C’è un medico in seggio? Elezioni in stato di emergenza

In diversi comuni italiani, è tempo di elezioni. Se è il caso anche del posto in cui vivi, puoi provare a partecipare al seguente piccolo esperimento: quando sei in giro, presta attenzione ai vari manifesti elettorali di chi si candida a sindaco o a consigliere. Bene, noti qualcosa in Comune?

A me ha colpito in particolare un aspetto: nelle immagini, più di un candidato indossa un camice da medico o farmacista, spesso brandendo uno stetoscopio, accompagnato da frasi come “la mia ricetta per città-X” o “con me sei al sicuro”. Evidentemente, non è un caso e la ragione di tutto ciò è facilmente comprensibile: effetto-pandemia, in almeno due sensi.

Il primo senso è più politico-politicante: i vari esponenti di partiti e movimenti hanno annusato l’aria e cercano di cavalcare il trend del momento. “La gente” comincia ad avere come riferimento personale sanitario di varia natura? Allora servono candidati provenienti da quelle file! “Il popolo” comincia a fidarsi di chi ha a che fare con la salute? Allora sotto con l’arruolamento di (pseudo)esperti del settore!

Il secondo senso è più politico-sociale, direi filosoficamente più interessante: che cosa significa il fatto che le persone iniziano a ritenere affidabili i “professionisti della salute”? Senza chiamare ora in causa la biopolitica (ne ho parlato qui), si può dire che stiamo assistendo alla politicizzazione di una parte della società che prima di oggi non aveva (una simile) rilevanza politica. Tra i primi sintomi abbiamo avuto la presenza e il séguito in crescita esponenziale di virologi, epidemiologi e annessi in talk-show e social: la loro diventava una voce in capitolo, se non La Voce per eccellenza – per la gioia dei neo-followers e la frustrazione dei neo-haters.

Così, quando si tratterebbe di fare politicamente sul serio (almeno in teoria), ecco che oltre alle voci servono anche “anima e corpo”: professionisti della salute di ogni tipo assumono un valore politico tutto nuovo e peculiare, come fossero in grado di agire in maniera politicamente buone ed efficace per il solo fatto di essere medici, infermieri, farmacisti, nutrizionisti e via dicendo (già, ma fin dove arriva l’elenco?). In passato, nei manifesti elettorali campeggiavano scritte come “Presidente operaio”: leggeremo presto in giro “Presidente medico”? Insomma, oggi chi si occupa di salute è investibile di un ruolo pubblico, di una funzione politica: manifesta un valore immediatamente comune.

Provo adesso a leggerti nel pensiero: “ok, ma questa cosa è un bene o un male?”. Sarò onesto: non lo so con precisione, perché mi sembra ci sia del bene e del male nella faccenda. Per capirlo, facciamoci aiutare da un’intuizione di Platone ancora significativa dopo oltre 2500 anni 1che influencer!

Una società si compone di diversi ambiti, “tecniche” per Platone e “professionalità” per noi: ciascun ambito è importante e contribuisce alla società, ma il bene sociale generale non coincide con il bene di nessun ambito preso singolarmente. Per un gommista è un bene avere gomme che si bucano ogni 5km; per un produttore di gomme, un guidatore e il traffico stesso no. Inoltre, nessuno specifico “professionista” è competente intorno al Bene complessivo della propria società, essendo preso – giustamente – dal proprio lavoro e dai propri affari. Beh, quasi nessuno, perché Platone aveva un coniglio nel cilindro, che gli è valso persino l’accusa di essere il fondatore di ogni forma di ingegneria sociale o totalitarismo tecnocratico: esiste un tecnico strano q.b., specializzato nella generalità, in grado di cogliere Il Bene DOP, dunque anche Il Bene Sociale. Perciò, tale professionista rappresenta il Candidato Ideale per agire come Politico in senso pieno: vota quindi… il filosofo, curerà l’anima tua e della società!

Possiamo ora tornare alla tua legittima domanda. È un bene che i riflettori sociali comincino a essere puntati su una categoria data per scontata, come ora i virologi (o pensa ai pompieri USA dopo l’11/09), o su una addirittura ostracizzata, come magari in futuro i sex-worker: anche loro fanno la propria parte! Eppure, è un male se si perde di vista quell’“anche”: ok, prendersela con i filosofi è più facile, perché si fatica a capire cosa davvero facciano; ma nemmeno un medico, per quanto si sappia meglio cosa faccia, incarna Il Bene Sociale o possiede una qualche Super-Competenza in merito. Insomma, vota pure il tuo medico di fiducia, ma non sperare che basterà a sconfiggere il nemico più temuto in comune: le buche stradali.

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1. Un ottimo testo che discute tutti i seguenti aspetti è G. Cambiano, Platone e le tecniche, Laterza, Roma-Bari 
1971.

[Immagine tratta da Unsplash]

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Imparare a sperare. La sinistra italiana a lezione da Ernst Bloch

Alla stagnante sinistra italiana, e non solo a quella del nostro paese in realtà, farebbe davvero bene legge il Principio Speranza di Ernst Bloch. Riconosco che le più di 1500 pagine dell’opera possano spaventare anche i più audaci, perciò cercherò di offrire un breve riassunto della tesi principale, così da evidenziare la sua importanza in questo delicato momento storico.
Il filosofo tedesco descrive la condizione ontologica umana come oscurità dell’attimo vissuto: l’uomo è ciò caratterizzato da uno stato di indefinitezza e incompiutezza, avverte che “qualcosa manca”, ma non riesce a dare un nome a questo vuoto. Perciò si spinge sempre in avanti, anticipa il futuro, colma il vuoto con l’immaginazione. I due principali sentimenti di anticipazione sono la paura e la speranza e Bloch decide di costruire la sua filosofia sul secondo, anche perché la capacità di reagire a una condizione di oppressione sperando in un orizzonte più luminoso è propria solo dell’uomo.

