A tu per tu con la Schadenfreude, la gioia per le disgrazie altrui (I parte)

Il fremito di piacere per il fallo di un collega che non ci degna della sua attenzione. La soddisfazione per l’errore di un nostro superiore magari più promettente di noi. La gioia per i deragliamenti amorosi dei nostri ex.
I tedeschi, ottimizzando spazio e tempo, hanno confinato tale emozione a una singola parola: Schadenfreude. Un termine composto da Schaden, danno, e Freude, gioia. Significa provare piacere della sfortuna altrui. Un senso di appagamento che, negli ultimi anni, è stato al centro di numerosi studi di carattere socio-psicologico.
Si tratta di un’emozione che quasi mai riconduciamo a noi ma che, a ben guardare, si aggira sempre più prepotente nella nostra quotidianità.

Secondo Nietzsche era la «vendetta dell’impotente» (M. Ire, Nietzsche’s Schadenfreude, 2013). Schopenhauer, se possibile, ci andava ancora più pesante definendola «l’indizio più infallibile di un cuore profondamente cattivo»; di più, un cuore che andava interdetto dalla società (T.W. Smith, Schadenfreude, 2019).

Spesso la identifichiamo con la giustizia divina, la vendetta del karma. Con il cosmo che, finalmente consapevole di sé e del nostro infinito, puro e prorompente splendore, sembra punire chi “se lo merita”, cioè gli altri, ovviamente. Magari chi, fino a quel momento, aveva portato avanti una condotta invidiabile e che poi, come è naturale e possibile, è caduto in difetto.

La Schadenfreude è il sollievo di non essere chi incappa in qualche pesante figuraccia. La gioia di vedere che chi ci sta di fronte non è perfetto. La gratitudine di trovarsi in disparte, lontani da tanta imperfezione, giacendo in un stato di eterna passività. È quel lampo di soddisfazione negli occhi che le parole cercano di contraddire. D’altra parte, «La sfortuna degli altri è dolce come il miele», suggerisce un antico proverbio giapponese.
Pare, però, che specialmente le persone con bassa autostima siano più tendenti alla Schadenfreude rispetto a quelle con una buona auto-reputazione. Di più, mentre le prime possono sguazzare in questa gioia in modo inconsueto, le seconde potrebbero, prima o poi, vergognarsene e così, finalmente, volerla spegnere.

La parola è stata inventata dallo psicologo olandese Wilco van Dijk ma già Aristotele ne faceva uso affidandosi al termine greco epikairekakia (ἐπιχαιρεκακία) da epikàiro (ἐπιχαίρω) “rallegrarsi” e kakìa (κακία) “cattiveria” o “malevolenza”: il significato era sempre quello.
Lo psicologo, nel corso degli anni, si è impegnato a studiare questo sentimento come sensazione di disagio e di dolore provocato dalla delusione che l’altro stia meglio di noi, incapaci di condividere il suo benessere.
Molto dipende dal confronto sociale. Cioè dalla teoria per cui le persone non si auto-valutano tramite le loro abilità bensì tramite, appunto, il confronto con gli altri. E il confronto influisce profondamente su alcuni dei più importanti bisogni di una persona, come l’autostima, l’autocontrollo, la realizzazione e l’accettazione, come suggerisce la teoria della piramide dei bisogni che lo psicologo Abraham Maslow propose nel 1954.

La Schadenfreude può imporsi in ognuno di noi, con diverse intensità, dando ancor più forza alla competizione che domina la società di oggi. Questa teoria è rafforzata dagli studi del professor John Tooby, psicologo evoluzionista dell’Università della California a Santa Barbara. A suo dire, da sempre la mente dell’uomo ha manifestato il bisogno di competere e di affermarsi.

Secondo la psicoterapeuta Grazia Aloi1 sarebbe assolutamente imprescindibile una correlazione tra la Schadenfreude e l’aticofilia – dal greco atuchès (ἄτυχής) “sfortunato” e philía (φιλία) “amore, passione” – che accentua la possibilità di provare piacere per le disgrazie altrui a causa della scarsissima autostima dello spettatore compiaciuto.

«Si tratta di una considerazione di scarsissimo valore di Sé che si riflette nella consolazione (molto spesso errata) che anche il Sé degli altri sia scarso e non degno. Chi gode della sofferenza altrui è innanzitutto una persona insoddisfatta di sé e incapace di guardarsi dentro».

In supporto alla dottoressa Aloi sono arrivate le considerazioni del dottor Hidehiko Takahashi. Proprio lui, grazie ad esperimenti condotti sfruttando la risonanza magnetica funzionale, è riuscito a scoprire che quando si gioisce delle disgrazie altrui viene rilasciata dopamina, che attiva lo strato del «circuito della ricompensa» (H. Takahashi, When your gain is my pain and your pain is my gain).

Il dibattito rimane acceso ma è innegabile che – se è vero che tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo riservato un posto comodo in prima fila per assistere ad un evento tragicomico capitato a un nostro “rivale” – è altrettanto vero che c’è chi in questa emozione si crogiola con grande impegno, spesso. Tra l’altro, raggiungendo risultati olimpici.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE
1. La citazione e le informazioni riferite alla psicologa G. Aloi sono ricavate dal suo blog.

[Photo credit Ashley Juris via Unsplash]

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Alla ricerca della felicità

“Cos’è la felicità?”
Domanda esistenziale, questa, che attanaglia l’uomo da secoli, per non dire millenni. Perché la risposta condiziona ogni singola caratterizzazione dell’agire umano, tanto che la domanda può essere declinata in: “cosa significa essere felici?” e, con una torsione soggettivistica tutt’altro che arbitraria, in: “Sei felice?”

Chiediamoci, allora, se siamo felici.
La risposta può variare in base alla configurazione emozionale del momento: se ci è appena capitato un fatto che ha suscitato gioia in noi la risposta sarà positiva, contrariamente negativa; se, invece, viviamo la quotidianità delle giornate secondo un pendolo che oscilla tra noia e ancora più noia, la risposta sarà di incertezza: un triste e neutro “Non lo so” (ma se è triste, allora non è neutro).

Ma è veramente questo la felicità? Ovvero: può la felicità dipendere da un’emozione – e coincidere dunque, sinteticamente, con la gioia? E la tristezza può essere il contrario di questa identità?

A prima vista la domanda sembra molto banale, poiché è come se ci stessimo domandando, in ultima istanza, se la felicità sia un’emozione. A prima vista, dunque, e istintivamente, la risposta è positiva: ovviamente la felicità è un’emozione. D’altronde, come potrebbe essere diversamente se – scusate la tautologia – provo felicità nei momenti felici e tristezza nei momenti tristi? È proprio questa identità che voglio scardinare, quella tra gioia e felicità.

