Il tempo, anche quello di Planck. Dialogo con Fabio Fracas

Continua il nostro dialogo con il fisico Fabio Fracas a proposito di un tema su cui da secoli si interroga la fisica e, ancora da più tempo, la filosofia: il tempo. Potete leggere la prima parte all’interno della nostra rivista La chiave di Sophia #13 – Il senso del tempo!

 

In alternativa alla nostra visione ordinaria del tempo scandita in istanti, il filosofo francese Bergson riesce a dimostrare come il tempo che noi viviamo sia invece una durata reale, un fluire interiore costante, che non può essere frammentato in ore, minuti e secondi, perché «La durata assolutamente pura è la forma assoluta della successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione fra lo stato presente e quello anteriore». In tal senso il tempo è allora un processo. Possiamo parlare ancora di un tempo della scienza e un tempo vissuto?

La posizione di Bergson tiene conto proprio di quanto emerso precedentemente. Quello che dobbiamo chiederci – a mio avviso – è se abbia ancora senso, alla luce dei principi controintuitivi della fisica quantistica, dover necessariamente distinguere fra un tempo della scienza e un tempo vissuto e la mia opinione al riguardo è negativa. Cerco di spiegare più approfonditamente questo concetto introducendo una definizione sulla quale – sempre a mio personale avviso – sarebbe oramai necessario che tra filosofi e scienziati (ma più in generale, fra tutti gli studiosi dei diversi campi dello scibile) si aprisse un costruttivo confronto: Quantum-Like. È indubbio che la fisica quantistica abbia condotto a un cambio di paradigma nel pensiero del Novecento ma ciò che sta emergendo è che i nuovi concetti e le nuove logiche introdotte da questa branca della fisica ora potrebbero essere utilizzate ‘in senso lato’ anche per descrivere eventi e fenomeni che non si collocano materialmente all’interno del ristretto ambito della fisica delle alte energie.

Nel caso di Bergson, con un approccio Quantum-Like si potrebbe ipotizzare che esista una dualità tempo della scienza/tempo vissuto – analoga ma solo dal punto di vista logico a quella onda/corpuscolo appena descritta – che fa sì che entrambe le rappresentazioni del tempo convivano simultaneamente fino a quando chi ne fa esperienza non ne determina la concretizzazione nell’una o nell’altra forma. Il tempo della scienza, quindi, non sarebbe più l’unica rappresentazione del tempo vero cronologico dato che anche il tempo vissuto, coincidente con la durata della coscienza, ne costituirebbe una sovrapposizione.

 

La questione del tempo è stata al centro del dibattito filosofico sin da Aristotele, il quale definì il tempo come «numero del movimento secondo il prima e il poi» (Fisica, IV, 12, 219 b). Nella concezione neoplatonica, da Plotino ad Agostino, il concetto di tempo è collegato, anziché al moto del mondo fisico, all’anima e alla sua «vita interna». Per Plotino il tempo, «immagine dell’eternità» (Enneadi, I, V, 7) è il movimento mediante il quale l’anima passa da uno stato all’altro della sua vita. Interessante è la relazione posta tra tempo e l’eternità, relazione che sembra descrivere molto bene il nostro rapporto con lo scorrere del tempo e la sua difficile accettazione. L’eternità è infatti desiderio profondo dell’uomo. Perché secondo te c’è questa forte tensione all’eternità e dunque all’immortalità?

Il rapporto fra l’uomo e il tempo è l’elemento cardine che consente la definizione di concetti molto profondi e complessi come la crescita e l’evoluzione sia personale, sia sociale, sia di specie. In questo senso è collegato direttamente al grande mistero della vita e di conseguenza, alla tensione per l’immortalità e alla paura della caducità umana. Per Plotino, come giustamente ricordato, il tempo è ‘immagine mobile dell’eternità’: si articola in passato, presente e futuro ed è solo grazie all’unità e alla correlazione di questi tre momenti che è possibile percepirlo e definirlo. «Se alle cose generate si togliesse il futuro, esse cadrebbero immediatamente nel non essere, perché così acquisterebbero a ogni istante qualcosa di nuovo; se alle cose non generate si aggiungesse il futuro, accadrebbe loro di decadere dalla dignità di esseri veri» (Enneadi, III,7,4).