Bloch accumula quindi utopie provenienti da letteratura, arte e religione, sottolineando come ogni visione politica (lui si rivolge soprattutto al marxismo, visto che proviene da quella corrente di pensiero) necessiti della visione di un mondo migliore per avere lo slancio per superare la realtà oggettiva.
A differenza di Bloch la sinistra italiana ha evidentemente preferito un discorso basato sulla paura. Poiché incapace di sviluppare una propria immagine di futuro, nell’ultima campagna elettorale si è impegnata a evidenziare come quella dei cosiddetti partiti populisti manchi di coperture economiche. Da quando poi il “governo del cambiamento” è salito al potere, la sinistra sembra essere capace solo di ripetere che tale cambiamento porterà alla rovina economica e a un regresso culturale e morale, senza però indicare una via alternativa.
Anche condividendo l’idea che il cambiamento proposto dai populisti conduca a un imbarbarimento, bisogna ammettere che essi hanno saputo aprire nuove vie in una realtà sclerotizzata, percepita come insopportabile nella sua soffocante immutabilità. Contro al tatcheriano “there is no alternative”, i populisti di tutta Europa hanno riscoperto fin dal loro nome le categorie di Possibilità (Podemos in Spagna) e Alternativa (Alternative für Deutschland in Germania).

La sinistra, italiana e non, non può pensare di rispondere a queste proposte soltanto evocando la paura di un cambiamento in peggio, anche perché persone insoddisfatte, spesso disperate, sfidano anche la paura pur di trascendere lo stato presente. Spesso si sente ripetere che la soluzione sia tornare a “far sognare” l’elettorato, ma Bloch rifiuterebbe questo gioco da illusionisti fatto di mirabolanti e vuote promesse elettorati. Il punto è che le persone già sognano un futuro migliore, una realtà diversa in cui i loro bisogni siano realizzati. Invece di svilire questa speranza come ingenuità, la sinistra dovrebbe cercare di trasformarla in docta spes, in utopia concreta, che si radica nella realtà, ne coglie le tendenze di trasformazione e le convoglia in una spinta in avanti.

«La speranza fondata, cioè mediata con ciò che è realmente possibile, è così lontana dal fuoco fatuo, da rappresentare appunto la porta almeno semiaperta, che sembra aprirsi su oggetti propizi, in un mondo che non è divenuto e che non è una prigione».

 

Lorenzo Gineprini

 

[Photo credits: Kristopher Roller via Unsplash.com]

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Ragione e sentimento nell’elettorato: perché abbiamo perso la ragione

<p>Ragione e sentimento</p>

Saper riconoscere i propri sentimenti ed esprimere le proprie emozioni è fondamentale. Far andare a braccetto ragione e sentimento, è un’altra storia. Eppure oggi è più fondamentale che mai.
In un precedente articolo, scrissi di un cambiamento culturale in seno alla società occidentale iniziato nella seconda decade degli anni Duemila, e sviluppatosi in antitesi a quello che le epoche precedenti rappresentavano. Tra le caratteristiche di questo cambiamento c’è il ritorno sulla scena pubblica (oltre che privata) delle emozioni.

Si tratta, di per sé, di una tendenza positiva: il coraggio di esprimere le proprie sensazioni è alla base del benessere quotidiano di ogni individuo. Tuttavia, allontanandoci da una prospettiva micro e assumendo un punto di vista macro, la situazione non appare poi così rosea. Infatti se per la sfera privata si tratta di una scelta personale, appunto privata, per quanto riguarda la sfera pubblica, questo cambiamento può avere ricadute più evidenti, come da ultimo dimostrato da decisioni storiche degli ultimi anni.

Nel periodo post-Brexit, nel tentativo di dare una spiegazione alla scelta dei britannici, è stato coniato il concetto di post-verità: la decisione sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è infatti considerata uno dei frutti della cosiddetta era della post-verità. Quando si parla di post-verità ci si riferisce a quel fenomeno per cui un’informazione è giudicata positivamente quando suscita emozioni e sensazioni nell’ascoltatore: a definire la rilevanza di un’informazione pertanto non è la veridicità fattuale della stessa, ma la sua capacità di parlare “alla pancia” di chi ascolta. Secondo questo principio, le decisioni, quelle collettive del livello macro, vengono prese sulla base del fatto che ciò che trova riscontro nelle proprie emozioni, non può che essere vero e soprattutto giusto, perché vere e giuste sono le emozioni stesse. Tuttavia, tale meccanismo può risultare drammaticamente fuorviante, nonché pericoloso quando su questa scelta si determina il proprio voto politico.

