Ma allora chi è l’eroe?

Non c’è più spazio per la figura dell’eroe nel XXI secolo, per (almeno) tre ordini di motivi: il bombardamento di stimoli visivi che riceviamo, il decadimento della cultura dell’ascolto e la caratteristica di eterno presente che assume il tempo sul web. Questo è, in sintesi, il cuore di una riflessione, comparsa su La Chiave di Sophia (per approfondire vedi Non è più tempo d’eroi), circa la (im)possibilità delle grandi narrazioni eroiche al tempo di internet.

Nell’ottica di superare una prospettiva esclusivamente negativa verrebbe da chiedersi come si potrebbe caratterizzare l’eroe del terzo millennio. La prima difficoltà che sorge nel porre questo interrogativo è metodologica: la conclusione secondo cui la figura eroica non è oggi più possibile non esclude forse che si possa delineare l’eroe in astratto? Potrebbe infatti non essere legittimo calare dall’alto l’archetipo eroico su un periodo storico; dovrebbe magari essere l’epoca stessa a far emergere i suoi eroi. Tuttavia, è possibile tratteggiare le caratteristiche di un eroe del tempo presente, un eroe che combatte le sue battaglie nel mondo digitalizzato.

La caratterizzazione di quello che potremmo definire “eroe postmoderno” passa inevitabilmente per l’analisi della figura da cui più strettamente deriva, ovvero l’eroe moderno. «Non è detto che fossimo santi / l’eroismo non è sovrumano»: questi versi, scritti da Italo Calvino per celebrare la Resistenza, connotano efficacemente la principale dote della figura eroica del XX secolo: l’ordinarietà; per compiere azioni eroiche non è più necessario, come invece per l’epica medievale, essere di nobile lignaggio. Tuttavia, nonostante la conditio sine qua non dell’azione grandiosa non sia più la nobiltà (di sangue, o di cuore come teorizzavano gli stilnovisti), questo non rende meno importante l’impresa. «E voi, nascosti dietro alle finestre, – recita la ballata L’eroe del gruppo folk Mercanti di Liquore – farò io quello che voi vorreste/ Vi mostrerò che cosa si può fare invece di strisciare» e ancora «L’ho fatto perché non l’avreste fatto voi»: l’eccezionalità del gesto compiuto, topos dell’eroe fin dall’epica omerica, rimane invariata.

Tuttavia, nel ‘900 lo spazio per compiere mirabili imprese sul modello dei Greci sotto le mura di Troia o dei protagonisti delle chanson de geste medievali sembra già essersi ridotto. Questo non impedisce però di riconoscere figure a loro modo “eroiche”, per quanto eterodosse rispetto alla tradizione: si pensi, ad esempio, alla vita di Van Gogh – descritta, fra gli altri, da Karl Jaspers nel suo Genio e follia – o a quella di Charlie Parker, oppure al viaggio in motocicletta compiuto da Ernesto Che Guevara nel 1951 e raccontato nel diario Latinoamericana.

Cosa unisce Van Gogh, Charlie Parker e il Che1? Quello che, in qualche modo, era anche proprio degli eroi dell’antichità: l’abnegazione verso un bene superiore, sia esso morale, politico oppure artistico. Non è questa la sede per discutere quali conseguenze, soprattutto psichiche e fisiche, abbia avuto sui personaggi citati una tale e totale devozione ad una causa. L’idea è che l’eroe moderno sia intrinsecamente, seppur nell’accezione depurata da connotazioni storico-ideologiche contingenti, “partigiano”2. L’impresa è, infatti, manifestazione concreta di una scelta, spesso radicale, senza compromessi, totalizzante al punto da mettere a repentaglio la propria incolumità.

