Piccole donne di Greta Gerwig. Rivisitazione cinematografica di un capolavoro

Esco dal cinema, gli occhi lucidi, perché? Jo March ha dichiarato il proprio amore a Friedrich Bhaer, Jo March interpretata da Saoirse Ronan – ovvero l’odiosa e cattiva Briony di Atonement (2008) per dimenticare l’impacciata e “frigida” Florence del ripugnante On Chesil Beach (2017) – tra le braccia di Friedrich Bhaer interpretato da Louis Garrel. E potrebbe bastare così, potrebbe bastare cioè che il proprio attore preferito in assoluto stringa a sé l’attrice che meglio di ogni altra riesce a calarsi – fino a essere identificata con esse – nelle parti più scomode e create appositamente per dare fastidio. Ma non basta: sono il décor e l’atmosfera ‒ la giornata in spiaggia con gli aquiloni, le corse sui pattini e sui prati, i riccioli d’oro e le trecce, gli abiti dell’epoca, corsetti e nastrini, i giochi in soffitta tra sorelle, la luce calda delle candele, le note del piano, la colonna sonora composta da Alexandre Desplat, il pennino e la carta, la guerra di secessione americana sullo sfondo, le case tra gli alberi, i balli – ricreati dalla protagonista di Frances Ha (2008) e regista di Lady Bird (2017), Greta Gerwig, che mi lasciano quel senso di bellezza e di grazia.  Non ricordo ahimè molto del libro, tra le mie scarse e svogliate letture da diciassettenne: di certo avevo odiato Amy, trovato relativamente simpatica Meg e provato un rapporto contraddittorio di amore e antipatia per Jo e vedendo Les filles du Docteur March – in inglese sottotitolato in francese esattamente dieci anni dopo aver letto apaticamente il capolavoro di Louisa May Alcott, Little Women (1868-1869), le mie sensazioni sono rimaste invariate.

Greta Gerwig sceglie di non rispettare la cronologia del romanzo, in due volumi, rispettivamente dedicati all’infanzia e all’età adulta delle sorelle, e di creare degli andirivieni tra i due periodi attraverso continui flashback il cui fil rouge è Jo, ideata come alter ego della Alcott. Film quindi che vuole farsi atemporale, una riflessione sull’identità femminile e sull’essere artista: da un lato Meg, interpretata da Emma Watson, signorina dolce e matura, si sposa per amore con John Broke e ha due gemelli, dall’altro lato Jo, un vero maschiaccio, determinata, ribelle e impulsiva, appassionata di letteratura, sogna di diventare una scrittrice, respinge il matrimonio con Laurie, interpretato da Timothée Chalamet – il triste e solitario vicino di casa che grazie alla loro amicizia diventerà socievole e frequenterà il college – e va a New York in cerca di se stessa, libera e indipendente, avverte però la solitudine e vorrebbe amare o forse le basterebbe essere amata, forse vorrebbe ancora Laurie ma alla fine sposerà Friedrich Bahr, insegnante tedesco a Plumfield, la casa ereditata dalla zia March, interpretata da Meryl Streep, e trasformata in una scuola sperimentale. C’è poi Beth – che rappresenta il côté più strappalacrime della storia – morta a diciannove anni di scarlattina, contratta per aver aiutato una famiglia vicina povera e malata, appassionata di pianoforte, timidissima e altruista.  Infine, il “piccolo Raffaello” ovvero Amy, appassionata di arte, goffa, spocchiosa e con il naso schiacciato, sempre la numero due: sarà lei ad andare in Europa con la zia March, che inizialmente aveva proposto il viaggio a Jo, e sarà lei che sposerà Laurie, che si era dichiarato a Jo, vivendo così nell’alta società.