Il ‘non essere’, in Plotino è direttamente connesso al non avere un futuro e di conseguenza, se si pensa alla parabola della vita umana – dalla nascita, all’età adulta, alla vecchiaia – la morte fisica viene a coincidere con la mancanza di un futuro e al ‘non essere’ dell’individuo stesso. Al contrario, l’eternità in senso aristotelico coincide con “ciò che è fuori dal tempo” e in questa accezione viene successivamente sviluppata fino ad arrivare alla determinazione di ‘eterno presente’ formulata da San Tommaso. Un eterno presente, cristallizzato nel pensiero cristiano, al quale sono estranei tempo e successione, principio e fine.

Eppure, secondo il filosofo Emanuele Severino, quando Aristotele afferma che la filosofia nasce dal ‘thauma’ non intende dire che nasce dalla ‘meraviglia’ bensì da un ‘angosciato terrore’. La filosofia stessa, quindi, sarebbe una forma di difesa nei confronti della morte, pericolo estremo dell’uomo. Nel Congresso Internazionale “All’alba dell’eternità” del 2018, Severino propone il seguente pensiero: «La filosofia non nasce come atto di meraviglia di “intellettuali” o di professori di filosofia di fronte a problemi che non sono in grado di risolvere, ma come difesa nei confronti del pericolo estremo per l’uomo. L’uomo da quando vive si difende dalla morte iscrivendola in un senso globale del mondo, in cui egli stabilisce un’alleanza con quelle che ritiene le potenze supreme, tentando in tal modo di arginare il pericolo della morte. Ma la filosofia comprende che il mito non può difendere adeguatamente dalla morte e che è necessario in relazione al terrore un rimedio che abbia i caratteri dell’incontrovertibilità».

Tendere all’immortalità, sconfiggere la morte, può quindi coincidere con la ricerca di un senso profondo della realtà stessa o quanto meno di quella parte di realtà che noi esseri umani siamo in grado di percepire, riconoscere e interpretare.

 

Se guardiamo alla filosofia contemporanea, Martin Heidegger invece di delineare una definizione della nozione di tempo (in Essere e tempo), considera la temporalità nelle sue tre dimensioni: passato, presente e futuro, come le caratteristiche costitutive dell’uomo in quanto essere «gettato» nel mondo (l’esserci, il Dasein) e, come tale, legato al passato, al presente, ma anche proiettato nel futuro attraverso le proprie progettualità. Con quale approccio tu ti confronti con questa tripartizione? Sia in quanto fisico, sia in quanto Uomo.

Come ho scritto anche all’interno del mio saggio del 2017 Il mondo secondo la fisica quantistica (Sperling & Kupfer Editore), la mia personale opinione “è che la filosofia e la fisica – che dialogano fra loro dal tempo degli antichi greci e probabilmente ancora da prima – con l’avvento della fisica quantistica sono state obbligate a confrontarsi profondamente l’una con l’altra per cercare di definire, assieme, una nuova chiave di lettura della realtà”. Premetto questa considerazione, perché ritengo – almeno per quanto mi riguarda – che non esista una distinzione fra quello che, in quanto fisico, conosco della Natura e ciò che, come Uomo, ho la possibilità di esperire ogni giorno. E naturalmente, questa mia posizione vale anche nei confronti del tempo.

Il Dasein di Heidegger, come Essere costituito dalla propria temporalità, è una definizione traducibile con “Esser-ci” (espressione introdotta da Pietro Chiodi), dove il suffisso “ci” serve per indicare la modalità con cui l’Essere si manifesta concretamente nella storia. Dasein, quindi, nella mia personale comprensione può significare l’assumersi il proprio ruolo nel momento in cui è necessario farlo: essere ‘là’ e in quel momento. In questo senso, il passato, il presente e persino il futuro possono rivelarsi tutte occasioni giuste per esserci, in differenti modalità e situazioni. Certamente, ciò che è stato già lo conosciamo, quello che stiamo vivendo lo scopriamo attimo dopo attimo e sul futuro possiamo solo fare delle congetture e delle previsioni, ma se osserviamo questa tripartizione come un rivolo che scorre dalla sorgente e ingrossandosi si trasforma in un fiume per poi sfociare al mare, possiamo avvicinarci al senso stesso dell’ineluttabilità. È vero: il flusso dell’acqua potrebbe interrompersi per un periodo di tempo più o meno lungo, essere deviato da un impedimento o potrebbe verificarsi un qualsiasi altro evento; ciononostante, prima o poi arriverà al mare. E questa certezza, che contrasta ontologicamente con l’eterno presente di San Tommaso, diventa essa stessa dubbio quando, seduti in un punto della sponda, contempliamo solo quel breve tratto del fiume che ci si para dinnanzi.

