Epitteto e l’arte di controllare se stessi

Capita a tutti di sentire quella necessità, più o meno manifesta, di affrontare, gestire e programmare fin nei minimi dettagli azioni, comportamenti e situazioni proprie o altrui. Non passa giorno, infatti, senza che ognuno di noi senta quel bisogno di controllare qualcosa o qualcuno: che siano le chiavi dell’auto o di casa, i propri compiti lavorativi, le notifiche sui nostri smartphone o semplicemente il monitoraggio dell’ambiente circostante e degli altri, non possiamo fare a meno di comportarci così. Questo perché controllare le cose ci aiuta ad anticipare comportamenti e situazioni; di colpo il mondo diventa più piccolo, familiare e prevedibile e subito svanisce quel senso di smarrimento e insicurezza tipico della condizione umana.

Del resto, tutti noi vorremmo avere costantemente e continuamente sotto controllo la nostra vita e l’universo intero se solo ne avessimo la possibilità, ma sempre più spesso dobbiamo rassegnarci e fare i conti di fronte all’impossibilità di tale impresa.
Sia chiaro, una routine ordinaria, un’agenda ben organizzata o il voler avere sempre la situazione sottomano non sono di per sé comportamenti negativi, anzi; essi ci aiutano a districare la nostra quotidianità. Il problema sorge, allora, quando essi condizionano in maniera preponderante la nostra vita impedendoci di viverla a pieno. Questo perché la gioia e la sicurezza provate in un primo momento, lasciano presto il posto ad ansie e timori di fronte alla consapevolezza e all’assurdità della nostra mania: non possiamo controllare tutto e tutti e anche quando abbiamo l’illusione che ciò avvenga, difficilmente le cose accadono nella stessa maniera di come ci saremmo aspettati. Quando non riusciamo nel nostro intento, quando le cose ci sfuggono per la loro velocità e imprevedibilità, restiamo amareggiati e frustrati di fronte alla constatazione della nostra impotenza e restiamo vittime di ciò che vorremo attuare più di ogni altra cosa: il controllo. Impauriti e disorientati rimaniamo sospesi tra la nostra mania di onnipotenza e la tragica constatazione della sua impossibile realizzazione. E allora che fare?

Secondo Epitteto, filosofo stoico del I secolo d.C., le nostre sofferenze e i nostri timori nascono in seguito a due errori che troppo spesso commettiamo: cerchiamo di esercitare un controllo assoluto e maniacale su qualcosa di esterno che non è in nostro potere; e non ci assumiamo mai la responsabilità dei nostri pensieri e delle nostre convinzioni, su cui in realtà abbiamo una grande influenza. Egli era infatti profondamente convinto, come leggiamo in apertura del suo manuale, l’Enchiridion, che tra tutte le cose che esistono al mondo, solo alcune sono davvero in nostro potere – ovvero i nostri pensieri – e che il compito di ogni uomo, che voleva definirsi libero e felice, non doveva essere altro che quello di ricordarsi costantemente cosa dipendeva da lui e cosa invece no, come ad esempio gli amici, la reputazione, il meteo o semplicemente il fatto che un giorno sarebbe dovuto morire. 

Questo perché «se tu reputerai per libere quelle cose che sono di natura schiave e per proprie quelle altrui, ti capiterà di trovare quando un ostacolo quando un altro ed essere afflitto, turbato e dolerti degli uomini e degli Dei; […] mentre se tu considererai tuo quello che tuo è veramente, e se terrai che sia d’altri quello che è veramente d’altri, nessuno mai ti potrà sforzare, nessuno impedire e non soffrirai alcun male» (Epitteto, Manuale, 2017).

Convinzioni e pensieri rappresentano quindi le uniche cose sulle quali, secondo il filosofo greco, possiamo realmente esercitare una qualche forma di controllo. Potrebbe sembrare quasi una banalità, è vero, ma essi costituiscono il regno all’interno del quale siamo realmente sovrani, in quanto abbiamo sempre la possibilità e la libertà di scegliere cosa pensare e in cosa credere, basta semplicemente volerlo.
All’uomo si presentano quindi due alternative: utilizzare la propria ragione per dirigere e guidare i propri pensieri al meglio, accettando il fatto di avere un controllo limitato su ciò che avviene nel mondo e sugli eventi esterni e raggiungere quindi la serenità dell’animo, oppure lasciarsi sopraffare e piegare da tutto ciò sul quale non può esercitare la propria influenza e trascorrere arrabbiato, impaurito e infelice la maggior parte della propria vita. Perché, come ci ricorda Epitteto, il mondo esterno non ha nessun potere su di noi a meno che non glielo concediamo, pertanto l’unica cosa di cui siamo padroni siamo noi stessi.

