La felicità e la saggezza nel “De vita beata” di Seneca

«Seneca è uno dei massimi pensatori del mondo romano e uno dei più rappresentativi protagonisti del tardo stoicismo»1. La sua vita è votata, insieme, alla filosofia e alla politica. Nasce a Cordoba tra il 4 e l’1 a.C; rientrato a Roma nel 31 dopo un periodo trascorso in Egitto, «lo stile dei suoi scritti, rapido, essenziale, apparentemente facile ma in realtà estremamente denso e fascinoso […] lo [rende] noto a tutti: come segnalerà Quintiliano […] “all’epoca, in pratica non c’era che lui a circolare tra le mani degli adolescenti”»2. All’età di cinquant’anni è pedagogo del giovane Nerone per poi diventare suo consigliere fino a quando l’imperatore non decide di assumere totalmente il potere e dare vita a un nuovo corso politico. A quel punto, nel 62, Seneca sceglie di ritirarsi a vita privata per poi accettare la condanna al suicidio nel 65.

Il De vita beata è composto prima del ritiro dalla vita pubblica, sotto il regno di Nerone, e in quest’opera Seneca «affronta la questione della ricchezza materiale e del suo rapporto con il concetto stoico di “virtù”»3, chiarendo anche la condizione del proficiens – ovvero quell’uomo che è in cammino verso la virtù, la verità e la giustizia ma non le ha ancora raggiunte e non è, quindi, ancora sapiens.

La prima parte del dialogo è dedicata al confronto con la dottrina etica epicurea, che pone al centro della vita il piacere, telos (fine) della vita saggia. Epicuro, infatti, aveva elaborato una proposta filosofica votata all’edonismo – ma dipendente comunque dalla razionalità – che Seneca critica perché «gli antichi ci hanno insegnato a seguire la via retta, non la più gradevole, affinché il piacere sia non guida, ma compagno della volontà buona»4. «Alcuni [infatti] sono infelici non per mancanza di godimenti, ma proprio a causa di essi. Questo non accadrebbe se il piacere fosse legato alla virtù»5. Seneca è coerente interprete della dottrina stoica, che pone come fulcro e telos della vita saggia la virtù, ovvero il vivere in modo coerente e secondo natura. La prospettiva fisica e metafisica stoica, infatti, propone una realtà formata da due principi – materia e logos – mai separati ma fusi insieme, in modo che ne derivi una materia insieme passiva e attiva grazie ad una logica produttiva, viva, che permea l’intero cosmo. Il vivere, quindi, in accordo con il principio razionale del tutto – logos – consiste nel vivere secondo virtù, e la felicità non è che una diretta conseguenza, in una prospettiva che lega strettamente fisica ed etica.

La felicità, allora, viene a configurarsi in collegamento diretto con la verità:

«Cerchiamo dunque ciò che è bene fare, non ciò che è fatto più frequentemente, quello che ci può mettere in possesso della felicità eterna, non quello che è approvato dal volgo, pessimo giudice della verità»6;

con la natura:

«Vita felice è dunque quella che si accorda con la sua natura, raggiungibile soltanto se lo spirito è, in primo luogo, sano e in perpetuo possesso di questa salute […]»7;

e con la virtù:

«[…] si può anche definire l’uomo felice come colui per il quale non esiste altro bene o altro male se non un animo buono o malvagio, colui che coltiva l’onestà e si contenta della sola virtù»8.

Questi tre termini – verità, natura e virtù – rappresentano il fulcro del repertorio etico di Seneca e dello stoicismo, una prospettiva che richiede all’uomo di mettersi in cammino verso la verità attraversando il sottile filo teso tra finitezza umana e perfezione del logos. Sapiens e proficiens hanno, infatti, a disposizione la capacità di giudizio razionale che permette loro di operare le giuste scelte, esercitando la loro libertà inserita all’interno di una prospettiva determinista, nel percorrere questa via.

Molto interessante è il tema della coerenza che viene affrontato da Seneca a partire dal capitolo XVII. Il filosofo romano affronta di petto una possibile critica che un ipotetico accusatore potrebbe muovere alla sua pratica di vita: «Tu parli in un modo e ti comporti in un altro»9. Questa obiezione, che riguarda particolarmente da vicino Seneca, viene affrontata magistralmente, mostrando tra le altre cose come, in realtà «[agli accusatori] conviene, infatti, che nessuno sia ritenuto virtuoso, perché per [loro] la virtù degli altri suona rimprovero alle [loro] colpe»10. Seneca invece, con grande onestà intellettuale, afferma:

«[nulla] m’impedirà di continuare a lodare la vita, non quella che conduco, ma quella che so di dover condurre; non m’impedirà di rispettare la virtù e di seguirla, sia pure arrancando da lontano»11.