In tal senso, può essere utile ricorrere all’esempio dell’adrenalina. L’adrenalina è infatti un neurotrasmettitore che messo in circolo in seguito ad eventi stressanti prepara l’organismo ad una prestazione fisica superiore alla normalità, necessaria per la sopravvivenza in una situazione che l’individuo (o l’animale) ha percepito di pericolo. Se per l’animale tale sostanza è fondamentale nella lotta contro un predatore o per la preda, per l’uomo che non è più chiamato a lotte fisiche per la sopravvivenza, l’adrenalina diventa controproducente poiché abbassa la capacità di ragionare e causa confusione mentale. In preda ad una emozione forte, l’adrenalina fa concentrare un individuo esclusivamente su un singolo elemento, mettendo da parte tutte le altre circostanze, che seppur rilevanti perdono attrattiva. Questa visione parziale lo porta a decisioni che non sono razionali.

L’esempio dell’adrenalina, per quanto estremo, esemplifica la situazione nell’era della post-verità, dove emozioni e sentimenti sono eretti a portatori di verità. Davanti ad una scelta complessa, per esempio quella di un voto politico, si tende a semplificare il processo decisionale a cui si è chiamati, concentrandosi solo su pochi elementi a scapito della totalità delle informazioni che rappresentano la realtà. In particolare, gli elementi favoriti saranno quelli che sono in grado di suscitare emozioni e sensazioni, secondo un processo mentale generalmente inconsapevole. Informazioni che sembrano poco attraenti, seppur fattuali o scientifiche, vengono ignorate o, peggio, considerate false (per esempio, pilotate da chi vuole farci credere in una realtà che è costruita a vantaggio dei poteri stabiliti, secondo un meccanismo tipico delle migliori teorie complottiste). Tutto ciò non significa che sentimenti e raziocinio siano inconciliabili, nemmeno davanti ad una scelta come quella del voto.

Parlando di salute mentale, la duchessa di Cambridge ha ricordato recentemente che è importante insegnare ai bambini a comunicare i propri sentimenti quando si rendono conto che sono troppo grandi e troppo forti per affrontarli da soli1. Per i bambini questo è un primo importante passo verso una stabilità emotiva. Quando si diventa adulti e pertanto membri a tutti gli effetti di una comunità civile e politica, esprimere le emozioni ed assecondarle non è più sufficiente: è necessario compiere un ulteriore passo, quello verso una conciliazione con la ragione. Un pezzo mancante e fondamentale di questo cambiamento in favore delle emozioni, è infatti la capacità di riconoscerle, nel senso di identificarle, spiegarle e interpretarle. Un adulto deve imparare a chiedersene il motivo, a riflettere sulle stesse per ricomporre tutti gli elementi della situazione che lo circonda: è chiamato a far sorreggere le proprie emozioni dalla ragione. Questo risulta particolarmente importante in un periodo come quello della post-verità, quando il rischio è che certe decisioni vengano prese su una scia emotiva che ha più l’effetto dell’adrenalina che di una salutare presa di coscienza emotiva.
Riconoscere questo tassello mancante e spiegarlo agli adulti di oggi, forse ci aiuterà a porre fine all’epoca della post-verità e a ricreare un elettorato più cosciente e coscienzioso, per non dire più razionale.

Francesca Capano

 

NOTE:
1. Le sue parole in questo video

 

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Cos’è l’AfD, chi l’ha votata e come sta reagendo la Germania

<p>immagine da google immagini</p>

Uno studente italiano migrato in Germania cerca di spiegare meglio l’AfD, il partito tedesco di estrema destra protagonista del momento.

 

La stampa italiana, sull’onda di quella tedesca, ha dato una narrazione quasi unilaterale di queste elezioni in Germania, sottolineando il grande risultato dell’AfD (Alternative für Deutschland), che ha ottenuto il 12,6% ed è quindi cresciuta dell’8% rispetto alle ultime elezioni. Per una sorta di tacito accordo poi tutti i giornali italiani hanno iniziato a connotare l’AfD come “ultradestra”. Suppongo che il termine dovrebbe evocare qualcosa di enorme e mostruoso, ma in realtà non significa quasi niente. Se ve li immaginate come dei cloni della Lega di Matteo Salvini vi sbagliate. Il leader del partito Alice Weidel ha un dottorato in economia, è lesbica con una compagna di colore e due bambini; non proprio un ritratto simile a Salvini insomma. Tuttavia lo stesso partito ha come figura di spicco anche Alexander Gauland (che invece ricorda Salvini anche fisicamente, solo un po’ più anziano e avvinazzato), il quale subito dopo la vittoria ha aizzato la folla al poco rassicurante grido di “Wir werden sie jaggen” ovvero “le (alla Merkel) daremo la caccia”.

Due figure che rappresentano bene le due anime del partito. Da un lato il volto più arrabbiato e popolare, che raccoglie i voti delle classi povere ad Est, dall’altra la faccia più rassicurante che intercetta l’insoddisfatta borghesia del Sud. Per capire meglio la Germania e il suo voto forse occorre comprendere meglio queste due classi. L’Est è stato il più grosso bacino di voti dell’AfD, con una media del 22,5% dei voti. Se lo si somma al 17,4% della Linke, partito di sinistra radicale, si nota che quasi il 40% della popolazione ha dato un voto di protesta contro il governo: evidentemente quell’immagine della Germania ricca e felice che ci viene proposta non è vera ovunque.

