Sulla fiamma di una candela

Ha comprensibilmente destato preoccupazione, qualche tempo fa, l’affermazione dell’arci­ve­sco­vo Georg Gänswein per la quale Benedetto XVI si starebbe «spegnendo serenamente, come una candela». L’apprensione era tuttavia almeno in parte ingiustificata, perché Gänswein, pronunciando tali parole, non aveva tanto l’intenzione di alludere a una qualche repentina e preoccupante forma di decadimento fisico del pontefice emerito, quanto piuttosto quella di sottolineare che, nonostante gli acciacchi dell’età, Benedetto XVI è comunque ancora in grado di essere una preziosa “fonte di luce” per i cristiani. Se si legge con attenzione il contesto in cui l’affer­ma­zio­ne è stata pronunciata, e non solo i titoli dei giornali, appare chiaro, infatti, che ciò che l’arci­ve­sco­vo intendeva sostenere era che la grande luce di Benedetto XVI, per quanto vada per ovvi motivi progressivamente indebolendosi, brilla ancora intensamente e rimane un punto di riferimento per tutti i fedeli. Resta il fatto che l’espressione utilizzata, soprattutto se letta alla svelta, dava la possibilità di equivocare sul reale stato di salute del pontefice emerito, dato che essa, in italiano, viene per lo più usata per indicare la debolezza, la consumazione, la fragilità, l’estrema prossimità alla morte di chi si trova in tale condizione di “affievolimento”.

In questa più comune accezione, tale espressione non è peraltro qualcosa di sensazionale o di assolutamente inaudito. Si può anzi dire che la nostra cultura abbia da sempre fatto più o meno esplicitamente riferimento a essa quando si è trovata a dover descrivere la natura di ciò che appartiene alla dimensione della temporalità. L’Occidente non afferma infatti forse da secoli e millenni che tutti noi “abitatori del tempo”, in fondo, non siamo altro che “esili fiamme di una candela”? Ciò che accade ogni giorno nel mondo non ci ricorda inoltre costantemente che ogni essere umano, anche se è nel fiore degli anni e nel pieno possesso delle sue facoltà fisiche e mentali, rimane comunque una luce fragile e indifesa, che anche un semplice “soffio di vento” può spegnere all’improvviso e per sempre? E da un paio di secoli a questa parte la nostra cultura non aggiunge forse, e con sempre maggior forza, che a trovarsi in tale precaria situazione non sono solo gli esseri umani, ma sostanzialmente tutte le cose di questo mondo, persino gli “dèi” e i valori supremi che finora erano stati ritenuti stabili, granitici e assolutamente inscalfibili?

Può essere allora interessante tornare a leggere il libro di Gaston Bachelard intitolato La fiamma di una candela, che è tutto dedicato all’esplorazione del significato che ha avuto per letterati e poeti quella straordinaria lingua di fuoco che splende tremante e solitaria sulla sommità dei ceri, che, come già diceva l’antico filosofo greco Eraclito, i mortali accendono per avere «un lume nella notte, quando la vista dei [loro] occhi si è spenta» (fr. 26 B DK). Il proposito del filosofo francese è infatti quello di «meditare sul destino della fiamma» e, così facendo, su quello dell’uomo, della cui vita terrena la vibrante ma vulnerabile fiamma è un grande e potente simbolo. Bachelard riporta a questo proposito una bella poesia di Martin Kaubish, che suona: «Fiamma, alato tumulto, / oh soffio, rosso riflesso del cielo / – chi svelerà il tuo mistero / saprà che cosa è la vita / e la morte».

Certo, ricorda Bachelard, ormai «il mondo va in fretta, il secolo […] accelera. Non è più tempo di lucignoli e candelabri», che erano invece una «coppia indispensabile in una dimora degli antichi tempi». Eppure, ancora oggi, il loro surrogato moderno, la lampada, è «il centro di ogni dimora» e «lo spirito che veglia su ogni stanza». Perché allora voltare impunemente le spalle alla candela, che della lampada è il passato non poi così tanto remoto? Tanto più che – sostiene Bachelard – al cospetto della sua luce tremolante le cose ci appaiono diversamente: la luce della candela, che per poeti e scrittori è l’«astro della pagina bianca», «ci chiama a vedere le cose come se fosse la prima volta». Il potere di attrazione che tale donatrice di luce ha sulla fantasia dell’uomo è tale da poter perfino rapire la mente di chi perde il proprio sguardo in essa e proiettarla nel passato, verso gli antichi bagliori dei primi fuochi che furono accesi nel mondo.