Il dubbio, nella mia personale visione, diventa quindi l’unico strumento concreto a mia disposizione – sia come fisico sia come Uomo – per confrontarmi con la Natura, con la realtà e con il tempo. Una posizione già nota ed espressa chiaramente anche dal filosofo Bertrand Russell, “Non si dovrebbe mai esser certi di niente, perché nulla merita certezza, e così si dovrebbe sempre mantenere nelle proprie convinzioni un elemento di dubbio, e si dovrebbe essere in grado di agire con vigore malgrado il dubbio”; e ancora più radicalmente da Voltaire: “Il dubbio è scomodo ma la certezza è ridicola”.

 

Elena Casagrande

 

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Filosofia del camminare (a piedi nudi). Intervista ad Andrea Bianchi

Con la sua filosofia della camminata a piedi nudi nella natura, Andrea Bianchi è diventato oggi il punto di riferimento del barefoot hiking in Italia e infatti conduce workshop di camminata scalza un po’ ovunque, dalle Dolomiti alla Via Francigena. Nel 2017 ha dato vita alla prima scuola italiana di barefoot hiking, Il silenzio dei passi, con cui propone il cammino a piedi nudi come una pratica di benessere psicofisico accessibile a tutti, per riconnettersi alle energie della Terra ma anche per imparare a diventare interiormente leggeri e silenziosi. Studia e pratica lo yoga da più di vent’anni, e quando indossa le scarpe è ingegnere e consulente di comunicazione, giornalista, fondatore ed editore del magazine online MountainBlog, uno dei più seguiti siti web sul mondo della montagna e degli sportoutdoor.
Lo abbiamo incontrato in occasione del TEDx della città di Mestre lo scorso 28 settembre e abbiamo proprio dovuto chiedergli di condividere con noi alcune riflessioni sulla natura, sul senso profondo del camminare, sul rapporto con il corpo e sulla filosofia. È una persona estremamente energica ed entusiasta, di una purezza e profondità rara, per cui la nostra è stata davvero una bella chiacchierata.
Buona lettura!

 

Nella storia del pensiero sono molti gli esempi di pensatori che furono legati al camminare: Aristotele insegnava camminando sotto i portici del Liceo e i suoi allievi si chiamavano peripatetici, dal greco peripatein (passeggiare), proprio per questo. I sofisti invece si spostavano a piedi di città in città per insegnare la retorica. Socrate amava camminare e dialogare e gli stoici discutevano di filosofia passeggiando sotto la Stoa, i portici di Atene. Per poi arrivare a Rosseau, Nietzsche, Proust… Da allora camminare è diventato un atto rivoluzionario, quasi eversivo. Quale legame esiste per te tra pensiero e l’atto del camminare?

Per me il cammino – e in particolare il cammino consapevole a piedi nudi, su terreno naturale – è innanzitutto un atto che favorisce l’affievolirsi del flusso caotico e incalzante di quella successione di pensieri e di voci mentali che, nel quotidiano, definiamo “pensare”, ma che in realtà non è che una sequenza di reazioni meccaniche agli stimoli delle forze e delle varie influenze esterne.
Entrando, un passo scalzo dopo l’altro, nella presenza della percezione, entro in un flusso di tutt’altra qualità, in cui il mio intero essere diventa l’atto del camminare, pienamente integrato con il sentiero che percorro, il suo terreno, l’ambiente di cui esso stesso è parte.
In questo stato d’essere, posso dire di “non pensare”, di essere solo cammino, respiro, passi, vento, freddo o calore, silenzio. È allora che si apre nella mente quello spazio in cui tutto è possibile, in cui l’ascolto del mio essere viene facile e spontaneo: in quello spazio nascono idee, forme, parole. In quello spazio posso realmente decidere di prendere una direzione – nella mente come lungo il sentiero che sto percorrendo – e di seguirla per vedere dove conduce. Il pensiero, in tal senso, si fa fisico – corporeo – ed immateriale allo stesso tempo.

 

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Il camminare frequentemente viene associato alla libertà, libertà nella scoperta del proprio corpo e del contatto con la natura, libertà nello scoprire se stessi e il proprio essere. Nel tuo libro Il silenzio dei passi (Ediciclo) scrivi che «camminare allora diventa un atto sempre più essenziale, dal quale uno ad uno si toglie ogni gesto, ogni spinta, ogni pensiero superfluo, purificando il movimento fino a renderlo inconsistente eppure elastico, definito eppure impercettibile allo stesso tempo». Perché ritieni che il camminare, e nello specifico il camminare a piedi scalzi, aiuti l’uomo nella scoperta di questa dimensione interiore che gli è propria?