Se le cose stessero in questo modo, infatti, la nostra ricerca sarebbe immediatamente conclusa e ne risulterebbe una felicità molto frustrata. Essa apparirebbe in quegli istanti isolati nel tempo in cui la nostra routine subisce un arresto da parte di un evento che in quella particolare situazione consideriamo positivamente e – rapida com’è venuta – scomparirebbe non appena quell’evento entrasse a far parte di quella routine che prima aveva sorpreso. Come se la felicità dovesse combattere contro la vita per farsi notare dalla vita stessa e che la sua fosse una guerra persa in partenza, perché la sua unica possibilità sarebbe quella di vincere qualche singola ed isolata battaglia ed entrare, per un istante, nel nostro campo visivo emozionale.

Ora, un passo avanti. Superata questa configurazione, la felicità potrebbe coincidere con la sua ricerca. Come la famosissima ed altrettanto noiosa sentenza che “ciò che conta è il percorso e non il punto d’approdo”. Certo, abbiamo salito un gradino, lasciandoci alle spalle l’idea che l’oggetto della nostra ricerca sia un’emozione solitaria, rara nel tempo, e dipendente da eventi esterni, ma è realmente questo la felicità? Si può esaurire nella sua ricerca, qualsiasi risultato la segua?

La risposta non può che essere negativa. In prima istanza perché, da un punto di vista logico, in questo modo ciò che prima non ci soddisfaceva rientrerebbe dalla porta di servizio, scoprendosi ora come accettabile. Potrebbe esserci qualcuno, infatti, che accetti come risultato una felicità caratterizzata come la prima che abbiamo indagato. In secondo luogo, ritengo che non dare importanza al risultato depotenzi la felicità, perché risulterebbe coincidente ad un movimento eterno, reiterato da ogni uomo e, alla fin fine, senza obiettivo se non quello di coincidere con se stesso.

Di questa seconda posizione, però, non è tutto da buttare, perché ciò che ne emerge ci permette di compiere il passo successivo. La coincidenza con sé è una caratteristica che, dal punto di vista ontologico, potenzia enormemente il soggetto a cui appartiene. Stiamo parlando del principio di identità, quello che – molto banalmente ma non per questo non significativamente – asserisce che A coincida con A.

Ora, qual è la cosa di cui non conosciamo l’obiettivo ma che siamo costretti a compiere, che esaurisce il significato stesso di “essere umano”, che costituisce una domanda che attanaglia l’uomo da secoli, anzi millenni, costituendo una domanda esistenziale e che, alla fin fine, coincide supremamente con se stessa?

La risposta è molto semplicemente la vita, e la vita è il punto d’approdo della nostra ricerca. Felicità, infatti, significa essere vivi. Non nel senso di essere grati per la nostra esistenza, di ergersi a termine di paragone rispetto ad altre vite come se potessimo elevarci a giudici di ciò che nemmeno conosciamo. Questa è la declinazione cristiana della questione. Felicità significa essere vivi nel senso che essa coincide con la vita, in tutto e per tutto. Ciò significa che la tristezza entra nel campo di configurazione della felicità, ma senza contraddirla. Perché la felicità non è un’emozione il cui contrario è la tristezza. Felicità è la vita e la vita contiene anche episodi tristi, e questi non la inficiano perché non possono scalfirla; possono scalfire la gioia, questa sì un’emozione che dipende dagli avvenimenti, ma la felicità è superiore a tutto ciò perché è la condizione di senso ed esistenza di tutto il resto. Se felicità significa vita, infatti, allora è proprio grazie alla felicità che si può essere tristi. È grazie alla felicità che si subiscono delle perdite. È grazie alla felicità che si muore.

Se pensate alla vita, onestamente intesa, accetterete che vive di contraddizioni ed è essa stessa la più grande contraddizione. Domandarsi perché si vive significa domandarsi cosa significhi essere felici. E la risposta, in fondo, è la stessa: si vive perché si è vivi, senza sapere il perché; si è felici perché si è vivi, senza sapere il perché.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Credit Javier Allegue Barros]

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La ‘voce’ come espressione dell’unicità umana

Era il tipo di voce che le orecchie seguono come se ogni parola fosse un arrangiamento di note che non verrà mai più suonato.
(F. Scott Fitzgerald)

La voce rimane sempre in sordina, non viene mai messa in primo piano, tutti ce ne dimentichiamo eppure è il nostro più potente mezzo di comunicazione.

Quanto influisce veramente la voce nella vita di tutti i giorni?

Moltissimo. La voce, o meglio il tono della voce, fa la differenza, perché sottolinea in modo marcato l’efficacia, la credibilità, il ricordo di un messaggio e di chi lo interpreta.

La voce è un “lavoro” complesso di più parti del nostro organismo che si organizzano come un’orchestra e danno vita alla comunicazione più avanzata che l’essere umano abbia. Si pensa addirittura che anche il pensiero sia elaborato dal nostro cervello attraverso i suoni.

La voce è fondamentale in quanto trasmette emozioni e sensazioni differenti ma non deve essere incerta perché il ricevente potrebbe confondere l’intenzionalità del mittente. Questa importanza è ben conosciuta a livello politico dove il carisma si misura soprattutto dal tono della voce che può infondere sicurezza, profondità, prudenza, fascino, andando così ad “identificare” la persona stessa.

In ambito filosofico raramente troviamo riflessioni sull’elemento concreto “voce”, a fronte di innumerevoli ricerche intorno al concetto astratto di Uomo, quando invece possiamo trovare uno stretto legame tra il concetto di voce e l’ontologia, in quanto il primo ha la capacità di esprimere la vera identità di una persona, rendendola in tal modo unica.

Forse nella mitologia classica alla voce era riconosciuto un qualche potere, basti pensare alle sirene che con il loro canto cercavano di ammaliare Ulisse che si dovette addirittura legare per resisterle: in questo caso la voce ha avuto il ruolo di protagonista, in quanto le è stato riconosciuto il potere di circuire per un motivo ben preciso, visto che, come disse anche Socrate, ognuno ‘usa la voce’ a seconda dell’interlocutore che si trova di fronte, proprio perché viene riconosciuta, seppur inconsciamente, l’unicità dell’essere umano.

Il tema, però, di unicità legato al concetto di voce, non è mai stato ben visibile, seppure diversi pensatori nel corso della storia vi si siano avvicinati; un esempio è Levinas che vede l’espressione dell’unicità nel volto dell’Altro mentre l’aspetto vocale è relegato nel concetto di relazione oppure Aristotele che riconosce al logos la “vocalità” ma dà maggiore importanza al significato, considerando proprio questo l’elemento di differenza tra l’uomo e l’animale (anch’esso dotato di foné ma non di semantiké).

Socrate stesso, all’apparenza, vive per la sua vocalità, parlando nelle opere di Platone, eppure sarà proprio quest’ultimo a screditare la proprietà vocale considerandola un mero involucro da buttare perché solo il contenuto è da considerare meraviglioso.

Come si vede, la voce è sempre comparsa nella storia della filosofia ma difficilmente è stata concepita come fondamentale proprietà dell’uomo per comunicarsi.