Edoardo Ciarpaglini

[Photo credit Iucas Favre via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

La libertà a misura d’uomo

Siamo liberi?

Questa è forse la domanda più profonda che attraversa la nostra esistenza. Quante volte ci sentiamo sopraffatti da ciò che accade, totalmente al di fuori del nostro controllo? Gli eventi che opprimono la nostra esistenza sono dei più disparati – perdite, sfortune, mancate occasioni – ma il peso che esercitano sulla nostra vita è sempre lo stesso: ci sentiamo impotenti, disarmati, a volte addirittura sbeffeggiati dal destino. A questo proposito, due sono le riflessioni che vorrei affrontare.

La prima, più “leggera”, riguarda una sottile ironia che pervade questo modo di interpretare le cose: com’è possibile che se accade qualcosa di negativo incolpiamo il destino mentre se quello che ci accade è positivo tendiamo a compiacerci in quanto fautori dell’accaduto? C’è una effettiva dissonanza. A questo proposito, utile potrebbe essere l’insegnamento pratico di Epitteto: «il sapiente deve essere in grado di distinguere con sicurezza ciò che è estraneo, e che dunque non appartiene al soggetto […], da ciò che invece è davvero sotto il suo controllo» (S. Maso, La filosofia stoica e la questione del “libero arbitrio”, 2014).
L’antico filosofo ci invita a prestare attenzione alla nostra vita e a quello che ci circonda, sforzandoci di comprendere cosa effettivamente dipenda dal nostro volere e cosa invece sia al di fuori della nostra portata. Questo potrebbe essere un utile, anche se preliminare, consiglio per rompere lo schema a cui prima accennavamo.

È possibile, in un certo senso, intravedere in questa proposta di Epitteto la più antica interpretazione della realtà di Protagora: «l’uomo è misura di tutte le cose». Cosa significa quest’ultimo contributo? Molte sono state le letture che se ne sono date, individuando almeno tre livelli di riflessione. Per quel che qui ci interessa, possiamo riconoscere un invito a prestare attenzione a ciò che ci circonda, costituendoci sì come sua “misura” (termine di paragone) ma non per questo necessariamente come suo “metro” (termine di giudizio). La differenza è sottile ma permette di riaprire la strada a quell’idea di interdipendenza e di riconoscimento a cui avevamo accennato in precedenza. Insomma, l’invito è a non adagiarci su facili interpretazioni della nostra vita e di ciò che ci circonda, che portano inevitabilmente a un’esistenza piena di delusioni e illusioni perché non tengono conto della realtà delle cose.

La seconda riflessione, riguarda ciò che, invece, realmente accade e non l’interpretazione che ne diamo. A questo proposito, molto utile potrebbe essere l’esempio proposto da Wittgenstein: «Io mi trovo in questa stanza, libero di andare dove mi aggrada. Supponete che nella stanza sotto vi sia un uomo, abbia della gente con lui e dica: “Guardate, io posso far andare Wittgenstein esattamente dove voglio”. Ha un meccanismo che regola con una manovella e voi vedete […] che io cammino esattamente come vuole quell’uomo. Allora qualcuno viene da me e dice: “Eri trascinato qua e là? Eri libero?” Io dico: “Certo che ero libero”» (L. Wittgenstein, Lezioni sulla libertà del volere, 2006).

L’idea che emerge da questo passo è molto interessante; in un certo senso permetterebbe di conciliare determinismo e libero arbitrio, ma apre un grande problema. Infatti, visto che stiamo riflettendo su come stia effettivamente la realtà, e non su come venga interpretata, quale versione la rappresenta veramente: la stanza di Wittgenstein, la stanza sotto di lui o la visione delle due stanze nel loro insieme? L’esempio immediatamente successivo che ci propone il filosofo austriaco esprime magistralmente la questione: «Un uomo che può far scegliere a qualcuno la carta che egli voleva che scegliesse. […] Ognuno direbbe che quel qualcuno ha scelto liberamente, e tuttavia ognuno direbbe anche che quell’uomo gli ha fatto scegliere ciò che egli voleva scegliesse» (Ivi).

