Credenze che crollano: la guerra e i lussi che vogliamo permetterci

La guerra è uno shock perché dissolve ogni certezza: ci sbatte sul muso il fatto che la nostra quotidianità sta in piedi perché è sostenuta da una miriade di cose che diamo per scontate, come un prodotto in offerta speciale che riceve poche attenzioni, al punto da poter essere dato via con poco o nulla.

Abbiamo tantissime convinzioni prese per buone senza farci troppe domande. Alcune sono esplicite, avvertite: sappiamo di averle. Altre sono implicite, inavvertite: non sappiamo di averle. Eppure le abbiamo: se credi sotto al tuo letto non ci sia un mostro, credi anche che non ce ne siano due, tre, ecc. Oppure, tutti crediamo che almeno sette persone in Francia abbiano visto un albero almeno una volta e che più di nove abitanti di Roma abbiano notato il Colosseo, ma non ci abbiamo mai fatto caso sinora: lo davamo per scontato. I filosofi provano un gusto tutto particolare nell’aprire le nostre credenze mentali per vedere se e dove avevamo riposto qualche credenza implicita: è il loro settore professionale. Infatti, essi sono specialisti nel fare emergere non semplicemente il network dentro cui ci muoviamo, come i motivi per cui scegliamo di leggere libro-A piuttosto che libro-B, bensì il background a partire da cui ci muoviamo: il fatto che i libri presentino caratteri leggibili1.

Chi mai si soffermerebbe a notare qualcosa del genere?! Un filosofo, giustappunto. Ma gli antropologi insegnano: gli umani hanno bisogno di presupposti che sono tali, ovvero «funzionano come puntelli», solo se «sono resi impliciti, non consapevolizzati»2. Se tocca farci particolare attenzione, qualcosa non va. Non chiameresti un idraulico se le tubature funzionano, o – quantomeno – lo faresti per un controllo di manutenzione ordinaria, non per romperle e ricostruirle: costerebbe troppo. I filosofi si muovono invece come idraulici in un parco giochi fatto di tubature di cui vanno cercate senza sosta le crepe: divertente, almeno per alcuni, ma come lo è appunto un passatempo ludico, che richiede uno spaziotempo circoscritto, separato dal serio.

Al di fuori del gioco, infatti, è appunto con la guerra che tutto ciò che davamo per scontato smette di funzionare e diventa così percepibile. Essa toglie la terra da sotto i piedi, letteralmente: ponti collassati, strade distrutte, aeroporti bombardati, elettricità interrotta, … La guerra fa venire in superficie tutto ciò che fa parte della nostra infrastruttura, ossia l’insieme di cose che dobbiamo dare per ovvie per vivere, in senso tanto simbolico quanto materiale: lo scoppio di una guerra costringe a dare esplicita attenzione a quanto veniva sino a quel momento presupposto come orizzonte implicito della propria quotidianità – dai rapporti interpersonali alla mera nutrizione. Gli effetti sono devastanti: paranoia, angoscia, sfiducia, terrore. Vivere diventa impossibile. Immagina se ogni notte, durante il sonno, dovessi avere la costante certezza che il materasso su cui poggi non scompaia: la vigilanza ossessiva su tutto ciò che sei abituato a prendere per buono ha come risultato l’invivibilità. È ciò che con la guerra accade realmente. Non per gioco, non per immaginazione.

La guerra è dunque crudele anche perché porta dolorosamente in superficie la differenza che c’è tra il lusso intellettuale di esplicitare l’implicito, immaginando per esempio un esperimento mentale in cui un demone maligno digitale spegne nottetempo i cavi che alimentano il cervello nella vasca che in realtà sei, e la costrizione materiale di non poter essere nemmeno più sicuro di veder sorgere il sole l’indomani, perché un demone maligno umano ha ordinato un bombardamento a tappeto dell’edificio in cui ti proteggi. Questo deve allora portarci a provare una sorta di disprezzo per certi lussi, abbandonando ogni gioco per concentrarci sulle cose serie e gravose? Indubbiamente, ci sono frangenti in cui le necessità più basilari spazzano via o quasi ogni forma di “ricreazione”, al punto da farci percepire ogni di-vertimento, cioè ogni forma di deviazione dalla loro pressione e urgenza, come qualcosa di inappropriato e infantile, o addirittura cinico e insensibile.

Tuttavia, certi momenti rendono evidente anche che l’umanità è fatta pure di simili “lussi”: la guerra, costringendo a difendere la vita, rischia di assuefarci al fatto che sopravvivere è già quanto basta. Ma non è così: la vera vittoria sarà quando chi oggi è esposto ai colpi di artiglieria e missili che sgretolano certezze ed edifici potrà tornare a gustarsi il lusso di far vacillare ed eventualmente crollare credenze soltanto a parole.