Oggi le cose sono forse diverse e il principio del cambiamento può vedersi nel teatro già a partire dall‘800 dove il tono della voce nelle opere liriche era di fondamentale importanza per trasmettere, anche in lingue diverse, le emozioni dei personaggi che costruivano l’intera storia.

Anche la comunicazione odierna nel campo del marketing si è evoluta, andando sempre alla ricerca di una vocalità convincente, forte, carismatica per pubblicità, spot o quant’altro; così come al cinema la tonalità della voce decreta la riuscita di un film perché, come una canzone, mantiene integra nella memoria dello spettatore una battuta, una scena, un’immagine che viene raccontata.

Eppure tutto questo dovrebbe essere sempre così evidente!

La voce è il primo contatto che abbiamo con nostra madre dall’interno della pancia, un contatto sonoro che noi siamo in grado di riconoscere non appena nasciamo.

La voce è la colonna sonora delle nostre vite, ciò che è in grado di entusiasmarci ma anche di allarmarci e spaventarci, un suono che ci accompagna sempre e che aiuta le immagini, le realtà, gli eventi che vediamo e viviamo ad imprimersi nella nostra mente per sempre.

Valeria Genova

Per approfondimenti consiglio questa lettura: Adriana Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale Feltrinelli, 2003.

La bellezza salverà il mondo

Oggi il mondo è piccolo davvero: immagino uomini francesi o spagnoli nel Medioevo osservare la distesa apparentemente infinita dell’Atlantico e non avere la più pallida idea di che cosa potesse esserci oltre, chiedersi quanto oltre avrebbero potuto trovare qualcosa. Se c’è una cosa per cui voglio davvero benedire tutto il nostro processo tecnologico del XX-XXI secolo è proprio questo effetto restringente dei confini, questa vicinanza così possibile con gli altri e con le cose.

Fosse per me visiterei ogni angolo della nostra piccola e meravigliosa biglia azzurra. I giornali, i libri, i mass media e i social network mi fanno capire che non c’è limite alla bellezza che l’ingegno divino-naturale e l’ingegno umano (mosso da buone intenzioni) è stato capace di creare; adesso ho solo la voglia di toccare con mano tutta questa bellezza, fisso il planisfero nella mia lavagna di sughero con un misto di frustrazione e determinazione. Condivido il folle sogno romantico di Dostoevskij e credo che la bellezza salverà il mondo, intendendo per “mondo” tutti noi cittadini, persone, entità pensanti e dotate di sentimenti ma forse anche la Terra stessa. O almeno, sono certa che potrebbe farlo.

Sono seduta sul sedile di un tram di Amsterdam, mi lascio trasportare come dalla corrente nell’antico letto artificiale della città, scivolo fluida tra la folla della sera, in mezzo alle luci di Natale, sopra ai canali silenziosi. Penso. La gente attorno a me mi fa pensare alla routine, ad un tram preso un milione di volte, ad un lavoro appena concluso, ad una casa in cui tornare, dei famigliari o amici con cui stare. Proprio come il treno che prendo infinite volte per tornare a casa da Venezia dopo una giornata di università, solo che il panorama al di là del vetro è diverso e per me tutt’altro che ordinario, è pieno di possibilità. Scendo a Muntplein e mi immergo nella Kalverstraat dei negozi, sotto festoni di luci natalizie: la gente compra i regali perché dopodomani sarà san Nicola, ovvero l’originale Santa Claus; due ragazzi mi fermano, mi chiedono informazioni in inglese: pensano che io viva lì.

Non sarò mai grata abbastanza ai miei genitori perché mi danno la possibilità di vivere tutto questo. E’ vero che la conoscenza è il vero antidoto per la maggior parte degli orrori del mondo, credo che sia stato proprio mio padre il primo ad insegnarmelo. Lui è tutt’altro che un professorone classicista, ma la sua citazione preferita è sempre stata dalla Commedia, il canto XXVI dell’Inferno, quello di Ulisse:

Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza.

Mentre lo diceva a mio fratello (che è più grande di me) io piccolina lo ascoltavo e non capivo il senso. C’è stato un momento mentre ero alle medie in cui una lampadina si è accesa: leggi, scopri, vedi, desideri e (se puoi) parti, perché è quello l’unico modo per salvarti dall’oscurità degli animi umani, dalla cecità, dallo schifo del mondo.

Sono felice perché ho scoperto che cosa si prova a mangiare dei caldi noodles take away seduta a terra sul ciglio di un canale olandese, con il vento gelido che punge la faccia e l’occhio digitale del turista che passando in barca ti nota e pensa “Ah! Due allegre olandesi che mangiano in riva al canale”; so cosa vuole dire trascorrere una serata di un anonimo giorno feriale in un teatro del West End e dopo fare uno spuntino con delle patatine del McDonalds, mescolata alla folla che si riversa nelle strade; a Trapani ho assaggiato la sensazione di andare in spiaggia alle cinque del pomeriggio dopo un acquazzone estivo, solo per osservare un diverso colore del mare, per distendersi sulla sabbia fredda e leggere accerchiata dall’aria salmastra e piacevolmente fresca. Nella città che non dorme mai ho scoperto l’abitudinario alzarsi presto al mattino, fuggire con quel bruco di latta fuori dalla periferia, sbucare fuori dalla bocca infuocata ed entrare in un grattacielo per andare a scuola. Nella Parigi oggi ferita solo tre anni fa ho passato un afoso pomeriggio distesa al Parc Citroen, senza pensieri, a sonnecchiare ed ascoltare musica in mezzo a famiglie, coppie di ragazzi, bambine che si sfidavano a fare la ruota.

Però ce n’è anche un’altra di “classica” tra le citazioni preferite di mio padre: è quel momento nei Promessi Sposi, quando Renzo e Lucia osservano il loro lago di Como, con la sua corona di monti, che si stanno lasciando alle spalle. Recentemente anche questo passo mi sembra perfetto: perché è giusto conoscere il mondo, ma non bisogna dimenticare la propria casa. E’ bello partire quando sai che puoi sempre tornare.

Dunque sono fortunata perché so anche cosa vuol dire vivere in un paese infossato tra le colline senesi, uno di quelli dove non vi si raccolgono più di duecento vite, dove si trova quella pace che può dare il canto degli uccelli, il rumore del vento tra le fronde dei cipressi, ma si prova anche la difficoltà di raggiungere il paese più vicino (che in realtà è lontano) senza possedere un’auto; e al contrario, so cosa significa vivere nel formicaio milanese, 1.300.000 residenti e altri 700.000 pendolari giornalieri, tutti indaffarati, tutti presi, un cuore che pulsa e che ti fa sentire vivo ma dove fatichi a trovare un po’ di silenzio che sia vero silenzio, una solitudine che sia vera solitudine. Ho sperimentato anche l’intermedio: una cittadina veneta di provincia, qualche migliaio di abitanti in una campagna che non è vera campagna, un punto in una rete di strade, cittadine, persone. Non si può amare tutto quanto, ma lo si può apprezzare. Questa è la bellezza del mondo, conoscerla (conoscerci) potrebbe salvarci. Prendere in prestito momenti ordinari delle vite degli altri ci fa capire quanto siamo diversi ma soprattutto quanto infondo siamo armoniosamente simili. E poi certo, la bellezza è anche un’alba nel deserto, la nona sinfonia di Beethoven, la basilica di San Pietro, la vista da Machu Picchu, un dipinto di Renoir, un abito di Elie Saab, veder “cadere” una stella di san Lorenzo…