Principalmente proprio perché camminare a piedi nudi ci aiuta a togliere ciò che non è necessario: le scarpe innanzitutto, che prima di essere un “abito” materiale sono un abito mentale, un’”idea” – un “guscio concettuale” – senza la quale non riteniamo di poter percorrere la nostra strada. Invece (re)imparare a camminare scalzi ci fa (ri)scoprire la nostra essenza, che è proprio quella di un camminatore che si affida totalmente alla sua forza fisica e mentale, alla sua sensazione di equilibrio e alle sue percezioni, alla sua capacità di vedere il sentiero formarsi davanti a lui un passo dopo l’altro. Questa dimensione interiore ci appartiene fin dall’alba della nostra storia di specie umana: siamo nati camminatori e per milioni di anni non abbiamo mai smesso di camminare. Camminare è una delle nostre dimensioni biologiche e cognitive principali. Per camminare, e per conoscere attraverso il camminare, non abbiamo bisogno che di noi stessi; tutto il resto è superfluo.

 

Da ormai molti anni ti sei impegnato nello studio e ricerca della camminata a piedi nudi, sia dal punto di vista della meccanica della camminata e della sensorialità, sia dal punto di vista dell’esperienza interiore e di scoperta di se stessi. Nel tuo ultimo lavoro Con la Terra sotto i piedi (Mondadori) il cammino scalzo diventa veicolo per parlare di ecologia, del rapporto Uomo-Natura e di spiritualità. Perché è necessario e urgente recuperare un certo rapporto con la Natura?

Essenzialmente perché noi siamo Natura: nella Natura, per milioni di anni, ci siamo evoluti, ed ancora oggi – nonostante il fatto che grazie alla tecnologia riusciamo ad estendere oltre ogni immaginazione i nostri limiti – la nostra vita è parte di questa evoluzione. Siamo parte di un sistema di relazioni viventi che costituisce la biosfera del pianeta che ci ospita: la nostra vita è intimamente connessa a quella della Terra, e non possiamo permetterci di perdere la consapevolezza di questa connessione, pena la sopravvivenza della nostra specie, oltre che di quella di milioni di altre specie viventi!

 

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Essere a piedi nudi nella natura non significa solo aver tolto quella separazione che esiste tra il nostro corpo, coperto dalle scarpe, e il terreno che stiamo percorrendo, ma significa anche ritornare alle radici, ritornare ad un contatto e un dialogo con la natura sincero, intimo, nel quale possiamo vedere, sentire e conoscere in modo profondo. Nel tuo intervento al TEDx Mestre lo scorso 28 settembre hai messo al centro proprio questi aspetti, che diventano occasioni di risveglio per l’Uomo, perché è la natura il luogo da cui proveniamo e in cui abbiamo le nostre radici. Secondo te come può l’uomo allora risvegliarsi e recuperare quella capacità di vedere e conoscere che sta smarrendo?

Credo che il risveglio debba passare attraverso un recupero della nostra relazione empatica con la Natura: non è con la sola comprensione razionale dei fenomeni, che potremo risolvere i grandi problemi e le sfide del nostro tempo, ma con il recupero delle emozioni, perché – come ho detto infatti al TEDx – non potremo salvare nulla se prima non lo amiamo. Per fare un esempio concreto: se percorro a piedi nudi un sentiero nel bosco – aprendomi alle emozioni che derivano da questo contatto intimo con il terreno, con l’umido o il secco delle foglie, percependo sotto la pianta del piede l’avanzare delle stagioni – quel bosco diventerà anche un po’ parte del mio essere, ne percepirò l’interdipendenza che lega la mia esistenza alla sua, e non potrò rimanere indifferente nel vederlo bruciare.

 

Nei tuoi workshop ma anche nei tuoi libri “sfidi” (è il caso di dirlo) le persone a compiere con i piedi gesti che riusciamo a compiere in modo immediato con le mani. In questa nostra difficoltà meccanica ad eseguire semplici movimenti (come ad esempio sollevare solo l’alluce e tenere le altre dita ancorate a terra) ci rendiamo conto di quanto un cambio di prospettiva possa influire sulla nostra visione del mondo. Anche tu intravvedi una sorta di metafora nella nostra incapacità di utilizzare le dita dei piedi?