Non abbiamo lo spazio per affrontare gli altri grandi temi presenti in quest’opera eterna nel tempo, perciò rinvio al testo stesso, grande miniera di riflessioni preganti anche – se non soprattutto – per il mondo contemporaneo.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE
1. S. Maso, Filosofia a Roma, Roma, Carocci, 2017, p. 147.

2. Ivi, pp. 148-149.
3. Ivi, p. 153.
4. L.A. Seneca, De vita beata, in Dialoghi morali, Torino, Einaudi, 1995, p. 139.
5. Ibidem.
6. Ivi, p.127.
7. Ivi, p. 131.
8. Ivi, p. 133.
9. Ivi, p. 163.
10. Ivi, p. 167.
11. Ivi, p. 165.

[Photo credit Priscilla Du Preez via Unsplash]

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Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza. Cosa sono la vita e la morte?

Il film Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza è uscito nel 2014, aggiudicandosi il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia. È diretto dal regista svedese Roy Andersson, che con questo lungometraggio conclude una peculiare trilogia (composta dai suoi due precedenti lavori Songs from the Second Floor del 2000 e You, the Living del 2007).

Andersson è un regista del quale non si sente molto parlare in Italia – se non fra i critici.  

Ammettiamolo: questo lunghissimo titolo fa pensare a quei film d’essai che spesso si fatica a capire (o a digerire!). Se è vero che la pellicola è un’elucubrazione mentale di matrice certamente filosofica, è anche vero che non si tratta affatto di un film eccessivamente cerebrale o pretenzioso. Direi che si rivela, piuttosto, una gradita e dolce-amara sorpresa. Ma avverto: bisogna armarsi di pazienza. Tante sono le scene mute, esclusivamente e pittoricamente visive, e occorre fare molta attenzione ai particolari.

I titoli di testa ci annunciano che il lungometraggio è la «parte finale di una trilogia sull’essere un essere umano». Il nucleo tematico del film è dunque la fin de la vie, il momento del trapasso – infatti ci vengono mostrati tre incontri con la morte.

Andersson mette subito in scena il suo grottesco umorismo: il primo incontro riguarda un decesso che passa inosservato, quello di un uomo colto da infarto senza che la moglie canterina, impegnata in cucina, si accorga di nulla. Seconda inquadratura: un uomo si reca in ospedale al capezzale della madre morente, dove ritrova i suoi fratelli. La moribonda stringe tra le mani una borsa contenente gioielli e soldi. I fratelli spiegano che la donna vuole portare con sé in paradiso tutti i suoi preziosi averi. Segue un tragicomico tentativo, da parte dei fratelli, di strappare la borsa dalle mani della madre mentre lei si lamenta e il suo letto d’ospedale si sposta accentuando il ridicolo di tutta la situazione. Terzo incontro col sonno eterno: un uomo muore improvvisamente a bordo di un traghetto, proprio dopo aver pagato un pasto e una bibita che, ovviamente, non ha fatto in tempo a consumare. «Non si può certo pagare due volte una consumazione, meglio offrirla a qualcuno» dicono i presenti.

Tanti altri personaggi si avvicendano nel corso del film, che è un susseguirsi di inquadrature frontali – è la prospettiva che avrebbe un piccione appollaiato su un ramo. Pennuto che viene citato a un certo punto della storia: una bambina impacciata sale sul palco durante un saggio scolastico intenzionata a recitare una poesia su questo uccello che «si riposava e pensava, pensava che non aveva soldi e poi volava a casa sua». Come non pensare che il regista ci abbia voluto suggerire che la vita in fondo è questo: riflessione (alla quale Andersson dona enorme importanza), ma anche osservazione, nonché – scadendo nella materialità così come fanno i figli che cercano di scippare la madre morente – soldi e casa.