Chi cerca di possedere un fiore, vede la sua bellezza appassire. Ma chi lo ammira in un campo, lo porterà sempre con sé. Perché il fiore si fonderà con il pomeriggio, con il tramonto, con l’odore di terra bagnata e con le nuvole all’orizzonte.¹

Cercare la bellezza, trovare la bellezza e vivere sulla pelle l’emozione che essa porta con sé, ci fa capire che non vorremmo mai vederla distrutta. L’importante del viaggio, come di ogni esperienza, è il tenersi qualcosa da riportare indietro, a casa. Imparare qualcosa di bello che viene da fuori e portarselo dentro per arricchire noi stessi.

Giorgia Favero

[L’immagine è tratta da Google e ritrae l’artista Yves Klein]

Note:

[1] Tratto da Paulo Coelho, “Brida”, Bompiani 1990

“Per la forza di una parola”

Un giorno di agosto, per nulla soleggiato e nemmeno caldo, sono andata sul monte Grappa e ci ho trovato una grande scultura.

La sono andata a cercare perché avevo visto un cartello che indicava un monumento alla resistenza partigiana; così, svoltando l’ennesimo tornante, l’avevo vista in lontananza. Ho parcheggiato la macchina e le sono andata incontro, l’ho studiata passo dopo passo cercando di capire che cosa rappresentasse; prima era piccolina davanti al suo sfondo erboso, la potevo tenere tra due dita, ma dopo pochi minuti mi sovrastava. Era nera e informe, come se un’improvvisa vampata di intenso calore avesse squagliato la matericità del bronzo. La prima cosa che sono riuscita a distinguere mentre mi avvicinavo erano due gambe e due braccia, che avevano delle mani contratte e protese verso il cielo.

Le ho girato attorno come un avvoltoio attento: la seconda cosa che ho visto è stata un ventre svuotato e la terza un volto, il cui profilo era rivolto verso l’alto e ben delineato contro il cielo, ma non aveva lineamenti definiti ed il suo occhio non era altro che un buco: il vuoto lo faceva sembrare spalancato. Ho notato poi che le mani erano strette da lembi di corda nera, come se una volta fossero legate tra di loro e si fossero liberate. Insomma, ho capito perché i partigiani.

Ma poi ho continuato a girare ed ho incrociato due lastre di pietra con due iscrizioni. La prima, incastonata nella roccia vicino ad una oscura apertura nella montagna, diceva così: “A ricordo dei sette partigiani bruciati vivi in questa galleria da lanciafiamme degli oppressori nazifascisti” e poi una data, quasi nascosta, 22-09-1944. Il mio corpo è stato immediatamente attraversato da quel brivido spontaneo, quello di una mente che prova ad immaginare che cosa si può provare a morire arsi vivi, sentirsi la pelle che si squaglia e il cervello saturo di dolore che ti sembra sul punto di esplodere. Una morte atroce che non si merita nessuno.

Poi ho letto anche l’altra lastra, di marmo questa, dai contorni precisi rettangolari ed accompagnata da fiori rossi e bianchi, rose circondate da un nastro tricolore.

“E per la forza di una parola
Io ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per chiamarti
Libertà”

Dopo anni di esperienze e di continue riflessioni su di esse sono giunta alla conclusione che sono una persona sensibile; in certi casi, enormemente sensibile. Il tema della guerra è uno di quelli che incontra invariabilmente la mia pena ogni volta che lo sento, che sia declinato in un film o in un libro di storia. Non so se credo veramente nel Paradiso ma credo nel fatto che, in qualche modo, se rivolgi un pensiero ai morti loro ti sentono; perciò, ogni monumento ai caduti delle guerre mi provoca un infinito senso di pietà e di commozione. Forse perché mi saltano subito in mente quei versi di De André, quelli che raccontano del soldato Piero mentre se ne va al fronte senza capire perché ci sta andando.

Ci sono anche altre storie che mi piacciono –cioè, che mi fanno male ma che adoro. Di una ho già accennato qualcosa, quella di Enjolras e dei suoi compagni ne Les Misérables che programmano un moto rivoluzionario per liberare la Francia dalla monarchia di un re non meno spietato –o, piuttosto, noncurante di Luigi XVI¹; un’altra storia potrebbe essere quella di Aléxandros Panagulis, che in tempi più recenti e nella realtà degli eventi ha organizzato un attentato contro la dittatura dei colonnelli che dal 1967 ha stretto la Grecia in un regime privo anche del ricordo democrazia, e quindi anche di una totale mancanza del coraggio di lottare per essa –tranne lui².

Oppure la storia di quest’uomo. Non c’era una firma, né un indizio che facesse capire che quelle parole fossero state effettivamente proferite da qualcuno di quei sette partigiani, ma nella mia testa era chiaro che fossero state proferite da lui, dalla statua. Lui era lì, aveva effettivamente il corpo liquefatto, e la causa di ciò evidentemente era veramente il fuoco; l’occhio era sempre lì, spalancato, azzurro in mezzo alla faccia annerita perché dietro c’era il cielo; le mani erano protese verso l’alto, si era liberato e le tendeva verso la luce benefica del sole che, per uno straordinario caso fortuito, a quell’ora del giorno e in quella stagione sembrava proprio lì, a portata di mano. Fissava la luce e non gridava, perché le labbra, come se mormorassero un’ultima parola, erano appena schiuse su quel volto senza lineamenti, tanto che lui potrebbe essere chiunque. Chiunque abbia trovato la volontà di combattere per la forza di una sola parola.

Libertà. Oggi forse ne abusiamo tanto che ne abbiamo perso il significato –soprattutto noi del fortunello mondo occidentale, anche se pure noi a ben vedere ne siamo privati, a volte senza saperlo, perché siamo uomini, e tutti noi possiamo essere a vari livelli gli schiavisti di qualcun altro.