Bachelard sa benissimo che oggi «siamo entrati nell’era della luce amministrata» e che attualmente il «nostro unico ruolo [nei suoi confronti] è girare un interruttore»; ma egli ci vuole trasportare in un tempo lontano, «un tempo dimenticato dagli stessi sogni», in cui «la vecchie domestiche [di casa] custodivano le lampade degli antenati» e «sapevano trovare per ogni grande evento della vita domestica la giusta lampada». In quel tempo, «la fiamma di una candela faceva meditare i sapienti: donava sogni infiniti al filosofo solitario». «Sul suo tavolo», – continua Bachelard – «accanto agli oggetti prigionieri della loro forma, accanto ai libri che istruiscono lentamente, la fiamma della candela richiamava pensieri senza misura, evocava immagini senza limite».

Posare lo sguardo sulla fiamma, oltre che sui libri, consente di comprendere meglio il mondo, perché che cos’è l’universo per la cultura occidentale se non una fiamma che continuamente consuma e rigenera se stessa, e che sprigiona luce finché riesce ad alimentarsi con lo “stoppino” fornitole dai dinamismi della materia? «Dentro una fiamma» – si chiede Bachelard – «non vive forse il mondo? […] Non contiene forse, questa fiamma, tutte le contraddizioni interne che conferiscono a una metafisica elementare il suo dinamismo? Perché cercare dialettiche di idee quando si hanno, nel cuore di un semplice fenomeno, dialettiche di fatti, dialettiche di esseri?».

A Bachelard non sfugge che nella fiamma brillano in piena luce i più antichi problemi ontologici evocati dalla filosofia. Già Roger Asselineau aveva scritto in una poesia che la fiamma è un «ponte di fuoco gettato tra reale e irreale / dell’essere col non essere ogni momento coesistenza», e Bachelard è perfettamente d’ac­cor­do: «i giochi di pensiero dei filosofi che conducono le loro dialettiche dell’essere e del nulla su un tono di pura logica diventano davanti alla luce che nasce e che muore drammaticamente concreti».

Metafora degli sforzi che la luce dell’essere fa per vincere il buio del proprio non essere, la fiamma della candela è anche immagine della lotta che la coscienza umana mette costantemente in atto per fuoriuscire (ed evitare di riprecipitare) nelle tenebre dell’ignoranza. Scrive Bachelard: «il mondo è per me […] il libro difficile rischiarato dalla fiamma di una candela. Perché la candela, compagna della solitudine, è soprattutto la compagna del lavoro solitario. La candela non rischiara una cella vuota, rischiara un libro. Solo, di notte, con un libro rischiarato dalla candela – libro e candela, doppia isola di luce, contro le tenebre doppie dello spirito e della notte».

Sennonché, per il filosofo francese, sembra che da ultimo siano proprio il buio e le tenebre a dover prevalere. Al termine del passo egli scrive infatti: «ma la candela [della coscienza] si spegnerà prima che il difficile libro [del mondo] venga capito». Con questa frase, Bachelard sembra allinearsi alle più pessimistiche correnti di pensiero che trovano posto all’interno della sapienza occidentale. Si pensi ad esempio a Leopardi, che nel maestoso Cantico del gallo silvestre afferma che l’universo farà in tempo a venir distrutto dalle forze che si agitano in esso prima che l’enigma «mirabile e spaventoso dell’esistenza universale» possa venir pienamente compreso dall’uomo.

Eppure queste tonalità cupe sembrano smorzarsi e quasi venir meno quando Bachelard offre al lettore questo tenero ricordo della sua infanzia: «a volte la mia cara nonna riaccendeva, con un fusto di canapa, al di sopra della fiamma, il fumo lento che risaliva il focolare nero. […] E quando la sovrafiamma riprendeva esistenza: “Vedi, piccolo mio”, mi diceva la nonna, “sono gli uccelli del fuoco”. E allora io, che sognavo sempre al di là delle parole della nonna, credevo che quegli uccelli del fuoco avessero il nido nel cuore del ceppo, ben nascosti sotto la scorza e il legno tenero. L’albero, questo custode di nidi, aveva preparato, nell’intero corso della propria crescita, l’intimo nido in cui gli splendidi uccelli del fuoco si sarebbero nascosti. Nel calore di un grande focolare, viene il tempo di schiudersi e di volare via».

