi per non finire mai: sarà un altro gabbiano a portare avanti lo slancio ideale di Jonathan Livingston e, forse, ha proprio ragione quando ricorda al suo adepto (e a noi) che: «Per tutte le cose, Fletcher, è questione d’esercizio!» (ivi).
Sarebbe davvero importante, per tutti noi, accogliere questo monito ed esercitarci a ritrovare la nostra peculiare libertà, regalandoci anche il diritto quasi dimenticato di praticarla. Nella nostra quotidianità dovremmo provare a dedicarci all’ascolto interiore, così da far emergere i nostri bisogni anche quando temiamo che quest’attività possa rubare tempo ad altri impegni più “concreti”. Tendere l’orecchio e mettersi nella condizione di riuscire ad ascoltare la propria voce più profonda potrebbe rivelarsi, infatti, il dono più bello e prezioso da fare a noi stessi.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Grazie perché mi hai fatto male

Seneca disse: «Lieve è il dolore che parla. Il grande dolore è muto».
Con queste parole si apre questo promemoria filosofico che, forse, non sarà utile solo a me.
Il dolore è una grande forza che corrode, come l’acqua la roccia.
Arriva seguito da uno spiacevole evento, di quale natura non importa, e rapisce per un momento la nostra vita.
Si può decidere di superare il dolore, questo è certo, ma non si può cancellare quella scia che ha lasciato dietro di sé. Il dolore è oggettivo, qualsiasi essere vivente può testimoniare la sua esistenza.
Si può essere coraggiosi e non temerlo, ma ahimè è inevitabile.
Si può pensarlo ma non smettere di provarlo. Urla senza fare rumore, non ha nome, ma sostanza.

Il dolore può sfociare nella sofferenza, che, per fortuna, può placarsi e trovare pace.
Non si parlerà però di resilienza in questa occasione, non vorrei ripetermi.
Questa volta, all’insegna di Seneca, vorrei prendere distanza dal dolore e così facendo ringraziare chi del male ne è stato il fautore. Forse sarà più una lettera che si può leggere senza impegno, ma non senza cuore. Spero possa dare voce anche al tuo dolore.

Grazie a chi oggi ti ha ferito con le parole, si dice che siano più taglienti di una spada.
Tu ringrazia chi ti ha sbattuto la porta in faccia, quella strada forse non era la tua.
Grazie a chi se ne è andato volontariamente e ti ha lasciato solo, ora, se ci pensi bene, ci sarà un posto libero per chi vorrà sedersi e viaggiare con te.
Grazie anche a te che, magari con l’ansia, le fissazioni, le paranoie, quando te ne accorgi diventi più cosciente delle tue preoccupazioni e, perché no, potresti anche riuscire a ridere di te stesso, ricalibrando i pesi del tuo presente.
Potresti dire grazie anche a chi ti ha tradito, ti ha insegnato cosa significa il concetto di fedeltà.

Grazie a chi non ha creduto in te, ora non hai più scuse, devi provare a essere il tuo vero e unico fan. Resti solo tu con la tua interiorità.

Quell’interiorità che Seneca descrive come il solo luogo in cui si può salvaguardare la propria libertà − e aggiungerei serenità − da tutti gli assalti della vita di ogni giorno.
In merito il filosofo latino ci invita ad un semplice esercizio1 senza tempo: prima di un nuovo giorno, dunque alla sera, suggerisce di provare a rivivere la giornata appena trascorsa, di fare quindi redde rationem, una ricognizione di tutto quello che è stato fatto per sincerarsi che si abbia agito nel bene, senza aver recato danno a sé e agli altri.

Il dolore, ad ogni modo, è una forza come l’amore: ti scuote, ti travolge, ti fa a brandelli e non lascia scampo. Durante la tempesta ti scopre da tutte le certezze e spesso ti annichilisce. Tirerà fuori il meglio e il peggio, quello che resta di te.
Tu cosa sceglierai?

Prima di concludere vorrei dare voce anche al mio dolore e mi rivolgo ora a chi mi ha fatto e continua ad arrecarmi dolore.
Grazie, ma nonostante tutto, io sono ancora qui.