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1. Cfr. J. R. Searle, Mente, linguaggio, società. La filosofia nel mondo reale (1998), Cortina, Milano 2000, pp. 114-115.
2. F. Remotti, Etnografia nande. II. Ecologia, cultura, simbolismo, Il Segnalibro, Torino 1994, p. 21.

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COVID-19: cosa lascia delle nostre case?

Tra il XIV e il XV secolo, come diretta conseguenza delle drammatiche epidemie di peste che afflissero l’Europa, a Venezia vennero istituiti i primi provvedimenti volti a ridurre le possibilità di contagio nei territori della Repubblica1. Fu nello stesso periodo che nacque il primo lazzaretto, edificato sull’isola di Santa Maria di Nazareth (poi Lazzaretto Vecchio), un luogo in cui confinare persone, merci, animali sospetti per quaranta giorni, in una forma di isolamento forzato preventivo, detto, per l’appunto, quarantena. Attuando una curiosa simmetria, le misure introdotte dai diversi Dpcm dall’8 marzo in poi in merito all’emergenza COVID-192 ci costringono (giustamente) a domicilio per una trentina di giorni: il lazzaretto, in un certo senso, è oggi casa nostra.

La Cina ha comunicato al mondo di aver superato il picco dell’epidemia e rimbalza su alcune testate giornalistiche la notizia per cui al termine della quarantena, in una città cinese, si sarebbe registrato un insolito picco di divorzi3. Non voglio entrare nel merito della questione (pur reputandola quantomeno interessante), ma l’idea di rimanere chiuso tra le mura domestiche mi ha portato a riflettere sul ruolo della casa nella nostra vita, sul rapporto tra questi due luoghi dell’anima e sui nuovi equilibri che, proprio in ragione dell’attuale pandemia, verranno almeno momentaneamente a configurarsi.

In questi giorni in cui muri e barriere vengono eretti dove prima avevamo libero passaggio, il concetto di vita diventa improvvisamente centrale e il concetto di fine vita non riguarda più solo gli ospedali e le cure palliative, ma entra con forza nelle nostre case, nei nostri moderni lazzaretti, accompagnato dai bollettini di guerra e dalle nostre paure. Durante questa guerra, COVID-19 ci dimostra quanto siamo fragili, quanto fragile è il mondo che abbiamo costruito e quanto più dimostra di esserlo quello virtuale, perché nei reparti degli ospedali non un solo modesto abbraccio potrebbe arrivare con il 5G, nelle terapie intensive in cui oggi si muore isolati, lontani da casa, dalla propria vita.

Ci troviamo in contumacia, piegati alle (e dalle) regole della medicina preventiva, la medicina dei calcoli probabilistici e delle costanti, sopraffatti dall’impotenza causata da un virus, un organismo del mondo invisibile, decine di migliaia di volte più piccolo di quanto noi riusciamo a vedere ad occhio nudo, di quanto riusciamo a percepire come reale. Al riparo nelle nostre case, ci rendiamo conto di quanto possa essere rapido perdere anche quei diritti che, nel nostro occidente, diamo per intangibili: il diritto alla vita, alla libertà personale, al lavoro. Siamo spogliati di tutto questo e, forse, resi l’un l’altro più simili.

Nell’emergenza siamo costretti a riflettere su noi stessi, sulle nostre posizioni politiche e sociali, sul mondo che stiamo costruendo, osservando come sia facile passare dal respingere all’essere respinti, dalle discussioni dei vaccini nei salotti televisivi a cercarne disperatamente uno, dalle percentuali di una manovra economica alla realtà di un sistema sanitario depauperato ed esausto.

COVID-19 ha acceso una luce all’interno delle nostre case. Ha sollevato i nostri tappeti e frugato nell’intimità dei nostri cassetti. E quindi, forse, quella che poteva sembrare una piccola crepa, adesso che è illuminata si mostra nella sua interezza. Ed è tale nuova consapevolezza che, nostro malgrado, scuote la nostra vita alle fondamenta, svuotando la nostra casa delle certezze degli affetti, della libertà e del lavoro, esponendola al duro confronto con ogni crepa che sino ad ora abbiamo potuto ignorare.

È chiaro che lavar(sene) le mani non è più sufficiente, ci ricordiamo che “siamo tutti contingenti”, come era solita ripetere la professoressa di Filosofia del Liceo, ma è proprio tale condizione che ci consente di riflettere su una ulteriore emergenza, che riguarda quanto conosciamo la nostra casa, intesa anche come casa della collettività, come vogliamo ripararla e come ne immaginiamo il futuro.