Diversa è la situazione a Sud, dove i voti sono stati meno (intorno al 12%) e sono arrivati per lo più da ex elettori della CDU. La borghesia benestante (e non troppo colta) delle cittadine della Bavaria e del Baden-Württemberg non ha digerito la politica migratoria della Merkel, che ha fatto entrare troppe persone senza imporre sufficienti controlli e regole di integrazione. In realtà in questi paesini l’immigrazione si è vista più alla tv che sentita sulla propria pelle, ma notizie come quelle delle violenze di Colonia la notte di Capodanno sono state sufficienti. Se la Lega in Italia tende ad indicare nell’immigrazione la causa della povertà e della mancanza di aiuto dello Stato, l’AfD, agendo in un paese più ricco, usa una strategia diversa, mirata a difendere i valori tradizionali (qua potete vedere un esempio di una loro pubblicità, che fa abbastanza ridere se non si pensasse che ha avuto così successo).

afd-manifesti_la-chiave-di-sophiaNell’ordine i manifesti recitano: “Nuovi tedeschi? Facciamoceli da soli”, “Burka? Io preferisco il Burgunder” (vino tedesco, ndr), “L’Islam?” Non si adatta alla nostra cucina”.

La vera vittoria dell’AfD comunque non è nei numeri; perché il 12,6% consente di essere un’opposizione con una voce forte, ma non di cambiare gli equilibri del paese. La vera vittoria è la completa monopolizzazione del dibattito pubblico. Giornali e tv parlano solo più di come affrontare in parlamento l’AfD. Un settimanale serio e di qualità come die Zeit su internet fa ironia da terza media sulla notizia che il Guardian indica nei suoi grafici l’AfD con il colore marrone invece dell’abituale blu. La Merkel nel suo primo discorso dopo il voto ha già subito annunciato che bisogna riconquistare i voti dell’AfD e imporre controlli più forti sull’immigrazione. Insomma la Germania è confusa e impaurita e questo non potrà che portarla più a destra, là dove l’AfD vuole. Peccato perché in realtà di queste elezioni si potrebbero fare anche delle letture alternative a quella che incorona l’AfD: il quarto mandato di fila di Angela Merkel, che cala ma si conferma in un momento di crisi mondiale in cui una flessione era inevitabile, il voto degli under 25, che è andato molto più ai Verdi che all’AfD…

Lorenzo Gineprini

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Il connubio tra politica e cultura

A scuola ci hanno insegnato a non pensare a compartimenti stagni: anche se storia, arte, letteratura e filosofia sono materie separate, è importante capire che in ogni contesto storico esse sono strettamente intrecciate. Ma è possibile rendersene conto quando lo si vive in prima persona?

Brexit, l’elezione di Donald Trump, i timori precedenti le elezioni olandesi, tedesche e francesi, ci ricordano quotidianamente che esiste una fetta di società che non fa mistero di valori ed idee poco moderati. Solo qualche anno fa, l’elezione di personalità come Donald Trump ad una simile carica politica sembrava una prerogativa prettamente italiana e all’estero un’incredulità mista ad orrore spesso regnava di fronte alla continua (ri)elezione di un politico conosciuto per un atteggiamento poco rispettoso nei confronti delle donne.

Ma come ci hanno insegnato a scuola, la storia e dunque la politica non vivono una vita a sé stante: esse si inseriscono in un contesto culturale più ampio. Se siano esse ad influenzare o siano influenzate, è difficile da definire e con ogni probabilità dipende dallo specifico contesto storico.
Analizziamo quello attuale. L’inizio della seconda decade degli anni Duemila ha visto il delinearsi di una subcultura1 che, emersa a ridosso di un periodo di relativo benessere, si vuole porre in antitesi alla cultura di massa. Nel tentativo di differenziarsi dal mainstream (ciò che è convenzionale e maggioritario) riscopre aspetti che erano stati accantonati in nome dello sviluppo tecnologico e del benessere: il retrò e il vintage, l’ambiente e la natura, l’arte e la letteratura.

La storia dell’arte ci insegna che anche le innovazioni artistiche diventano mode: una parabola naturale che non le vede più prerogative di una nicchia di artisti, ma una caratteristica di molti, e che generalmente segna l’inizio del loro declino. In maniera simile, alcuni di questi ‘nuovi’ elementi culturali  hanno progressivamente coinvolto e interessato un numero di persone sempre maggiore. Ad oggi, alcuni di essi definiscono a pieno titolo il profilo culturale della società attuale. Basti pensare che nel 2016, il numero di vinili venduti nel mercato britannico è aumentato del 53% rispetto all’anno precedente2, o che nello stesso anno i musei italiani hanno registrato numeri di visitatori da record, in alcuni casi con un incremento del 70%3 degli ingressi.

Favorita dall’uso pressoché universale di Internet e dei social media, dalla velocità a cui le informazioni circolano e dalla libertà con cui possono essere condivise, questa cultura incontra la politica e se ne lascia influenzare.

L’incontro avviene in un contesto storico-politico dominato da incertezze, in cui le paure spingono a sostenere idee poco moderate, si mettono in dubbio le strutture esistenti ed i traguardi raggiunti, “machismo” e xenofobia ritrovano uno spazio politico proprio. In un quadro simile, il ritorno all’antico e alla natura, tipici del contesto culturale degli anni Dieci, dà convenientemente una risposta alla sensazione di insicurezza generalizzata, permettendo un ritorno alle origini che offre protezione.

