Alla riscoperta della tenerezza

È raro sentir parlare di tenerezza, forse per il suo essere un sentimento delicato e sensibile, che fa poco rumore nel rapportarsi all’alterità. Quotidianamente, infatti, parliamo di gentilezza, rabbia, bontà, ma non di tenerezza, quasi fosse un sentimento dimenticato dal nostro tempo, e la ragione di questa dimenticanza può essere dovuta alla delicatezza di quest’emozione poco totalizzante, al suo fungere quasi da sfondo delle nostre percezioni. Se percepiamo amore e rabbia come un fuoco, come sensazioni che bruciano, la tenerezza è semplicemente leggero calore.

Nonostante quest’eclissi della tenerezza, non appena abbiamo a che fare con bambini e anziani in particolare, ma anche con le persone in generale, possiamo riscoprirne il significato e svelarne la natura. Non si tratta semplicemente di gentilezza ma di un sentimento di fiducia verso l’altro e di leggera commozione, una sensazione che fa capire a chi la prova di essere poco resistente, fragile e dunque soggetto a emozioni e sentimenti. È un sentimento che funge da indice del nostro arcipelago di emozioni, per usare un’espressione di Eugenio Borgna, e che proviamo spontaneamente.

Riscoprendo la tenerezza, la scarsa resistenza, comprendiamo quanto sia giusto prendersi cura di essa e prendersi cura del proprio corpo e della propria mente, ma anche di quelli altrui. Riconoscendo ciò, scopriamo l’umanità che ci accomuna e possiamo ricercare l’armonia, una consonanza che non sia solo di voci. Ad essa, però, ci si deve educare per proteggere i rapporti dall’indifferenza e dalla noncuranza, le più grandi dimostrazioni di inumanità. Ci si deve educare alla tenerezza per evitare che le relazioni perdano di nitidezza e svaniscano. Si deve tentare di provare tenerezza perché questo vorrà dire desiderare che tutti gli esseri siano felici, come dice un mantra indù, e agire in vista di ciò, come se fosse la nostra legge morale.

Ci si deve educare e, anche se forse non lo crediamo, i maestri che possono aiutarci sono tanti: Eugenio Borgna in Tenerezza parla di Leopardi, Pascoli, Sant’Agostino, Rilke. Tra questi, Leopardi in La sera del dì di festa, scrive:

Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente.

L’accostamento della fine del giorno di festa e del canto solitario che l’io lirico sente a distanza, dà origine sia all’angoscia dovuta alla caducità del mondo sia a parole caratterizzate da una tenerezza fuggitiva ed eterea. Proviamo un senso di commozione nel leggere queste riflessioni esistenziali e nel renderci conto che l’io lirico racconta ciò che anche noi abbiamo sicuramente già provato; racconta di aver atteso una felicità, e, dopo averla vissuta, di aver capito quanto fosse vana. Nel leggere le parole dell’io lirico ci immedesimiamo, e riconosciamo in lui alcune nostre fragilità. Proprio da ciò scaturisce la tenerezza.

La tenerezza di cui parliamo, però, non esula e non nasconde, come potrebbe sembrare, la realtà cruda. Le parole di Etty Hillesum, citate anche da Borgna, ci spiegano la simbiosi tra consapevolezza e tenerezza:

«Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda i forni crematori, non veda il dominio della morte? Sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza. Non ci credete? Invece è così!» (E. Hillesum, Diario 1941-1943, 1985).

Cos’è, quindi, la tenerezza? Cos’è se non la malleabilità che rende umani? Se non un liberarsi dai confini asfittici? È un anelito di cura, che trascende la consapevolezza della realtà, a volte troppo cruda.

 

Andreea Gabara

 

[Photo credit Daria Gordova via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Pure coincidenze? Jung e la sincronicità

Non vedevamo Giulia dai tempi del liceo. Quando è stato il momento di invitarla alla cena di classe, dopo ben vent’anni dalla fine dell’esame di maturità, risultava introvabile. Abbiamo utilizzato ogni mezzo per rintracciarla: i social, le conoscenze in comune, gli elenchi telefonici. Nulla, di Giulia nemmeno l’ombra. Poi un giorno riceviamo il suo numero di telefono per caso e veniamo a sapere che abita a un chilometro da me, in una via un po’ persa vicino al bosco. Mai vista in tutti questi anni. Dopo la cena di classe ho incontrato Giulia dappertutto: in banca, al supermercato, per strada. La cosa è durata cira una settimana. Poi non l’ho più vista.

Coincidenze, direte voi. Dio-incidenze affermerebbe chi ha una profonda fede religiosa. Sincronicità dice Jung, ossia «concidenze significative per le quali la nostra conoscenza non ha spiegazioni causali da offrire» (C.G. Jung, La sincronicità, 1980).
Ci sono eventi, persone, emozioni che attivano in noi un tipo di conoscenza che non sottostà alle leggi causali, ma non per questo è da ritenersi meno significativa. È come se esistesse un substrato comune, una rete invisibile che unisce tutti gli esseri viventi, Jung l’ha definita «inconscio collettivo» (Ibidem), che  viene raggiunta e attivata da processi spesso inconsci o comunque non traducibili razionalmente.

Come si spiega il fatto che Giulia era sparita per tutti quegli anni? E soprattutto, perché dopo la cena di classe, è ricomparsa insistentemente per giorni? Durante la cena, probabilmente, si è instaurato un clima di profonda intimità. Sono stati ricordati momenti significativi, esperienze che avevano dato un contributo notevole alla formazione dei presenti. Tutto questo ha scatenato un potere creativo, ha dato la possibilità a ognuno di toccare corde comuni e agire su di esse. Non stiamo parlando di magia, ma di una sorta di potere empatico che, se sviluppato, potrebbe renderci persone migliori, capaci di entrare in sintonia con l’altro, invece di giudicarlo.
Non si tratta di rinunciare alla nostra facoltà di pensare che ci caratterizza come uomini, ma di accantonare per un attimo l’ossessivo bisogno di spiegazioni, dal quale a volte ci lasciamo dominare, per entrare in comunione con l’altro da noi. Infatti, prosegue Jung,

«il principio causale ci dice che la relazione tra causa ed effectus è una relazione necessaria. Il principio di sincronicità afferma che i termini di una coincidenza significativa sono legati da un rapporto di contemporaneità e dal senso» (Ibidem).

