Una prospettiva etico-filosofica della magia

La magia oggi non riveste alcun ruolo nella cultura. È scaduta a prodotto di nicchia per creduloni e ambito di perizia per ciarlatani. L’unica magia che si salva è quella oggetto di studio dell’antropologia. È di qui che dobbiamo passare se vogliamo interrogarci sull’eventualità che la magia abbia ancora qualcosa da dirci.

L’universo del pensiero magico potrebbe avere un importante messaggio filosofico da darci. Esso ha a che fare con una domanda cruciale: perché la mente umana, fin dalle sue manifestazioni più remote, ha creato un mondo simbolico immenso? Dall’oscuro serbatoio dei pensieri umani in cui germinano sogni di gloria e incubi di dissolvimento si espande un cosmo di proiezioni cariche di inesauribili contenuti. Questo accade almeno da quando alcuni esseri umani hanno iniziato a trasferire i loro pensieri sui dipinti all’interno delle caverne in cui vivevano. Un mondo in cui magia, spiritualità e conoscenza erano solo sfaccettature della stessa impresa: la fabbricazione di senso.

Il pensiero magico ha sempre accompagnato la vita degli umani, ma ad un certo punto non ce l’ha più fatta, non è riuscito a sopravvivere a due fatali eventi: l’Inquisizione e la Rivoluzione scientifica. Il mondo è cambiato molto da allora, per molti aspetti in meglio, ma non per tutti. Ma torniamo all’antropologia.
Dobbiamo a Frazer, agli inizi del ‘900, il primo importante approccio antropologico alla magia. Sebbene laureato in giurisprudenza, Frazer era molto più interessato agli studi sul folclore e sulle culture cosiddette “primitive”. La sua più famosa opera è Il ramo d’oro1, in cui partì dall’idea di confrontare la singolare pratica, secondo un’antica leggenda italica, di sottrarre un ramo dall’albero nel santuario della dea Diana, a Nemi, per poi procedere all’uccisione del sacerdote in carica e prenderne il posto. Da qui continuò allargando l’indagine su pratiche magiche in culture di tutto il mondo.
Il suo lavoro diventò il punto di riferimento, nonché di critica, per molti autori successivi, come Wittgenstein2 , ad esempio, il quale denunciò come l’idea di “selvaggio” e il punto di vista sulla magia fossero permeati di forte etnocentrismo. Fatto sta che sia Frazer, sia Wittgenstein, ma in generale l’antropologia, sentirono il bisogno di esplorare e spiegare la magia perché fondamentalmente, da un bel po’, non siamo più in grado di capirla. Eppure lei era qui, in mezzo a noi, è stata lume della nostra relazione con il mondo fino qualche secolo fa.
Ma che cos’è la magia? Detto con le parole di Guidorizzi, la magia è “un orientamento del pensiero” che si presenta «come visione obliqua e perturbante del mondo, come una possibile risposta al tentativo di indirizzare la realtà affidandone la guida all’Uomo»3.

La magia come guarda al mondo? In questa risposta credo risieda il potenziale valore etico di questa modalità del pensiero. Secondo la magia l’universo è un tessuto la cui fitta trama lega tutti gli elementi, visibili e invisibili. Potremmo dire che la magia vede a priori quei collegamenti che la scienza cerca di discernere man mano, organizzandoli in termini deterministici. Nella magia tutto è connesso e le formule magiche servono a sollecitare l’intercessione di forze occulte per fini pratici umani.

Nella nostra epoca di sapere parcellizzato e fortemente dominato da un approccio riduzionistico, fatichiamo a cogliere la preziosità della complessità che la magia invece dava come presupposto dell’esistenza. È proprio l’incapacità di vedere la complessità che ci porta a infliggere danni ormai irreversibili all’ecosistema, insensibili alle intime connessioni che tengono in vita il nostro pianeta e noi stessi.
Molte analogie e contrapposizioni sono state evidenziate tra magia e scienza. La seconda, lungo tutto il corso della sua emancipazione, si è resa autonoma proprio a partire dalla magia. Il primo a voler depurare un approccio “proto-scientifico” da uno magico fu Ippocrate, il quale affermò che ogni malattia ha una causa naturale e le pratiche di cura basate su esorcismi, ad esempio, sono fuorvianti se non dannose. In questo caso la superstizione, come la chiamiamo noi ora, era il risvolto di una modalità di visione iper-connessa. Il fatto è che se tutto è potenzialmente interconnesso, è possibile che il risultato sia il caos. Vedere lo spirito maligno al posto di un difetto di conduzione nervosa a carico del cervello, come aveva già compreso Ippocrate nel caso dell’epilessia, distoglieva da più concrete possibilità di cura. Questo accade purtroppo ancora oggi, quando persone che professano poteri guaritivi anti-scientifici arrivano a plagiare alcuni malati, con il risultato di allontanarli da possibilità di cura più efficaci. I veri maghi di un tempo – naturalmente esistevano anche gli impostori – non erano affatto dei ciarlatani: la magia era piuttosto una forma di sapere pre-scientifico.