Che tutto ruoti attorno al denaro lo sanno anche i due venditori di scherzi che paiono mortalmente seri. Uomini bizzarri che vanno in giro con valigette contenti denti da vampiro, sacchetti che riproducono risate e un’inquietante maschera. I due cercano di concludere (senza riuscirci) grandi affari, scontrandosi con la loro vita grigia, arida, miserabile. Vivono in una specie di pensionato che ricorda una prigione, litigano ma si riappacificano perché al mondo non hanno nessun altro. Ci ricordano che la vita non è che uno scherzo grottesco e tragicomico, uno scherzo serio, per usare un calzante ossimoro.

Ma la vita è anche la pulsione sessuale rappresentata dall’insegnante di danza vecchiotta e in carne che incalza il suo bello e giovane allievo. Vita è lo scorcio visivo e sonoro che mostra un bimbo in carrozzina che ride gioioso. Vita è l’energia dei soldati di re Carlo XII di Svezia (che fa una stravagante comparsata in un bar dei giorni nostri) pronti a combattere – ma anche a morire – sul campo di battaglia.

Questo e molto altro ancora è ciò che possiamo trovare in questo film iper filosofico che propone e ripropone alcune silenziose domande: vogliamo essere osservatori come il piccione del titolo oppure soggetti agenti? Vogliamo concentrarci sugli aspetti materiali della vita o sugli affetti (la casa)?

Nel suo tetrafarmaco, Epicuro ci rassicura spiegandoci che non ha senso temere la morte: quando ci siamo noi, lei non c’è e viceversa. Ma il tutto è davvero così semplicistico?

Concludo con una citazione dal film: «Aveva un sasso nella scarpa, è stato bello quando se l’è tolto».

Forse, per sentirci più liberi prima che giunga la fine – risata finta e stonata che incombe sulla vita, riso argentino e genuino – sarebbe meglio togliere qualcosa.

 

Francesca Plesnizer

 

[immagine tratta da Google immagini]

 

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Tra misura ed ebrezza per una (sobria) filosofia di vita

La combinazione tra vino e filosofia può svelare uno dei fondamenti più attraenti del filosofare. Il principio immateriale più autentico della filosofia, infatti, sembra essere caratterizzato da un’essenziale variazione, che divide i confini della misura consentita: ovvero, ciò che può essere definito buono e vero.

Così, solo a partire da una prospettiva “smisurata” può essere affrontata la questione della misura, che può essere misurata solo ponendosi oltre, al di là di essa.

Lo stesso Holderlin (in Poesie, 1971) considerava l’armonia come ragione ultima dei limiti del mondo, delle sue misure e proporzioni. Mondo in cui l’uomo spesso viene spinto a liberarsi dai suoi legami, mentre non è in grado di cogliere la misura (quella vera).

Da questo punto di vista, il vino può essere considerato come simbolo “vivificatore”, che non può essere semplicemente ridotto a delirio dionisiaco. Infatti, gli effetti di come lasciarsi andare a dis-misura a questo piacere, possono essere considerati parte dell’esperienza filosofica. Perché il solo fatto di sperimentarlo in modo positivo e ragionevole, porta l’uomo stesso a farsi consapevole di questo limite, che divide il bene dal male (o il vero dal falso).

Attraverso la sua storia, in questo caso, il vino può essere considerato l’emblema di questa ambiguità, perché da un lato emerge come qualcosa di sacro, mentre dall’altro esprime la vita quotidiana dell’uomo consumatore da sempre legato al desiderio di superare i propri confini.

Come tra vino e conoscenza, come la filosofia…

Epicuro stesso aveva insegnato come valore fondamentale la misura, limite che oggi indica l’esatto opposto, ovvero Edonè, che in Lettera a Meneceo viene considerato come misura che aiuta a raggiungere il vero godimento di vita.

L’intero pensiero greco in questo senso emerge come pensiero della misura, concetto avente la funzione di simbolo collettivo che rispecchia la distanza degli eccessi, c che viene ristabilito tra i desideri e i turbamenti che attraversano l’animo umano. Solo così questa possibilità di misurarsi, per un autocontrollo effettivo, può essere legata a quel dominio di sé connesso alla virtù.

Anche questo può mostrare il vino: esso rende possibile l’esercizio di equilibrio sul limite tra misura e dismisura; esperienza che può rendere possibile all’uomo una vera e propria pratica del razionale, ma anche dell’impossibile.