Questo incontro in cui politica e cultura si rafforzano l’una con l’altra ha ripercussioni su due piani: quello pubblico e quello privato. Sul piano pubblico l’antitesi al mainstream e la volontà di differenziarsi da esso diventano opposizione di principio a tutto ciò che sembra rappresentare l’establishment. Nell’immagine collettiva il potere costituito ed il sapere riconosciuto diventano necessariamente un nemico che va smascherato: il potere politico tradizionale deve essere combattuto dalle nuove forme di democrazia; il sapere medico viene rinnegato e le sue cure rifiutate in numeri sempre più pericolosamente significativi. La sfera privata diventa l’elemento a cui guardare in cerca di protezione: al riparo da una situazione esterna caotica, la famiglia ritrova una raison d’être nella sua forma più tradizionale, ‘minacciata’ allo stesso tempo da un concetto di unità familiare non più basata sull’unione uomo-donna. Supportata da un nuovo autoritarismo politico4 e dalla ribadita importanza dei legami di sangue, si chiude dentro sé stessa, definisce una netta separazione dei ruoli all’interno del nucleo domestico e, nei casi peggiori, giustifica la violenza di genere, quasi a voler dimostrare che l’indipendenza femminile raggiunta ed il suo riconoscimento siano stati dopotutto una chimera5. Donald Trump non sarebbe potuto diventare il Presidente degli Stati Uniti d’America, senza il supporto di un contesto culturale che ritiene certi atteggiamenti nei confronti delle donne non così gravi da impedire di vincere le elezioni a colui che illusoriamente si definiva come l’anti-establishment; similarmente, un politico che ritiene che le donne siano “meno intelligenti e dunque si meritino un salario inferiore agli uomini” non si sentirebbe libero di fare certe dichiarazioni in sede di Parlamento Europeo6.

La mancanza di una capacità critica costruttiva è ancora una volta la grande lacuna dell’opinione pubblica, aggravata dalla tendenza a radicalizzare le proprie posizioni. La consapevolezza di certi perversi andamenti culturali e politici non manca completamente: è importante però saperli riconoscere, indagare e spiegare in un più ampio contesto, così da non diventarne involontariamente noi stessi suoi fautori.

Francesca Capano

NOTE:
1. Con il termine ‘subcultura’ si intende un sottoinsieme culturale che si differenzia da un insieme culturale più ampio di cui fa parte (vedi Enciclopedia Treccani).
2. P. Castelluccio, Vinile, record di vendite nel 2016, “Parkett”, gennaio 2017.
3. Dati del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, 2016
4. Russia: Vladimir Putin firma la legge che depenalizza le violenze domestiche, “Huffington Post”, febbraio 2017
5. L. Melandri, L’eterno ritorno di patria, famiglia e autoritarismo, “Internazionale”, novembre 2016
6. F. Mochi, Europarlamento, intervento choc: “Donne meno intelligenti, devono guadagnare meno”, “Adkronos”, marzo 2017

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Aleppo sta morendo

<p>Syrians leave a rebel-held area of Aleppo towards the government-held side on December 13, 2016 during an operation by Syrian government forces to retake the embattled city.<br />
UN chief Ban Ki-moon expressed alarm over reports of atrocities against civilians Monday, as the battle for Aleppo entered its final phase with Syrian government forces on the verge of retaking rebel-held areas of the city.</p>
<p> / AFP / KARAM AL-MASRI        (Photo credit should read KARAM AL-MASRI/AFP/Getty Images)</p>

11 dicembre 2016:
«Aleppo viene liberata», è l’annuncio di Sergej Lavrov – Ministro degli Esteri russo – e dei comandi militari delle forze lealiste siriane.

«Questo potrebbe essere il mio ultimo messaggio», è l’incipit dei tweet o i video postati sui social network da parte degli abitanti.

La città può dirsi pressoché sotto il controllo di Assad, sebbene la caduta di Aleppo non possa dirsi ancora completata in quanto alcuni quartieri sono in mano ai ribelli. Il successo delle forze pro-regime sta spingendo ad un’evacuazione forzata di gran parte della popolazione della zona Est. Le tregue umanitarie sono spesso disattese da entrambe le parti. Le Nazioni Unite lanciano l’allarme: «Si sta consumando un’autentica crisi umanitaria». Sarebbero 100.000 le persone senza cibo e medicinali. Le parole di Bashar al-Assad lasciano poco spazio alla libera interpretazione: «Vittoria, ma non è la fine della guerra». Le forze pro-regime continuano così a commettere violenze contro i civili, con il supporto più o meno velato da parte di Russia e Iran.

Aleppo è stata liberata, ma i suoi abitanti possono dirsi liberi? Possono dirsi liberi i vari Eichmann – lealisti siriani – che stanno commettendo atrocità e torture sui civili? Possono definirsi liberi i ribelli che stanno mettendo in primo piano il fine senza curarsi dei mezzi per raggiungerlo? Possono definirsi liberi coloro che banalmente definiamo “i civili”?

«Qual è l’area entro cui si lascia o si dovrebbe lasciare al soggetto di fare o di essere ciò che è capace di fare o di essere, senza interferenza da parte di altre persone? […] Che cosa, o chi, è la fonte del controllo o dell’ingerenza che può indurre qualcuno a fare, o ad essere, questo invece di quello?»1

È la distinzione tra l’idea di libertà come assenza di impedimento e/o di costrizione, e la libertà come autonomia, come autodeterminazione da sé. Probabilmente dare una definizione del termine “Libertà” è indispensabile.

In accordo con Berlin «La libertà […] non è l’azione in se stessa, ma piuttosto la libertà dell’azione […]. Libertà è avere la facoltà di agire, non l’azione in sé; è la possibilità dell’azione e non necessariamente quella realizzazione dinamica di essa […]».