Dunque, è chiaro che la capacità di orientarsi nella realtà deve essere un compromesso tra una visione eccessivamente “iperconnessa” e una totalmente “sconnessa”, cioè riduzionista e anti-complessa.
Un altro grande pensatore che si dedicò all’antropologia fu Ernesto de Martino. Muovendosi da un background filosofico, egli si approcciò allo studio della magia con l’intento di comprenderne lo sfondo esistenziale. Anche lui la confrontò con la scienza, definendo quest’ultima come un sapere che ha gradualmente ritirato la “psichicità” dalla naturalità4.
Tutte le proiezioni che la mente magica vedeva stagliarsi nell’universo, la scienza le ha man mano dissipate, lasciando solo la materia con le sue connessioni causali. Chiarezza al prezzo della perdita di complessità. La magia, per de Martino, è una risposta all’angoscia prodotta dall’incertezza della propria presenza, quotidianamente messa alla prova dal rischio di scomparire.
Insomma, è lo stesso motivo per cui esiste la filosofia.

La magia è la risposta al rischio di non esserci e lo sciamano è il grande esploratore del limite, colui che possiede le virtù per sfidare il rischio, portarsi alle soglie del caos e porsi come ordinatore della labilità.
E noi progrediti occidentali, digiuni di pratiche collettive e sguarniti di visioni di armonia universale, come ci poniamo di fronte alla nostra angoscia di scomparire? La scienza è preziosa, ma non possiede i requisiti per placare la nostra naturale inquietudine. La magia si è estinta, certamente aveva i suoi difetti, ma non la filosofia. È lei che ci può ancora guidare nell’esplorazione del perduto terreno delle sconfinate connessioni tra gli elementi del cosmo, costruendo significati, mentre la scienza è ormai fondamentale per scartare alcune connessioni rivelatesi fuorvianti. Un approccio complesso alla realtà sulla scorta della capacità “visiva” del pensiero magico è quanto di più etico la filosofia può desumere dalla storia della magia. Con una certa urgenza, oserei dire, visto che cogliere la complessità è la premessa per salvarci.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE:
1 J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Newton Compton Editori, 1992, Roma.
2 Note sul Ramo d’oro di Frazer. Ludwig Wittgenstein. Adelphi, 1975, Milano.
3 G. Guidorizzi, La trama segreta del mondo. La magia nell’antichità, Il Mulino, 2015, Bologna.
4 E. de Martino, Il pensiero magico. Prologomeni a una storia di magismo, Boringhieri, 1973, Torino.

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Il senso perduto dei riti dedicati ai morti e alle divinità

L’idea che la vita continua anche dopo la morte sembra essere pressoché universale, quasi intrinseca alla natura umana. Questo forse perché la fede in una vita dopo la morte nasce assieme alla capacità di pensiero simbolico che tanto caratterizza gli umani sapiens. Le prime sepolture di cui abbiamo notizia avvenivano in posizione fetale e sono proprio queste a testimoniare la comparsa del pensiero astratto per la forte simbologia presente in questi due elementi: la posizione fetale dà l’idea del feto all’interno dell’utero in attesa di rinascere. Anche il ruolo metaforico della terra è una costante universale perché è il luogo dove si esprime la fertilità della natura e la sua ciclicità vita-morte, basti pensare all’esperienza della semina, in cui solo dai semi interrati si avranno dei germogli. Questo simbolismo rimane parzialmente nel nostro linguaggio: il luogo dove siamo nati è la terra natale, la nostra nazione è la madre patria. Dalla terra nasciamo e alla terra torniamo, secondo natura.