La questione non può certo essere risolta in questo breve articolo; l’importante è capire come la comprensione di ciò che da noi dipende può essere una via utile nello svolgimento della nostra esistenza e della nostra quotidianità. Ci permette di prendere le distanze da quanto può esserci d’ostacolo per la volontà e per le nostre decisioni; se poi questo rappresenti effettivamente la libertà, per ora, non ci è dato sapere.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Photo credit Mohamed Nohassi via Unsplash]

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E se il filosofo diventa un blogger? Intervista a Massimo Pigliucci

Nell’immaginario comune il filosofo è stato spesso rappresentato come un uomo intento a speculare e a indagare su realtà lontane, talmente assorto nell’esercizio del pensiero e nella ricerca della verità da perdere qualsiasi ancoraggio alla realtà mondana.
Vi ricordate la rappresentazione di Socrate nelle Nuvole di Aristofane? Sospeso su una cesta a mezz’aria, il filosofo greco se ne sta completamente assorto nel suo pensatoio a scrutare i corpi celesti.
Il distacco fisico dalla terra sembra essere da sempre una caratteristica con cui viene identificata la figura del pensatore. A forza di stare con il naso all’insù, sembriamo tutti, chi più e chi meno, destinati come Talete a cadere nel pozzo, procurando lo scherno di chi ci sta attorno.
Beh, dimenticatevi questa immagine, perché il filosofo 2.0 non solo sembra fare i conti con la realtà forse più di chiunque altro (qualcuno potrebbe dire finalmente), ma pare sia diventato anche un abile comunicatore.
In occasione dell’ultima edizione del festival della letteratura di Mantova abbiamo avuto il piacere di fare qualche domanda a Massimo Pigliucci, docente di filosofia al CUNY – City College di New York, blogger e divulgatore scientifico, per parlare degli attuali sviluppi della filosofia e del suo rapporto con la comunicazione e la divulgazione scientifica nell’era del blogging.

 

La chiave di Sophia si pone fin da principio come obiettivo la relazione tra filosofia intesa come interrogazione e ricerca costante e la quotidianità. Anche al centro dei suoi interessi c’è la divulgazione scientifico-filosofica. Fondatore dei blog Rationally Speaking e Footnotes to Plato, ha poi fondato Scientia Salon, che si occupa di scienza e filosofia e del loro dialogo. Secondo lei, quali sono le difficoltà che si possono incontrare nel tentare di rendere più accessibile ambiti considerati da sempre specialistici e accademici come la filosofia e la scienza?

La divulgazione è sempre stata difficile e sempre lo sarà, indipendentemente dalla particolare disciplina accademica. Non è facile scrivere per un pubblico generale di argomenti di fisica, biologia, filosofia, storia, ecc. Questo perché si devono navigare delle acque turbolente cercando di evitare sia la Scilla del semplificare troppo, perché allora si presenta un’immagine falsa della disciplina di cui si scrive, sia la Cariddi del mantenersi così tecnico che la gente semplicemente perde interesse. Non ci sono formule magiche, ma direi che il semplice fatto di essere un accademico, anche se di grande statura dal punto di vista specialistico, non prepara per nulla allo scrivere per un pubblico generale. A questo aggiungiamoci che ancora oggi troppi dei miei colleghi considerano lo scrivere per il pubblico un’attività secondaria, probabilmente a cui si dedica gente che non è sufficientemente brava a fare lavoro tecnico; e anche il fatto che il pubblico stesso è spesso refrattario all’idea di investire tempo ed energia per capire argomenti difficili, e otteniamo l’attuale situazione, un tantino deprimente. Ma bisogna continuare, la scienza e la filosofia (e la storia, e l’economia, ecc) sono troppo importanti per lasciarle solo agli specialisti.

Con la rivoluzione che ha interessato la comunicazione, si può dire che in parte il blogging abbia soppiantato o quantomeno affiancato la forma tradizionale del giornalismo. Quali sono secondo lei le sostanziali differenze?