Il limite della libertà esercitata dal governo non era tanto determinato dalla sua forma quanto, piuttosto, il grado della sua intrusione nelle scelte individuali. Bashar al-Assad è un intruso? Un dittatore?

In questi anni non ha concesso nulla alla realtà naturale, plurale e partecipativa della società. Definì, piuttosto, un’area intrisa di negazione, esclusione, dominazione, discriminazione, ingiustizia. Il risultato fu l’innalzarsi della richiesta di democratizzazione, attraverso cui tutti i popoli possono ottenere i propri diritti e la libertà di svilupparsi.

La democrazia, tuttavia, per essere reale, esige il rispetto delle libertà personali, libertà di espressione e di discussione, libertà di associazione e di riunione. L’elezione non significa nulla se non comporta la libertà di scelta. La libertà non rappresenta un semplice accessorio, è un valore da perseguire. Esige, pertanto, delle garanzie affinché ciascuno abbia riconosciuto il diritto di realizzare se stesso in modo proprio. Furono proprio quelle garanzie che vennero meno nel governo di Assad. Le stesse garanzie che mancheranno nei mesi che seguiranno.

Aleppo è stata liberata, ma i suoi abitanti?

Jessica Genova

Verità e informazione: il fenomeno del Clickbaiting

<p>Abstract background on risk business concept, metaphor to small fish being in danger among many hooks.</p>

C’è una questione che negli ultimi tempi ha invaso prepotentemente le nostre vite virtuali e non.
Sta aumentando esponenzialmente la circolazione di notizie false. Non sto parlando di frasi o testi ambigui, di letture palesemente di parte volte ad ingannare il lettore per il tornaconto di chi scrive o di chi commissiona l’autore del testo, ma di vere e proprie notizie INVENTATE.

Prima parola chiave: Clickbait o Clickbaiting. Si tratta di un contenuto web il cui unico scopo è quello di attrarre l’attenzione del lettore in modo che ci clicchi sopra. Con ciò aumenterà il numero di visite per quella determinata pagina che vedrà accrescere i suoi introiti dovuti alle inserzioni pubblicitarie. Grande veicolo di diffusione sono i social network, nei quali spesso le “persone” non danno molta importanza al contenuto – anzi: spesso proprio il testo non viene letto ma ci si sofferma solamente sul titolo – poiché l’unica cosa che ha veramente importanza è se quel determinato titolo condivide il mio stato emozionale nei confronti di un problema o di una situazione.
Esistono siti che lottano contro questo fenomeno: quelli di debunking, che cercano appunto di smentire le notizie false che si possono trovare in rete. Ma – diciamocelo francamente – chi e quante volte va a controllare una notizia prima di condividerla? Dà molta più soddisfazione scrivere uno stato indignato – come minimo – contro un qualsiasi bersaglio attaccandolo per una certa notizia, anche se questa sia falsa.
Anzi, molto spesso nel caso in cui vengano smascherati, questi individui hanno anche il coraggio di continuare imperterriti la loro battaglia campale contro «l’informazione ufficiale e quindi falsa», sostenendo le proprie tesi dall’alto di posizioni espresse da siti autorevoli come “piovegovernoladro” o “grandecocomero” (e non sono nomi inventati).
La cosa triste è che ultimamente sembra che anche i media tradizionali stiano iniziando a seguire questa tendenza per riuscire a sopravvivere nello spietato mondo dell’informazione virtuale. Certo, non sono ancora arrivati a pubblicare notizie inventate di sana pianta, per ora si limitano a gonfiare i titoli, diffondere contenuti che spetterebbero a quotidiani di gossip o riviste di animali domestici e scrivere gli stati con quel metodo di utilizzo della punteggiatura e del BlockMaiusc che ci ricorda un’abile manovratore di ruspe che tutti conosciamo.
La cosa divertente – invece – è che spesso certi siti erano nati come pubblicanti bufale di una inconsistenza reale palese che suscitassero l’ilarità del mondo virtuale e – chissà – forse anche per prendere in giro i siti che di questa idea malata fanno il proprio scopo di esistenza nella rete. Ma il lavaggio di cervello a cui siamo sottoposti tramite internet, ormai, ha portato certi personaggi a condividere pure quelle notizie, e di indignarsi anche per il loro contenuto!

E siamo arrivati alla seconda parola chiave: l’alienazione virtuale.
Prendo come esempio le elezioni presidenziali americane. Premetto fin da subito che non voglio giudicare i candidati o le loro idee, ma semplicemente indagare i metodi con cui si è svolta.
Prima di tutto la partecipazione. Internet permette di connettere un sacco di persone che non si conoscono e che nella vita reale non si sarebbero potute quasi mai conoscere. Tante belle parole e tante potenzialità, non c’è dubbio. Durante la corsa per la White House sembrava che tutto il mondo fosse collegato e partecipe di quel momento. Fin qui, forse, nulla di male si potrebbe dire. Il punto è che tutte queste persone collegate davano il proprio giudizio. I non americani hanno giudicato un fatto americano basandosi su ciò che avevano a disposizione, e cioè le notizie presenti su internet, in larga scala Facebook e Twitter, due dei terreni più fertili per la nascita di notizie se non false almeno fuorvianti. Il problema ulteriore è che anche chi aveva in casa le elezioni è stato letteralmente bombardato da questo tipo di informazione. Aggiungiamoci poi le notizie false diffuse dai candidati stessi (in maggioranza da quello repubblicano, e non è un giudizio ma un fatto dimostrato) ed otteniamo un minestrone dal gusto decisamente ambiguo.
Certo, ci sono stati i comizi, ci sono stati i confronti televisivi, ci sono stati gli appelli, ma nella quotidianità dove si pescavano le notizie? Queste sono state le elezioni più “social” della storia, e sebbene ciò abbia contribuito positivamente alla visibilità non sono sicuro che il passaggio da dibattito reale a dibattito virtuale sia privo di conseguenze negative. Negative non per un partito o per l’altro, ma per la politica stessa e soprattutto per chi la determina, cioè – almeno in teoria – gli elettori.
Non è una novità che in qualsiasi campagna elettorale si cerchi di accaparrarsi voti tramite la diffusione di notizie non del tutto vere: non sto dicendo questo; sto cercando di mettere alla luce un presentimento che da qualche tempo mi tormenta. Ci sono troppe notizie false e pochi mezzi, o forse poca volontà, per stanarle e contraddirle: cosa dobbiamo attenderci nel futuro?