Costituisce una relazione altra tra una determinazione e la sua negazione, per vivere il negativo come semplice alternativa rispetto al positivo, e non contradditorio. Solo attraverso questa prospettiva, l’ebrezza, come afferma Massimo Donà in Filosofia del vino (2003), può essere considerata come il vero modo in cui si mostra la sobrietà, perché «nulla di realmente diverso può esserci offerto da un’alterità che da questo mondo venga esclusa»1. Sobrietà che è anche fatta di questo senso della misura, riconoscendo un valore reale alle cose in ogni circostanza e ritrovando un contatto con se stessi che non ha mai perso la sua parte più vera.

Martina Basciano

NOTE:
1. Massimo Donà, Filosofia del vino, Bompiani, 2003, 232 p.

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La vita fa schifo? Prendila con filosofia!

Qualche mattina, non dico tutte, ma qualche mattina capita di sentirsi già stanchi. Come se avessimo corso tutta la notte nella ruota di un criceto. Macché tutta la notte! Forse questa sensazione è proprio legata alla vita di tutti i giorni. Ci sentiamo dei piccoli criceti chiusi in gabbia: a disposizione abbiamo soltanto la ciotola dell’acqua, quella del cibo e una ruota su cui salire. E poi si tratta di correre, correre per meritarci altra acqua, altro cibo, sotto gli occhi compiaciuti di un nostro padrone, di un genitore o di un superiore, di una moglie o di un figlio.

Alla fine sentiamo che tutto quello che facciamo è per gli altri.

Per un briciolo di approvazione, per aspettative o per obbligo. E senso del dovere, questa malattia dell’anima che si attacca come un parassita e ti corrode, lentamente, senza farsi mai sentire di troppo.

Basta.

Basta davvero.

Guardo qualche gabbia a fianco alla mia e vedo che qualche filosofo si è fermato. Qualcuno si è fermato a pensare, altri continuano a correre pensando, altri si sono fermati e basta. Qualcuno ha addirittura aperto la gabbia ed è andato fuori. Altri sono finiti su un tapis roulant che non fa affatto rimpiangere la ruota del criceto: almeno quella non doveva essere pagata mensilmente.

Allora chiedo aiuto a loro, ai filosofi.

Epicuro non se ne preoccupa neanche di queste paranoie, in fondo «quando noi siamo [vivi], la morte non c’è; e quando la morte c’è, allora noi non siamo più». Non dobbiamo nemmeno temere la morte, insomma, il più grande dei mali, perché tutto scompare quando arriverà. Non ci sarà casa che tenga, risparmi accumulati in banca, niente. E di questo se n’è reso conto anche Verga, quando fece barcollare Mazzarò che cercava di portarsi tutti i suoi averi nell’aldilà urlando: «Roba mia, vientene con me!».

Insomma Epicuro è uno di quelli da “bicchiere mezzo pieno”.  Perché per lui quando la felicità è presente abbiamo tutto, quando invece è assente facciamo tutto allo scopo di averla. È benessere del corpo e serenità dell’animo, in pratica tutto ciò che ci allontana dalla sofferenza e dall’ansia.

Non è d’accordo invece la scrittrice giapponese Fumiko Hayashi, che in due versi rovescia il bicchiere: «La vita di un fiore è breve/ solo le sofferenze sono infinite». Insomma siamo ingabbiati senza possibilità di scampo. Condannati a correre senza fermarci.

Eppure Seneca avrebbe qualcosa da ridire: «È dunque felice una vita che segue la propria natura». Al di là della filologia su questa affermazione, assumiamo Seneca come nostro life coach e ci chiederebbe: qual è la tua natura?

Lì si annidano le possibilità della tua felicità, della realizzazione. Mandare tutti a fare… le loro nature, a perseguire le loro passioni. E noi le nostre. Con i nostri modi e le nostre diversità.

Certo ci scontriamo con la struttura sociale. Non possiamo fare tutto come se gli altri non esistessero, non possiamo preoccuparci soltanto del nostro benessere.

Ci pensa Popper a far chiarezza su questo punto: «L’attingimento della felicità dovrebbe essere lasciato agli sforzi dei singoli». La ricerca della felicità è cosa privata, un affar nostro. Spetta invece alla politica occuparsi di ridurre le nostre sofferenze più ampie, dato che la felicità è in ogni caso meno urgente degli sforzi volti a prevenire il dolore.

Al diavolo l’imperativo categorico kantiano allora, secondo cui dovremmo costantemente seguire la legge morale costruita dalla ragione. Per Kant infatti la felicità è un qualcosa d’indefinito, perché un essere umano non potrà mai conoscere a fondo i suoi desideri, cosa lo rende felice.