Sono proprio gli elementi dell’abnegazione verso un bene superiore e della scelta che possono essere tenuti in considerazione nella transizione verso l’eroe postmoderno, nella sua lotta contro un capitalismo omologante, una società digitale onnipervasiva e onnisciente. La mortificazione di qualsiasi slancio che devii dalla norma, che prorompe dalle dinamiche socio-politiche del terzo millennio, occlude quasi completamente lo spazio per l’eroe. Ciò non toglie che l’attitudine “partigiana” possa rivelarsi strumento per l’attuazione di una strategia resistenziale. L’eroe dovrebbe tornare a essere, per riprendere un termine di Marco Damilano, «partigiano della parola»3. La scelta, drastica: quella di combattere la semplificazione e l’appiattimento della società del digitale e dell’immagine riscoprendo il potere della parola. Soltanto un potente anelito verso la complessità potrà aprire un nuovo spazio per la narrazione di gesta eroiche, soltanto così l’era di internet potrà cantare dei propri eroi.

 

Edoardo Anziano

 

NOTE
1. La scelta di questi tre personaggi come rappresentanti dell’eroe moderno è da considerarsi semplicemente esemplificativa e non esaustiva. Sono stati volutamente omessi personaggi legati all’attualità e agli ultimi decenni, attingendo a un periodo in cui lo sviluppo delle telecomunicazioni di massa e l’avvento del digitale erano ancora lontani.
2. Questa caratteristica rivela, oltre all’eccezionalità dell’eroe, l’intrinseca debolezza della sua figura: ogni eroe, in fondo, è prodotto di una costruzione “di parte”, fondata sulla condivisione di un determinato ethos. La stessa qualificazione di Van Gogh, Parker e Guevara come “eroi” è funzionale a mostrare la relatività della narrazione eroica. Cfr. a tal proposito «Non è più tempo d’eroi». [inserire link]
3. M. Damilano, «Partigiani della parola», L’Espresso, 29 Aprile 2018.

[Photo credit Gabriel Bassino via Unsplash]

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Fede e speranza: Abramo e l’eroe tragico di Kierkegaard

Osservando i libri della mia piccola biblioteca universitaria mi è caduto l’occhio in particolare su di un titolo: Timore e Tremore di Kierkegaard. Un libro in cui si può percepire la rivoluzione filosofica ed esistenziale e in particolare la paradigmatica relazione del vero credente con l’Assoluto. Protagonista è la figura biblica di Abramo che, in modo non scontato, viene confrontata ad altri modelli di rilievo: la Madonna, Agamennone, Jefte e Bruto.

Abramo è spesso indicato come il Padre della Fede e viene paragonato in primo luogo a Maria perché ciò che più li accomuna è il modo di presentarsi presso Dio. Infatti, nella Genesi, Abramo risponde alla chiamata di Dio dicendo: «Eccomi» (Gen 22,1) e Maria, allo stesso modo, dice: «Ecco, io sono l’ancella del Signore» (Lc 1,38). I due, in questo modo, si mostrano quindi umili di fronte a Dio e simili nella Fede. Non solo questo li avvicina ma anche il grande miracolo che hanno vissuto e allo stesso tempo l’angoscia, la sofferenza e il paradosso con cui l’hanno sperimentato: Maria accogliendo il messaggio portato dall’angelo del Signore e mettendo al mondo il Figlio di Dio e Abramo con Isacco e il suo sacrificio chiestogli da Dio. Come Maria non può far comprendere il messaggio affidatole dal Signore, allo stesso modo Abramo: non possono essere compresi dal resto del mondo perché in intimo rapporto con l’Assoluto. Essi non possono parlare e mediare tali parole per non cadere fuori dal rapporto personale con Dio e dunque devono mantenere il silenzio. Il silenzio è quindi l’espressione della relazione privata con la divinità.

Abramo si contraddistingue poi anche da Agamennone del ciclo omerico, da Jefte, soggetto biblico, e da Bruto, soggetto storico.