Il filosofo tedesco K. Popper aveva proposto una patente per poter apparire nei programmi televisivi, perché si era reso conto di come questo strumento di informazione di massa potesse condizionare la vita dell’uomo. Ora con internet il discorso è elevato all’ennesima potenza – basti pensare al deep web. Proporre una patente per utilizzare internet o per potervi inserire notizie, però, è ormai un’idea ridicola, andava pensato come condizione di internet stesso; però una soluzione a questo fenomeno deve essere trovata.
Facebook ha cominciato a muoversi per ridurre il clickbait, modificando l’algoritmo della sezione notizie. Il problema, però, non sta secondo me nel clickbaiting, che potremmo chiamare “soft” (del tipo: «Quando ha guardato sotto il cuscino del divano e ha visto QUESTO…è stato uno SHOCK!»); ma in quello che mira a cambiare le idee delle persone, o quantomeno a contaminarle. gli algoritmi qui hanno poco a che fare, bisogna lavorare sull’educazione all’utilizzo di questo strumento dalle mille potenzialità, perché tra i tanti pericoli di internet questo è uno che secondo me influenzerà enormemente il futuro prossimo.
Abbiamo di fronte l’Everest e siamo attrezzati per una passeggiata al parco.

Massimilaino Mattiuzzo

[immagine tratta da Google Immagini]

Politica, follia e altre brutte storie

Sì, No, Remain, Leave, la politica e la vita sembrano ormai in balia di una logica binaria che si addice più alle macchine che alle persone, i referendum e la continua pretesa di oclocrazia, una parolaccia greca che indica semplicemente il far scegliere e il demandare qualsiasi decisione al popolo sembrano aver catalizzato questo atteggiamento. Ma quella stessa logica si insinua molto più profondamente nel dibattito pubblico di tutti i giorni.

Prendete ad esempio la questione dei flussi migratori:

  • Destro-fascio:

A1) prenditeli a casa tua!

B2) se usassimo le risorse per gli italiani tutto andrebbe meglio

C3) ci rubano il lavoro e non portano risorse in un periodo di crisi finendo per impoverire ulteriormente le fasce più deboli della popolazione “autoctona” (ammesso che questo termine abbia un senso). Portano malattie e malavita!

  • Sinistro-buonista:

A4) ma allora cosa dobbiamo fare lasciarli morire?

B5) gli immigrati ci pagano le pensioni!

C6) gli immigrati fanno i lavori che noi non vogliamo più fare e sono un elemento di sviluppo per il paese in cui si trasferiscono

In alcuni enunciati ci sono fonti di verità, ma la contrapposizione sterile che esclude la ragione ci fa dimenticare le cose più importanti, cioè che stiamo parlando di vite umane, in questo forse credo che la posizione di sinistra ideologicamente sia più condivisibile salvo non voler spezzare qualsiasi legame di fratellanza con il genere umano e concludere quindi che ci sono vite di serie A e di serie B.

A4) nella sua formulazione grezza in fondo non dice nulla di sbagliato, la vita umana è un valore, peccato che posta così finisca per essere solo un sasso argomentativo da tirare in testa a chiunque provi a problematizzare le cose e quindi a renderle concrete come ad esempio chi fa notare che sì la vita umana è un valore e va preservata, ma che conta anche la qualità della vita e quindi le politiche legate all’accoglienza e alla gestione di flussi migratori che hanno impatti economici e sociali. La mancata ottemperanza della presa in carico in maniera seria dei problemi implicherà dar più forza alle posizioni A1), B2) e ci C3) fino a derive sempre più estremiste. Come risolve il Sinistro il problema, un solo enunciato: “zitto fascista!”. Ci sarebbe da chiedersi come mai tra le fasce più deboli della popolazione siano spuntati, anche in zone storicamente di sinistra, orde di neofascisti mascherati, non sarebbe più semplice accendere il cervello e dire che non sempre le persone quando votano di “pancia” per posizioni estreme non per forza sono ideologicamente fasciste, naziste o simili, ma semplicemente stanno esprimendo un malessere? Andatevi a guardare i voti delle periferie.

Salvare vite umane ha senso, ma dobbiamo preoccuparci anche della qualità della loro vita, invece pensiamo che basti tirarli di qua della costa e stoccarli (uso il termine provocatorio) da qualche parte mettendo delle risorse un po’ a pioggia in maniera assistenzialistica e provare a vedere cosa succede. Dove l’integrazione, quella vera, è demandata ad associazioni di volontari spessi squattrinati e mal organizzati.