Sicuramente il blogging si è affiancato al giornalismo tradizionale, ma non può (o perlomeno, non dovrebbe) soppiantarlo. Il blogging ha reso possibile ai giornalisti stessi di scrivere in maniera più libera e flessibile, ed ha anche portato più accademici a scrivere direttamente per il pubblico. Ma il blogging è sostanzialmente una forma di commento editoriale, non una fonte di notizie. I bloggisti semplicemente non hanno le risorse (e spesso le competenze) per fare, per esempio, giornalismo investigativo, o anche semplicemente per produrre buoni pezzi di cronaca, informati da fatti, non dicerie. Quindi mi auguro che il giornalismo superi presto la sua crisi attuale e trovi un modo di trasformarsi e di crescere, ma senza essere rimpiazzato dai social media. Se lo fosse penso sarebbe una catastrofe per la democrazia.

Lei è anche il fondatore del blog How to be a Stoic, un’interessante guida pratica su come affrontare la vita quotidiana attraverso il sapiente approccio della filosofia stoica. Nel blog si evidenzia l’importanza per la filosofia di conciliare la vita pratica alla ricerca teoretica, aspetto che la lezione degli stoici sembra privilegiare. Come descriverebbe uno stoico “moderno”?

Sì, ho anche scritto un libro con lo stesso titolo, che sarà pubblicato in primavera da Garzanti. Gli Stoici erano filosofi pratici, per loro la teoria è importante solo se guida la pratica in maniera effettiva, altrimenti si tratta solo di disquisizioni “accademiche”, nel senso peggiorativo della parola. Uno Stoico moderno cerca di assorbire e di mettere in pratica le lezioni impartite due millenni orsono, tra gli altri, da Seneca, Epitteto e Marco Aurelio. Due sono i principi fondamentali: primo, ci si deve continuamente chiedere se una cosa è sotto il nostro controllo oppure no. Se lo è, allora vi si dedica tutta la nostra attenzione per farla al nostro meglio; se non lo è, allora smettiamo di preoccuparcene. Per Epitteto, le uniche cose veramente sotto il nostro controllo sono i nostri valori, i nostri giudizi, e le nostre azioni. Di quelli e solo di quelli siamo veramente responsabili. Secondo, lo Stoico moderno – come del resto quello antico – cerca di applicare in ogni circostanza le quattro virtù cardinali: prudenza (nel senso di imparare a navigare situazioni difficili), coraggio (non solo fisico, ma soprattutto morale), temperanza (quindi auto-controllo, specialmente nell’evitare eccessi), e giustizia (nel senso di trattare tutti in modo equo). Sembra facile, ma non lo è. Le faccio un esempio che illustra il tutto: mantenere una relazione positiva e di crescita con il proprio partner richiede prudenza (è complicato…), coraggio (alle volte bisogna esprimere delle opinioni che non saranno bene accette), temperanza (per esempio per non perdere la pazienza in situazioni difficili), e giustizia (il mio partner è un essere umano con gli stessi diritti e dignità che vorrei fossero accordati a me). Ma il mantenere la relazione, alla fin fine, non è (interamente) sotto il mio controllo, perché dipende anche dal mio partner e da circostanze esterne. Ciò che è sotto il mio controllo, però, è la volontà di comportarmi al meglio possibile nell’ambito della nostra relazione. Solo quest’ultimo, quindi, dovrebbe essere il mio obiettivo come Stoico.

Nel corso della sua carriera accademica un tema centrale delle sue ricerche è stato il rapporto tra l’approccio scientifico e la fede. La sua posizione a riguardo si distingue nettamente dal movimento del New Atheism, che lei ha più volte criticato, definendolo un approccio “scientista”. Ci può spiegare brevemente come intende il rapporto tra fede e ragione scientifica?

Sono un ateo, e lo sono stato da quando facevo le scuole superiori. Ciononostante, vi sono molti scienziati che non trovano la loro fede incompatibile con la loro pratica scientifica, e quello che trovo bizzarro nei New Atheists è la loro insistenza quasi dogmatica che l’ateismo in qualche maniera “dimostra” il fatto che Dio non esiste. Il problema è che “Dio” è un concetto vago, che non si può mettere sotto il microscopio, e non ci sono dati scientifici che contraddicano concetti vaghi a mal definiti. Se si insiste, però, che la gente debba scegliere la scienza o la religione, perché le due sono incompatibili, non si rende un gran favore alla scienza. Ciò detto, non vedo ragioni (o evidenza) positive per credere, e non solo, secondo me ci sono ottimi argomenti filosofici per non credere; quindi considero la mia posizione di ateo perfettamente ragionevole. Se la situazione dovesse cambiare, in termini di ragioni o evidenza, allora cambierò idea.