Agamennone, personaggio mitologico che compare nell’Iliade di Omero, viene ripreso da Kierkegaard in merito al sacrificio della figlia primogenita Ifigenia. In quanto re di Micene, per ospiciarsi la dea Artemide e far partire la flotta verso Troia, Agamennone deve sacrificare la figlia sull’altare. Si racconta che durante la cerimonia, mentre il sacerdote immergeva già il coltello nel petto di Ifigenia, l’altare venne circondato da una densa nebbia, e, quando questa si ritirò, invece del corpo insanguinato della giovinetta, si trovò sull’altare il corpo di una cerbiatta. Artemide aveva avuto pietà dell’intrepida ragazza e l’aveva sostituita con l’animale, portando via Ifigenia viva in Tauride, dove il re del luogo, Toante, la fece sacerdotessa della dea che l’aveva salvata.

Jefte è un personaggio biblico noto per aver fatto a Dio un voto senza riserve e che coinvolse la stessa sua unica figlia. È nel libro biblico di Giudici, dell’Antico Testamento, che vengono narrati gli avvenimenti inerenti a questo voto. Prima di intraprendere la guerra con i pagani Ammoniti, Jefte pronunciò a Dio questo voto: “Se darai nelle mie mani i figli d’Ammon, quando io ritornerò vincitore, chiunque per primo uscirà da casa mia per venirmi incontro, sarà del Signore e lo offrirò in olocausto” (Giudici 11,30-31).

Jefte combatté e vinse. Al suo ritorno a Mizpa la prima della sua casa che gli si fece incontro, danzando con un tamburello per festeggiare il padre e la sua vittoria, fu la sua unica figlia; le Sacre Scritture non citano il suo nome. Appena Jefte la vide, preso dalla disperazione, si lacerò le vesti. La fanciulla, turbata dal gesto, chiese al padre quale mai fosse il motivo di tanto turbamento. Il padre le parlò quindi del voto fatto a Dio, in tutta risposta ella gli rispose di adempiere quello che aveva promesso, ma di permetterle di trascorrere due mesi sulle montagne per piangere la sua verginità con le sue compagne. Trascorso il tempo la fanciulla fece ritorno a casa e si sottopose volontariamente al voto fatto dal padre.

Il console della Repubblica romana, Lucio Giunio Bruto (545 a.C.- 509 a.C.) venuto a sapere della congiura contro Roma dei suoi figli, li fece decapitare in sua presenza per alto tradimento.

Tali personaggi hanno in comune una cosa con Abramo: tutti seguono il rapporto padre-figlio/a/i. Agamennone, Jefte e Bruto sono eroi tragici e si contraddistinguono da Abramo per come hanno vissuto la loro vicenda: l’eroe tragico vive nella sfera dell’etica, essa stessa è il suo scopo ultimo e riduce l’espressione rapporto etico padre-figlio all’etica suprema nell’idea di Moralità. Non si può uscire dall’etica, neppure può essere sospesa perché tutto rientra in essa. Vi è una forte tensione tra desiderio e dovere: l’eroe tragico rinuncia al suo desiderio per compiere il suo dovere e trarre vantaggio dal generale, così poi da trovarne riposo. L’eroe tragico rinuncia con affanno, sofferenza e angoscia sacrificando se stesso per il generale.

Ciò che dimostrano non avere però gli eroi tragici è la Fede, la passione suprema. Se infatti “l’eroe tragico è grande per la virtù morale,  Abramo è grande per la virtù puramente personale”. Lui compie ciò che Dio gli chiede nel suo nome, poiché Dio esige da lui una prova di fede e Abramo esprime la sua umiltà eseguendo il dovere di Dio, l’espressione della sua volontà.

Ciò riscontra che Abramo e il cavaliere della fede siano in perenne tensione, poichè c’è a possibilità di pentirsi e far ritorno al generale. In questo diventa presupposto che ciò che si sacrifica non sono solo i loro desideri, ma anche i loro stessi doveri, in cui l’etica è sospesa. Abramo è il Singolo in rapporto assoluto con l’Assoluto, in continua tensione di fede e sacrifica il generale per diventare singolo.