 

Al prossimo promemoria filosofico,

Azzurra Gianotto

 

NOTE
1. Tratto da L. Anneo Seneca, De ira, III, 36, edizione Bur, 1998

[Credit Jeremy Bishop]

 

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Feed your head, feed your head

<p>Immagina tratta da Google Immagini</p>

La psichedelia propone un gioco, le cui regole sono tanto nette quanto imprevedibili; getta i giocatori in un paradosso esistenziale che coinvolge ogni singolo aspetto della realtà. Quest’ultima viene sgretolata, dispiegata, derisa crudelmente, vi si rinuncia in virtù di una scoperta sinestetica dove ogni punto, ogni atomo, ogni fosfeno assume il significato di un’apocalisse o di un’origine primordiale. La vita prorompe aggressiva da ogni dove, in ogni tempo. Gli altri e l’altro diventano coacervo di una pluralità semantica di dimensioni, che se da una parte si differenzia radicalmente dal proprio sentire, dall’altra ci coinvolge direttamente nel suo sviluppo perché come noi partecipa delle medesime intuizioni; e ciò può tanto spaventare nell’imponderabile quantità di suggestioni che fa emergere, quanto affascinare all’inverosimile per la multivocità incalcolabile della vita attorno a noi.

Per tutto il viaggio non si comprende nulla di quel che viene detto e ci si perde nel tentativo inutile di spiegare quel che al Sé, oltre ogni altra cosa, sta accadendo. Si vuole analizzare la propria psicologia, valorizzare la propria esperienza, ma la psichedelia lo impedisce, e anzi costringe a cercare un accordo, a stipulare un contratto, a riconoscersi nell’altro e a permettere all’altro di riconoscersi nel Sé; il gioco di specchi e riflessi ininterrotti che rende evanescente ogni presunta priorità sostanziale. Quel che simula è un momento di destabilità mentale in cui ogni coordinata allude a qualsiasi altra dimensione immaginabile; si assiste alla più totale sconfitta della razionalizzazione e ci si perde in un caos magniloquente che può evocare infinite suggestioni. Nulla è più fondato, ogni oggetto è dubitabile, si vive nel costante sospetto di venir presi in giro. La psichedelia esagera ogni cosa, la eleva oltre l’assurdo, la svela in ogni verità che può rappresentare. Si continua a vagare per le stanze a caccia di fantasie, incoraggiando i fantasmi a farsi vedere, e nel frattempo tutto si distorce, si piega fino al ridicolo, al grottesco, gli oggetti assumono una configurazione caricaturale, priva di confini, di bordi, di limiti che ne chiudano il senso; anzi questo straripa da ogni dove, si diffonde come un oceano, allaga, livella e confonde, rende liquida ogni certezza, persino camminare diventa sospettoso. Sembra di vivere all’interno di un cartone animato; la casa respira, ride assieme ai viaggiatori, insiste a solleticarli, ama le loro risate sguaiate, incoscienti, folli. Uno afferra una nocciolina, la sbuccia e gli sembra di sventrare lo scafo di una nave in legno. L’altro osserva le vene del braccio, rapito dalla bellezza anatomica del corpo, e queste sbucano fuori dalle dita come un intreccio di liane che si aggrappano e si radicano negli oggetti tutt’attorno. Sovraccarico di significato, assenza di fondamenta, queste sono le regole del gioco; chi accetta la sfida viene invitato a visitare un castello delle streghe, una casa di specchi, una dimora incantata. Non gli viene detto cosa lo aspetta all’interno, e non lo saprà finché non affronta l’ignoto.