Morire per la forza di una parola a volte mi appare incredibilmente bello, poetico, a volte persino giusto. La mia vita mi sembra minuscola in confronto a queste storie e continuo a chiedermi se anche io farei lo stesso –intendo, lottare strenuamente per qualcosa, non necessariamente morire, no, quella è la peggiore delle ipotesi ma nel caso la si abbraccia perché un uomo può morire ma l’ideale no. Mi chiedo se sono un’idealista di fatto e non solo d’intenzioni. Mi sento minuscola perché mi pare che quelle storie siano tanto grandi da leggere e a vedersi, ma a viverle io non ce la farei, io sono troppo fragile. Senza dubbio l’ho deciso io di essere fragile perché è una scusa migliore che ammettere di essere troppo pigra per combattere per i miei ideali –troppo pigra o troppo paurosa, o forse, aiuto!, forse non ci credo poi così tanto. Non so uscire da questa impasse, non so se sono davvero così (pigra, paurosa o bugiarda) o se ancora non ho trovato quella parola che fa scattare il click –perché tutto sommato ogni persona probabilmente ha una propria parola. Io non sono Malala, je ne suis pas Charlie, e probabilmente non saprei urlare “Vi faccio vedere come muore un italiano”; però mi auguro di mantenere sempre la stessa dignità, ogni giorno della mia esistenza, e mi auguro di avere il loro coraggio se un giorno la mia vita dovesse così oscuramente capovolgersi. Intanto penso alla statua: lui sapeva tutto, e non aveva dubbio alcuno. E’ morto, ma si è salvato dal tribunale di se stesso.

Giorgia Favero

 

Note:

Nella foto: Augusto Murer, Monumento al partigiano sul Monte Grappa, 1974 [Immagine tratta da Google]

Da una ricerca successiva, ho scoperto che l’incisione sulla lastra di marmo è un frammento di una poesia di Paul Éluard, Libertà, scritta nel 1942 quando anche lui partecipò alla resistenza nel suo paese, la Francia.

  1. Victor Hugo, Les Misérables, 1862.
  2. La sua storia l’ho conosciuta tramite il romanzo Un uomo di Oriana Fallaci (1979). In Italia sono stati pubblicati anche due suoi libri di poesie, Vi scrivo da un carcere in Grecia (1974) e Altri seguiranno (ristampa 1990).

Il mondo ed io con lui

È solo un estivo giovedì sera nel West End e io sono semplicemente seduta sulla poltrona vellutata del Queen’s Theatre in attesa che cominci la magia. Alle sette e mezza in punto le luci calano, l’orchestra comincia con quel potente “mi-laaaa, mi-laa” e sullo schermo, un attimo prima di scomparire per aprire la vista sul palco, appare la scritta “Paris 1815”: è l’inizio di Les Misérables, con ogni probabilità il musical migliore di tutti i tempi, e io scioccamente penso di essere l’unica a sentirmi dentro il cuore che, battendo, fa anche lui “mi-laaaa, mi-laa”. Sì perché in verità questo per me non è solo un giovedì: è anzi una di quelle sere specialissime che si aspettano per mesi. Comunque, ci vogliono quasi due ore per farmi capire che non è affatto così, cioè che non sono affatto la sola ad avere il fiato sospeso e le dita intrecciate in grembo che si stringono quasi dolorosamente. Ne avevo avuto un sentore con la straziante “I dreamed a dream” e dopo la morte del piccolo Gavroche il sospetto era quasi fondato, ma quando il corpo esanime di Enjolras è comparso in bilico sulla barricata disfatta di un moto rivoluzionario caduto nel vuoto (Parigi 1832) ne ho avuto la conferma.

C’era chi tirava su col naso e chi invece era riuscito a recuperare un fazzoletto da chissà dove, soffocando in questo modo dei rumori non proprio dignitosi; in alcuni piccoli momenti, quelli in cui la musica era meno intensa, si potevano anche udire dei “sob” sfuggiti da labbra inconsolabili e potevo  percepire le silenziose lacrime della mia vicina a destra come anche della mia amica a sinistra; sentivo infine scorrere le mie di lacrime, silenziose lungo il viso. Soprattutto quando Marius, unico sopravvissuto tra tutti i suoi amici, un nutrito gruppo di speranzosi rivoltosi, cantava la sua solitudine seduto al tavolo di una taverna divelta. In quella sala c’erano certamente persone che lì dentro ci erano state trascinate, e magari quasi a peso, mentre altre forse erano semplicemente un po’ meno sensibili a quella trama tragica enfatizzata da musica e testi potenti e toccanti; può anche darsi che altri ne fossero persino schifati, chissà; io però lì dentro ho saggiato un momento corale del mondo. Un momento in cui le persone dividono lo stesso pensiero, la stessa emozione: lo spazio che ti circonda ne è pieno tanto quanto tu ne sei pieno.

Solo un mese fa ragionavo sul concetto di unicità della persona. Siamo in effetti continuamente portati a pensare di dover essere differenti, che essere come gli altri sia sbagliato, che fare come gli altri sia un inequivocabile segno di debolezza della personalità, se non di totale mancanza di personalità. Abbiamo deciso di prendere sempre alla lettera quel “vitandum […] turbam” di Seneca¹ senza aspettare di leggere e comprendere la successiva esegesi di quel monito; perché noi siamo sempre di fretta ed abituati a soffermarci sugli slogan, a proposito dei quali non si può non pensare con scherno ad un famoso “Think different” che marchia oggetti che praticamente tutti hanno e tanti vogliono. Per carità, questo è solo uno dei risvolti della massa, è in effetti quello che identifica la massa come sostantivo femminile singolare; ma se ci guardiamo dentro a questa massa, possiamo comunque trovarci una pluralità di nomi singolari, maschili e femminili: un insieme di persone che mantengono una propria individualità nonostante condividano qualcosa in comune. È crudele pensare che persone che si muovono insieme non abbiano personalità. In “One day more”, canzone anch’essa tratta da Les Misérables, la cosa è particolarmente evidente poiché obbedendo alle stesse leggi metriche e musicali tutti i personaggi partecipano alla stessa canzone con la propria personalità e voce, con i loro problemi, speranze e sentimenti, alternandosi ma anche sovrapponendosi gli uni agli altri, fino a convergere nel finale nelle medesime parole². Ognuno di quei personaggi ha una propria e chiara individualità, eppure per ciascuno di loro c’è la medesima speranza del domani, condividono (alcuni di loro senza saperlo) la stessa trepidazione ed aspettativa, trovano gli uni negli altri la comprensione, perché in verità possiamo capire a fondo un’emozione, un momento, un battito, soltanto quando la condividiamo. Capirsi non è brutto; direi anzi che è fondamentale, soprattutto perché ormai ad ascoltare non si ferma quasi più nessuno. Trovo che pensare di essere migliori perché speciali sia segno di grande tracotanza da parte nostra, perché ci sono sempre infiniti momenti della nostra vita in cui siamo parte di un insieme, che lo vogliamo oppure no. E io penso che infondo lo vogliamo. Secoli fa John Donne sostenne che nessun uomo è un’isola³; penso che quello che ci unisca agli altri siano i sentimenti, molto più dei risultati delle leggi del consumo e del mercato: sono quelli che ci tengono uniti al continente. Purtroppo oggi va di moda il cinismo e grazie ad esso noi di questo semplice e puro fatto finiamo col non accorgerci.

