Una delle più forti e significative esperienze della nostra vita è l’attesa: l’enigmatico tempo in cui il controllo di sé si fa più labile che mai, le emozioni e le ansie più disparate affollano la mente ed il cuore di chi si ritrova ad attendere.
È un’esperienza comunemente equivocata: di una persona in attesa si dice che ” se ne sta lì ad aspettare”, descrivendo una quiete che è solo apparente e persuade solo gli sguardi meno attenti, dietro la quale si v’è c’è il vuoto di un’assenza, un perpetuo moto verso l’altrove. Dell’attesa il senso comune afferma sbrigativamente, con fiera supponenza, la vanità: le espressioni del dire più distratto, in tal senso, sono molteplici.
È tutt’altro che vana l’attesa e ció deve scoprire chi desidera, colui al quale manca (pur se non del tutto, ché altrimenti non cercherebbe) qualcosa di cui ha sentore, di cui avverte il richiamo, da cui è continuamente attratto; cioè è strappato, tirato con firza indicibile: ecco, di nuovo, la quiete è solo la forma visibile di unmovimento troppo veloce per essere descritto altrimenti, almeno a prima specie.
La vanità dell’attendere, che per il senso comune è certezza, è per la persona interessata la consistenza di un dubbio, anzi,del dubbio piú importante poiché dalla sua risoluzione dipende l’esito piú o meno catastrofico di un’innumerevole serie di interrogativi, non da ultimo quello circa la propria identità: io, che attendo, chi sono?
Quando di risposte non se ne hanno, bisogna cercarne e, per farlo, è necessario trovare un punto di partenza, un punto fermo su cui far leva.
Ebbene, per chi è in attesa, un interlocutore possibile è Publio Ovidio Nasone, autore – tra le altre opere- delle Heroides, una raccolta di epistole composte da personaggi della costellazione letterario-mitologica classica. I libri XVIII e XIX di questa opera contengono due lettere particolarmente interessanti ( per il nostro tema, s’intende), scritte da due giovani amanti, Leandro ed Ero, i quali erano divisi da uni stretto di mare, l’Ellesponto. Quando gli dei erano loro propizi, Leandro poteva tuffarsi coraggiosamente in mare e nuotare nuota da Abido – sua città natale- a Sesto, città natale dell’amata Ero che gli faceva da guida tenendo accesa una lucerna. Cosa accade, peró, quando Borea fa infuriare le acque, rendendo troppo pericolosa la traversata? Ecco che la domanda fondamentale sorge a tormentare il cuore: “perché l’attesa?”.
<<Cur ego viduas exegi frigida noctes?>>[1]
Perché Ero,nel fiore dei suoi anni, ha dovuto vegliare al freddo dell’incertezza, traendo la propria forza da una lucerna accesa, simbolo della speranza costante che vince la tribolazione? Perché ella non è presso di sé quando Leandro è altrove; perché vive l’alienazione che solo un potente desiderio puó causare, non vede ció che dovrebbe stargli dinnanzi ed è sospinta a vagare tra le fumose vie della memoria per ritrovare il ricordo dei giorni felici; di quelle gioie che << non si possono contare, non piú delle alghe dell’Ellesponto>>[2] ; per ritrovare l’immagine di Leandro, del suo corpo che ogni notte usciva dai flutti e lei stessa correva ad asciugare, del giovane che bruciava per lo sforzo e ardeva d’amore. Non essere dinnanzi a ció che si desidera invita ad abbandonarsi al ricordo: << nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria>>[3] . Eppure non si puô farne a meno.
Il tormento della memoria, di contro, proietta la persona che attende verso un futuro in cui la speranza non trova immediato riscontro: si piomba nell’angoscia del presente. << Cur totiens a me, lente morator, abes?>>[4] .