La psichedelia è un po’ come la lettura; scombussola la coscienza, le sfila via le lenzuola con prepotenza, le canta una canzone per farla alzare dal letto, che il sole splende ed è ora di sgranchirsi le ossa. Psichedelia e lettura sono entrambe psicotropie; abbattono i confini, ne ridono, ne fanno una satira, dialogano e interrogano perché cercano delle risposte, perché cercano quel barlume opalescente che rifulge tra le tenebre occulte delle nostre viscere, e così facendo nutrono un’anima che langue e deperisce. Qualcuno può dire che è tutta una finzione ma cosa non lo è a questo mondo? Se è finzione la coscienza che palpita, allora tutta la vita è una colossale perdita di tempo. Certo però è che ci vuole profondità di spirito e un certo vigore psichico per poter discernere il senso intrinseco alle infiorescenze psichedeliche della propria anima. L’inconscio viene estratto dai recessi della mente e posizionato tutt’attorno nel mondo con una irruenza selvaggia, irrefrenabile. Eppure quella stessa ombra che si ingigantisce e prende l’aspetto di un demone è in realtà un segno, un’indicazione, un’ancora o una boa che sta illuminando un itinerario salvifico. Per scorgere questo percorso occorre accettare la consapevolezza di quel che si è, interiorizzando come nuovo carattere l’aspetto traumatico che si è appena palesato. È facile finire ingarbugliati in sensazioni sgradevoli e paranoie alienanti, terribilmente confuse, e spesso ciò che ne consegue è una profonda vergogna che rischia di minare l’intero assetto della propria persona. Ma ciò accade perché la psichedelia, e quindi anche la lettura, risvegliando la vivacità dell’anima, illumina l’egoismo che albergava latente nel nostro cuore e il tono esasperato con cui indica quel cancro è un invito, non un rimprovero, a far qualcosa per debellarlo. La psichedelia è un esercizio che pone la persona di fronte a un amore indifferenziato; se non si è capaci di sincerità, se ne avrà solo che male.

Per salvarsi dai cavalloni surreali e dal marasma oceanico che ci travolge, occorre gettare ponti, sancire legami, confidenze, rapporti, ancorarsi a qualcuno, a uno sguardo, a un contatto umano che rivalorizzi un fondamento; la psichedelia distrugge ogni vanità per costringere noi in primis a fondare una sicurezza. Non dice la verità, ma ne invoca una possibile, e in tal modo incoraggia la poietica dell’immaginazione, della ricerca, del domandare, che in ultima analisi, sono le istanze principali della vita stessa. Come se facesse terra bruciata per riconsegnarci alla fine un nuovo spazio del creabile, un nuovo itinerario possibile di scrittura, spronando la vita a riconoscere i suoi difetti e a migliorarsi. L’esperienza psichedelica non ha mai senso prima del suo esaurirsi. È solo allora infatti che i fili si riannodano, che i colori recuperano chiarezza, e i significati strisciano entro i confini degli oggetti che gli sono propri. L’esistenza poi torna a tacere e ci riporta sul nostro pianeta per lasciarci il tempo di capire cosa stiamo covando dentro di noi.

Leonardo Albano

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Intervista a Pierpaolo Casarin – La Philosophy for children

Perché ha scelto di intraprendere gli studi in Filosofia?

Non è semplice trovare una risposta convincente ed esauriente in riferimento alla propria scelta degli studi universitari. Ricordo che durante gli anni del Liceo la Filosofia rappresentava non solo una materia interessante, affascinante e ricca di spunti, ma anche e soprattutto un modo di interpretare la realtà e forse anche un modo di starci. Uno studio che presupponeva necessariamente un impegno, una messa in gioco diretta. Sul finire degli Anni Ottanta al Liceo Manzoni di Milano, dove sostenni l’esame di maturità, decidere di studiare Filosofia presso L’università Statale di Milano aveva anche a che fare con la politica. Inoltre studiare filosofia significava stare in un certo “paesaggio”, frequentare mondi che, evidentemente, mi davano serenità e mi rallegravano. Ricordo ancora la tristezza che mi infondevano diversi cari amici che avevano scelto altre facoltà. Mi dicevano di aver scelto per utilità, per trovare lavoro. Dal mio punto di vista si erano piegati alla funzionalità; forse i miei amici avevano parte della ragione. Io mi godevo quella parte di torto non funzionale al profitto, ma capace di farmi sentire bene nella città. La scelta della filosofia, un modo per non spegnere le luci della città.

Una volta laureato le prospettive che le si sono aperte combaciavano con le sue aspettative?

Una domanda che se stessimo per dare vita ad una pratica filosofica ci permetterebbe di discutere intorno al concetto di aspettativa. Prima di finire gli studi universitari avevo iniziato a lavorare nel campo del sociale. Un ambito, che riprendendo il discorso di prima, mi sembrava raccogliere bene l’invito e la prospettiva della filosofia intesa come impegno e tentativo di trasformazione della realtà. Una visione forse ingenua, ma in qualche modo un’esigenza. Le mie aspettative non erano legate al fatidico “pezzo di carta”, ma trovavano forze e realizzazione nella possibilità di tradurre nella prassi ciò che avevo mutuato sul piano teorico nelle aule di Via Festa del Perdono (sede dell’università degli studi di Milano). In questo senso le prospettive aperte non avevano disatteso le aspettative. Più avanti nel tempo, ho ripreso gli studi filosofici, frequentando diversi corsi di approfondimento post universitari (corso di perfezionamento in philosophy for children presso l’università di Padova o il master in Consulenza filosofica organizzato da Cà Foscari). Anche in questo caso ho trovato risposta alle mie richieste. Si è trattato di percorsi capaci di estendere i miei orizzonti lavorativi e progettuali.