Un amore travolgente spesso è irrazionale, perché è qualcosa che va oltre la ragione e ci scuote  più in profondità. Quando si ama in modo autentico, succedono cose straordinarie. Lo stesso accade con la fede, intesa come totale adesione a un progetto. Spesso ci succede di avere un obiettivo ma, nel momento in cui passiamo al vaglio tutte le possibilità di realizzarlo, lasciamo penetrare in noi il dubbio. In questo modo gli ostacoli prevaricano il potere di realizzazione. Se invece crediamo in qualcosa in maniera totale e non vincolata da dubbi di natura razionale, spesso possiamo attingere a una forza più grande.

Jung ha dedicato molte energie al tentativo di giustificare la sincronicità, di darle una valenza di verità, anche con riferimenti al Taoismo in cui la forte distinzione tra causa ed effetto che caratterizza il pensiero occidentale non è presente. «Per noi», dice Jung, «i particolari contano in sé e per sé; per lo spirito orientale essi integrano sempre un quadro generale» (Ibidem). L’auspicio è di diventare capaci di attivare in noi quella forza che ci permette di cogliere i legami, di entrare in sintonia con il mondo.

 

Erica Pradal

 

[Photo credit Federico Beccari via Unsplash]

copertina-abbonamento2021-ott

Fake news: dominare con la paura

Oggi viviamo nella Social Society, l’era delle opinioni, della doxa1: non più relegate entro le quattro mura del bar, le nostre idee sono aperte ai complessi algoritmi delle pagine e delle bacheche online. Tuttavia, la connessione costante con le persone nonché l’immediatezza dei contenuti online hanno lasciato spazio a delle degenerazioni e reso internet il luogo privilegiato per il diffondersi della disinformazione. Oggi conta poco la qualità delle notizie quanto piuttosto la loro forma: accattivanti, allarmanti, curiose e stimolatori di dubbi, con l’unico obiettivo di attirare il nostro click.

Gli interessi che stanno dietro le fake news implicano quasi sempre un guadagno economico o politico di piccole o grandi organizzazioni. «Chi controlla la percezione della realtà, controlla la realtà», diceva lo scrittore Philip K. Dick, ed il meccanismo innescato assume una forma paradossale in quanto le fake news rispondono al desiderio delle persone di un’alternativa libera, indipendente, emancipata dai cosiddetti “poteri forti”2, visti come fonti dirette e sotterranee di manipolazione sociale. È proprio nel piano percettivo delle persone , quindi, che bisogna andare a cercare l’origine di tale deviazione sociale, poiché è il medesimo piano su cui vanno ad agire le fonti di disinformazione.

Facciamo un passo indietro. Le emozioni sono il nostro strumento più antico ed efficiente per vivere. Una di esse, la Paura, rappresenta il nostro campanello d’allarme: essa ci avverte di un chiaro e determinato pericolo imminente. Figlio legittimo della paura, è invece lo stato d’Angoscia: da Martin Heidegger in Essere e Tempo a Umberto Galimberti o Elena Pulcini in La cura del mondo, essa viene descritta come quello stato mentale rivolto verso qualcosa di indefinito – dunque potenzialmente rivolto verso il mondo intero – che crea ansia e tensione. Quello dell’angoscia è un tratto tipico della nostra società globalizzata, così fast, ambigua e camaleontica: ha creato un senso di profondo spaesamento nella vita di ognuno, che eventi gravi come la crisi economica e la pandemia hanno reso ancora più acuto e ingestibile. Laddove non vi sia una mente educata all’elaborazione dell’angoscia questa demolisce il nostro criterio e ci  spinge spasmodicamente a gridare aiuto, supporto e sicurezza.

È importante, quindi, prendere atto di questa situazione e imparare a riconoscere quelle notizie che hanno l’unico obiettivo di stimolare la nostra reazione impulsiva. In un mondo insicuro è facile far leva sulle persone in cerca di certezze e di una verità che sembra gli sia negata: niente di meglio di una risposta semplice e assolutamente certa. Titoli sensazionalistici e soluzioni miracolose sono il pane quotidiano dei venditori di fumo.
La ricerca della verità richiede piuttosto un metodo e questo, a sua volta, richiede un ragionamento che ne stia alla base: l’obiettivo non dev’essere convincere le persone, quanto piuttosto cercare di integrarle all’interno del ragionamento che porta ad una verità temporanea. Queste verità sono destinate a mutare perché la ricerca, lo si vede in tutte le branche del sapere, non termina mai: è un processo faticoso che richiede tempo, confronto e dialogo. È questo grado di indeterminatezza che, purtroppo, non soddisfa la sete di certezza e sicurezza di molti.

Coloro che si vogliono rendere indipendenti – o vogliono apparire tali – dai dibattiti tecnici hanno invece un approccio quasi propagandistico, da imbonitori e costruito su una retorica emotiva e una polemica sterile verso chi non la pensa come loro. Sebbene, normalmente, l’uso di termini scientifici e propri della materia denotino una certa competenza, l’uso che ne viene fatto è spesso un uso populista, ben lontano dall’uso divulgativo/informativo: la differenza tra i due approcci riguarda proprio il concetto di verità. Il primo si fa portatore di una “verità rivelata” o assoluta; il secondo di una verità, spiegabile, frutto di un lavoro comune.

«La sfida […] è quella di una dialettica coevolutiva» (G. Bocchi, M. Ceruti, Educazione e Globalizzazione, 2004), un obiettivo a lungo termine che si costruisce sulla nostra educazione al confronto e alla critica, contrastando con la cultura individuale i continui tentativi di manipolazione. Il vero soggetto responsabile è il soggetto relazionale, colui che si pone in rapporto con l’altro, che ascolta e cerca di produrre valide opinioni: egli, scegliendo consapevolmente di assumersi la responsabilità d’opinione di fronte agli altri, riscopre la propria, vera libertà; una libertà relativa e condivisa con il resto della comunità. Una libertà sociale per il bene di tutti.

Ancora una volta la sola speranza siamo noi.

 

Matteo Astolfi

 

NOTE
1. Traslitterazione del greco δόξα; significa in genere «opinione, credenza».

2. Identificati da enti reali (governi, aziende multinazionali) o immaginari (gruppi di potenti satanisti, massoni pedofili).