Proponendo questo aneddoto, Bachelard sembra infatti quasi voler suggerire la possibilità che anche la fiamma dell’anima umana, dopo la morte, possa rinascere dalle proprie ceneri e librarsi sopra le braci annerite del proprio cadavere, rifulgendo di uno splendore forse anche maggiore di quello che aveva perduto. E, certo, sarebbe davvero magnifico se il fuoco che splende nel profondo di ognuno di noi non fosse spento del tutto dal gelido soffio della morte, ma covasse ancora, nascosto sotto le nostre ceneri, in attesa di esser riacceso e di poter spiccare verso l’alto, in un tripudio di scintille, quello stesso volo liberatorio e vittorioso che Bachelard aveva visto eseguire alle “Fenici domestiche” che da piccolo egli credeva che facessero il loro nido nel caldo cuore della casa di sua nonna, tra i ceppi fiammeggianti del focolare.

Gianluca Venturini

BIBLIOGRAFIA:
G. Bachelard, La fiamma di una candela, trad. di G. Alberti, SE, Milano 2005 (1a ed. it. 1996; 1a ed. franc. 1961)

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Tutto passa

«Pánta rêi»¹.

Tutto scorre, tutto passa.

Al tempo che scorre e agli eventi che cambiano vorrei dedicare questo promemoria filosofico. Forse un po’ per me o forse perché sembra sempre che ci sfugga di mano qualcosa.

Nel momento in cui nasciamo, cresciamo a vista d’occhio. Dal primo dente all’ultimo numero di scarpe, diventiamo adulti e siamo catapultati nel mondo.

Un bel giorno dobbiamo sorrergerci sulle nostre gambe e costruire qualcosa di nostro, più per una necessità che ci appartiene che per quella altrui. Peccato che non siano tutte rose e fiori.

Cominciano i sogni ma bisogna creare il terreno per coltivarli.

A volte non si hanno le forze di terminare la lista delle cose da fare della giornata e si rimanda al domani. A volte si ritorna, dopo una lunga giornata, a casa si vorrebbe trovare la cena pronta e fare una calda conversazione con gli affetti più cari, ma siamo soli, il pasto freddo in frigo e il posto accanto alla nostra sedia è vuoto.

Non ci si aspetta mai che i propri genitori divorzino, non ci si aspetta mai che una famiglia si divida. Ma tutto passa e qualcosa di nuovo prende vita.

Passa il tempo di stare sui banchi e di lamentarsi per tutti quei compiti per casa, ma poi si va all’università o a lavorare e ci si ritrova sommarsi da montagne di problemi in più, questa volta senza segni di addizione, sottrazione, divisione o moltiplicazione.

Passa il tempo dei primi appuntamenti e arriva il momento in cui si ha voglia di impegnarsi davvero con un altro che diventa Noi.

Passa il tempo di vedere spesso i tuoi amici perché ci sono troppi impegni, ma quando li incontri quella volta, dopo tanto, è come se davvero non fosse passato neanche un giorno.

Passano i giorni belli e colorati, ma anche quelli grigi e neri. Passano le giornate di sole e gli abissi in cui non sembra uscire mai. Non abbiamo tante possibilità, il tempo guarisce anche quando non c’è nulla da guarire, perché il tempo passa e per fortuna passa per tutti.

Cambiano anche i sogni ad un certo punto, per un motivo o per l’altro. Magari un motivo neanche c’è ma alla fine non importa. Gli obiettivi si decidono uno alla volta.

L’unico dettaglio che davvero si trasforma però, e non è talvolta evidente: siamo noi, è la nostra identità. L’identità non è altro che un grande puzzle che si costruisce ogni giorno, di tutte le esperienza fatte, di tutti gli incontri e gli scontri che abbiamo avuto e dalle relazioni che intrecciamo. È una statua in argilla che si può modellare dall’interno, ma che è anche soggetta al divenire esterno. Si perde l’egocentrismo infantile per apprendere una visione più ampia del mondo, che di continuo cambia; si deve affrontare la solitudine per permettersi l’indipendenza.

Può cambiare il pensiero dal confronto con altri pensieri e nella condivisione di intenti può nascere un’idea migliore di qualsiasi altra.

Lo specchio riflette quello che abbiamo passato, i segni, le cicatrici delle nostre scelte, come anche la piega dei lati del nostro sorriso. Siamo orgogliosi dei segni del tempo, hanno scolpito la nostra statua e ci hanno fatto essere quello che siamo. Le rughe intorno agli occhi e quelle che ci segnano la fronte solo le prove del nostro impegno in questa vita che cambia e ci passa davanti senza guardarci tanto in faccia.

Dopo questo promemoria sul divenire dell’esistenza, vorrei lasciarvi infine con questo augurio: «Prendete in mano la vostra vita e fatene un capolavoro»².