Purtroppo nel pensiero comune la filosofia e la scienza sono ancora considerati rami diametralmente opposti, destinati a non incontrarsi. Anche scienziati e filosofi spesso rimangono trincerati dietro a posizioni dogmatiche che negano ogni tipo di collaborazione tra le due sfere. Nel corso della sua carriera si è occupato anche di filosofia della scienza, genetica e biologia. Qual è secondo lei una prospettiva utile per poter incrementare ed agevolare la ricerca e il dialogo tra scienza e filosofia?  

La mia carriera è iniziata come scienziato, in biologia evoluzionistica, e sono passato alla filosofia solo negli ultimi anni. Ha ragione, trovo molto strana questa antipatia reciproca tra scienziati e filosofi, che non ha né un senso da un punto di vista accademico, né riflette l’evoluzione storica delle due discipline (dopotutto la scienza era un ramo della filosofia fino al diciannovesimo secolo…). Il problema, comunque, non è universale. Ci sono diversi scienziati e filosofi che collaborano attivamente e pubblicano lavori comuni. E ci sono luminari della scienza per i quali la filosofia è importante per la formazione della mente scientifica. In una famosa lettera ad un suo amico, Einstein spiegò che uno scienziato senza cognizione della filosofia è semplicemente un tecnico, uno che si focalizza sugli alberi di fronte a lui ma non riesce a vedere l’intera foresta. Per essere giusti, però, di tanto in tanto sono i filosofi che se la cercano, visto che alcuni hanno scritto delle corbellerie sulla scienza senza evidentemente capirla, ma dandone dei giudizi sommari ben poco utili, anzi dannosi. È ora di superare questa situazione e di lavorare assieme per una visione più organica della conoscenza umana, quella che una volta si chiama “scientia”, cioè sapere nel senso più ampio della parola.

Carlin Romano, giornalista e docente di filosofia, nel saggio America The Philosophical descrive la cultura americana come estremamente ricettiva dal punto di vista filosofico. In base alla sua esperienza, lei è d’accordo con questa teoria? Come viene vissuta la filosofia negli Stati Uniti?

Romano si sbaglia di grosso. Il pubblico americano è uno dei più anti-intellettualistici del mondo occidentale. Io insegno filosofia alla City University di New York, e non le dico quante volte devo spiegare agli studenti perché vale la pena studiare la mia materia. Basti pensare alla seguente statistica: ci sono almeno quattro ottime riviste di divulgazione filosofica in lingua inglese. Tre vengono pubblicate in Gran Bretagna, una in Australia. Eppure la popolazione generale, ed il numero di filosofi professionisti, sono di gran lunga più grandi negli Stati Uniti. No, l’America ha molte cose di cui vantarsi, ma la ricettività filosofica del suo pubblico non è tra queste.

In questi ultimi anni si sta affermando sempre di più il legame tra formazione filosofica e il web 2.0. Basti pensare a personalità come Reid Hoffman, inventore di LinkedIn, o Peter Thiel, tra i fondatori di Facebook, hanno tutti in comune la stessa formazione accademica. Si può parlare secondo lei di un nuovo modo di “fare filosofia” che la rivoluzione digitale avrebbe introdotto?

Una delle ragioni per studiare filosofia all’università è che fornisce una preparazione rigorosa, soprattutto dal punto di vista del pensiero critico e del sapere scrivere in maniera logica e coerente – e queste sono abilità che aprono ampi spazi nel settore lavorativo (non lo dico solo per dire, ho controllato le statistiche: i laureati in filosofia negli Stati Uniti trovano lavoro facilmente e guadagnano bene). Il che spiega perché, per esempio, compagnie come Google o il network televisivo ABC impiegano filosofi ad alti livelli nei loro organici. Ma è anche vero, come dice lei, che “fare filosofia” è divenuto più facile grazie alle nuove piattaforme mediatiche. Per esempio, prima si parlava di Stoicismo: la pagina Facebook del gruppo internazionale di Stoicismo annovera più di 18.000 utenti (ce n’è una anche esclusivamente in lingua italiana, mantenuta da me). Non solo, ma piattaforme come meetup.com rendono facile alle persone con interessi filosofici simili di trovarsi nella stessa città, di incontrarsi, discutere, fare amicizia. La rivoluzione digitale sta cambiando ogni aspetto della nostra vita, inclusa la nostra capacità di fare filosofia.