[Photo credit Austin Distel via Unsplash]

copertina-abbonamento-2020-ultima

“Anima Mundi” di Susanna Tamaro: una vita in fiamme alla ricerca del sé

Walter vive border line, sulla soglia di un confine, come il Nord-est da cui proviene. Il suo procedere – quello del mercurio, per natura instabile e in costante (disordinato) movimento – è animato fin dalla nascita da continue domande.

Fuoco, terra e vento sono gli elementi che Walter attraversa nel suo cammino interiore. Fuoco è la voce dell’amico Andrea, Virgilio che gli infonde l’energia necessaria a cercare risposta ai grandi “perché” che combattono nella sua mente.
Terra è il suolo di Roma dove Walter si trasferisce. Illusione di un paradiso che in verità è campo minato su cui lui diventa giullare al servizio di maschere ambulanti.
Vento è l’incontro con una suora che, prima di morire, insinua nella sua coscienza una nuova ispirazione e lo spinge a far luce nell’oscurità che si contorce dentro di lui.

Queste sono le tre fasi che, secondo la tradizione cinese, si alternano in quel percorso che si chiama vita. «Un tempo per crescere, un tempo per sperimentare la precaria seduttività del mondo e un tempo per approdare all’essenza profonda delle cose» (S. Tamaro, Anima Mundi, 1997).

Poi, l’acqua. Brodo primordiale in cui le molecole di amminoacidi hanno continuato a modificarsi finché la vita è comparsa. Quando, cioè, un batterio ha permesso a questi esseri unicellulari di respirare. Ed è proprio da questa immensa pozza che le intuizioni silenti di Walter, con un movimento progressivo di emersione, prendono voce. E lo portano a capire che «la vita non è fatta per costruire, ma per seminare» (ivi). E seminare significa porre attenzione.

Fuggito dal silenzio di una famiglia che gli aveva lasciato in eredità un insostenibile senso di vuoto, Walter è stato privato di un’infanzia di attenzioni.
Una madre sorda all’affetto e un padre rinchiuso nel silenzio violento dell’alcolismo gli hanno negato un dialogo in grado di accompagnarlo alla comprensione di sé e del mondo che lo circondava. Senza nessun filtro preposto a proteggerlo, Walter non ha potuto volare sulle ali dell’idealismo e dell’entusiasmo, validi compagni in quel viaggio complesso che è l’adolescenza.

L’incendio giovanile del protagonista di Anima Mundi, tra passi incerti, illusioni d’amore e parole mai dette tocca l’apice nella prematura scoperta della precarietà delle cose. La sua fuga dalla realtà e da sé stesso prosegue fino a quando capisce che per fuggire bisogna essere inseguiti. Ma alle spalle di Walter, diventato un orfano trentenne, ci sono solo fantasmi. «E chi sfugge ai fantasmi corre incontro alla follia» (ivi).

«C’erano quattro croci dietro di me, la croce di mia madre, quella di mio padre, la croce di Andrea e quella della mia ambizione. Stavano tutte sepolte sotto uno spesso strato di terra […]. Ormai sapevo che tutte le mie azioni erano state soltanto reazioni, tutti i movimenti che avevo compiuto li avevo compiuti in contrasto alla volontà di altri» (ivi).

Il percorso di Walter nell’Anima Mundi, cioè nel respiro del mondo che muove e fa vivere le cose, è un processo che cerca di scardinare due grandi tabù della contemporaneità: quello dell’aggressività e quello dei sentimenti.

«Nessuno vuole ammettere di covare all’interno di sé una parte violenta. E invece noi tutti siamo aggressivi, c’è in noi una zona nera che non conosciamo ancora e che è molta pericolosa» (S. Tamaro, Il respiro quieto, 1996).

Negare l’esistenza dell’aggressività, suggerisce la Tamaro, può portarci alle catastrofi.

«Questo è il grande problema, perché l’aggressività fa parte di noi, una forza vitale che ci appartiene come mammiferi, come parte del regno animale. Bisogna dunque trovare il modo di incanalare questa aggressività, di trasformarla, invece di negarla o reprimerla» (ivi).

L’aggressività celata e disconosciuta nasce da un processo a catena che trova origine nell’assenza della parola. Da questa deriva una mancanza di comunicazione, che a sua volta dipende dall’incapacità di guardarsi dentro. Ma se non ci si guarda dentro, e quindi non si può comunicare, allora la tensione naturale è quella alla sopraffazione.
Allo stesso modo, i sentimenti spaventano e vengono tenuti silenti, probabilmente per il carico di energia che richiedono (e che possono liberare). D’altra parte affrontarli, viverli, richiede forza. Impegno. Vulnerabilità. Nudità. Coraggio.
Privarsene, invece, significa vivere “in tono minore”. Significa vivere per la fuga. Una fuga di sé stessi da sé stessi.

 

Riccardo Liguori

 

[Photo credit Tegan Mierle via Unsplash]

copabb2019_ott

Uomini camaleontici: uno sguardo sul cambiamento

Capita spesso che nelle storie venga usata la fenice come metafora del cambiamento e della rinascita personale: giunta alla fine della propria esistenza, essa muore in un turbinio fiammeggiante lasciando nient’altro che cenere, dalla quale risorge come un piccolo pulcino pronto a nuova vita. In tutto questo, con pronta polemica, voglio spezzare una lancia a favore di un altro esempio assai più realistico; un esempio di rinnovamento continuo, momento dopo momento: il camaleonte.
Questa piccola bestiola, citata dallo stesso Aristotele nella propria Historia animalium, è un animale estremamente filosofico. La sua esistenza, infatti, pare voler rispondere al celebre interrogativo: è possibile cambiare ed essere contemporaneamente se stessi?

La storia di questa domanda è molto lunga, parte da Parmenide e giunge fino ai giorni nostri con le più recenti teorie pedagogiche e formative; il nostro amico Camaleonte tuttavia, rimanendo fuori dal “coro degli umani” e per semplice statuto di esistenza, risponde “Si!”.