La fede è quindi il paradosso che permette al Singolo di essere più alto del generale, in modo che sia consentito il movimento della fede stessa; il Singolo, dopo essere stato nel generale, si isola dall’etica mondana e dalla moralità umana, ottendo il suo telos superiore fuori di essa. Ma se nel generale la mediazione è concessa dalla parola, Abramo non può parlare e sta in silenzio. Il silenzio è espressione del rapporto con il divino, poichè è impossibile comprenderlo se non si ha la stessa fede di Abramo. La fede è la passione suprema che permette, nel caso di Abramo, di credere in virtù dell’assurdo, in virtù del principio che per Dio è tutto possibile, che Dio stesso non voglia questo sacricio da lui o che gli ridarà un nuovo Isacco, perchè Dio è Amore, è solo Amore con per Platone nella Repubblica. 

Abramo dunque non compie un singolo movimento verso Dio, ma due: il movimento dell’infinita rassegnazione e il movimento della Fede.

Abramo compie il primo movimento correlato al secondo. L’infinita rassegnazione è il prendere le distanze dal mondo, dal generale, rassegnadosi  all’esteriorità, trovando rifugio nell’interiorità. Nell’interiorità, il Cavaliere dell’Infinita Rassegnazione prende coscienza di avere un’anima, un’energia originaria: scopre la libertà di autodeterminarsi e per questo si riconosce come Io libertà.

In questo autodeterminarsi, l’Io si sceglie concretamente, scopre di avere una sua storia, che è essa anche in relazione con altri Io. L’Io relazionato si scopre ulteriormente in continuità con la Storia che lo ha preceduto e lo seguirà. Si scopre parte di un’unica storia e prende coscienza con coraggio di essere un Io prodotto, condizionato, perdendo la libertà astrattamente conquistata.

Questi due stadi di coscienza permettono che l’Io assuma su di sé la Storia e si penta. L’Io ha quindi compiuto una sintesi tra possibilità e necessità, si riconosce come libertà in situazione, che non è quella assoluta del Creatore. Il pentimento perciò non è che un processo a ritroso per ripercorrere tutta la storia, per tornare al sé originario pensato da Dio. Il Sé è libertà; il sé ideale è il sé che lavora su se stesso per realizzare in se stesso il proprio sé ideale. Tale movimento di infinita rassegnazione ha un aspetto aristocratico, si deve compiere in solitudine e chi lo compie trova se stesso nell’Io nel suo eterno valore con il distacco del mondo. Il Cavaliere dell’infinita rassegnazione basta a se stesso, si accontenta della quiete del mondo ideale e vive a prescindere da ogni altro, perché trova una ricchezza in sé che lo automantiene.

Abramo però non si rassegna al mondo interiore, perché ha fede e ritorna al mondo reale. Il movimento della fede è il tassello in più in cui il Singolo, preso coscienza di sé nel suo eterno valore, si rapporta in modo assoluto con l’Assoluto. Al Cavaliere della fede non basta la quiete, ma vuole essere felice qui e ora e ritorna nel finito senza svalutarlo. Il mondo è di Dio infatti e Dio lo ha benedetto. Questo suo movimento non è visibile esteriormente, così come Abramo non lo manifesta disperandosi e piangendo. Abramo è sicuro che in virtù dell’assurdo, riotterrà Isacco e ciò comprendendo il paradosso di Fede, è avvenuto. In tal modo, in questo unico modo poiché è avvenuta una sospensione teleologica dell’etica, diversamente dall’eroe tragico legato alla moralità del reale, Abramo non è un omicida, nemmeno un eroe tragico, perché con la fede è un uomo che compie solo la volontà di Dio. Abramo non è perduto.

C’è fede, c’è speranza.

Al prossimo promemoria filosofico.

 

Azzurra Gianotto

 

[Photo Credits: Milada Vigerova, via Unsplash.com]

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Iperione e la ricerca dell’armonia della natura

Vi parlerò di un viaggio, ma non un viaggio come tutti.