 Perché il Master in Consulenza Filosofica? Lo consiglierebbe ad un laureato in Filosofia?

Domanda alla quale ho iniziato a rispondere, rispondendo a quella precedente. In ogni caso forse risulta necessaria una leggera digressione autobiografica. Dopo la laurea e diversi anni di impegno nel mondo sociale sentivo la necessità di un ritorno allo studio, una necessità di riflessione che permettesse una nuova forza concettuale da ritrasferire nella prassi. Fra queste possibilità ho saputo della nascita di un Master in Consulenza Filosofica. Mi colpirono i temi annunciati e la qualità dei docenti coinvolti. Perissinotto, Galimberti, Natali, Ruggenini, Natoli, Rovatti, solo per fare alcuni nomi, rappresentavano uno stimolo importante. Inoltre l’esperienza del Master ha permesso a me, e credo anche a diversi miei compagni di corso, una grande occasione per conoscere il variegato mondo delle pratiche filosofiche. Un’esperienza decisiva per dar forma ulteriore alle mie competenze e alle mie conoscenze e per riuscire a tradurle in diversi progetti che proprio attorno al 2005-2006 hanno iniziato a divenire, di fatto, la mia attività professionale. Dalla fine del master veneziano il mio lavoro è mutato: ho concluso la bellissima esperienza di lavoro sociale durata più di dieci anni per iniziare ad occuparmi interamente di pratiche filosofiche.

OLYMPUS DIGITAL CAMERAPerché ha scelto di intraprendere gli studi in Filosofia?

Che cosa l’ha spinta a lavorare con i bambini?

Va forse detto, prima ancora di illustrare le ragioni del mio impegno in progetti di filosofia con i bambini, che, in origine, la mia attività lavorativa nel mondo del sociale si rivolgeva anche nei confronti dei preadolescenti in difficoltà. Lavoravo, per conto del Comune di San Giuliano Milanese, in un progetto che intendeva coinvolgere i ragazzi considerati a rischio dispersione scolastica. Ricordo anche un lavoro di sostegno scolastico svolto negli spazi del centro sociale Eterotopia. Quando mi accorsi dell’esistenza di percorsi post universitari di formazione per realizzare attività di filosofia con i bambini pensai che fosse una ottima possibilità. Un modo per trasferire nelle attività sociali alcune competenze di natura filosofica. In realtà la questione si complicò: man mano che studiavo, approfondivo la philosophy for children, frequentando il corso di perfezionamento organizzato dall’Università di Padova mi accorsi che la questione non era semplicemente quella di “esportare” delle competenze dall’ateneo padovano nei confronti dei giovani che incontravo nelle varie realtà periferiche milanesi, ma piuttosto si trattava di inaugurare un nuovo rapporto con la filosofia, con il sapere. In questo senso l’infanzia diveniva, così, una metafora. Si filosofia con i bambini, ma anche e soprattutto una nuova infanzia della filosofia, una nuova lente per rileggere il mio rapporto con il sapere e con i poteri che ogni sapere porta, inesorabilmente, con sé. Pertanto non era una filosofia per “lavorare meglio” con i ragazzi nei progetti sociali, non una filosofia utile per i miei utenti, ma mi scoprivo “utente” di me stesso. In gioco ero io, si apriva una nuova stagione.

 Lei ora è Teacher Educator in Philosophy for Children, di cosa si tratta?