La filosofia ci insegna anche a dire di no. A rifiutare i pilastri come Kant. In fondo noi viviamo nel qui e ora, l’hic et nunc di cui parlavano i latini. Soffermiamoci su quello che ci sta accadendo attorno, in questo istante. E procediamo per gradi, per piccoli passi. I grandi cambiamenti non sono mai frutto di reazioni immediate. Quello è solo lo scossone iniziale, la suggestione che ci fa scappare, che desta attenzione. Poi è questione di fatica personale, di ricerca incessante e pialla. Pialliamo ciò che non ci piace, lo modelliamo a nostro piacimento.

E allora torna utile la toccante riflessione di Josè Ortega y Gasset «Quando in una strada solitaria l’auto si arresta spontaneamente il conducente, che non è un buon meccanico, si sente perduto e darebbe qualsiasi cosa per sapere cos’è l’automobile dal punto di vista meccanico. In questo caso la perdizione è minima (…) Ma, a volte, resta in panne la nostra vita intera, perché tutte le convinzioni fondamentali sono diventate problematiche (…) L’uomo, allora, riscopre, sotto quel sistema di opinioni, il caos primigenio con cui è stata fatta la sostanza più autentica della nostra vita. Incomincia a sentirsi assolutamente naufrago; di qui l’assoluta necessità di salvarsi, di costruire un essere più sicuro. Allora si ritorna alla filosofia».

E ricordiamoci che, usciti dalla gabbia, potrebbe andare peggio: potrebbe piovere.

 

Giacomo Dall’Ava

 

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“A me la morte non spaventa!”. Parola di Epicuro

Abituati a pensare che niente è per noi la morte perché ogni bene ed ogni male è nella facoltà di sentire di cui la morte è privazione. Perché la retta conoscenza che la morte è nulla, per noi rende godibile la stessa condizione mortale della nostra vita, non prolungando indefinitivamente il tempo ma togliendo il desiderio della immortalità. Niente c’è infatti di terribile nella vita per chi è veramente convinto che niente di terribile c’è nel non vivere più.2

Coraggio buon lettore, c’è chi come Epicuro, è intrepido nell’animo e afferma che la morte non è niente per noi: filosoficamente parlando, nella relazione è la morte ad entrare nel non-essere in quanto in sé la vita dell’uomo si viene costituendo contro di essa. Non bisogna temere la morte perché essa è dissoluzione dell’anima, quindi distruzione di esistenza e sensibilità assieme3, secondo la concezione materialista di Epicuro. Per comprendere meglio tale riflessione epicurea, bisogna però riflettere sul significato del termime “anima”. J. Bollack4 parla a questo proposito di corpi dell’anima, concepiti dalla visione fisica epicurea. L’anima è un corpo nel corpo ed è composta di una materia che presenta una certa affinità con il calore e con il soffio vitale. I movimenti dell’anima la cui trama è estremamente sottile, si trasmettono a tutto l’organismo, che è vivente. Le facoltà sensibili, psichiche, intellettuali poggiano su una stretta interdipendenza: l’anima è la causa principale, i corpi la causa secondaria, ma indispensabile della sensazione. Benché l’anima sia la causa principale della percezione, privata dal corpo è impotente. Se il corpo si distrugge, l’anima si disperde e non ha più il suo potere e la sua facoltà di sentire. Infatti esso non possedeva in se stesso tale facoltà ma gliela procurava un’altra realtà nata con lui, cioè l’anima che, con la realizzazione della sua potenzialità determinata dal sentire, secondo il movimento, produce per sé il fenomeno citato della sensazione e la trasmette poi anche al corpo cui è legata da uno stretto contatto e corrispondenza come detto. Non si può concepire l’anima se non nel complesso organico di anima e di corpo. Bisogna però prendere le distanza dal materialismo democriteo: per Democrito l’anima corporea si confonde con gli atomi sferici del fuoco. Epicuro invece, senza polemizzare direttamente questa tesi, la modifica profondamente facendo dell’anima un aggregato come gli altri che formano il corpo, ma opponendolo nello stesso tempo ad ogni materia fisica.

Definita tale unità indissolubile tra corpo e anima, si deve concernere che quando viene a spezzarsi nel suo composto non vi sono più modificazioni – il corpo infatti privato dall’anima non può più provare alcuna sensazione -, non esiste più l’uomo che è un essere di relazione, di affezione, di ricordo e di presenza. L’uomo perciò non è più uomo a livello fisico e tutto, anche la morte, deve essere ricondotto alla fisica stessa che spiega la natura dei fenomeni.