 

Lorenzo Spadotto

Medico Chirurgo, sono laureato in Medicina e Chirurgia e per la maggior parte del mio tempo lotto costantemente per avere più tempo a disposizione per nuovi progetti e nuove sfide. Svolgo correntemente la professione medica presso diverse strutture in cui mi occupo di medicina generale e medicina estetica. Mi occupo per passione di formazione in campo medico per sanitari e non sanitari. Ho un archivio pieno di idee non realizzate, ma tutte mi hanno insegnato qualcosa.

 

NOTE
1. “Lo spavento fu tale che, per paura del contagio, il padre non voleva andare dal figlio né il figlio dal padre, ma si fece l’impossibile per frenare l’epidemia”, A. ZORZI, La Repubblica del Leone, Storia di Venezia, Bompiani, 2016, p.177.
2. COVID19 = coronavirus disease 2019; SARS-CoV-2 =Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus 2

3. Chinese city experiencing a divorce peak as a repercussion of COVID-19, Global Times, 7 marzo 2020.

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Aleppo sta morendo

<p>Syrians leave a rebel-held area of Aleppo towards the government-held side on December 13, 2016 during an operation by Syrian government forces to retake the embattled city.<br />
UN chief Ban Ki-moon expressed alarm over reports of atrocities against civilians Monday, as the battle for Aleppo entered its final phase with Syrian government forces on the verge of retaking rebel-held areas of the city.</p>
<p> / AFP / KARAM AL-MASRI        (Photo credit should read KARAM AL-MASRI/AFP/Getty Images)</p>

11 dicembre 2016:
«Aleppo viene liberata», è l’annuncio di Sergej Lavrov – Ministro degli Esteri russo – e dei comandi militari delle forze lealiste siriane.

«Questo potrebbe essere il mio ultimo messaggio», è l’incipit dei tweet o i video postati sui social network da parte degli abitanti.

La città può dirsi pressoché sotto il controllo di Assad, sebbene la caduta di Aleppo non possa dirsi ancora completata in quanto alcuni quartieri sono in mano ai ribelli. Il successo delle forze pro-regime sta spingendo ad un’evacuazione forzata di gran parte della popolazione della zona Est. Le tregue umanitarie sono spesso disattese da entrambe le parti. Le Nazioni Unite lanciano l’allarme: «Si sta consumando un’autentica crisi umanitaria». Sarebbero 100.000 le persone senza cibo e medicinali. Le parole di Bashar al-Assad lasciano poco spazio alla libera interpretazione: «Vittoria, ma non è la fine della guerra». Le forze pro-regime continuano così a commettere violenze contro i civili, con il supporto più o meno velato da parte di Russia e Iran.

Aleppo è stata liberata, ma i suoi abitanti possono dirsi liberi? Possono dirsi liberi i vari Eichmann – lealisti siriani – che stanno commettendo atrocità e torture sui civili? Possono definirsi liberi i ribelli che stanno mettendo in primo piano il fine senza curarsi dei mezzi per raggiungerlo? Possono definirsi liberi coloro che banalmente definiamo “i civili”?

«Qual è l’area entro cui si lascia o si dovrebbe lasciare al soggetto di fare o di essere ciò che è capace di fare o di essere, senza interferenza da parte di altre persone? […] Che cosa, o chi, è la fonte del controllo o dell’ingerenza che può indurre qualcuno a fare, o ad essere, questo invece di quello?»1

È la distinzione tra l’idea di libertà come assenza di impedimento e/o di costrizione, e la libertà come autonomia, come autodeterminazione da sé. Probabilmente dare una definizione del termine “Libertà” è indispensabile.

In accordo con Berlin «La libertà […] non è l’azione in se stessa, ma piuttosto la libertà dell’azione […]. Libertà è avere la facoltà di agire, non l’azione in sé; è la possibilità dell’azione e non necessariamente quella realizzazione dinamica di essa […]».

Il limite della libertà esercitata dal governo non era tanto determinato dalla sua forma quanto, piuttosto, il grado della sua intrusione nelle scelte individuali. Bashar al-Assad è un intruso? Un dittatore?

In questi anni non ha concesso nulla alla realtà naturale, plurale e partecipativa della società. Definì, piuttosto, un’area intrisa di negazione, esclusione, dominazione, discriminazione, ingiustizia. Il risultato fu l’innalzarsi della richiesta di democratizzazione, attraverso cui tutti i popoli possono ottenere i propri diritti e la libertà di svilupparsi.

