La ruota degli elementi tra Oriente e Occidente: connettersi al tutto

Ti sei mai chiesto perché ognuno di noi ha reazioni diverse a stimoli simili? Ad esempio: se entriamo in una stanza con un amico potrebbe accadere che lui senta freddo e noi invece caldo; oppure che in una giornata di sole tu abbia voglia di sentire la luce e il calore sul viso, e un’altra persona invece di mettersi subito gli occhiali da sole. E se tutto dipendesse dai 5 elementi? Se la realtà che ci circonda e noi stessi fossimo impregnati da aria, acqua, terra e fuoco? 

Secondo i primi filosofi greci e gli antichi filosofi indiani sì, sarebbero loro a permeare e influenzare l’uomo e la natura. Tra la fine del VII secolo a.C. e gli inizi del VI nell’antica Grecia si comincia per la prima volta a fare filosofia. I primi filosofi greci ricercavano l’archè, ovvero il principio di tutte le cose, del mondo che li circondava e dell’uomo stesso. Per Talete il principio di tutto era l’acqua, per Anassimandro l’àpeiron; Anassimene individua nell’aria il principio del tutto: immensa, infinita, sempre in movimento. Eraclito ci parla del fuoco, da cui tutto deriva per condensazione e rarefazione, Empedocle infine parla delle 4 radici di tutte le cose: aria, acqua, terra, fuoco. Gli antichi filosofi greci osservavano la natura e nella natura cercavo la risposta alle loro domande.

Consideravano i 4 elementi come delle forze immutabili, eterne, e la realtà come un processo eterno e graduale di variazione degli stati di equilibrio tra queste forze. Un’indagine che oggi potremo senza dubbio definire di tipo scientifico, perché coniugava le osservazioni sui processi della natura e la loro spiegazione razionale. Un’indagine verificabile nei processi e nei risultati. Talete ad esempio individua nell’acqua l’origine di tutte le cose osservando che ogni cosa si nutre dell’umido, e che assenza di acqua significa, in fondo, assenza di vita. Anassimandro si sposta su qualcosa di meno definito, l’àpeiron (letteralmente “ciò che non ha limite”), una massa materiale ingenerata e indistruttibile, da cui tutto deriva per distacco e dove tutto, alla fine, riconfluisce. Anassimene studia l’aria, intesa come soffio vitale da cui tutto deriva e in cui tutto si risolve, sostenendo che l’intero universo è pervaso da questa natura mobile e infinita, come del resto l’uomo. Eraclito pone l’accento sull’elemento fuoco, ma ancora di più insegna che la vita è un mutamento incessante, un fluire continuo, analogo a quello delle acque che scorrono sempre diverse per chi vi si immerge: è il filosofo del panta rei, del tutto scorre, del divenire. Empedocle parla dei 4 elementi come delle 4 radici di tutte le cose, aggiungendo a esse due nuove forze: l’amore e l’odio, che mescolano le 4 radici dando vita alle cose per unione o separazione.

In India, più o meno nello stesso periodo storico, i saggi, chiamati rishi, o veggenti, studiavano, come i filosofi occidentali, la natura e l’uomo. Anche per loro il principio di tutto risiede negli elementi naturali, che definivano mahabhuta (“grandi elementi”): aria, acqua, terra, fuoco ed etere. Diversamente dai filosofi greci però, i saggi indiani utilizzano queste teorie per elaborare una scienza della lunga vita: l’Ayurveda1. L’ayurveda, l’antica filosofia indiana che nasce proprio in questo momento, si impregna totalmente di questa concezione e dà vita alla teoria dei tre dosha, Vata-Pitta-Kapha, che sono in sostanza le tre nature dell’uomo, o se vogliamo, tre temperamenti: nervoso (Vata), passionale (Pitta) e viscerale (Kapha). Secondo la medicina ayurvedica i dosha sono fatti proprio dai 5 elementi: Vata da aria ed etere, Pitta da fuoco e aria, Kapha da terra e acqua.

L’uomo quindi è composto dai 5 elementi: il loro equilibrio ne determina la salute fisica, psichica e spirituale. In occidente sarà Ippocrate ad utilizzare di nuovo i 4 elementi con l’accezione medica, definendoli “temperamenti”.