L’uomo, per sua natura, nella sua più profonda integrità è segnato dal dolore e dalla morte, realtà a cui sembra non potersi sottrarre se non con l’attività del pensiero e le teorizzazioni filosofiche. Con l’esercizio della filosofia infatti, che si basa su argomenti razionali, è possibile frenare la paura del morire, come il risultato di una riflessione chiara e corretta su di essa. In questo la paura della morte è, per Epicuro, “irrazionale” solo nel senso di quella parola che è sinonimo di “male” ed “errore”. La paura della morte è una paura razionale nel senso in cui è fondata, sebbene mal diretta, sulla ragione. Questa ipotesi è discutibile, dal momento che potrebbe sostenere che la paura è parte fondamentale e ineliminabile della psicologia umana che non è suscettibile di controllo razionale o alterazione sulla base di argomento razionale.

Tale verità, ossia che in ogni caso la morte sia fondamento dell’uomo, è così stringente e inamovibile per l’essere umano che nonostante i secoli e i millenni, sarà sempre attuale. Lo stesso Freud scrive che «la civiltà nasce da una presa di coscienza del dolore, nasce da una ferita come nevrotica costruzione per mascherare l’ossessionante presenza della morte5». È anche Heidegger a definire l’uomo quale essere-per-la morte6.

Azzurra Gianotto

Note

1 Nell’affermare che la morte è nulla, Epicuro riprenderebbe i versi1 di Epicarmo, un siciliano poeta comico del V sec. a.C., come scrive Sesto Empirico, uno scrittore pirroniano del II sec. d.C., a scredito del filosofo.

«Né la morte né l’essere morto fa alcuna differenza per me» [Epicarmo, ap. S.E. M. I. 273]

Cfr. J. Warren, Facing Death, Oxford, 2004

2 Epicuro, Lettera a Meneceo, 125

3 Epicuro, a cura di M. Isnardi Parenti

4 Epicuro, Episteme ed ethos in Epicuro, a cura di L. Giancola

5 Cfr. S.Freud, Il disagio della civiltà, tr.it., Borignghieri, Torino, 1971

6«La morte è una possibilità di essere che l’esserci stesso deve sempre assumersi da sé. Nella morte l’esserci sovrasta se stesso nel suo poter-essere più proprio. In questa possibilità ne va per l’esserci puramente e semplicemente del suo essere-nel-mondo. La morte è per l’esserci la possibilità di non-poter-più-esserci. Poiché in questa possibilità l’esserci sovrasta se stesso, esso viene completamente rimandato al proprio poter-essere più proprio. In questo sovrastare dell’esserci a se stesso, dileguano tutti i rapporti con gli altri esserci. Questa possibilità assolutamente propria e incondizionata è, nel contempo, l’estrema. Nella sua qualità di poter-essere, l’esserci non può superare la possibilità della morte. La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile.» [Heidegger, Essere e tempo, 1927]

I più giovani a bordo

Essendo io il più giovane a bordo, e ancora senza il collaudo di una posizione di grande responsabilità, ero propenso ad accettare come scontata la competenza degli altri,

scrive Joseph Conrad ne Il Compagno Segreto, racconto del 1909.

Come il Capitano protagonista di quell’avventura, anche il bambino si trova, spesso, nella medesima condizione. Apparentemente sereno, cela nel subconscio la voglia irresistibile di esprimersi liberamente, di lasciar andare la sua curiosità e l’interesse per ogni percezione, ancorché deformata. D’altra parte, propenso com’è ad accettare la “competenza degli altri”, limita già da sé molti dei possibili voli ed esperimenti ai quali sarebbe istintivamente portato, fidandosi di ciò che dice il genitore, l’insegnante, l’adulto che ha vicino. E fa bene! Perché l’inesperienza in natura può essere fatale e la natura, lo sappiamo, è dovunque, specialmente per un bambino.

Imparare da chi è già passato attraverso certe prove e certi errori, permette di evitare pericoli, dolori e inutili perdite di tempo, proseguendo il miracolo dell’evoluzione culturale dell’uomo che, generazione dopo generazione, avanza senza mai (quasi mai in verità) doversi ripetere, simulando un reale e al contempo illusorio progresso, direzione, verso.