La democrazia, tuttavia, per essere reale, esige il rispetto delle libertà personali, libertà di espressione e di discussione, libertà di associazione e di riunione. L’elezione non significa nulla se non comporta la libertà di scelta. La libertà non rappresenta un semplice accessorio, è un valore da perseguire. Esige, pertanto, delle garanzie affinché ciascuno abbia riconosciuto il diritto di realizzare se stesso in modo proprio. Furono proprio quelle garanzie che vennero meno nel governo di Assad. Le stesse garanzie che mancheranno nei mesi che seguiranno.

Aleppo è stata liberata, ma i suoi abitanti?

Jessica Genova

Cronache di ordinaria migrazione

<p>Lawrence, ,Jacob</p>

“C’è un’invasione”, “Ci rubano il lavoro”, “Dormono in hotel di lusso”, “Arrivano e non se ne vanno più”, “Sono incivili e non rispettano le nostre leggi”, “Con gli immigrati aumenta la criminalità”: queste sono solo alcune delle false credenze che aleggiano nell’immaginario di una buona parte della società italiana.

Centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini, in fuga da conflitti, violazioni dei diritti umani, hanno attraversato il Mediterraneo in cerca di un luogo sicuro, di una vita migliore e di un po’ di pace. Un flusso di persone che, in assenza di canali sicuri, ha viaggiato nell’illegalità. Persone che identifichiamo sotto la categoria ‘immigrati’.
Umberto Eco apportò una distinzione tra immigrazione e migrazione.
Si parla di ‘immigrazione’ quando alcuni individui si trasferiscono da un paese all’altro. È un fenomeno che ha riguardato la modernità dalle sue origini ed è da essa imprescindibile. Inoltre, i fenomeni di immigrazione possono essere controllati politicamente, limitati e accettati.
Dall’altra parte troviamo le cosiddette ‘migrazioni’, le quali sono paragonabili a fenomeni naturali: sono incontrollabili.
Oggi, in un clima di mobilità internazionale, è possibile distinguere l’immigrazione dalla migrazione?
Non lo possiamo sapere, ma quel che è certo è che parlare di ‘emergenza immigrazione’ risulta errato.
Gli arrivi del 2016 sono in linea con quelli dell’anno precedente. Non un’emergenza, ma un flusso di carattere ormai strutturale di migranti.

L’emergenza reale inizia il giorno dopo.
Sono 160.000 le persone ancorate ai sistemi di accoglienza; di cui 123.000 restano per mesi in centri ‘straordinari’, i ‘non-luoghi’ dove i migranti passano dall’essere profughi a fantasmi.
Oggi il 60 per cento delle richieste d’asilo viene rifiutata. Questo vuol dire che 6 migranti su 10 diventano ‘nessuno’.
Perché questa drammatica goffaggine nell’affrontare tale situazione?
I governi, anziché promuovere la solidarietà tra gli stati membri dell’Unione Europea, hanno investito le loro risorse per tutelare i confini nazionali.
Una delle rappresentazioni di questi fallimenti è l’approccio hotspot mascherato dalle parole chiave ‘controllo’ e ‘condivisione delle responsabilità’. Il suo obiettivo è quello di associare maggiori controlli sui rifugiati e migranti all’arrivo e distribuire una parte dei richiedenti asilo in altri stati membri.
Per raggiungere tale fine, le autorità italiane si sono spinte ai limiti di ciò che è ammissibile secondo il diritto internazionale dei diritti umani.
Detenzione prolungata, l’uso della forza fisica, trattamenti disumani e degradanti sono le modalità che spesso vengono utilizzate.
L’approccio hotspot prevede, inoltre, uno screening anticipato e rapido dello status delle persone sbarcate, separando i richiedenti asilo da coloro ritenuti ‘migranti irregolari’.
Ancora oggi, tuttavia, la componente di solidarietà del suddetto piano ha sembianze utopiche.

Eppure la solidarietà è l’unica via di uscita per svincolarsi da questo impasse.
Per Bauman «i problemi globali si risolvono con soluzioni globali». La vera cura va oltre il singolo Paese, per quanto grande e potente che sia. E va oltre anche una ricca assemblea di nazioni come l’Unione Europea.
Infine, in un mondo in cui «i confini non vengono delineati per gestire le differenze, ma sono queste ultime che vengono create perché sono stati delineati i confini»1, è doveroso cambiare la nostra mentalità.
Occorre abbandonare una volta per tutte la separazione, le barriere e l’alienamento che ci siamo autoimposti in questi ultimi anni creando un alto muro chiamato ‘noi’ e ‘loro’.

Jessica Genova

NOTE:
1. F. Barth, Ethnic Groups and Boundaries. The Social Organization of Culture Difference, Oslo Universitetsforlaget, 1969.

[Immagine tratta da Google Immagini]