Vi racconto questo interessante episodio che chiamerò “I Cento Panini e la Ben Pensante”:

Una volta il giovane che chiameremo Cento Panini ebbe la bella idea di scrivere su Facebook per dire che l’aspetto delle risorse economiche è importante e non va sottovalutato la seguente frase:

“Se ho cento panini e devo sfamare duecento persone posso dividerli a metà, se le persone sono quattrocento posso farne un quarto a testa, ma se le persone diventano un milione con un atomo di panino a testa moriamo tutti di fame. A risorse finite non si può immaginare una divisione infinita.”

Che cosa accadde? La nostra temeraria ben pensante che al posto di leggere l’appello del povero Cento Panini che invocava semplicemente l’aiuto dell’Europa nella questione dei flussi migratori e il fatto che l’Italia non fosse lasciata da sola si lanciò in rocamboleschi attacchi per dimostrare che il povero Cento Panini non era altro che un tremendo fascista e chi più ne ha più ne metta.

Quando la razionalità e la ragione abdicano alla tifoseria politica ecco che esplode la follia. Così sono i social, ma a noi piace dividerci, adoriamo massacrarci dividendoci in fazioni, gruppetti e tutto a discapito della qualità della vita nostra e degli altri. Aneliamo vessilli sotto i quali nasconderci, perché come scrive bene Canetti in un bellissimo libro disperdendoci nella massa siamo tutti responsabili e non lo è nessuno, siamo tutti decisori, ma in fondo ignavi quando ci schieriamo senza aver correttamente ragionato. La nostra protagonista Ben Pensante, che mal pensava, ha preferito trovare un oggetto su cui sfogare frustrazioni che forse provenivano da altrove che provare a cogliere il senso (giusto o ingiusto) del povero Cento Panini che di sicuro non voleva mettere in dubbio l’accoglienza e la vita come un valore, ma richiamava solo alla concretezza delle cose.

“LA NOTTE DELLA RAGIONE GENERA MOSTRI”

Gli intellettuali hanno poco da indignarsi per l’ascesa del populismo di Donald Trump e del Movimento 5 Stelle essi non sono la cura, ma il sintomo definitivo che il male è dilagato, che la politica non ha saputo dare risposte e quindi le persone che stanno male si abbandonano inevitabilmente a una protesta cieca senza proposta, perché ormai l’orizzonte di qualsiasi risposta possibile gli sembra ormai irraggiungibile, distante, vuoto. Il loro grido di dolore si leva oltre l’ovatta del tempo per generazioni ricordandoci tutti i fallimenti, tutte le ingiustizie e tutte le risposte mancate dove non c’è mai, MAI, nessuno che osi dire “Scusate, ho sbagliato” o se lo fa lo fa con una leggerezza tale da risultare incomprensibile anche ai propri simili.

Ho usato l’esempio dei flussi migratori per descrivere qualsiasi presa di posizione aprioristica, qualsiasi atteggiamento negativo nei confronti del prossimo e delle sue scelte. Capita centinaia di volte nei social media vedere vegani contro onnivori, vegetariani contro carnivori e un tutti contro tutti malsano, sbagliato. Gente che fa una grigliata e si sente in dovere di “trollare” allegramente sulla propria bacheca gente che semplicemente ha fatto una scelta diversa. E mi chiedo, ma l’umanità è veramente questa roba qui?

Siamo davvero diventati questa rumorosa massa litigiosa sempre pronta a scannarsi come nei viaggi di Gulliver per decidere se le uova vadano rotte dalla parte inferiore o superiore?

Qualche tempo fa ho dovuto sopportare, mio malgrado e facendoci i conti, di non esser stimato né rispettato da una persona che tutto sommato a modo mio ritengo pure interessante, avrei potuto provare a raccontarle la mia storia da dove vengo, addurre mille giustificazioni, magari raccontarmi, come fanno certi politici, che forse è semplicemente la gente che non capisce, ma le nostre azioni pesano molto più delle nostre intenzioni e alla fine traspare solo ciò che mostriamo. Avrei potuto raccontare l’infanzia difficile, paure, insicurezze, ma come la somma di tutte queste cose avrebbe anche solo intaccato il fatto che ho reiteratamente calpestato i suoi sentimenti? Alle volte semplicemente tediandola, altre infastidendola? Alla fin fine nessuno di noi si accorge mai quanto in basso può cadere e nella nostra vita quotidiana lo facciamo continuamente, i social aiutano, una cosa scritta dietro uno schermo sembra meno grave di molte altre cose. Alla fin fine tutto si riduce con la formula “Eh, ma io stavo scherzando”, credo che quasi tutte le cazzate del mondo siano nate con uno scherzo. Ci sono molti modi di ridere, si può ridere con qualcuno o di qualcuno, la differenza è abissale.

Questo mio appello a provare ad essere meglio di come siamo, ad accendere il cervello cadrà probabilmente nel rumore che ci circonda e forse avrete già chiuso questo palloso articolo per tornare a qualche social “scazzottata”, ma per chi è arrivato fin qui vuole solo essere un appello a provare a essere migliori e nessun giorno è mai troppo tardi per iniziare, basta sceglierlo. Usiamo il cervello, usiamolo tutti meglio.

Matteo Montagner