Si racconta della vita di un ragazzo che diviene allievo, amico, soldato che lotta per degli ideali, innamorato ed infine eremita. La bellezza al centro del mondo, dell’esistenza, viene esperita in qualsiasi forma. È così che l’eroe scopre che la prima creatura della bellezza è l’arte, così come la seconda è la religione, che è amore della bellezza. E poi la poesia comprende e accoglie tutti i suoi gradi, poiché il giovane ritrova in essa l’essere infinito, eterno e divino, che si vuole ricercare attraverso il pensiero filosofico. La natura, in cui regna sovrana la pace e la divinità, riempie di serenità la mente e l’anima del protagonista e lo consola donandogli quiete e la felicità perduta. L’ardore giovanile infuoca il cuore dell’eroe che sente di dover agire per la difesa e il bene della sua patria e affronta con coraggio battaglie in nome della libertà e della giustizia. E l’amore, l’amore lo educa nella gentilezza, nel vedere quella bellezza nascosta, intrinseca perfezione nell’apparente caos. Ed ecco che posso svelare almeno il nome di colei che è capace di riportare nella luce un eroe smarrito nelle sue guerre contro la caducità del tempo e le ingiustizie umane: Diotima. Come scrive Giovanni Amoretti, Diotima sa essere donna in casa, come sa essere la donna del suo amato nel partecipare alla vita di lui, nello spronarlo nell’azione, nell’amarlo in modo tale da modificare il suo sentire, il suo modo di vivere, il suo rapporto con la natura1. È personalmente una delle figure più interessanti del racconto che sprigiona una luce rara, di un valore inestimabile, di cui si loda l’equilibrio e lo splendore, non solo fisico, ma intellettuale.

«Che cosa è tutto quello che, nei millenni, gli uomini hanno compiuto e pensato di fronte a un solo istante d’amore?»2. Questo scopre il giovane protagonista durante la vita. E alla fine si rende conto che «la conducono tutti i gradini, sulla soglia della vita, di là veniamo e colà diveniamo»3.

Quello che sarebbe bello omettere a questo punto è che si tratta di una tragedia. In qualche modo questo sogno idilliaco si infrange in un lutto che fa cadere nella sofferenza e nel dolore il nostro eroe. Solo il ritorno in patria, l’amata Grecia e la solitudine nella natura risveglierà la volontà di vita e la speranza nei suoi occhi. Tutto torna al proprio posto e ritorna l’essere note in accordo con l’armonia della natura.

«O anima! Bellezza del mondo! Tu indistruttibile! Tu affascinante! Con la tua eterna giovinezza, tu esisti; che cosa è, pertanto, la morte e tutto il dolore degli uomini? Quante vane parole hanno inventato gli uomini strani. Tutto avviene per effetto di un desiderio e tutto termina nella pace»4.

Altro non posso raccontarvi di questa storia, ma è arrivato il tempo per svelarvi il titolo.

Iperione di Friedrich Hölderlin è tutto questo e molto di più, lasciatevi trasportare in questa esperienza poetica. Iperione o l’eremita in Grecia5 è per lettori coraggiosi, che ricercano l’entusiasmo in questa vita che in tanti momenti può essere grigia. Questo romanzo epistolare rappresenta la speranza e la bellezza stessa della forza dell’amore puro che può travolgere tutto, ed è ancora una volta essere il motore del mondo.