Protagonista indiscussa del film Josephine che corre nella scena iniziale per far pubblicare un suo racconto e che nella scena finale tiene in mano una copia stampata di Little Women dopo aver sparpagliato insonne sul pavimento della soffitta centinaia di fogli riempiti di getto e dopo aver abilmente contrattato le royalties. E Jo così apparentemente forte, iperattiva e tenace, è in realtà una ragazzina fragile che non vuole crescere e che gioca a teatro, affronta la vita ma non con la stessa scioltezza di Meg, dovrà rinunciare a Laurie fedele al suo spirito libero ma piangerà il vuoto d’amore che lei stessa si è creata, si dichiarerà a Fritz sollecitata dalle sorelle e ormai in età matura. È attraverso lo sguardo di Jo che lo spettatore vede il film: la vita passa, restano i ricordi, gli eventi ciclici che inevitabilmente impongono i confronti con gli anni precedenti, la morte dei propri cari e la memoria dei momenti trascorsi insieme che si fissa come una bolla di sapone, gli oggetti (ad esempio la cassetta delle lettere in giardino) che trattengono attimi di vita svanita o che impolverati (i mobili di zia March) sono cullati dal silenzio.

«Vorrei che portassimo ferri da stiro sulla testa per impedirci di crescere. Ma disgraziatamente i boccioli diventano rose e i gattini gatti».

 

Rossella Farnese

 

[Nell’immagine di copertina: una scena del film]

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Il cinema riscopre le favole per raccontare l’attualità

Una storia vecchia quanto il tempo può riuscire a raccontare in modo verosimile il presente? Nell’era delle fake news dilaganti, dell’iperconnessione social e della verità spiata e distorta, come si può mettere in scena il grande caos della quotidianità? Il cinema hollywoodiano si è arrovellato spesso su questi interrogativi nel corso degli ultimi mesi e la conclusione a cui è arrivato sembra essere tanto scontata quanto efficace.

Per trovare, nel 2017, un cinema che sia ancora in grado di raccontare la realtà che ci circonda, gli spettatori devono tornare in sala a vedere e riscoprire i grandi film d’animazione del passato, aggiornati in chiave moderna. Basta con i documentari impegnati, i thriller a sfondo politico o i film horror pieni zeppi di messaggi sociali nascosti. Oggi la quotidianità passa attraverso i grandi studi d’animazione Disney e Pixar che, faticando a trovare idee originali per nuovi soggetti, preferiscono spesso ri-adattare sul grande schermo i cartoni animati che hanno segnato l’infanzia di intere generazioni di spettatori. Così, dopo il noioso Cenerentola di Kenneth Branagh e il digitalissimo Libro della giungla di Jon Favreau, ecco arrivare al cinema La bella e la bestia di Bill Condon. Musical in live action che, in apparenza, nulla aggiunge alla storia raccontata dal celebre cartone animato nel 1991 ma che in verità inserisce numerosi riferimenti al nostro presente. Alcuni già insiti di per sé nella favola originaria (la ricerca di un amore che vada oltre le apparenze, l’accettazione del diverso e l’eterno confronto tra bene e male), altri molto più innovativi e attuali (la sequenza del presunto ballo gay è costata alla pellicola il ritiro immediato dal mercato malesiano). Non solo: se il super blockbuster con protagonista Emma Watson strizza l’occhio alla comunità Lgbt, il nuovo film della Pixar cerca di ingraziarsi il  mercato messicano, messo alla gogna dalla nuova amministrazione Trump. Il trailer di Coco ha già registrato migliaia di visualizzazioni in pochissimi giorni e si prepara a diventare uno dei titoli più attesi della prossima stagione.

Il cinema d’animazione entra così di prepotenza nella nostra attualità e gli incassi, per il momento, sembrano dargli ragione. Forse perché, come sosteneva la scrittrice Ida Bozzi, siamo tutti testimoni dell’eternità delle favole. La favola ha il potere della trasmissione di padre in figlio, anzi molto spesso di madre in figlio. Ha il potere dell’identità, la porta fino a noi. Le fiabe sono più antiche della rivoluzione industriale, più semplici di Platone (forse) e più trasportabili del Partenone, ma ugualmente sono un bagaglio comune e nostro. Sono la chiave di lettura per capire che al cinema si può ancora raccontare ciò che quotidianamente ci circonda, senza perdere minimamente il piacere di sognare a occhi aperti.

Alvise Wollner

[Immagine tratta da Google Immagini]