Si tratta di un “titolo” in uso all’interno di alcune associazioni di philosophy for children italiane e internazionali. Definisce la competenza raggiunta. I livelli sono tre: teacher (soggetto competente per facilitazioni in philosophy for children), teacher expert (livello successivo) e teacher educator ovvero formatore nella disciplina, il livello più avanzato. Un modo come un altro per attribuire differenti livelli di competenza. Va però precisato che non si tratta in alcun modo di titoli con valore giuridico, ma sono semplicemente livelli di competenza che in Italia vengono adottati. Purtroppo a volte si punta molto sul raggiungimento del titolo e meno sulla reale diffusione della pratica. Meglio sarebbe abolire questi titoli e lavorare per la diffusione orizzontale di queste esperienze nei diversi territori. Nel prossimo futuro credo che nasceranno delle nuove possibilità di formazione che cercheranno di fare tesoro di alcune riflessioni critiche intorno alla questione della titolazione e punteranno sulla completezza dell’offerta formativa magari svelando alcune movenze retoriche presenti in svariati ambiti formativi o pseudo formativi.

Lei definisce la Phylosophy For Children una “Filosofia che diviene Filosofare”, potrebbe chiarire quest’espressione?

Con questa frase che corre il rischio di sembrare uno slogan intendo sottolineare quanto la filosofia perda un pochino di quella fisionomia che spesso la caratterizza e divenga, invece, pratica implicante. Un esercizio, un’esperienza di pensiero capace di trasformare i soggetti; non solo trasmissione di sapere o interpretazione corretta dei testi, ma anche e soprattutto un lavoro di ri-significazione concettuale, di creazione del concetto, giusto per parafrasare Deleuze e Guattari. Interessante notare come questo processo avvenga in modo condiviso e il pensare dell’altro interagisce con il mio e viceversa.

 Quali strategie e metodi utilizza la Philosophy for Children per realizzare un’educazione al pensiero?

Il “curricolo philosophy for children” nasce negli anni Settanta ad opera di Lipman. Si tratta di un modello operativo di educazione al pensiero complesso. La philosophy for children non tende all’insegnamento disciplinare della filosofia, non mira a insegnare il pensiero, ma piuttosto pone l’accento sulla possibilità di insegnare a pensare e riflettere sul processo di pensiero stesso. In questa luce la philosophy for children rappresenta un esempio di applicazione del concetto di ricerca all’educazione. Da ciò ne deriva che, invece di attendere che i ragazzi/e memorizzino gli approdi filosofici dei pensatori, così come vengono riportati nei manuali, si chiede loro di indagare, di riflettere autonomamente. Una possibilità per i giovani di farsi carico di una parte di responsabilità della loro stessa educazione, di costituirsi come soggetti attivi del loro divenire. In questa prospettiva troviamo una visione dell’infanzia come fonte di stupore e luogo privilegiato di ricerca di significati. Pertanto l’educazione alla ragione è vista come un percorso formativo necessario per la costruzione di una società democratica, sensibile alla differenza delle provenienze culturali e disponibile a generare processi di cooperazione fra soggetti. In gioco la trasformazione della classe in comunità di ricerca che ha come obiettivi:

  1. la promozione di un progetto di sviluppo della persona in cui la dimensione individuale si dispiega e contestualizza nella co-costruzione sociale delle idee e nella responsabilità condivisa delle azioni
  2. la valorizzazione dell’interazione sociale come potenziale cognitivo
  3. la sottolineatura della componente dialogico-discorsiva della conoscenza
  4. l’educazione al confronto e alla riflessione critica
  5. la promozione di un’idea di filosofia come esercizio di umanità e avventura formativa
  6. sostenere un’idea di scuola intesa come apertura, incontro, ponte fra culture
  7. valorizzare il ruolo del facilitatore del dialogo come figura in grado di testimoniare la sua efficacia proprio a partire dalla diminuzione dell’istanza autoritaria spesso presente nei circuiti scolastici ed educativi

La comunità di ricerca, così come la intende Lipman, si mostra in grado di testimoniare come l’interazione sociale possa aprire quella che Vygotskij chiama “zona di sviluppo prossimale”, ossia uno spazio cognitivo in cui lo studente fa, con l’aiuto di un altro, ciò che non riuscirebbe a fare da solo. Una filosofia con i bambini, la philosophy for children che spesso viene sintetizzata con l’acronimo p4c, acronimo che mantenendosi permetterebbe di declinare tale esperienza anche in philosophy for community rivolgendosi, in questo modo, alla cittadinanza, agli incontri di sguardi fra culture differenti, divenendo così ponte occasione di dialogo e cooperazione fra prospettive differenti. Il termine children può essere inteso non solo come una realtà anagraficamente definita, ma anche una condizione esistenziale auspicabile di chi si colloca in una possibile disponibilità all’incontro conoscitivo. La pratica della filosofia, pertanto, ha come obiettivo la realizzazione di uno spazio e un tempo per tutti coloro che desiderano crescere nel pensiero e nella possibilità che tale processo si realizzi in modo partecipato e collaborativo.