Azzurra Gianotto

In copertina: Giuseppe Armenia, Tutto scorre, 2014
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NOTE:
1. In greco πάντα ῥεῖ, tradotto in tutto scorre, è il celebre aforisma di Eraclito. Il riferimento è al frammento 91DK del trattato Sulla natura.
2. Citazione tratta dal discorso qui riportato di Papa Giovanni Paolo II: «Vorrei, prima di tutto, riprendere il discorso che tenni circa un mese fa […]. Dissi ai giovani in quella occasione di “non appiattirsi nella mediocrità”, di “non vivere solo a metà”, ma di “prendere nelle loro mani la propria vita”, per “farne un autentico e personale capolavoro”. Ciò naturalmente vale anche per voi, e ne ho avvertito l’eco nelle parole dei due vostri amici e interpreti, quando, accennando alle difficoltà e ai disagi dell’odierna realtà sociale, hanno denunciato il pericolo di adagiarsi nella provvisorietà come stile di vita, di cedere allo scoraggiamento e di cadere nell’emarginazione. Per questo anche a voi io ripeto: a nessuno è lecito “abbandonarsi”; oggi è più che mai necessario, proprio per superare le difficoltà, che “prendiate in mano” la vostra vita! Prendete in mano la vostra vita e fatene un capolavoro!».

Avanti verso il passato?

Molte volte mi imbatto in persone attaccate ad un filo, più o meno grosso, che riconduce tutto ad un presunto passato ‘migliore’.

Avete presente le frasi fatte che utilizzano i nostri nonni, i nostri genitori, ma anche semplicemente i nostri fratelli maggiori per vantarsi di qualcosa che hanno vissuto meglio di noi, durante il loro periodo d’oro?

Oppure le frasi che auspicano un ritorno alle origini, pur non avendole mai vissute, pronunciate da un giovane convinto della saggezza insita nel conservatorismo più intransigente.

Se anche voi le avete udite non allarmatevi, è la normalità.

Sembra che l’essere umano viva il suo presente posto in riflesso alla gloria che fu.

Il passato naufraga in un ricordo malinconico e riemerge senza nessun danno, intatto, come se la ruggine del tempo non lo avesse minimamente intaccato; eppure quante pagine nere abbiamo vissuto, quanti giorni oscuri dimenticati nel guizzo orgoglioso del racconto semi leggendario pontificato ai posteri.

Avanti verso il passato, direbbe qualcuno, perché non torniamo a com’era una volta?

Il progresso è diventato un demone da combattere, accusato dai più unicamente alla stregua di distruttore della morale che reggeva l’arco della pace tra gli uomini.

Ma quale pace, quale morale?

Guerre dimenticate e problemi inesistenti: si stava meglio quando si stava peggio.

Anche no.

Eraclito ci ha lasciato in eredità un ‘tutto scorre’ che pare sia scivolato lontano dagli occhi, dalle menti e dal modo di prendere la vita.

Lungi dal voler abbattere a colpi d’ascia le radici della nostra tradizione, dovremmo rimetterle in gioco davanti alle sfide future, all’oggi e al domani, ai noi stessi e ai nostri figli.

La tradizione davanti ad un nuovo modo di amare, sebbene sempre esistito ma tornato alla ribalta negli ultimi vent’anni; davanti ad un mondo globalizzato per arginare la sua tendenza all’anarchia; una tradizione da conservare e da brandire contro l’ignoranza dei nostalgici di un perfetto che non c’è mai stato.

Una tradizione che ci insegni anche la presenza di altre tradizioni, di altre culture.

Comprendere di non essere i soli a vivere in questo strano mondo, potrebbe essere un punto d’ormeggio nei mari della nostra presunzione di ‘unici eletti’.

Il passato allora può essere ricordato, amato e ripercorso nei suoi anfratti, chi studia la Storia, la Letteratura, l’Arte, la Filosofia e la Musica sa quanto tutto questo possa essere affascinante, ma esso diventa tale solo attraverso la comprensione dell’imperfezione figlia di noi esseri imperfetti.

Noi, abitanti del presente in cui tutto diviene.

Alessandro Basso

[immagine tratta da Google Immagini ]

Per dieci minuti (Chiara Gamberale)

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marca o colore dei vestiti,
chi non rischia,
chi non parla a chi non conosce.
Lentamente muore chi evita una passione,
chi vuole solo nero su bianco e i puntini sulle i
piuttosto che un insieme di emozioni;
emozioni che fanno brillare gli occchio,
quelle che fanno di uno sbaglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti agli errori e ai sentimenti.

Così recita la meravigliosa “Lentamente muore” di Pablo Neruda. Read more