Come vede la filosofia accademica nel nostro Paese? Secondo lei si potrebbe o si dovrebbe cambiare qualcosa all’interno delle facoltà italiane di filosofia?

Onestamente, non ne so molto. Ho smesso di seguire da vicino l’ambiente accademico italiano dopo che, più di 25 anni fa, ho dovuto lasciarlo perché il nepotismo, la rigidità interna e la mancanza di fondi rendevano pressoché impossibile una carriera universitaria. Purtroppo ancora oggi il consiglio migliore che posso dare a un giovane italiano interessato alla scienza o alla filosofia è di andarsene da qualche altra parte.

Forse la filosofia è rimasta troppo a lungo confinata nelle facoltà accademiche, perdendo il rapporto, a mio avviso essenziale, con chi di filosofia non ha mai sentito parlare. Credo che la sfida sia tutta qui: se dovesse consigliare un libro a chi vuole avvicinarsi allo studio del pensiero, che libro sceglierebbe?

Uno solo? Difficile! Il libro che mi aprì il mondo della filosofia quando ero al liceo fu Storia della Filosofia Occidentale di Bertrand Russell, un capolavoro classico, scritto con verve e senso dell’umorismo. Vedo su Amazon che è ancora disponibile…

 

Lontano dagli stereotipi che la legano a uno statico passato, la filosofia ha davanti a sé infinite possibilità di contaminazione e dialogo con altre discipline. Dalla scienza alla comunicazione e alle nuove tecnologie, spetta a noi raccoglierne la sfida, riconoscendone l’importanza per la nostra cultura, con la fiducia che essa venga compresa anche da chi oggi sembra più refrattario ad ammettere l’imprescindibilità del pensiero umanistico.

Greta Esposito

La saggezza come antidoto alla disperazione

«Beato l’uomo che ha trovato la sapienza…»
Proverbi 3, 13.

Quante volte nel corso della nostra vita ci sentiamo in balia del destino? Quante volte ci sembra di naufragare di fronte agli eventi? Quante volte concludiamo di non aver alcun potere di modificare il corso della nostra storia personale?

Lo stoicismo e Seneca in particolar modo, suggeriscono che anche rispetto alle circostanze più avverse, anche di fronte a un destino ineludibile, l’uomo ha ancora una dimensione in suo potere: la saggezza. Seneca è maestro di saggezza e tutti i suoi scritti filosofici e letterari rappresentano un preciso itinerario verso la serenità.

Il filosofo romano definisce la grandezza d’animo di un individuo sulla base della sua capacità di sopportare con saggezza e serenità le avversità dell’esistenza. Tutto questo richiede un impegnativo e profondo percorso alla riscoperta della propria forza interiore. Un cammino che può condurre ad accettare serenamente gli eventi della vita, compreso l’avvenimento inesorabile per antonomasia: la morte. Per farlo occorrono: conoscenza profonda di se stessi, autocontrollo, imperturbabilità (atarassia) e distacco dalle cose materiali. Il saggio stoico è imperturbabile, completamente padrone di se stesso. Egli, come afferma Epitteto, desidera che accada ciò che accade e non ciò che desidera. Il saggio è incrollabile, rimane impassibile di fronte a ciò che gli giunge dall’esterno, non prova più alcun turbamento dell’anima.

Il carattere apparentemente inarrivabile dello stoicismo, nella vita quotidiana si colora di una profonda umanità, si avvicina all’esistenza del singolo, manifesta il suo carattere “terapeutico”, perché aiuta l’uomo a riscoprire che anche quando ci si trova di fronte ad un destino crudele e irreversibile, si ha ancora la possibilità di scegliere come vivere interiormente quel destino, con saggezza e serenità.

Seneca nei suoi scritti ci riporta costantemente a riflettere sulla nostra vita interiore, sulla nostra anima. Egli stabilisce che a contare è la qualità della nostra esistenza e non la quantità. Dove per qualità egli intende quella della nostra anima, della nostra esistenza interiore. Ed è proprio dalla disposizione dell’anima che dipende la qualità dei nostri giorni, dunque è da essa che è necessario ripartire per risanare la nostra esistenza troppo spesso ferita in modo straziante dagli eventi.