Noi sappiamo bene quanto i cambiamenti, piccoli e grandi, possano essere traumatici: richiedono quella che noi solitamente definiamo “mentalità flessibile”, capace di adattarsi al contesto e alle persone. Più riusciamo a combattere la cementificazione del nostro pensiero, più riusciamo ad essere, come precisava Bruce Lee, “acqua che si adegua alle cose, che può fluire o spezzare”. Una delle nostre resistenze più frequenti è imposta dalla paura di snaturalizzarci: ognuno di noi teme di perdere letteralmente pezzi di sé, della propria identità, un prezzo che non si è disposti a pagare per adattarsi alle situazioni e alle persone. Le emozioni giocano palesemente un ruolo fondamentale poiché si manifestano a tutti gli effetti come dei pensieri/giudizi che influenzano (o traducono) il Mondo che viviamo: esse sono capaci di rinchiuderci dentro un autarchico immobilismo o di gettarci in un mondo complesso fatto di relazioni e mutamenti. Il nostro camaleontico amico, famoso per le sue tecniche di variazione cromatica e avvezzo tanto quanto noi all’utilizzo dei colori per rappresentare il proprio stato d’animo, ci ricorda quanto sia perfettamente naturale mettersi in gioco: un diritto che Madre Natura ha dato a lui tanto quanto a noi e che non andrebbe mai tradito.

Aristotele, in fondo, sbagliava nel definirlo un animale timoroso: è vero, lui non ha certo il dono della parola, ma ha un modo fin troppo chiaro di comunicare e relazionarsi. Già, comunicare: è proprio questo il nostro problema. A volte noi scegliamo di non farlo, anzi, nascondiamo alcune nostre emozioni e giudizi dietro veli di forzata nonchalance un po’ come se volessimo “eliminare alcuni nostri colori”. Domandiamoci un attimo: possiamo davvero farlo? Possiamo diventare invisibili? Senza voler entrare nel merito della psicologia, dovremmo ricordarci semplicemente che evitare un problema significa non affrontarlo1. Aspirare a non vivere le emozioni è come cercare di capire quale sia veramente il colore del Camaleonte. Ahimè, non è dato saperlo! Tutto ciò che noi vediamo è il continuo adattamento di questo piccolo animale a ciò che gli sta intorno, grazie alla stimolazione cerebrale dei cromatofori e dell’incidenza dei raggi solari sugli iridofori sottocutanei: cambiamento che, come abbiamo già detto, non è limitato al solo fine della difesa. La cromaticità del camaleonte è rivolta a ciò che viene attenzionato in quel preciso istante, esattamente come noi manifestiamo un flusso costante di emotività che si manifesta come un giudizio (cioè un atto di pensiero) verso il mondo. Noi non siamo una semplice tela bianca dove gettare ogni tanto le nostre secchiate di vernice emotiva: siamo un continuo riflesso del mondo circostante, un filtro emotivo.

Esclusi alcuni casi psicologicamente rilevanti, non possiamo essere privi di emozioni: ricordate che il Camaleonte diventa nero, il “colore che assorbe tutti i colori”, solo con la propria morte. Come lui, accettiamo quindi di essere vivi e “colorati”, impariamo a relazionarci con più naturalezza possibile: ricordiamoci che il mondo dove viviamo non è come la foresta pluviale, dove ogni errore costa caro. Certo, non è facile, ma il guadagno della società civile sta nel fatto che tutto sommato possiamo (e dobbiamo) sbagliare2. Al contrario del nostro Leone Nano3, infatti, a noi sono concesse numerose possibilità di adattamento senza il rischio di essere mangiati, o essere banditi per sempre dal nostro territorio né tantomeno essere privati del cibo. La Ragionevolezza di cui ci facciamo portatori ci consente di percorrere una strada decisamente più ampia rispetto alla semplice Legge della Giungla. Anche se le relazioni umane possono essere estremamente più complesse, se mai ci arrendessimo all’angoscia e alla nostra temporanea incapacità di metterci in gioco ci priveremmo da soli del nostro autentico benessere, il cibo della nostra mente.

Gli uomini camaleontici, quindi, non sono quelli che si adattano solo per paura ma, al contrario, sono piccoli “grandi leoni” che si muovono in una giungla fatta di persone, fatti e avvenimenti che suscitano paura, rabbia, felicità, tristezza, ansia, e quindi si nascondono, litigano, si innamorano e si disperano. Gli uomini camaleontici si guardano perennemente intorno muovendosi tra le foglie con la calma di un guerriero preparato alla battaglia: usano i propri “colori” per ottenere i propri scopi e vivere le proprie esperienze. A volte perdono, a volte vincono, cambiano la propria strada e le proprie strategie.
E godono nel saper cambiare e generare se stessi, rimanendo se stessi.4

 

Matteo Astolfi

 

NOTE
1. La pratica e l’esperienza sono il nodo centrale di noi stessi. Nel Libro del fuoco (M. Musashi, Il libro dei cinque anelli, Ubaldini 2004) viene descritta la tecnica nota come “Rinnovarsi”, il modo per uscire da una situazione in cui siamo ingarbugliati senza rimedio. Rinnovarsi significa non modificare le circostanze, bensì il nostro spirito, e vincere adottando una tecnica diversa.

2. «Senza toccare con mano l’acqua e il fuoco, non si può dire di conoscerli davvero. Anche il fatto di spiegare un libro no può fa sì che so venga compreso. Il cibo può essere minuziosamente definito, ma non è così che si sazia la fame. […] Molti studiano, ma non comprendono la mente. Essi non possiedono una buona disposizione d’animo.»  Takuan Soho, La mente senza catene, Edizioni Mediterranee 2010, p. 35.
3. Chamaeleonidae, dal greco χαμαιλέων.
4. «[…] il sistema è un processo generativo continuo; […] l’attenzione va concentrata sugli effetti che il movimento evolutivo produce sulle sue stesse componenti. Il nuovo, cioè, è sempre altro dagli elementi che l’hanno generato, per questo la continuità va ricercata in quella di sistema. […] il processo generativo non coinvolge soltanto i vari elementi e le forze del sistema, ma il sistema stessoche, ad un certo punto, collassando, genera a sua volta una nuova matrice da cui scaturisce un nuovo sistema.» da Luca Toschi, La comunicazione generativa, Apogeo 2011, pp. 133-138.

[Photo credit Gareth Newstead  via Unsplash]

banner 2019

Il vero motivo per cui l’ecologismo-ambientalismo fallisce

Rimango sempre sorpreso quando parlo con qualcuno dell’ambiente e delle cosiddette crisi che lo riguardano. Penso sia un dato percettivo comune quello di essere colpiti da quanta poca curiosità suscitino nelle altre persone queste tematiche, sempre che si possegga una sensibilità tale da permettere il sorgere di queste riflessioni. Ma non è questo ciò che mi sorprende. O meglio, ciò che mi sorprende è la causa del disinteresse comune nei confronti di quelle questioni.