L’antropologia ha evidenziato come in ogni cultura i morti svolgevano un ruolo di medium tra i due mondi affrontando un processo che inizia dal cadavere, passa per una transizione e solo alla fine trova pace. Mentre il cadavere si decompone, i morti manifestano una doppia presenza: sono un po’ nell’oltretomba e un po’ spettri che continuano a girare attorno le case dei loro cari. Il periodo del lutto corrisponde al tempo che serve al corpo del defunto per consumarsi, ma è anche il tempo adeguato perché il lutto dei vivi espleti il suo decorso. Considerato ciò, è necessario saper intrattenere con i defunti dei rapporti adeguati, perché, essendo loro ancora in parte presenti, hanno delle necessità. Vogliono cibo, attenzioni, lusinghe e anche oggetti. Non solo, il morto, essendo entrato nel dominio delle forze misteriose e potenti dell’aldilà, da dove solo alle divinità è stato concesso di tornare, possiede dei poteri e per questo va pregato e ingraziato, in un dialogo continuo che consente ai sopravvissuti di mantenere una relazione con l’oggetto del loro lutto.

Di fronte a ogni morte, tutte le civiltà del passato attuavano rituali basati sulla coesione; nessuno viveva in solitudine la morte se era parte di una società o di un clan e in tutta l’antichità si festeggiava attraverso i banchetti la comunione alimentare con divinità e morti: cibo per i morti e cibo per i vivi.

L’unico modo per combattere il terrore della morte era costruire narrazioni di gloria attorno al confronto con essa e solennizzare attraverso riti di coesione, comunione e condivisione di cibo. Grazie al rituale, era possibile far morire definitivamente il morto nei cuori di chi lo aveva amato. Non dimenticandolo, ma contrastando ritualmente l’effetto paralizzante e parassita di un lutto che non viene portato ad elaborazione finale. I riti, inoltre, creavano una separazione, un momento di interruzione con la vita normale, di sospensione delle attività da parte di tutta la comunità, per dedicarsi assieme alle celebrazioni, nelle quali elementi costanti erano le divinità e il cibo. Una ricostruzione preziosa di questa triplice connessione morti-divinità-cibo/natura ci viene dal lavoro di De Martino1, che in Morte e pianto rituale ci racconta una tradizione millenaria scaturita dallo stretto contatto con la natura e con la forte consapevolezza della sua duplicità: da un lato benevola, quando concede i suoi frutti, da un lato incerta, sfuggente e addirittura pericolosa, quando manifesta il suo lato catastrofico. L’invenzione dell’agricoltura ha concesso agli umani un piccolo spazio di controllo e manipolazione della natura (arare, seminare, curare i germogli e infine raccogliere) ed essendo essa la grande madre, dunque una dea, anche le varie colture erano assimilate a divinità. Quando arrivava il momento del raccolto e con la falce (ancor oggi simbolo della morte) si procedeva a mietere il grano, si compiva l’assassinio simbolico della divinità. E come farsi perdonare questo gesto di prevaricazione verso la natura? Ecco che nasce il canto e il lamento funebre. I contadini delle antiche civiltà mediterranee, mietevano e intonavano pianti funebri collettivi. Non solo, il rito del pianto si svolgeva secondo schemi abbastanza definiti. Una volta che si giungeva all’ultimo covone, esso simboleggiava il covone della colpa, che veniva addossata per intero a chi lo mieteva. Il pianto manifestava il tentativo di espiazione, ma esso si associava anche alla ricerca di un capro espiatorio, che spesso diventava uno degli animali che viveva e si nascondeva nel grano, per il quale si innescava una battuta di caccia. (Capossela ha scritto una canzone bellissima che rievoca questa esperienza come parte delle antiche tradizioni contadine dell’Irpinia: si tratta de “La bestia nel grano”, brano tratto dall’album “Le canzoni della cupa”).

Nel rapporto con la coltura delle piante gli umani si confrontano con l’esperienza della morte, delle divinità e la propria, poiché di fronte alla potenza della natura la nostra sopravvivenza è sempre incerta.

I nostri antenati hanno elaborato le loro angosce di morte costruendo riti collettivi di comunione con l’aldilà e con il divino attraverso la mediazione onnipresente del cibo come frutto concesso dalla natura e dalle sue divinità. Il cibo serviva ad acquietare i morti, ma era anche un pretesto per continuare a occuparsi di loro e contemporaneamente placare l’ansia, oltre che un modo per prendersi cura dell’universale bisogno umano di coltivare il sacro e dialogare con il divino interrogandosi sul ciclo vita-morte.

I nostri antenati mangiavano con i loro morti per digerire attraverso riti collettivi il lutto e per lenire la disperazione per la perdita del caro defunto. Forse noi abbiamo perso la capacità di lavorare attraverso un simbolismo così potente e siamo meno provvisti di rimedi, quando invece gli antichi conoscevano bene le tecniche per lenire il dolore e non soccombere alla follia che minaccia ogni perdita. Ora, dimentichi di millenni di storia di ritualità collettiva, siamo rimasti soli nella nostra individualità e alquanto carenti di strumenti di risanamento di fronte al dolore della morte.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE
1. E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino, 1975.