 Possono esserci dei rischi nell’avvicinare la filosofia ai bambini?

Una domanda curiosa, ma, forse, più che legittima. Immagino che i più si preoccupino per i bambini a partire da un incontro di questa portata. Anche se, a pensarci bene, un certo atteggiamento involontariamente grottesco del sedicente esperto o accademico di filosofia lascia immaginare che alcuni si potrebbero preoccupare per la filosofia. C’è chi ritiene che la filosofia sia una materia troppo complessa per i bambini e che pertanto l’incontro fra infanzia e pensiero astratto sia dannoso per i giovani non ancora attrezzati. C’è chi non desidera semplificare la materia puntando più sull’appropriatezza dei codici che non sulla spontaneità del flusso concettuale. Direi che i rischi maggiori non sono né per i bambini, né per la filosofia, ma piuttosto per il soggetto che crea l’appuntamento che deve sapere creare la giusta atmosfera, deve saper curare l’incontro, predisporre in modo adeguato il setting. Si tratta di fare bene i conti con il pensato e con il pensare, con il saputo, il sapere e anche e soprattutto con il non sapere. Creare questo incontro implica sensibilità e disponibilità, significa uscire dalla logica del benpensante-filosofo, significa disporsi ad una esperienza di pensiero capace di creare spazi e trasformazioni. Si l’incontro prevede dei rischi, ma non c’è esperienza significativa senza qualche rischio da correre.

Potremmo definire il lavoro del Facilitatore, come direbbe Bruner una funzione di Scaffolding?

Si, concordo pienamente. Ricordo che la funzione di scaffolding veniva sottolineata dalla Prof. Marina Santi durante il corso di perfezionamento padovano. Si tratta di una modalità che sostiene, ma permette l’emancipazione. Una vicinanza non soffocante; il facilitatore di una comunità di ricerca potrebbe trarre grande giovamento nel riuscire ad esercitarla con regolarità. Una funzione che pretende anche una certa sensibilità e una spiccata propensione per la cura nelle relazioni

Ci si proietta verso una Philosophy Community, quali possono essere le strategie e metodi per una partecipazione al pensiero rivolta ad altri soggetti?

Il termine philosophy fo community, ora diffuso, nasce qualche anno fa durante l’esperienza formativa residenziale promossa dal centro di ricerca sull’indagine filosofica. Ricordo che stavo chiacchierando con Nicoletta Bottalla quando proprio a lei viene in mente questa possibile nominazione per significare di comunità di ricerca da rivolgere a soggetti di età non più scolare. Il fatto che si mantenesse l’intervento medesimo acronimo della philosophy for children, ovvero p4c, ne manteneva e saldava il legame. Con Nicoletta si parlava dei confini della philosophy for children e insieme avvertivamo la necessità di pensare qualcosa che potesse estendere l’area, i confini della proposta. In seguito sono state diverse le esperienze di philosophy for community, ma ci tengo a ricordare quella che dal mio punto di vista, per continuità, profondità ed impegno ha mostrato aspetti maggiormente interessanti. Si tratta dell’esperienza di philosophy for community realizzata da Silvia Bevilacqua presso le diverse sedi della Comunità San Benedetto al Porto di Genova. Un contesto particolare e trovo promettente e liberante al tempo stesso che in uno scenario di trasformazione e disintossicazione quale è quello della comunità San Benedetto al Porto venga attribuita una grande rilevanza al pensare insieme. Questo lavoro è stato sostenuto con forza da Don Andrea Gallo che ha sempre puntato sul pensiero critico come principale veicolo di emancipazione. Ritengo che la philosophy for community costituisca un ponte eccellente per traghettare quanto di significativo e positivo troviamo nella philosophy for children verso un altrove ancora da definire con precisione. Si tratta di portare le esperienze di pensiero in svariati luoghi, si tratta di liberare dei tempi per la riflessione e il pensiero critico. Philosophy for community come occasione persino per ri-pensare il concetto di comunità., magari, provando ad confonderne i confini. Forse oltre che di comunità di ricerca si dovrebbe o potrebbe parlare di orizzonte di ricerca. C’è qualcosa di più aperto, di più libero, una respirazione più ampia

Foucault considera la Filosofia come “lavoro critico del pensiero su se stesso, come il cominciare a sapere come e fino a qual punto sarebbe possibile pensare in modo diverso”, potremmo considerare questa espressione principio cardine della Pratiche Filosofiche?