Se volgiamo il nostro sguardo alle più grandi campagne di sensibilizzazione ambientale o alle semplici dissertazioni di un qualsiasi ecologista ci rendiamo immediatamente conto di come la tecnica argomentativa sia miseramente fallace. “Salviamo il pianeta”, “Difendiamo l’ambiente”, “Aiutiamo il mondo”. Tutti slogan condivisibili ma inutili, perché presuppongono qualcosa che non si può far finta di non accorgersi mancare se non in tutti almeno in molti: la sorgente empatica.

Si fa presto a dire che l’empatia sia assente nelle persone ma ciò che è necessario fare è chiedersi il perché di questo difetto. Io credo che l’empatia sia connaturata all’uomo; questo significa che ognuno la prova, dal medico volontario in Africa al comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Ciò che è diverso nelle persone, quindi, non è tanto il fatto di provare o meno empatia ma la situazione in cui scatta questo meccanismo.
Cos’è l’empatia? Cerchiamo su Google: Wikipedia sentenzia che è la «capacità di comprendere appieno lo stato d’animo altrui», definizione deludente. Treccani già si dà più da fare: «Capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro». Ma è – a sorpresa – il dizionario di Google a cogliere meglio la questione: «In psicologia, la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona, con nessuna o scarsa partecipazione emotiva». Da questa definizione possiamo ricavare due lezioni. Innanzitutto il fatto che colui verso il quale possiamo provare empatia non è un generico “altro” ma «un’altra persona»; in secondo luogo, il fatto che provarla non significa automaticamente mettere in gioco dei sentimenti o delle emozioni.
Colleghiamo ora tutto ciò con la nostra questione.

Per quel che riguarda la prima lezione, pensare di coinvolgere chiunque attraverso l’empatia nei confronti di qualcosa senza trasformare questo qualcosa in un qualcuno, crea una situazione nella quale si richiede uno sforzo al destinatario del messaggio che non tutti sono disposti o in grado di fare.
Per la seconda, anche se quello primo step funzionasse, non si è ancora coinvolto emotivamente l’interlocuture, ma lo si è solamente interessato alla questione. Perché all’empatia segua un movimento emotivo di “avvicinamento” credo sia necessaria l’educazione.

Combiniamo ora le due: credere di riuscire a coinvolgere qualcuno facendo provare “pena” nei confronti di qualcosa ottiene l’esatto opposto: il totale disinteresse.

Ma non è ancora questo ciò che mi sorprende. Se scaviamo ancora più a fondo possiamo raggiungere quello che è il punto nevralgico della questione: l’egoismo. Non siamo abbastanza egoisti.
Potrebbe sembrare una frase paradossale e provocatoria ma non è assolutamente così. A ben guardare, infatti, ogni tentativo di salvare il pianeta, l’ambiente, il mondo altro non è che un tentativo – in ultima istanza – di cercare di mettere in salvo la nostra pellaccia. Ed è proprio su questo perno che bisogna far leva. Perché, in realtà, ciò che tutti – tutti – abbiamo a cuore di salvare non è quella particolare specie di animale, di pianta, quella particolare foresta, quel tratto di mare, l’ambiente, il mondo, ma noi stessi.
Inoltre, alla Terra, presa per se stessa, credo che poco importi dei cosiddetti “danni” operati dall’uomo: il pianeta che abitiamo si stima essersi formato circa 4,5 miliardi di anni fa. Ha sopportato – per quello che sappiamo – eruzioni vulcaniche inimmaginabili, piogge di meteoriti, sconvolgimenti superficiali, e non, devastanti; credere che noi possiamo danneggiarlo mi fa sorridere per quanto ci sovrastimiamo: non dobbiamo salvare il mondo, dobbiamo preservare noi stessi.

Rendersi conto che la propria vita è in pericolo: questo sì che ci smuove, purtroppo. Dico purtroppo per un motivo, egoista anche questo. Siamo talmente poco empatici ed educati alle emozioni che nemmeno l’idea di altre persone fa nascere in noi un sentimento di vicinanza e di aiuto. Questo significa che neanche la razza umana può essere un motivo di cambiamento di comportamento, ma neppure i nostri connazionali o il nostro vicino; nemmeno i nostri figli. No, neanche loro: distruggere l’ambiente significa creare condizioni peggiori per le future generazioni ma non mi pare che questo faccia la benché minima differenza.

Dovremmo essere più egoisti in quanto specie. La specie umana dovrebbe essere più egoista e pensare più a se stessa. Non per il rinoceronte, non per la tigre, non per le foreste, non per gli oceani ma per i nostri stessi figli, per noi stessi. Salvare l’ambiente significa salvare noi stessi, togliamo questo adesivo che abbiamo appiccicato sopra la verità e mostriamola! Magari con vergogna (per qualcuno necessariamente con vergogna) ma questa è la realtà. Meno individualismo e più collettivismo; si potrebbe dire meno nazionalismo e più internazionalismo, forse, intendendo con nazionalismo un singolo Individuo nazionale; ma questa è un’altra storia.

Ultimo appunto: fortunatamente, altre specie possono beneficiare di queste considerazioni, se messe in pratica. Questa è un una cosa fantastica – che ci dice molto su quanto la natura sia collegata tra le sue parti – che io personalmente valorizzo enormemente. Anzi, qualcuno potrebbe addirittura agire per altro oltre che per l’uomo ma non possiamo pretendere che la maggior parte agisca in questo modo. Non con questa società. Non con questi ideali. Non in questo tempo.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Photo credit qinghill]

cop_06

Autocontrollo e compassione, pensieri ed emozioni

Imparare a gestire il rapporto tra la vita emotiva e l’intelligenza come chiave per un futuro migliore

 

È nelle tue mani.

Si conclude così il nuovo spot della Huawei, la casa cinese produttrice di smartphone: una frase che appare in dissolvenza nella parte conclusiva del filmato, proprio mentre il ragazzo protagonista del racconto sale sulla sua bici e se ne va, decidendo di tenere nascosta al mondo la dolce e misteriosa creatura incontrata nella foresta.

Lo spot, che in pochissimo tempo è diventato virale, tocca non poche tematiche più che mai “scottanti” per la società di oggi, prima tra tutte la responsabilità dell’azione, ma ancora di più direi l’autocontrollo delle proprie emozioni, un autocontrollo che permetta di dare la giusta direzione alle nostre emozioni, trasformandole in una forza costruttrice e non distruttrice.