Nonostante le piccole sfumature tra occidente e oriente, il messaggio che gli antichi filosofi greci e indiani vogliono farci arrivare è a mio parere lo stesso: il sentirsi parte di un tutto. Vibrare con la natura e i suoi elementi per comprendere noi stessi e restare in salute. Ritrovare la nostra spiritualità, dando a questa parola il significato di sentirsi connessi a qualcosa di più grande, che può essere Dio, l’universo, la natura, gli esseri viventi. Gli antichi filosofi greci e l’Ayurveda in fondo ci insegnano una verità che molto molto tempo dopo riprese un grande scienziato, Albert Einstein: “Guardate nel profondo della natura, e allora capirete meglio tutto.”

 

Martina Notari

 

NOTE:

1. Ayurveda, la ruota di Guarigione, Michelle S. Fondin, ed.Armenia, 2015

 

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La filosofia pratica che Camilleri ci lascia in eredità

Ora dimmi di te. Lettera a Matilda (Bompiani, 2018) è un irrinunciabile testamento, un monumento culturale, un’ode delicata e feroce scritta da un uomo, Andrea Camilleri, ormai al crepuscolo della sua vita.

Gli abbiamo detto addio da poco, ma egli resta, grazie a opere come questa e alla sua lucida intelligenza, abbarbicato alle nostre menti.

Questo memoir è una lettera per la sua piccola pronipote Matilda con cui non potrà dialogare, visti i suoi 93 anni. Un racconto scritto “alla cieca” per un duplice motivo: Camilleri quando scrive è ormai non vedente, costretto a dettare i suoi pensieri. Ma è cieco anche poiché non potrà vedere oltre quell’arco che si protende verso il futuro, non saprà come sarà l’Italia, il mondo in cui Matilda vivrà. Non sa se ci sarà ancora un’Europa, ma si augura che i giovani potranno ricostruirla su nuove fondamenta perché essi «hanno in loro la capacità […] di ridare alla politica la sua etica perduta, […] hanno la possibilità di far risorgere il nostro paese non solo economicamente, ma infondendo la forza trascinante di un ideale nuovo».

Camilleri racconta momenti della sua vita personale e della storia collettiva che lo hanno formato. Nel farlo sottolinea quali sono, a suo avviso, i principi per i quali valga la pena stare al mondo, offrendoci uno spaccato della sua saggezza pratica fatta di consigli preziosi che possono guidarci ogni giorno.

C’è prima di tutto il libero pensiero e il libero arbitrio. Da scrittore, Camilleri non si è mai piegato ai gusti del pubblico, anche se il suo celebre commissario è adorato in tutto il mondo. Da studente, da dipendente, da dirigente Rai, da insegnante e da essere umano, mai si è rassegnato a fare ciò che gli altri avrebbero voluto, pure se questo lo ha spesso condannato a situazioni spiacevoli – anche perché, lo confessa lui stesso, «non ho mai avuto un carattere facile».

Ci sono poi gli ideali di tolleranza e rispetto. Emblematico è il ricordo di ciò che gli insegnò Orazio Costa, suo professore di regia all’Accademia nazionale d’arte drammatica di Roma, ma anche suo maestro di vita. Al termine del colloquio iniziale, Costa disse al giovane Camilleri che non condivideva le sue idee, tuttavia lo scelse per il corso di regia spiegando che: «Non condividere le idee di una persona, quando esse sono acute e intelligenti, non significa affatto rifiutarle».

Camilleri ci insegna anche qualcosa sulla verità, mettendoci di fronte a un fatto disarmante: non è tanto l’aspetto morale della verità a renderla cruciale, quanto il suo aspetto pratico. Essa rende facile districarsi da situazioni spinose: possiamo uscire da esse affermando ciò che pensiamo, senza fronzoli o edulcorazioni. Magari essere sinceri comporterà una perdita, di un amico o di un lavoro, tuttavia essa resta un punto fermo oltre al quale non si può andare. Le bugie invece, ne portano con sé altre e si dipanano all’infinito.