Ricordo che l’anno scorso, sotto il cielo di un cimitero nel primo pomeriggio di novembre ho cantato il Padre Nostro, senza conoscerne la melodia, ma stringendo le mani a persone sconosciute mi sono sentita capita: quel mosaico di voci dissonanti mi ha consolata perché ho sentito in quel canto che si disperdeva attorno a me lo stesso sentimento che mi sentivo dentro. In un modo del tutto simile, nemmeno un mese fa ho pianto senza preoccupazioni mentre ascoltavo la reprise finale di “Do you hear the people sing” al Queen’s Theatre, ma ho anche esultato, qualche anno prima, davanti alla tv per ogni medaglia italiana conquistata a Londra 2012, ho urlato canzoni in mezzo alla folla di un concerto e sbuffato mille volte chiusa e compressa dentro un treno dopo l’ennesimo annuncio metallico “Ci scusiamo per il disagio”: perché è consolante anche sapere di dividere con gli altri anche delle situazioni spiacevoli, e incrociare in quel momento due occhi sconosciuti ma altrettanto seccati e rassegnati non è poi così male. Non mi sono sentita senza personalità, mi sono sentita dentro un sentimento condiviso. Unendo tutte queste esperienze, sono portata a pensare che infondo potrei essere originale quanto voglio, ma difficilmente proverò la stessa piacevole sensazione di essere parte di un mondo che gira, corre, si emoziona e comprende questa stessa emozione. Ed io ero con lui.

 Giorgia Favero

[Immagine tratta da Google.]

 

Note

1. Seneca, Epistulae ad Lucilium, VII,1: “Mi chiedi che cosa dovresti evitare in modo particolare. Rispondo, la folla”.

2. “Tomorrow we’ll discover what our God in Heaven has in store / One more dawn / One more day / One day more”, da Les Misérables. –> https://www.youtube.com/watch?v=aqo2uHQ6Jz0

3. John Donne, XVII meditation: “Nessun uomo è un’isola / intero in se stesso. / Ogni uomo è un pezzo del continente, / una parte della Terra. / Se una zolla viene portata via dall’onda del mare, / la terra ne è diminuita, / come se un promontorio fosse stato al suo posto, / o una magione amica o la tua stessa casa. / Ogni morte d’uomo mi diminuisce, / perché io partecipo all’Umanità. / E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana: / Essa suona per te”.

 

 

Travel is my therapy.

Sono felice. Quando lo dico, la gente mi guarda sconvolta.

Francesca è la perfetta sintesi di tutto ciò per cui noi de La Chiave di Sophia lavoriamo da quasi un anno.
E’ cambiamento, coraggio, viaggio, ricerca, scelte, infinite possibilità di essere.
E’ riuscita a fare ciò che tutti vorremmo: non relegare le proprie passioni e la proprie indole in una piccola sezione del cv “hobby ed interessi”. Ma prenderle e farne un lavoro.
Quanti di voi hanno scritto in questo piccolo e dimenticato riquadro del curriculum “ Viaggiare”’? Tutti.

Ecco, Francesca Di Pietro.

Noi ci presentiamo a te così: “ Di sogni non si vive, ci dissero tempo fa. Di insoddisfazione si muore, avemmo la prontezza di rispondere”.
Tu quando hai avuto questa prontezza?
Credo che come in tutte le cose, si prende coraggio quando davanti a se nn si vede scelta. Io anni fa ho vissuto un momento molto buio, sia lavorativo che personale, tutto quello in cui credevo si è sbriciolato, o meglio non è andato come avrei voluto e come ho sempre creduto che andasse, in quel momento ho capito, che forse se la vita prende una piega diversa, dovremmo seguire il flusso invece di incaponirci per cambiarla. Così ho colto un’opportunità e ho lasciato il lavoro, da lì ho iniziato a viaggiare, senza sapere cosa avrei fatto una volta finiti i soldi, e come sempre mi accade in viaggio, ho avuto un illuminazione.

Hai studiato psicologia. Perché? Le motivazioni di questa scelta di Francesca a 18 anni e le motivazioni di Francesca adesso, nel 2015.
Perché ho studiato psicologia?? Oddio ora mi dirai anche tu “perchè avevo qualcosa da risolvere”, beh ci mancherebbe, tutti i ragazzini di 18 anni hanno qualcosa da risolvere. Con il senno di poi, io ero una ragazza più sensibile del comune e diciamo che quasi nessuno se ne era accorto, così al liceo mi sono chiusa in molti libri e pensieri filosofici, questo mi ha avvicinato alla psicologia come “scienza” e arte. Poi nn so perché, mi ero fissata che avrei lavorato nelle risorse umane, volevo fare la manager con il tailleur e i tacchi alti, così ho sempre avuto le idee chiare: laurea, master, altro master, corsi di specializzazioni come se nn ci fosse un domani, ma poi mega- frustrazioni al lavoro.
La psicologia è la mia passione, ho un dono, o forse una sfiga, di leggere molto bene i comportamenti umani, li leggo, ma non li curo, questo sia chiaro. Gli uomini sono la cosa più bella che Dio abbia mai creato, negli ultimi anni sono solo diventata più curiosa e ho ampliato il mio interesse fuori dalle aziende … nel mondo.

Chi era Francesca prima di diventare psicologa?
Intendi prima dei 23 anni?? Oddio questa è personale… Diciamo che sono cresciuta molto da sola, assorbendo paure e pregiudizi come una spugna, ho sofferto molto dell’essere rossa e riccia in una città del sud dove venivi etichettata per molto poco. Ho avuto un’ educazione molto rigida che non mi ha permesso di fare quello che faceva il mio gruppo di pari, mi piaceva studiare, l’università è stata una liberazione, venire a Roma una grande decisione anche se non molto facile. Ho misurato la mia forza ogni giorno di più, capendo sulla mia pelle di cosa ero capace, ma direi che non si è fermato alla laurea, spero non si fermi mai.

Chi era Francesca prima di diventare travel blogger?
Una ragazza che ha sempre viaggiato tantissimo, grazie innanzitutto ai miei genitori e che poi ha scoperto il suo modo di viaggiare, che era molto, molto diverso dalle persone che le stavano attorno. Ho scoperto di essere brava ad organizzare i viaggi e mi sono accorta che tutti i miei amici mi scrivevano prima di partire, così per ottimizzare tempo, ho messo tutto sul web, ma solo dopo anni ho capito cosa era un travel blog.

Chi è Francesca?
Quanto tempo hai?? È una persona complessa, piena di contraddizioni, molto fisica e di contatto, ma anche molto distante. Non amo le formalità, mi piacciono i rapporti veri e soprattutto molto intensi, non amo il conflitto, mi fa soffrire tanto, per questo a volte lo evito, sono sincera. Credo che nella vita tutto quello che dipende solo da te lo puoi raggiungere se lotti, il problema sono quando entrano in ballo altre persone. Ho visto cambiare la gente introno a me, il contesto intorno a me, ed è molto difficile condividere quello che penso e quello che faccio. Il web mi ha dato tanto, in molti ambiti, non solo lavorativo, ma anche umano, le persone che al momento mi sono più vicine e che amo di più (esclusi pochi) li ho incontrati sul web, ad iniziare dai miei soci.