 

Azzurra Gianotto

NOTE
1. Nota di F. Hölderlin, Iperione, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2009, p.74
2. Ivi, p.76
3. Ibidem
4. Ivi, p. 178
5. In lingua originale: Hyperion oder der Eremit in Griechenland

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Cinema e sport: così vicini, così lontani

Le grandi storie di sport hanno scritto pagine indelebili del secolo scorso e di questi primi anni del 2000. Sono diventate parte del nostro immaginario, lasciandoci immagini vivide e ormai entrate nella leggenda; come parte integrante dell’umanità, hanno scritto la Storia. Alì contro Foreman nel 1974, a Kinshasa. Il gol di Maradona a Messico ’86, sotto il sole accecante dello Stadio Azteca, mentre un emozionato Victor Hugo Morales impazzisce in telecronaca, chiamandolo barrillete cosmico. Nelson Mandela, in piedi sul prato dell’Ellis Park, indossando la maglia degli Springboks, stringe la mano e consegna la Web Ellis Cup a Francois Pienaar, capitano del Sudafrica; un bianco e un nero, figli della stessa terra. Il canestro di Jordan nel ’98 contro Utah, un tiro a 5,2 secondi dalla fine, l’ultimo della sua carriera ai Bulls; due punti che lo consacrano nell’Olimpo del basket, il più grande di sempre, un onnipotente del gioco.

Sono alcune delle immagini che tutti hanno visto almeno una volta e che anche il cinema, Hollywood in particolare, ha voluto omaggiare. Di film sullo sport se ne contano decine e sarebbe difficile elencarli tutti, anche se alcuni sono sicuramente più conosciuti: dai grandi film sulla boxe, come Toro ScatenatoRocky o i più recenti Million Dollar Baby The Fighter, ai film sulla pallacanestro; Hoosiers, con un appassionato e focoso Gene Hackman nei panni di un insolito allenatore. He Got Game di Spike Lee, che racconta uno dei lati nascosti del basket, con un meraviglioso e romantico 1vs1, finale tra Denzel Washington e il figlio Jesus Shuttlesworth/Ray Allen. Ancora Space Jam e la sua accoppiata vincente Michael Jordan/Looney Tunes, un film che ha fatto innamorare del basket un’intera generazione di bambini.

Di produzioni cinematografiche di questo tipo, come detto in precedenza, c’è davvero una gran abbondanza. Hollywood non ha mai badato a spese, cercando sempre di ingaggiare i migliori registi ed interpreti, con risultati, molte volte, davvero notevoli. Com’è invece la situazione in Italia? Se si attraversa l’oceano tornando nello Stivale, il panorama di film sportivi è piuttosto scarso, se comparato a quello americano. Lo sport al cinema è stato quasi sempre visto in chiave parodistica/umoristica, un esempio lampante è L’allenatone nel Pallone; come mai? Di certo non per la mancanza di storie da raccontare o, secondo alcuni, per la pochezza in termini di interpreti e capacità del cinema italiano. Probabilmente la risposta va cercata altrove, ad un livello più profondo.

C’è una differenza socio-culturale di base tra chi, come noi italiani, ha una storia millenaria, che si intreccia con la nascita e il fiorire delle grandi civiltà classiche e chi, come nel caso degli statunitensi, ha una storia molto breve, i cui eroi “antichi” sono i pionieri che hanno conquistato l’ovest o i soldati delle tante guerre da loro combattute. C’è una sorta di ricerca ossessiva dell’epica di un popolo che quest’epica non l’ha mai avuta e che in qualche modo si fonde con lo sport. Il grande atleta viene visto come un’incarnazione dell’eroe omerico, un moderno Achille, selvaggio e competitivo sul campo. Questa visione, la celebrazione della forza, del coraggio dell’atleta, viene presentata anche al cinema, come parte fondante della loro cultura e del loro significato di competizione.

La nostra percezione dello sport è molto diversa, è vissuto sicuramente in modo viscerale e appassionato, ma non ha un valore sociale così profondo e radicato nella nostra cultura. Difficilmente un atleta viene celebrato o raffigurato sul grande schermo come un eroe epico. Sono due visioni opposte, non solo di cinema ma anche di vita e probabilmente nessuna delle due è giusta o sbagliata. Due culture diverse, non per forza in contrasto, che però potrebbero imparare molto di più l’una dall’altra.

Lorenzo Gardellin

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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