Lo scrittore di Porto Empedocle ci mostra anche che lo straniero, l’altro, siamo noi allo specchio. Ci narra un episodio risalente ai primi anni duemila: durante una vacanza a Vienna Camilleri ebbe un’emorragia interna molto grave e si ritrovò solo, per la strada, in attesa della moglie e della figlia andate a cercare aiuto. Era imbrattato di sangue, terrorizzato, ma nessun civile austriaco lo aiutò: egli suscitava ribrezzo e apprensione. Solo un arabo, un modesto venditore ambulante, lo soccorse facendolo sedere, tamponandogli il sangue e portandogli un panno intriso d’acqua ghiacciata. Non volle la ricompensa in denaro che Camilleri gli porse, perché, gli disse in italiano: “Io solo amico”.

Il maestro ci parla di amicizia, di dignità, della rabbia che esplode quando questa viene calpestata arbitrariamente, come fa la mafia – mette i brividi il ricordo di una strage a cui assistette. Camilleri ci propone una sua filosofia pratica degna di quella delle scuole elleniche, capace di aiutarci a vivere meglio. Ci ricorda i simboli della nostra cultura, che vengono dalla Grecia antica, dalla bellezza di leggere senza censure, dall’ebrezza di poter fare quello che ci va, sbagliando e imparando dagli errori.

Chiniamo il capo e ringraziamo per le verità belle e semplici come teoremi matematici che Camilleri è stato in grado di trasmetterci, sentendoci un po’ tutti suoi “nipoti”.

 

Francesca Plesnizer

 

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Creta, Dioniso e la nascita della filosofia

Dioniso è una divinità molto complessa, capace di demolire le difese dell’ego e portare alla condivisione universale. In lui si riversa la pulsione animale e l’anelito al divino, il maschile e il femminile, l’eros carnale e l’ascesi, il turbine delle emozioni più ancestrali e la contemplazione dell’estasi, la discesa negli spazi reconditi e scandalosi dell’anima e la liberazione da essi. Dioniso è simboleggiato nel toro, nel serpente, nel capro o nel satiro, altri suoi simboli sono l’edera, la vite (sarà Bacco per i Romani) e altro ancora, insomma, una molteplicità che ci narra della sua impossibilità a giacere nell’univocità.

Oggi manca un riferimento simbolico così potente nel riunire gli opposti e liberare dall’oppressione del quotidiano. Non ci rimane che interrogarci sulla sua provenienza, per comprendere meglio cosa ci manca.

Nel mondo minoico-miceneo di Creta va ricercata l’origine del suo culto, come scrive anche Giorgio Colli1. Questo ci porta a entrare nel mitico labirinto di Minosse, dove incontriamo anche Arianna e il Minotauro. Il mito che qui si offre potrebbe essere il più antico e fondante della cultura greca, mille anni prima del suo apogeo. In questo misterioso cosmo ebbero origine i caratteri fondanti di quella sapienza che darà poi origine alla filosofia. Nietzsche ha avuto il merito di dissotterrare il dionisiaco e scoperchiare la sua sconvolgente potenza.

Il legame di Dioniso con la filosofia si svela attraverso un racconto tra storia e mito.

Il popolo minoico fu così chiamato dal nome del mitico re di Creta, Minosse, che fece costruire il labirinto per imprigionare il Minotauro, una sorta di alter ego dionisiaco, mostro mezzo uomo e mezzo toro, partorito dalla moglie. Questo mito ci arriva così maneggiato dalla cultura greca e per noi la civiltà minoica non ha voce; quasi cancellata da catastrofi naturali, i suoi resti furono assorbiti dagli invasori, i Micenei.

Il labirinto, riconducibile alla struttura intricatissima dei palazzi minoici, è una figura centrale. Esso simboleggia probabilmente la sfida dell’enigma, il percorso tortuoso e sfiancante della conoscenza, la cui insidia è quella di far smarrire o divorare l’essere umano mentre tenta di emanciparsi dalla sua animalità attratto dall’ammaliante possibilità di elevarsi a dio attraverso il possesso della conoscenza. La tensione dialettica tra le polarità apparentemente inconciliabili della bestialità e della tensione al divino, è il filo, dionisiaco, che conduce alla sapienza.