Quanto ti sei sentita giudicata nelle tue scelte e come hai reagito?
Ma la psicologa tra i due chi è? Una domanda a caso… Purtroppo mi sono sentita giudicata, non dalla mia famiglia, che invece mi ha appoggiato senza mai titubare, ma da una persona che ritenevo il centro del mio cuore, dalla mia “persona” per citare una serie tanto amata da noi trentenni, lei non mi ha capito, ha visto la realtà con i suoi occhi senza mai mettersi dal mio punto di vista, questo mi ha ferito nel profondo e mi ha allontanato da lei per sempre. La sua assenza ha lasciato un vuoto che ancora non riesco a colmare, ma la vita va avanti e come ho fatto in altri ambiti, ho “spezzettato” il mio bene dividendolo con altre persone.

Quanto ti giudichi?
Il mio super IO è sempre stato più grande del Monte Bianco, ma onestamente credo che negli ultimi anni, ho imparato a giudicarmi di meno, ad essere più buona con me stessa. Io chiedo sempre il massimo da me, io combatto sempre, fino alla fine, ma se poi fallisco, pazienza, per me l’importante è provarci, la staticità rappresenta la morte!

Quante Francesca convivono dentro di te?
Beh almeno 2, anche se sto cercando di integrarle. Diciamo che c’è quella “sensibile” e diciamolo pure, “vulnerabile” che non so integrare con l’altra, o meglio a volte esce troppo l’una o troppo l’altra e questo spaventa.

Di tutti i momenti della tua vita, ci parli di quello in cui hai sentito realmente la libertà di poter essere ciò che volevi?
Ogni momento dopo il 17 giugno del 2011, giorno in cui ho lasciato l’azienda, sono rinata! È stata la decisione migliore della mia vita.

La tua paura più grande quando sei in giro per il mondo?
Mi credi se ti dico che non ho paure? Per un periodo, avevo paura che chi era a casa potesse dimenticarmi, e a dire il vero è successo, ma poi ho pensato che è anche una mia scelta se vivo così. Le relazioni sono incastri, chi si incastra con me non mi dimentica e onestamente ho potuto notare che le persone che amo e che mi amano, hanno trovato strategie per rimanere sempre in contatto anche quando sono in viaggio.

La tua paura più grande quando sei sul tuo divano?
La noia. Ho paura di annoiarmi , specialmente a Roma, dove, esclusi i miei amici, non trovo più molti stimoli. Ho sempre amato questa città, ma ora la vedo ferma, si fanno le stesse cose che si facevano nel 2004, solo che io non sono più la stessa. Sto seriamente pensando di trasferirmi, mi serve solo un motivo scatenante… o una scusa 😉

Il tuo rapporto con famiglia e amici prima, durante e dopo i tuoi viaggi?
Io vivo da sola da 16 anni, o sono a Roma o a Lima faccio sempre la stessa cosa, chiamo i miei tutti i giorni, cerco di non farli preoccupare. Con i miei amici, dipende, alcuni come ti dicevo, li ho persi quando ho deciso di intraprendere questa vita, con gli altri non cambia niente. Io non sono una che telefona, o una da smancerie, preferisco i messaggi concisi e puntuali. Quindi mi sento praticamente con la stessa frequenza con cui mi sento a Roma, forse li vedo un po’ meno, ma dopo tutto, anche loro hanno delle vite molto complesse. Non esiste più la simbiosi adolescenziale, della serie “tutto insieme-sempre insieme”, ma in fondo non siamo più adolescenti no?

Parlaci di te, qualsiasi cosa ti venga da dire, come fosse un vero e proprio flusso di coscienza per due minuti…da adesso:
Oddio, mi sembra di aver già parlato tanto di me, e poi nn mi dite che sono egocentrica, sei tu che mi hai chiesto tutte queste cose. Che dirti, sono complicata, nn facile da gestire, devo avere il controllo di “molte” situazioni, ma sentirmi protetta. Mi piacciono i cani e i bimbi piccoli, quando sono degli altri, spero sempre che qualcuno guardi oltre quello che sono diventata sul web. Vorrei un’assistente o una tata 2.0,  insomma qualcuno che mi aiuti. Sono felice, quando lo dico la gente mi guarda sconvolta, è come se le persone avessero timore a dirlo, o forse siamo tutti superstiziosi. Le cose brutte della mia vita, mi hanno aiutato a capire quanto sono fortunata; sono felice che il mio lavoro ispiri altra gente, mi fa bene al cuore.

Nel tuo zaino puoi mettere solo 5 “qualcosa”, tra pensieri, emozioni, parole, oggetti, persone. Qualsiasi cosa, ma solo 5. Cosa metteresti?
Lo stupore, la passione, la fiducia, i tappi per le orecchie e il passaporto.

Dove possono contattarti i nostri lettori?
Beh ho 3 siti quindi direi che basta digitare il mio nome su google. Ad ogni modo ovunque mi contattino, li rassicuro che rispondo sempre e solo io. www.viaggiaredasoli.net   www.chetiporto.it   www.francescadipietro.com

Grazie mille per questo viaggio assieme Francesca.

Donatella Di Lieto

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale/ Views are my own]

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[Immagini tratte da Google Immagini]

Io e Te – Niccolò Ammaniti

Qualcuno sostiene che non si possa scegliere il modo in cui dovremmo essere e che la Natura che risiede in noi sia indipendente dalla nostra forza di volontà e dalla nostra capacità di cambiare. Ci vengono dati gli elementi del nostro carattere alla nascita, in un calderone di ingredienti che non siamo mai perfettamente pronti a mescolare. Perché non siamo capaci. Perché non siamo abbastanza coraggiosi. Perché non siamo obiettivi. Perché non ci sentiamo mai abbastanza pronti.

Perché – forse – senza essere in DUE, non si è mai abbastanza pronti ad affrontare la vita.

 Lorenzo è un adolescente come tanti; uno di quelli che non si piace, uno di quelli che non si sente accettato, uno di quelli a cui – per dirla tutta – di essere accettato non interessa proprio niente.

Questo il primo tra i motivi per i quali decide di fingere di partire per una settimana bianca a Cortina con dei suoi compagni di scuola, questo il motivo per cui inscena questa vacanza, mentre decide di rimanere chiuso nella cantina di casa sua per una settimana intera.

Genitori entusiasti del fatto che lui abbia finalmente degli amici, desiderio di risultare invisibile soddisfatto, il videogioco che preferisce, qualche lattina di Coca-Cola; tutto sembra organizzato nel migliore dei modi.

Eppure, a quel disegno così preciso, va aggiunto un tassello in più: in quella cantina si rifugerà anche la sua sorellastra Olivia, che Lorenzo non vede da qualche anno.

Olivia ha circa dieci anni in più di lui ed odia il loro padre; è la figlia “abbandonata”, la figlia accontentata soltanto tramite il denaro, la figlia che si sente sbagliata perché ha sempre avuto un motivo per sentirsi tale.