[Photo credits Ashley Batz su unsplash.com]

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Invito al pensiero di Ernesto De Martino

Il concetto di esistenzialismo si accompagna spesso alle immagini della Parigi anni ’30, a mondani personaggi posati e sempre vestiti di nero, ai caffè e alla musica jazz. Eppure anche da questa parte delle Alpi, vari pensatori sono stati raccolti, forse troppo in fretta, sotto questa etichetta per poi essere velocemente messi da parte.

Uno di questi è Ernesto De Martino. Cresciuto nel clima culturale della Napoli di Croce, con un solido retroterra filosofico, voltosi all’antropologia, rappresenta, con le sue analisi sul campo, un eccellente esempio di ibridazione di diverse influenze filosofiche quali l’idealismo, la psicoanalisi, e la fenomenologia. I suoi libri sono per lo più rielaborazioni di indagini svolte sul campo, con la collaborazione di un team variabile di esperti di medicina, storia della musica, psicologi, avvenute per lo più nel sud Italia tra gli anni ’50 e ’60. In questi anni, in questa parte d’Italia, il processo di industrializzazione, analizzato così finemente da Pasolini, che ha coinvolto gran parte del nord e centro Italia, trova le ultime resistenze di forme di ritualità millenarie, destinate presto a sparire lasciando tracce vaghe. De Martino in sintesi procede all’analisi di riti, tra cui la Taranta e il pianto rituale, nel momento del loro tramonto.

Il tempismo di queste ricerche ha permesso di registrare comportamenti umani che appaiono oggi incomprensibili, se non ridicoli, nella loro irrazionalità apparente, ma che contemporaneamente illuminano l’immagine dell’uomo di una ricchezza nuova, da poco scomparsa e già dimenticata.
La domanda che anima le ricerche di De Martino è volta a individuare l’utilità fondamentale, nell’economia della psiche e dell’esistenza umana, dei riti. Il fatto che ogni cultura ne sia ricca così come lo scrupolo con cui essi vengono osservati sono sintomi di un ruolo effettivo da essi svolto.

La chiave di lettura proposta, espressa qui sommariamente, consiste nella tesi secondo cui le diverse forme rituali di ogni civiltà siano tutte in qualche modo un’operazione collettiva di autodifesa psichica. Di fronte ad eventi che l’uomo non può controllare e che mettono in luce tutta la fragilità e inconsistenza del suo essere al mondo, egli troverebbe riparo nella ripetizione di gesti che riportano il passato nel presente, stabilendo una continuità consolatrice. Così facendo egli afferma di esserci ancora, afferma un nesso tra la situazione passata e quella presente, afferma che, in fin dei conti, non tutto è cambiato. Inoltre, nel rito, alle paure e alle difficoltà vissute dall’individuo viene donato un senso, del cui valore e solidità si fa carico tutta la comunità. E attraverso essa la situazione traumatica viene inquadrata, rielaborata e superata. Un esempio di questa mediazione comunitaria è rappresentato dal coro delle lamentatrici che si uniscono alla parente del defunto e attraverso la professionalizzazione dell’atto del piangere liberano la parente dal suo ruolo facendola diventare una lamentatrice tra le altre. L’irrigidimento dell’elaborazione del lutto indirizza in questo modo il dolore per vie sicure attraverso cui sfogarsi senza rischiare che esso prenda il sopravvento.

Come si esprime lo stesso De Martino, i riti sono necessari a far morire (in noi) ciò che è morto. Espressione che ha valore letterale se si pensa al caso di decesso di una persona cara, ma che in generale significa far passare ciò che passa, accettare il divenire, senza rimanere patologicamente aggrappati a fantasmi del passato. De Martino tende a non tematizzare il contenuto della crisi nelle sue analisi più teoriche, nelle osservazioni sul campo essa si presenta però come recesso della presenza dell’uomo a sé stesso, perdita di lucidità, fino ad arrivare a veri e propri disturbi psicotici.

All’alba di un’epoca in cui l’invito a pensarsi privi di ogni limite, capaci di tutto, è ripetuto insistentemente, le ricerche di De Martino ci aiutano a ricordare il senso dell’appartenenza dell’essere umano ad una certa cultura, ad un certo mondo. Quest’appartenenza che viene sempre più spesso vista come una gabbia, è invece, per il nostro autore, il punto di appoggio grazie a cui l’uomo attraversa la vita saldo e solido.

Francesco Fanti Rovetta

[Immagini tratte da Google Immagini]