Un ragazzino intento ad andare in bici si ferma in un bosco, attirato dal rumore di qualcosa che si muove nell’erba alta. Trova un animaletto mai visto prima e decide di fotografarlo con il suo Huawei. In un attimo si trova a fantasticare sul futuro che lo aspetterà dopo la condivisione sui social: fama, successo, interviste… fino a quando l’animaletto non sarà ridotto a una mera attrazione da circo e imprigionato in una gabbia. A questo punto il ragazzo torna in sé e prende una decisione: elimina la foto. Autocontrolla l’emozione che lo avrebbe spinto a divulgare l’immagine della creatura, diventare famoso nel mondo e quindi trarre un vantaggio personale.

Un tema di cui parlava già Aristotele nell’Etica Nicomachea: la sfida lanciata dal filosofo era quella di dosare bene la vita emotiva con l’intelligenza.  Le passioni, le emozioni, se bene esercitate, hanno una loro saggezza: guidano il nostro pensiero, i nostri valori, la nostra stessa sopravvivenza. Esse possono tuttavia facilmente “impazzire” e questo oggi, purtroppo, accade fin troppo spesso.

Come aveva capito bene Aristotele, il problema non risiede nello stato d’animo in sé, ma nell’appropriatezza dell’emozione e della sua espressione.

Dice infatti Aristotele nell’Etica Nicomachea1: «colui quindi che si adira per ciò che deve e con chi deve, e inoltre come, quando e per quanto tempo si deve, può essere lodato».

Potremmo dire, in altre parole, che la chiave di tutto è nel saper portare l’intelligenza nelle nostre emozioni, e quindi di conseguenza la civiltà nelle nostre strade e la premura per l’altro nelle nostre relazioni: avere autocontrollo e compassione, due aspetti che nella società di oggi sono sempre più rari. Ne parla a lungo Daniel Goleman, collaboratore scientifico del New York Times e insegnante di psicologia ad Harvard, nel suo libro Intelligenza emotiva, dove si legge: «se esistono due atteggiamenti morali dei quali i nostri tempi hanno grande bisogno, quelli sono proprio l’autocontrollo e la compassione»2.

Goleman scrive il libro nel 1995, in un momento in cui la società civile americana si dibatteva in una crisi profonda, caratterizzata da un netto aumento di crimini violenti, suicidi e abuso di droghe.

Anche nel nostro paese, oggi, la società mostra alcuni segni iniziali tipici di una crisi simile a quella americana: un’alienazione sociale e una disperazione individuale che se non controllati, potrebbero portare a lacerazioni più profonde del tessuto sociale. Una società che è sempre più individualista e che porta a una sempre minore disponibilità alla solidarietà e ad una maggiore competitività.

«Il mio consiglio per guarire questi mali» scrive Goleman nella prefazione al libro, «è prestare una maggiore attenzione alla competenza sociale ed emozionale nostra e dei nostri figli e di coltivare con grande impegno queste abilità del cuore»3.

Diventare quindi più consapevoli e aperti verso le nostre emozioni, saperle gestire, saperle riconoscere: una maggiore autoconsapevolezza come chiave per diventare più abili a leggere i sentimenti altrui e per sviluppare le radici dell’empatia.

Goleman dedica un capitolo intero del suo libro a questa capacità emotiva4, che entra in gioco in moltissime situazioni, da quelle tipiche della vita professionale a quelle della vita privata, o ancora nella compassione e nella vita politica.

Potremo chiederci: come si sviluppa l’empatia? Si impara da piccoli? Ce la insegnano?

Secondo lo studio dello psichiatra Daniel Stern, riportato nel libro di Goleman, le fondamenta dell’empatia, così come della vita emozionale, sono poste nei primi tre mesi di vita del bambino, nei momenti di grande intimità con il genitore. Di tutti questi istanti, i più critici sono quelli che consentono al bambino di sapere che le sue emozioni incontrano l’empatia dell’altro, sono accettate e ricambiate, in un processo che Stern chiama attunement, ovvero sintonizzazione5.

Attraverso la sintonizzazione le madri comunicano ai figli di percepire i loro sentimenti.

In definitiva tutto questo testimonia quanto sia importante per ognuno di noi, ma in generale per la società, essere capaci di gestire la vita emotiva, ma ancor prima di riconoscere le nostre emozioni e di farle essere parte in causa di ogni nostra decisione e scelta.

Ben guidata l’emozione è un motore potente, che permette ad ognuno di noi di costruire futuri migliori, anziché distruggerli.

 

Martina Notari

Ciao,
Mi chiamo Martina, ho 34 anni e sono giornalista professionista dal 2011.
Dal 2008 lavoro come redattrice a Tvl, storica tv di respiro locale e regionale, ma sono anche giornalista free lance e fondatrice di Target, agenzia che si occupa di comunicazione a 360 gradi.
Mi sono diplomata nel 2002 al Liceo Classico Niccolò Forteguerri di Pistoia, proseguendo gli studi universitari a Pisa. Iscritta alla Facoltà di Filosofia, la materia di cui mi ero innamorata negli anni di liceo, mi sono laureata con lode in Filosofia del Rinascimento nel dicembre del 2007.
Abito a Pistoia con la mia famiglia e nel tempo libero coltivo le mie passioni: la filosofia, la lettura, la medicina naturale e lo yoga, lo sport, le camminate nel verde e nella natura.

 

NOTE 
1. Aristotele, Etica Nicomachea, editori Laterza, traduzione italiana di Armando Plebe, Bari 1973
2. D. Goleman, Intelligenza Emotiva, edizione Best Bur, gennaio 2018, p. 14
3. Ivi, prefazione
4. Ivi, p. 165
5. D. Stern, The interpersonal World of Infant, Basic Books, New York 1987, p. 30

Per chi non l’avesse visto, qui trovate il video dello spot in questione.

 

[Photo credit Mink Mingle su Unsplash.com]

Comunque andare

<p>grungy heart beat</p>

Ero vicino a te. Sì, proprio vicino a te, seduta su quella poltroncina azzurra con  lo schienale e i braccioli consumati dal tempo. Stanza 23. Armadietto 04. Proprio come il giorno della mia nascita.
Sapevo che non ti saresti dimenticato quei numeri.
Il 23 aprile di molti anni prima mi tenevi tra le tue braccia, e il tuo cuore batteva con il mio. Ce l’hai scritta nella tua agendina di pelle nera quella data; quell’agendina che tieni custodita nel cassetto del comodino al lato sinistro del letto e che ripesco, per caso, 25 anni dopo.