Nel De brevitate vitae Seneca sostiene che non è la quantità dei giorni a definire la lunghezza della nostra esistenza, quanto piuttosto il modo in cui la viviamo. La saggezza conduce alla tranquillitas (pace dell’anima) e colui che la raggiunge vive serenamente, in modo quieto, nulla lo condiziona, nulla lo influenza negativamente. Anche nell’oceano in tempesta la sua barca è ben ancorata e si mantiene stabile. Solo in questo modo si evita di essere corrosi dal pensiero del futuro e dalla paura della morte.

Vivere con saggezza significa vivere pienamente, non disperdere i propri giorni e le proprie energie in occupazioni e preoccupazioni vane, perché «in realtà, non è che di tempo ne abbiamo poco; ne sprechiamo tanto»1. Vivere, afferma Seneca, significa disporre «di ogni giorno come della vita intera»2. Solo in questo modo è possibile un’esistenza completa. La vita infatti sarebbe lunga ma l’essere umano l’accorcia dissipandola. Siamo proprio noi a renderla breve e ciò risulta evidente se pensiamo a quanto tempo impieghiamo ad accumulare denaro, ad abbandonarci a effimeri divertimenti e a passioni superflue di ogni genere. Seneca sostiene che la maggior parte degli uomini disperdono il proprio tempo perché «corrono solo dietro a faccende inutili»3. Per questo egli scrive che molti uomini sono rimasti a lungo su questa terra ma non hanno vissuto a lungo, sentenza da cui emerge, come ribadisce anche nelle Lettere a Lucilio, che non è la durata della vita che conta, ma l’uso che di essa ne viene fatto.

L’autore è consapevole che l’arte di vivere saggiamente è una lunga e faticosa conquista e per questo afferma: «per imparare a vivere ci vuole tutta la vita e, cosa ancor più stupefacente, ci vuole tutta la vita per imparare a morire»4.

Il segreto consiste nel desiderio e nella ferma volontà di conoscere i propri moti interiori e nel prestare ascolto alla propria coscienza. Agire secondo coscienza significa essere sempre presenti a se stessi. In ogni azione, in ogni espressione, in ogni decisione chiedersi il senso di quanto si sta compiendo, evitando, come capita ai più, di interrogarsi sulle proprie gesta solo dopo averle compiute. Anche in questo consiste la saggezza, celebrata da Seneca con le seguenti parole: «soli fra tutti raggiungono la vita serena coloro che si dedicano alla sapienza; sono i soli che sanno vivere»5.

Le molteplici difficoltà che attraversiamo nella nostra esistenza, esigono un rimedio efficace che parta dalla sorgente interiore presente in ciascuno. La saggezza è questo rimedio. Seneca asserisce che, quando non è possibile modificare gli eventi esternamente, è possibile risolverli e modificarli interiormente e questo dipende da come ci disponiamo verso gli eventi stessi.

Gli insegnamenti del saggio stoico vanno dunque riscoperti ed evocati come la possibilità esistenziale della serenità e della gioia. La vita vissuta con sapienza è un’esistenza piena e lunga, ove vengono riconosciuti il senso e la preziosità dei singoli istanti.

E a coloro che non vivono secondo sapienza, Seneca ricorda:

«Nessuno ti restituirà più  i tuoi anni, nessuno ti renderà un’altra vota a te stesso. La vita proseguirà lungo la strada per cui si è avviata, senza fermarsi né guardare indietro. E lo farà in silenzio, senza rumore, senza nulla che t’avverta della sua velocità […] correrà com’è partita il primo giorno, senza deviazioni né soste. Cosa accadrà? Tu sei affaccendato, ma la vita ha fretta: intanto arriverà la morte e per lei, tu lo voglia o no, il tempo dovrai trovarlo»6.

Alessandro Tonon

NOTE:
1. Seneca, La brevità della vita, tr. it. di G. Manca, Einaudi, Torino 2015, p. 3.
2. Ivi p. 33.
3. Ivi, p. 53.
4. Ivi, pp. 29-31.
5. Ivi, p. 69.
6. Ivi, p. 37.

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