Chi era il sapiente? «Essere sophos significava essere radicato nell’Assoluto, essere attraversato dall’eternità, ed essere-uno… con l’origine di tutte le cose»2, come nel caso di Eraclito, Empedocle o Pitagora, o tutti gli altri che si collocano prima dello spartiacque: Socrate, l’ultimo sapiente prima che l’impresa della conoscenza si depositasse nella scrittura. La scrittura è percepita come un potenziale inganno perché il sapere è materia viva, dinamica e fluida, si presta al lavoro del confronto, si arricchisce nello scambio umano, con il dialogo e la critica. La filosofia nasce invece come forma letteraria fondata sulla logica raziocinante e rifugge dall’oscurità enigmatica dei sapienti.

La nascita della filosofia si congiunge al declino della sapienza perché se la razionalità tende a essere calcolante e produttrice di ordine, si allontana dal lato oscuro della mente umana, spalancato all’abisso del caos, dove gli opposti convivono e lottano tra di loro. Il sapiente sa sfidare questo abisso e uscirne arricchito, ma esiste una possibilità anche per tutti gli altri. Questa è nel dionisiaco che si offre attraverso pratiche collettive di culti e misteri in cui la condivisione tra adepti consente quella fuga dall’individualità funzionale alla visione liberatoria che il sapiente raggiungeva attraverso percorsi conoscitivi diversi.

Dove la collettività sperimenta rituali di condivisione e fuga dal quotidiano, ma anche quando il singolo abbandona la propria configurazione individuale e temporanea per ricongiungersi al tutto, lì appare il dionisiaco. Di tutto ciò non possiamo che constatare un’enorme assenza, visto il nostro esser consegnati alla logica della ragione senza spazi istituzionali, al di fuori della religione, per coltivare la dimensione più intima, ma collettiva, del nostro io. Questa dimensione è talmente sconvolgente che l’io sparisce, perché in fondo al tunnel c’è l’uno, il tutto, la miscela incendiaria degli opposti. Solo nell’esperienza mistica possiamo ritrovare qualcosa di simile oggi, ma lungi dall’essere un’esperienza collettiva, essa perlopiù rimane qualcosa di individuale.

Alla fine, Dioniso è il filo conduttore di una storia lunghissima, albeggia in civiltà remote e si dissolve nel Cristianesimo, tuttavia non è scomparso nelle trame delle religioni orientali. Egli è sempre pronto a svegliarsi grazie al suo potere: quello di legare tutto assieme e offrirci un momento di liberazione attraverso pratiche che attendono solo di essere cercate e che potrebbero forse lenire la diffusa malinconia della nostra società.

Sull’esempio di Alice nel Paese delle Meraviglie, osate passeggiare sul prato dove nasce la filosofia e poi tuffatevi nella prima cavità per un viaggio nel suo sottosuolo!

 

Pamela Boldrin

 

NOTE:
1. G. Colli, La nascita della filosofia, 1975, p. 25.
2. A. Tonelli, Sulle tracce della sapienza. Per una rifondazione etica della contemporaneità, 2009, p. 33.

[Immagine a cura dell’autrice]

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Alla ricerca della perfezione: il doppio volto della corsa al successo

Se dovessi descrivere il mio rapporto col successo, mi salterebbe subito alla mente il perturbante freudiano: qualcosa che esercita un fascino irresistibile, simultaneamente a paura e repulsione. Questo perché la scalata verso la massima realizzazione e il riconoscimento sociale, seppure appaia una meta allettante, può risultare allo stesso tempo ansiogena – se non terrorizzante – per la prospettiva di un possibile fallimento.

Dopotutto, siamo una generazione cresciuta con la convinzione di poter raggiungere qualsiasi scopo grazie alla sola forza di volontà. Incoraggiati da genitori, favole televisive, uno stato di benessere diffuso e la consapevolezza di un forte stacco generazionale, uno solo è stato il mantra della nostra giovinezza: possiamo qualsiasi cosa, basta volerlo.

E se un problema ci si para davanti, osserva Miriam Goi in L’ossessione per il successo ci sta distruggendo?, ci sarà sempre una soluzione pronta all’uso per risolverlo in totale autonomia, dalle app per dimagrire ai libri per smettere di fumare, dai corsi per “inventarsi un lavoro da zero” ai gadget motivazionali (You have as many hours in a day as Beyoncé, recita uno slogan tanto incoraggiante quanto minaccioso). Il mantra si rivela così un’arma a doppio taglio, poiché non solo il trionfo ma anche l’insuccesso dipendono interamente e solamente da noi stessi: il fallimento è impietoso e si consuma in solitudine.