Ciononostante, la natura dà al bambino, ovvero alla parte temporale che nello sviluppo facciamo corrispondere a ciò che genericamente definiamo bambino, possibilità straordinarie. E mi riferisco in parte a ciò di cui parla, tra le righe, Aldous Huxley ne L’arte di Vedere, del 1942, ma soprattutto a ciò che ci raccontano i manuali di neuropsicologia o di neuroscienze riguardo al cervello in via di sviluppo.

Ora, questo potenziale, che fece dire a Epicuro che

mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità

e che spinse molti altri a invitare i propri interlocutori atornare come bambini, deve però essere efficacemente esplorato, pena la sua maggiore o minore dispersione.

In questo senso ecco Huxley che cita Barmark e scrive nel saggio già menzionato:

un’attenzione che si sposta liberamente è un importante sostegno dell’attività vitale. Se l’attenzione è ristretta a un campo troppo piccolo l’attività vitale tende a deprimersi.

Il bambino, come qualsiasi altro essere che attraversa una fase “infantile” dello sviluppo deve essere sottoposto a un allenamento in grado di massimizzare l’attivazione di tutto il suo potenziale. Solo così Il Mito dell’Adulto (1963) di cui parla Georges Lapassade, cadrà dinanzi ai nostri occhi, lasciandoci accorgere di quanto possa essere importante dare ascolto ai bambini, domandare la loro opinione.

Una filosofia coi bambini che sia anche una filosofia dell’infanzia, deve concentrare molte delle sue energie nel comunicare agli adulti questo genere di messaggio: che l’apprendimento non basta, occorre che sia efficace. E l’efficacia dell’apprendimento segue leggi precise che la scienza può aiutarci a scoprire, la tradizione a comprendere e il buon senso ad accettare.

Non si può apprendere efficacemente in qualsiasi luogo, in qualsiasi tempo, in qualsiasi modo e soprattutto con chiunque. L’adulto che non abbia compreso il segreto che si nasconde dietro ogni apprendimento non può trasmettere efficacemente alcun insegnamento.

Un costante lavoro su se stessi è fondamentale per chi affianca i bambini nel tempo dell’apprendimento, posto che nessuno per quanta esperienza possa avere riuscirà mai a immedesimarsi fino in fondo nella mente di un bambino: un certo grado di “luminosità” della percezione si perde nel corso dello sviluppo e non torna.

Ecco perché, se è possibile – e doveroso, a mio parere – parlare e compiere progressi in campo educativo (come si parla e si fanno progressi in campo medico, ad esempio), questi dovranno esserci d’aiuto nello sfruttare sempre meglio la breve finestra dell’apprendimento. Le neuroscienze dello sviluppo ci indicheranno la strada, ma sarà compito della filosofia guidare il cambiamento sul campo.

Carlo Maria Cirino

www.filosofiacoibambini.com

[Immagine copertina tratta da Google Immagini, Immagine di testo di proprietà di www.filosofiacoibambini.com]

 

 

 

 

Vita extraterrestre

Cosa pensa la Filosofia della vita extraterrestre?

La domanda sull’esistenza di altre forme di vita, in particolare di vita intelligente, nell’universo oltre a quella sulla terra e all’uomo ha accompagnato il genere umano fin dai primordi della civiltà. In particolare da quando i primi astronomi hanno cominciato a osservare il cielo l’uomo si è posto l’interrogativo di quale fosse la vera natura della volta celeste. L’interrogativo è diventato poi più pressante quando con il progresso scientifico si è scoperto che l’universo è incredibilmente grande e complesso e che la Terra non è il “centro” della creazione e di conseguenza il nostro sistema solare non rappresenta una singolarità, ma ne esistono una moltitudine.

La Filosofia come si è rapportata con l’ipotesi che possano esistere forme di vita aliene?

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L’invidia, serpe insidiosa

Sentimento diffuso che genera astio e rabbia nei confronti dell’Altro, l’invidia da sempre è quello stato d’animo di risentimento nei confronti della felicità altrui.

Una gabbia che l’Uomo si crea da sempre in cui far crescere il rammarico e la frustrazione.

Aristotele nella Retorica parla dell’invidia come

un dolore causato da una buona fortuna…che appare presso persone simili a noi,

dunque, anche per il filosofo, questo sentimento altro non è se non rabbia per qualcosa che desideriamo e non riusciamo a raggiungere, a differenza di un Altro che si appropria del nostro desiderio con facilità.

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