Lavoro critico del pensiero su se stesso è sicuramente una suggestione da raccogliere. Michel Foucault penso possa considerarsi una figura decisiva non solo perle pratiche filosofiche. La sua ricerca, il suo impegno, il suo esercizio permanete costituiscono, a mio modo di vedere, un invito imprescindibile. Va detto, altresì, che non tutta la frastagliata galassia delle pratiche filosofiche sembra raccogliere questo invito. Talvolta esiste una retorica della pratica filosofica che sembra maggiormente impegnata a potenziare aspetti e dimensioni della propria prospettiva che divergono largamente dal respiro riflessivo di Foucault. Ricordo un’intervista di Duccio Trombadori a Michel Foucault, davvero importante. Una lettura di tanti anni fa che poi riaffiorò nuovamente in un’altra luce. Si parlava di esperienza e verità e delle diverse possibili strade che si possono percorrere in relazione con queste due differenti aperture. Foucault intendeva compiere esperienze di pensiero che non avessero un legame stabilito o meglio prestabilito con il vero o con ciò che si spaccia per essere il vero. Anche in questo frangente un importante invito per chi vuol avvicinare le pratiche filosofiche.

La Filosofia a scuola. Non più Storia della Filosofia ma una filosofia nuova. Potremmo considerarla come un ritorno alla sua stessa essenza?

La filosofia a scuola forse più che una negazione della storia della filosofia e un ritorno alla sua essenza è senz’altro un movimento, una disponibilità, una sensibilità. Si tratta di immaginare e praticare una filosofia disponibile essa stessa a inaugurare un processo di riapprendimento. Non è solo la filosofia che va tra i banchi dei giovani per essere studiata, conosciuta, ma è soprattutto una filosofia che si mostra disposta a mettersi in gioco. E con essa i filosofi o i sedicenti professori, esperti,consulenti, facilitatori. C’è disponibilità a dismettere alcune posture, alcuni accumuli di sapere che spesso si riverberano in eccessi di potere? Siamo disposti a riapprendere, magari disimparando qualcosa? Ecco la filosofia a scuola mira a questo spostamento, a questa disattesa, a questo rilancio. Un pensare altrimenti.

Cosa distingue le Pratiche Filosofiche dalla Psicologia e dalla Sociologia?

La pratica filosofica invita ad una ridefinizione del rapporto con il sapere. Una filosofia capace di uscire dalle mura, riprendendo il pensiero di Giuseppe Ferraro, per rimettersi in gioco radicalmente. La filosofia a cui ci si ispira è creazione di concetti, riprendendo l’esordio di Che cos’è la filosofia? di Deleuze e Guattari, di cui non saremo possessori, ma amici. La filosofia, nell’orizzonte delle pratiche filosofiche, sempre rifacendo sial pensiero di Ferraro, è l’unica disciplina che ha il sentimento nella sua denominazione. E’ amore per il sapere, ma forse è soprattutto sapere e consapevolezza di questo amore,di questa amicizia. Un sentimento la filia che racconta di un legame. Ecco la pratica filosofica che mi auguro si realizzi sempre più ha a che fare con i legami; anche la sociologia e la psicologia possono contenere queste sensibilità anche se disciplinarmente sembrano ruotare intorno ad altri nuclei. Eppure, secondo me, uno dei più grandi filosofi italiani è un sociologo, si chiama Alessandro Dal Lago. Si tratta di un pensatore che sferza, non di rado, l’orizzonte, talvolta successivamente retorico, di alcune declinazioni delle pratiche filosofiche. Eppure, secondo me, uno dei più grandi filosofi italiani è anche uno psicologo, si chiama Umberto Galimberti. La figura che, insieme al Prof. Luigi Perissinotto, ha ideato il Master di Cà Foscari in consulenza filosofica: l’esperienza formativa più arricchente intorno alle pratiche filosofiche presente nel panorama nazionale

La Chiave di Sophia

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