E così non importa quanto siamo stanchi, sottopagati, tristi, malati: il nostro profilo Instagram dovrà sempre e solo mostrare una versione perfetta della nostra vita, in una costante ansia da prestazione e rincorrendo desideri che non sappiamo neanche se definire genuini o indotti.

Forse è per questo che, specularmente a questo meccanismo, se ne instaura un altro, inconscio, difensivo, che disincentivando all’azione schiva il possibile fallimento: la procrastinazione. Come argomenta Oliver Bukerman (in L’ossessione per la perfezione ci fa rimandare le cose) la procrastinazione è solo paura mascherata, paura che deriva da standard troppo alti: se il progetto che abbiamo in mente (la carriera, una relazione amorosa, ristrutturare casa, ecc.) rischia di non essere perfetto, meglio rinunciare – anzi, rimandare. Perché l’eterno procrastinatore, ovvero l’eterno perfezionista, non può ammettere di voler rinunciare, può solo temporeggiare per non affrontare quello che teme di più al mondo: l’inadeguatezza rispetto alle aspettative (proprie e altrui). In una parola, la banalità.

Non siamo più figli di un platonismo che insegna innanzitutto ad accettare i limiti umani, assumendo che sia impossibile raggiungere la perfezione (esclusiva ultima del mondo delle idee), ma che tale perfezione sia piuttosto un modello per guidarci in un mondo ontologicamente imperfetto. Oggi, al contrario, se considerare la perfezione alla portata di tutti da un lato ci sprona a inseguire i nostri sogni più coraggiosi, dall’altro ci porta a colpevolizzarci per i nostri limiti, ossessionarci fino alla psicosi, mentire a noi stessi per proteggerci. Ci hanno insegnato ad essere ottimisti, fino a non saper gestire le sconfitte. Mentre è proprio il pessimismo l’unica soluzione: il partire dal presupposto che le cose potrebbero, non sicuramente ma con una certa probabilità, andare male, ci aiuta ad accettare la possibilità del fallimento come parte del processo, a porci una meta con una approssimazione meno precisa, a ritagliarci un margine di errore. E ci permette di buttarci, come quando da bambini ci buttavamo a giocare senza paura di sbucciarci le ginocchia (perché tanto sì, ce le sbucceremo).

Rinunciare al mito della perfezione per abbracciare la perfettibilità della realtà: ripartire da Empedocle, quando sosteneva che la vera perfezione è l’imperfezione, perché offre sempre infinite possibilità di miglioramento.

Anna Merenda Somma

Anna Merenda Somma, Ravenna, classe 1990, da piccola voleva fare la disegnatrice Disney, poi l’arredatrice Ikea, poi la giallista e infine, alla costante ricerca di mestieri sempre più ardui, l’insegnante. A 14 anni scopre la filosofia ed è amore a prima vista, poi è la volta degli studi di genere, e l’amore si rinnova. Consegue la laurea in Scienze Filosofiche nel 2016 a Firenze, e da allora si occupa di identità di genere, femminismo, eteronormatività, queer theory, LGBTQ rights e altre cose difficili da pronunciare. Specializzata anche in procrastinazione e dolci bruciacchiati.

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Quando a fare politica erano i poeti

Se scorriamo le pur esigue notizie biografiche di molte grandi personalità antiche (filosofi, poeti, soldati, condottieri, ecc.) non sarà difficile imbattersi in espressioni tipo: «fu poeta e abile condottiero», «fu politico e scrisse molte opere poetiche e filosofiche», «diede le leggi alla città». Leggiamo queste parole nelle biografie di Sofocle, Parmenide, Empedocle e molti altri.

Oggi ci può sembrare strano che un politico o un militare riesca ad essere anche poeta. Non solo perché le faccende di un’occupazione non siano compatibili con quelle dell’altra, ma perché ci figuriamo in modo molto diverso la vita, la mente, la quotidianità di un politico da quelle di un poeta. E anzi, vediamo che nel corso della storia questi tipi di personalità sono andati non solo diversificandosi sempre di più, ma anche in qualche modo a scontrarsi: il poeta si occupa delle cose astratte, della letteratura, della scrittura, di qualcosa che comunque è considerato un po’ eccentrico se non superfluo; il politico deve pensare alle cosiddette cose concrete della vita dei cittadini.