Ero vicino a te. Reparto di cardiochirurgia dell’ospedale Ca’ Foncello di Treviso.
Ormai lo conoscevo a memoria, sai? Malgrado il mio pessimo senso dell’orientamento, sapevo bene che percorso fare per raggiungerti. Quello più corto, dall’ingresso laterale. No, nonno, non lo facevo di corsa. Cioè, sì. Talvolta mi è capitato di correre per arrivare prima da te. Correvo, sfiorando chiunque mi capitasse di fianco. Correvo, anche se sapevo che da lì non ti saresti mosso. Ad ogni passo percorso, ero più vicina al tuo cuore.
Lo prometto nonno, non lo rifarò più.

Ero vicino a te. Ma tu non mi sentivi. Mi avvicinavo con delicatezza al tuo corpo così fragile. Sentivo il debole battito del tuo cuore. Gli occhi chiusi e stanchi. Ma eri sempre tu. Tu che mi leggevi Pinocchio. Tu che ti facevi pettinare i capelli. Tu che giocavi a carte e facevi finta di niente quando volevo vincere a tutti i costi. Tu che mi portavi con il motorino fino a scuola. Tu che ascoltavi il mio cuoricino battere e ripetevi sottovoce quel “tu-tu”.

Ora sono io a chinarmi per ascoltare quella musica. Ed ho paura. Paura che possa fermarsi, inghiottendo tutti i ricordi e le parole, le carezze e la tua presenza.

Tu-tu. Tu-tu. Il mio cuore con il tuo. Sempre.

Non è facile capire per quali ragioni l’organo cardiaco sia stato associato, nel corso della storia, al profondo universo delle emozioni.
Luogo della memoria e dei ricordi, il cuore è comunemente considerato all’origine dei nostri sentimenti e organo-fondatore della nostra identità.
È necessario tuttavia specificare che questo ruolo centrale fu assegnato al cuore battente solo dopo alcuni secoli. Lungi dall’essere considerato il vivo della vita biologica, psichica, e pulsionale, Sumeri, Assiri e Babilonesi fondarono lo studio del corpo umano su un sistema di tipo ematocentrico.
Inoltre, durante lo stesso fiorire delle civiltà mesopotamiche, in Grecia, Alcmeone di Crotone realizzò i suoi studi di medicina appoggiandosi sul modello egemonico dell’encefalocentrismo, in seno al quale, grazie alle ricerche pratiche condotte dal filosofo e medico greco, il cervello incominciò a rappresentare la sede della congiunzione delle diverse forme di sensazione.
Solo all’interno del Corpus hippocraticum, e più precisamente nel suo Perì Kardies, Ippocrate fornirà le prime osservazioni scientifiche circa la composizione dell’organo cardiaco, attribuendogli un valore centrale in quanto “fuoco innato” che permette al sangue di realizzare, attraverso il calore, il suo circolo.
Gli stessi studi ippocratici furono successivamente rivisitati da Galeno il quale, affermando che la centralità della vita consisteva nel pneuma, cioè nell’aria, o meglio nello spirito, fece del cuore l’organo per eccellenza in quanto sede al contempo della vita fisico-biologica e di quella psichica.

Situato al centro della cavità toracica, fra i due polmoni, dietro lo sterno e appoggiato sul diaframma che lo divide dalle viscere sottostanti, il cuore non è unicamente l’ammasso di cellule del miocardio, necessarie, d’altro canto, per la sua stessa contrazione.

Ciò ci viene suggerito dalla sua stessa origine etimologica. Infatti, il termine “cuore” deriva da un lato, dal latino cor-cordis, richiamante la radice indoeuropea kor avente, nel caso specifico, il significato di “vibrare”, “battere”, e dall’altro, dal greco cardia che proverrebbe dall’antico accadico karsu con il significato di “organo interno”, “viscere come sede delle passioni”, “animo”, “intelligenza”.
L’origine della parola ci permette perciò di riflettere sul significato culturale e psicologico del cuore.

Batticuore. A malincuore. Strappacuore.
Par coeur. By heart.

Sono precise le circostanze nel corso delle quali utilizziamo spontaneamente queste parole.
Ben lontano dall’essere considerato unicamente un organo-pompa per l’attivazione dell’organismo-macchina, il cuore richiama, per così dire naturalmente, il mondo delle emozioni. È forse questa solo una costruzione socio-culturale impastata di luoghi comuni oppure l’organo cardiaco può rivelarsi effettivamente custode della nostra identità emotiva?
Il filosofo Jean Luc Nancy, dopo aver ricevuto un “cuore nuovo” disse:

«Dall’avventura si esce perduti. Non ci si riconosce più: ma “riconoscere” non ha più senso. Si diventa, rapidamente, solo un ondeggiamento, una sospensione di estraneità fra stati non ben identificati, fra dolori, impotenze, cedimenti. Riferirsi a se stessi è diventato un problema, una difficoltà, un’opacità”.  Un cuore “altro”. Un intruso. Un estraneo. Un perdersi senza mai ritrovarsi. Un’identità in frantumi. Una nuova vita. Un racconto di sé che continua. Un nuovo giorno. Un battito nuovo. Diverso»1.

Ero vicino a te. Sentivo il tuo cuore battere. Era sempre lo stesso. Eri sempre tu. Anche se lì dentro qualcosa era cambiato. Il mio cuore batteva con il tuo. E in fondo, credo, questa musica non ce la toglierà mai nessuno.

Il mio cuore con il tuo.

 

Sara Roggi

 

NOTE:
J.L. NANCY, L’intruso, Edizione Cronopio, 2006, 46 p.

 

banner-pubblicitario-abbonamento-rivista-la-chiave-di-sophia-03-03

L’arte è morta, viva l’arte! La nuova Biennale di Christine Macel

La Biennale d’arte di Venezia giunge quest’anno alla sua 57° edizione, proponendosi da più di un secolo come piattaforma – più o meno riuscita – di riflessione e di indagine, lasciando spazio all’arte di farsi linguaggio di ricerca e critica costruttiva del reale. Chiarisco subito che questo articolo non è una recensione alla Mostra, dato che non ho ancora avuto l’occasione di visitarla, ma vuole offrire una chiave di lettura e spunto di pensiero per chi poi deciderà di recarsi alla Biennale e farsi un’opinione propria.

biennale2017_chiavesophia

La mia riflessione ha inizio dalle parole di Christine Macel (a partire dall’interessante intervista su Artribune), che ha curato la Mostra Internazionale di quest’anno con il titolo Viva Arte Viva. All’esposizione internazionale si accompagnano poi le 68 partecipazioni nazionali, ognuna con la propria curatela indipendente.