Perché Leandro non è sulle rive di Sesto, tra le braccia dell’amata Ero? La tempesta ed il mare in burrasca sono davvero la sola causa? Non è forse plausibile che il giovane uomo abbia dimenticato Ero, distratto dalle sue attivitá, dalla caccia e dai poderi; che la sabbia delle palestre abbia offuscato i suoi occhi a tal punto che questi non riconoscono piú l’assenza di lei? Se cosí fosse, chene sarebbe di lei, della giovane donna che è ormai una sola cosa con la sua attesa?
La risposta è nel suo corpo: nel corpo di Leandro che è da sempre suo, che costantemente gridava il proprio non autopossesso, il proprio essere presso altro, il proprio voto di alteritá permanente. É nel corpo del giovane amante che i soffi impetuosi del vento hanno deposto, ricoperto di alghe, sulle rive di Sesto.
La risposta alla domanda circa la presunta vanità dell’attesa è in quelle membra che hanno affrontato il mare in tempesta per avvicinarsi all’amata , sprezzanti del pericolo, per le quali il pezzo piú alto era un nonnulla, se paragonato all’onorevole ricompensa di un ultimo tocco da parte di Ero.
” L’attesa non è stata vana”, grida Leandro, che tante preghiere aveva mormorato al cielo, chiedendo compassione al dio sbagliato; Leandro che, vegliando per sette lunghissime notti seduto su di una rupe, tentava di colmare la distanza come poteva, finendo con l’affidare ad una lettera i suoi sentimenti inquieti. Avendo, insonne, ricordato le prime gioie del suo amore furtivo, cessa di sperare in una tregua dalla tempesta, in un momento di bonaccia in cui nuotare con tutte le forze verso Ero, per mai piú tornare.
<< Arte egeo nulla:fiat modo copia nandi; idem navigum, navita, vector ero>>[5] Nessun aiuto occorre all’amante dolente d’attesa, nessuna nave che tagli sicura il mare: il suo ultimo respiro sarà sufficiente.
Una preghiera inaudita è il seme di una sfida titanica il cui esito è sancito dalle leggi non scritte degli dei superi e inferi, i quali non tollerano di essere oltraggiati dal coraggio di quegli uomini cui Prometeo insegnó l’arte della disobbedienza necessaria. Ma l’ira è cieca, anche quella degli dei: essi comandano la morte e su ritrovano ad aver donato la vita; ordinano al mare di separare la speranzosa Ero dal disperato Leandro e si ritrovano ad averlo condotto lí dove lui stesso avrebbe voluto essere, sin dal principio. E lo desiderava a tal punto tuffarsi in quelle acque che avevano già annegato altre giovani speranze [6] . Leandro è lí, morto per aver sacrificato ad Ero un respiro di troppo, per aver inseguito, una bracciata dopo l’altra, il battito lontano del suo cuore: e l’ha raggiunto.
A cosa serve, dunque, attendere?
A misurare se sé stessi, a trovare le energie necessarie per abbracciare il destino, a comprendere che per nascere al domani é inevitabile morire all’oggi. Morire qui per nascere altrove.
Che l’altrove sia Sesto, le braccia di una persona amata, l’esaltante luogo in cui si assapora la realizzazione dei propri sogni piú urgenti, non importa.
Emanuele Lepore
Note
[1] Ovidio, Heroides, XIX, 69: << Perché ho trascorso, al freddo,tante notti vedove?>>
[2] Ovidio, Heroides, XVIII, 84:<< non magis illus numerari gaudia noctis/ Hellespontiaci quam maris alga potest>>.
[3] Dante, Inferno, V,121-122.
[4] Ovidio, Heroides, XIX, 70:<< Perché tante volte, pigro, rimani lontano da me?>>.
[5] Ovidio, Heroides, XVIII, 147-148:<< Non ho bisogno di alcuna arte: purché Perché abbia modo di nuotare; saró al tempo stesso nave e pilota e passeggero>>
[6] Il riferimento é al mito di Elle che, fuggendo in groppa ad un montone dal vello d’oro insieme a suo fratello Frisso, cadde nelle acque dell’odierno stretto dei Dardanelli, da allora chiamato “Ellesponto”: “mare di Elle”.
attesa: il tempo dell’altrove agosto 9th, 2015Emanuele Lepore