Come mai invece una volta le figure potevano coincidere o comunque non erano pensate antiteticamente come oggi?

Ci sono diversi esempi nel corso della storia che non solo valorizzano la poesia, ma le attribuiscono il più alto ruolo nelle forme d’espressione umane. Una buona risposta in questo senso la si è avuta da pensatori del Romanticismo, del Risorgimento, e da personalità che all’inizio del novecento hanno non solo pensato, ma sperimentato sulla pelle il senso della vita vissuta al limite tra una politica cruda e un linguaggio come quello poetico in cui soltanto trovavano le speranze personali e pubbliche future. Saltano alla mente, in questo caso, i nomi di Heidegger, Jünger, Hofmannsthal.

Proprio quest’ultimo ad esempio, ritornando alle radici del linguaggio (ricordiamo a riguardo anche la breve e intensissima Lettera di Lord Chandos) ritrova l’antica e originaria connessione di linguaggio ed etica.

Una lingua, per Hofmannsthal, è «qualcosa di completamente diverso da un mezzo naturale per farsi capire»[1]. Essa è il luogo di incontro atto a «formare una comunità»[2] e proprio in questo intreccio attraverso la lingua si può «partecipare alla proprietà nazionale, essere ricompresi in ciò che rappresenta la nazione e che si realizza compiutamente nella perfetta bellezza della lingua»[3]. Colui che più pienamente si trova in questo crocevia è il poeta: il poeta ha a che fare più di tutti con il linguaggio. Nomina le cose nel modo più appropriato per giungere alla loro essenza e in questo senso gestisce e domina la cose nel linguaggio, il quale mostra le cose nel loro essere in relazione le une con le altre. Così il poeta è autore e guida gli altri, con cui condivide il linguaggio, attraverso l’essere delle cose.

Alla stessa maniera il politico, stando nel mezzo delle cose, le conosce e conoscendole sa gestirle nella misura che è a loro propria. Il suo fare non è come le altre occupazioni: lui può osservarle dall’alto e connetterle per il bene comune.

In questo modo ci appare chiaro come la cura per il linguaggio e la cura per ciò che ci circonda ed è perciò comune, non sono atteggiamenti diversi. Certamente, divenendo la politica mera contabilità o amministrazione, non è più possibile che venga accostata a qualcosa come la poesia, che pure si ritrova decisamente cambiata nei suoi scopi, nei suoi metodi e nei suoi destinatari rispetto ai tempi antichi in cui andava definendosi: probabilmente nessun militare oggi scriverebbe versi su ciò che vive alla maniera di Tirteo, che cantava i fiumi di sangue e l’«orrore che la vista non sopporta»[4] e in cui si trovava e che hanno comunque definito l’esistenza e l’identità della sua Sparta. Così come nessun politico si sentirebbe molto ispirato dalle forme di vita che le città odierne ospitano. Poesia e politica sembrano dunque aver perso le loro origini.

Ma la sua testimonianza e in qualche modo la sua sensibilità sono state preziose per il suo tempo e per il nostro e anche grazie al suo esempio capiamo cosa significhi far parte di una comunità più ampia e servirsi della potenza del linguaggio per crearne un’opera fedele alla realtà in cui viveva. Allo stesso modo altre numerose personalità di un tempo sentivano in modo univoco la spinta a occuparsi della propria terra e quella di raccontarla.

La scissione di queste due figure evocate, il politico e il poeta, può suggerirci che forse siamo lontani oggi da quella fonte comune che è la sensibilità verso ciò che immediatamente ci è più vicino e che teneva insieme impegno sociale, come lo definiremmo oggi, e tensione artistica. Non spetta nemmeno a noi probabilmente decidere di riscoprire e riprendere quel modo di pensare e di agire. Ma se oggi la politica delude e il linguaggio non sembra mai all’altezza delle situazioni che viviamo, non escludiamo nemmeno che riferirsi a quel contesto possa costituire un mattoncino utile per una qualche casa futura.

Luca Mauceri

NOTE

[1] H. von Hofmannsthal, La rivoluzione conservatrice europea, Marsilio, Venezia, 2003, p. 55.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 60.
[4] Lirici greci dell’età arcaica, Rizzoli, Milano, 1994, p. 73.