Christine Macel ha voluto in primo luogo centrare l’attenzione sull’atto creativo dell’artista, un po’ demiurgo, un po’ alchimista della materia. Isolando l’arte da una finalità sociale e politica, l’accento è stato posto sul suo valore assoluto. Insomma, un ritorno all’arte per l’arte, per una Biennale quest’anno meno sperimentale o politica, e più filosofica.

Può essere difficile comprendere il valore d’indagine di un progetto estetico se questo appare nell’immediato come autoreferenziale: l’artista che parla di se stesso, la forma come linguaggio puro, la materia come soglia di analisi del sensibile.

Eppure è proprio nella quotidianità e nei valori collettivi che la dimensione d’indagine portata avanti da Christine Macel cerca il suo spazio, rivalutando il ruolo del pensiero e della progettazione, ma anche dell’istinto, come parti di un sistema di lettura del contingente. L’arte assume così il ruolo fondamentale di strumento d’immaginazione, perché, citando la curatrice, «per costruire il domani esso deve essere innanzitutto immaginato».

La Mostra si sviluppa dunque intorno ad una visione umanistica, intendendo con questo termine la capacità di riconciliare le diverse dimensioni dell’uomo e riconoscendo alle emozioni un ruolo fondamentale. Così la ragione è il processo mentale che deve seguire all’esperienza fisica ed emotiva.

Per Christine Macel l’arte è lo strumento più indicato per vivere la realtà in modo globale, secondo un’estetica idealista vicina al pensiero di Schelling, per cui l’esperienza artistica avvicina l’uomo all’assoluto. Dove il sentimento insieme all’immaginazione offrono un’alternativa al quotidiano e segnano la direzione per reinventare le nostre vite. L’arte diventa così «atto di resistenza, di liberazione e di generosità».

Riprendendo le parole della curatrice:

«L’arte di oggi, di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo, testimonia la parte più preziosa dell’umanità, in un momento in cui l’umanesimo è messo in pericolo […] È l’ultimo baluardo, un giardino da coltivare al di là delle mode e degli interessi specifici e rappresenta anche un’alternativa all’individualismo e all’indifferenza».

L’emozione va svelata e lasciata libera di esprimersi, diventando così un modo di conoscere alternativo alla mimesi. Si tratta di un ritorno all’istinto, perché nel mondo attuale, a quanto pare, l’atteggiamento puramente razionale non è più in grado di trovare le risposte e di proporre soluzioni. L’artista deve invece essere capace di reinventare la vita tutti i giorni.

Questa posizione tende però spesso a dimenticare un livello molto importante del fare artistico, ovvero quello di lettura. Nel processo creativo centrato sul soggettivismo, il più delle volte si offre al pubblico un messaggio criptico e di difficile comprensione. È pur vero che secondo un’estetica dell’idealismo la comunicazione è subordinata all’energia creativa, e l’opera d’arte assume valore per la sua stessa essenza, mentre la riflessione è solo una conseguenza accidentale. Bisogna poi vedere se un discorso di questo tipo funziona in relazione ad un evento come quello della Biennale, ricordiamo che la Macel per formazione professionale è infatti legata allo spazio museale (come prima curatrice del Centre Pompidou di Parigi).

Si può spostare l’analisi sul piano prettamente formale, per cui i diversi linguaggi artistici vengono indagati nella loro evoluzione storica, tra potenzialità e limiti. Un livello di lettura senz’altro interessante, che soddisferebbe soprattutto chi dell’arte ne ha fatto un mestiere, ma anche gli appassionati più attenti. Nel caso di questa Biennale tale direzione forse non è stata approfondita abbastanza, mancando, per esempio, una riflessione sul ritorno di questi tempi al pittorico e alla figurazione.

Christine Macel ha invece preferito un approccio più didattico creando un percorso narrativo attraverso i nove trans-padiglioni (e qui forse emerge un’eccessiva intenzione didascalica), che guidano il visitatore in un vero e proprio viaggio nel fare artistico. Ma la curatrice ha reso ben evidente la sua volontà di instaurare un dialogo costruttivo tra artisti e pubblico, attraverso due progetti del tutto innovativi in Biennale: il primo, Tavola aperta, prevede due volte a settimana la possibilità per il pubblico di partecipare ad un pranzo con un artista ospite (il tutto trasmesso in streaming sul sito della Biennale); il secondo, Pratiche d’artista, raccoglie una serie di brevi video realizzati dagli artisti per scoprire al pubblico la loro poetica e metodologia di lavoro.

Una scelta che trovo molto interessante e che rappresenta un passo avanti verso un’estetica dell’emozione – se così si può dire – più concreta e attiva, aperta alla partecipazione.

labiennale_lee_mingwei_la-chiave-di-sophia

Forse oggi mancano le avanguardie, i movimenti più politici e concettuali, che sebbene non siano stati in grado di cambiare il mondo, avevano comunque qualcosa da dire. E si assiste invece ad uno stato di apatia e dormiveglia nel mondo dell’arte. Ma l’arte non è morta, è solo giunto il momento per lei di riflettere su se stessa e capire come instaurare una maggior complicità con il pubblico. E forse è proprio quest’ultimo attore il potenziale fautore del cambiamento, in grado con la sua partecipazione di dare nuova vita all’arte, di stimolarla alla creazione e all’immaginazione di nuovi mondi, in una funzione più sociale e innovativa. Questo credo sia il punto centrale della riflessione della Macel, che propone una Mostra più laboratoriale. Insomma, nello stato caotico dell’arte contemporanea, credo debba essere comunque premiata la coerenza programmatica e di pensiero.

Poi, se l’arte è ancora in grado di dirci – e darci – qualcosa, resta certamente una domanda aperta, anche in questa Biennale. A ognuno la libertà di cercare le sue risposte.

Claudia Carbonari

[Immagini Courtesy of La Biennale]

 

banner-pubblicitario_abbonamento-rivista_la-chiave-di-sophia_-filosofia