Olivia e Lorenzo non potrebbero essere più diversi e, al tempo stesso, non potrebbero avere di più da condividere. Sentirsi inadeguati in un mondo che non sembra accettarli, sentirsi insoddisfatti pur apparentemente avendo tutto. Beni materiali, giovinezza, una vita davanti, una dose di leggerezza che pesa troppo sulle spalle dell’una e troppo poco sulle spalle dell’altro. Spesso si ha solo bisogno di trovare un compagno di avventure, di trovare un qualcuno che pur non somigliandoci ci proietti nel suo universo mostrandoci che non è poi tanto diverso dal nostro. Abbiamo bisogno di notare che qualcuno possa prendersi cura di noi; una cura poco materiale, una cura costruita su basi più solide di quelle di tutti i giorni.

Olivia non è una sorellastra come le altre: non è amorevole, non è capace di badare nemmeno a se stessa. Lorenzo non è un fratellastro da controllare, perché nella sua solitudine interiore sembra aver già capito come funziona la vita. Entrambi hanno qualcosa da insegnare all’altro, entrambi hanno opinioni da raccontare, entrambi hanno una prospettiva diversa da scoprire.

L’adolescenza non è così lontana dalla prima età adulta; c’è sempre tempo per iniziare ad uscire dalla propria inadeguatezza, c’è sempre tempo per combattere, oppure non ce n’è più.

C’è sempre tempo per farsi delle promesse, non c’è sempre la forza di mantenerle. C’è sempre la possibilità di incontrare qualcuno che ci guidi, nonostante non ci sia sempre la bravura di farsi tenere per mano.

Niccolò Ammaniti ci regala un romanzo breve ed intenso, un romanzo che sa dirci così tanto oltre a quello che possiamo leggere e che tenderà a stupirci dalla prima all’ultima pagina.

Perché non sono soltanto coloro che non possiedono nulla a sentirsi inadeguati, perché non sono soltanto gli incompresi quelli che hanno bisogno di una strada, perché c’è sempre tempo per ricominciare daccapo, ma non è detto che ci si riesca.

Non tutti siamo capaci di diventare grandi con l’approvazione del resto del mondo, non tutti siamo capaci di essere chi dovremmo essere.

Siamo semplicemente “come ci viene”, come ci riesce. Siamo semplicemente.

E una strada in salita non è detto che non ci venga più facile percorrerla camminando all’indietro. E un muro come quello della crescita non è detto che saremo in grado di abbatterlo, perché potrebbe venirci semplicemente più semplice scavalcarlo.

Bevo un sorso di caffè e rileggo il biglietto.

– Caro Lorenzo, mi sono ricordata che un’altra cosa che odio sono gli addii e quindi preferisco filare prima che ti svegli. Grazie per avermi aiutata. Sono felice di aver scoperto un fratello nascosto in una cantina. Ricordati di mantenere la promessa,

Tua, Oli –

 Oggi, dopo dieci anni, la rivedo per la prima volta dopo quella notte.

(Io e te – Niccolò Ammaniti)

Cecilia Coletta

Ordinariamente amore

È notte. Un’ora imprecisata della notte. Tutto intorno è buio nella stanza. E lei se ne sta lì. Con la testa appoggiata nell’incavo tra la spalla e il collo di lui. In quello che loro chiamano il “suo posto”. Perché sembra fatto apposta per lei, per la sua testa. È della sua misura. È un incastro perfetto.

Se ne sta lì. Con gli occhi aperti. Ad ascoltarlo. Il rumore del suo respiro. Il rumore del battito del suo cuore. Il rumore del suo sonno. Rumori  familiari.

Se ne sta lì e si sente completa. Si sente calma in questa notte rubata dall’insonnia. Respira a fondo il suo odore. Crea ricordi. Non potrebbe essere altrove. Non dovrebbe essere altrove. Semplicemente, non vorrebbe essere altrove, se non lì.

Ed è una piccola rivelazione improvvisa, quella di amarlo. Quella di trovarsi nella situazione in cui amore e vita vanno di pari passo. È un modo diverso di amarlo. È quell’ amore che parla di quotidianità e di condivisione. Condivisione di giornate che iniziano troppo presto e finiscono troppo tardi senza essere riusciti a dirsi più di poche parole. Condivisione di raffreddori e influenze intestinali. Condivisione di pasti frugali e di sere passate a dormire sul divano – esattamente un minuto dopo aver finito di mangiare. È quell’amore che rende speciale una domenica passata abbracciati sul divano, senza fare nulla.  È quell’amore in cui ci si trova a capirsi con uno sguardo e a non capirsi quando si parla troppo. È quell’amore in cui a volte si sta avvolti nei silenzi e delle altre si passano ore a parlare del futuro. È quell’amore in cui si litiga per delle sciocchezze e si fa pace con un sorriso, con un bacio, senza farla durare troppo. È davvero un modo diverso di amarlo. Non è pensarlo in modalità Superman, capace di risolverti tutti i problemi, ma è sapere che c’è, nonostante i problemi. È sapere che c’è, anche se ti metti quel pigiama. È sapere che c’è, anche se sei una grande rompic*****ni. È sapere che c’è, nonostante i difetti, la fatica e i malumori. È sapere che ti sta accanto e che ti ama, come solo lui riesce a fare. Ed è un amore che a tutti gli altri può sembrare monotono, ma che a te riempie il cuore. È amore che sa di vita. È amore che la rende speciale, la vita.

È semplicemente amore.

È ordinariamente amore.

E in questa notte si scopre follemente innamorata. E avrebbe voluto svegliarlo per dirglielo, subito. Per dirgli che lo amava. Ma lo amava non con le farfalle nello stomaco come i primi tempi. Non con il cuore galoppante di una ragazzina. Lo amava senza aver bisogno di cercare continuamente qualcosa di nuovo. Lo amava col cuore solido di chi sa già chi ha di fronte, con allegati i pregi, i difetti e le caratteristiche ics. Lo amava senza se e senza ma, ma con gli anche se. Lo amava con la fermezza di chi ha già passato del tempo assieme e sa che i problemi non li abbattono. Lo amava con la completezza di chi sa che non c’è un “io e te”, ma un NOI, che è diverso. Lo amava col cuore leggero di chi non si accorge del tutto della fortuna che ha. Lo amava col cuore ingenuo di chi crede ancora che l’amore esiste. Più semplicemente, lo amava con tutto il suo cuore, che non ha alcun bisogno di spiegargli com’è perché forse lo conosce meglio di lei.

Ma decide di non svegliarlo. Di tenersi quella rivelazione così improvvisa tutta per lei, ancora per un po’, ancora per questa notte. Di godersi quel suo piccolo momento speciale in cui riesce a guardarsi dentro e rimanerne sorpresa, piacevolmente sorpresa – il che è una rarità. Glielo dirà la mattina seguente. Salutandolo gli dirà “ti amo”, come tutte le altre mattine. Ma sarà diverso. Almeno per lei. E forse lui capirà. O forse no.

In fondo.. è solo “ordinariamente amore”.

Giordana De Anna

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