È una metafora, sì, ma anche una piccola ma concreta dimostrazione di come il nostro attuale modo di vivere urbanizzato, separati dalla Natura e chiusi dentro i nostri gusci – le nostre case, i nostri uffici, le nostre auto, le nostre “scarpe mentali” – ci stia facendo perdere facoltà innate acquisite nel corso di milioni di anni di evoluzione. Dalle più recenti scoperte delle neuroscienze conosciamo oggi la plasticità del cervello, la sua capacità cioè di modificare la propria struttura a seguito di stimoli esterni e dello sviluppo dell’individuo. È grazie a questa capacità che possiamo crescere e svilupparci, ma vale anche il contrario: le dita di un piede che non sa più – o non ha mai saputo fin dai primi anni di vita dell’individuo – cosa significa essere libero di muoversi secondo il massimo del suo potenziale, si atrofizzano, perdono la loro funzionalità, fino a non rispondere più a semplici comandi neuro sensoriali. Ma le dita dei nostri piedi sono la punta di un iceberg: sotto la superficie di una vita che riteniamo di conoscere e poter controllare in ogni aspetto, si nasconde una perdita crescente di consapevolezza del “sistema Uomo” e della sua relazione con l’Universo.

 

Il camminare molto spesso è un elogio alla lentezza come dimensione dello spirito, il mettere un piede davanti all’altro per compiere un percorso non necessariamente include un “fine” specifico, perché la bellezza del camminare risiede nell’atto stesso e nel modo in cui corpo e anima dialogano in una dimensione del tutto diversa dal quotidiano a cui siamo abituati. Tu affermi che «un sentiero non è mai obbligato, lo si può percorrere non in un solo modo ma secondo tante vie diverse, linee persone che rispondono ad altrettanti modi di interpretarlo e farlo proprio». Come si può essere educati a questi esercizi dell’anima?

Questo genere di educazione – come del resto ogni educazione – non può che formarsi attraverso l’esperienza: per imparare a camminare scalzi su un sentiero di montagna – o di bosco, o di campagna – non c’è che da togliersi le scarpe e provare, un passo alla volta, all’inizio magari solo per pochi minuti, poi gradualmente più a lungo, con sempre maggiore consapevolezza dell’appoggio del piede, della sua meccanica, prima di poter infine apprezzare l’analogia del cammino con i percorsi della vita. Nessuno può sostituirsi a noi nella scoperta e nell’esercizio di queste facoltà, ma può essere utile camminare con qualcuno che è più avanti nella ricerca, che può darci consigli tecnici e soprattutto un esempio. La scuola di cammino a piedi nudi in Natura Il silenzio dei passi, che ho fondato nel 2017, nasce con questo intento: riavvicinare le persone alla Terra per riavvicinarle a se stesse.

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Noi de La Chiave di Sophia riteniamo che la filosofia sia la spinta e il motore di ogni nostra azione e anche di ogni professione, perché è riflessione e ricerca di senso. Nella tua persona e nella tua ricerca ritieni che la filosofia abbia un ruolo importante? Che cos’è per te la filosofia?

Come ho detto al TEDx, credo che la filosofia sia nata milioni di anni fa, quando i primi ominidi scesero dagli alberi, e conquistando la posizione eretta consentirono allo sguardo di spaziare verso l’orizzonte, ponendosi una méta, domandandosi cosa ci fosse oltre la linea del visibile, dando una direzione alla loro ricerca. Per me la filosofia è questo, è tentare di rispondere alle domande che infiniti orizzonti ci pongono, lasciarsi guidare da esse nella scoperta di noi stessi, accettando che dietro ogni orizzonte ne troveremo sempre un altro. Per questo, una delle dediche che lascio più spesso alle persone nei miei libri è che i loro orizzonti siano ricchi di significato!

 

Grazie Andrea per questa chiacchierata.

 

Elena Casagrande

[immagini concesse da Andrea Bianchi]

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Filosofia e altri linguaggi: intervista a Massimo Donà

Massimo Donà è un filosofo estremamente poliedrico e versatile che ha voluto indagare, attraverso i suoi studi e i suoi scritti, come davvero la filosofia si possa applicare alla vita quotidiana.
Questa intervista va a completare quella pubblicata sulla nostra rivista cartacea La chiave di Sophia #6 sulla comunicazione etica dove abbiamo affrontato nello specifico il rapporto tra la filosofia e le principali forme artistiche, dunque l’arte figurativa, la poesia, la musica. Con queste ultime domande invece tocchiamo il tema del cibo e del vino, mettendone in luce il rapporto con la società attuale consumistica; entrambi gli aspetti, come vedremo, hanno a che fare con l’immortalità.

 

Oggi assistiamo a una certa attenzione per l’argomento cibo, sia considerando la dimensione salutistica portata agli estremi, sia la sua sovrabbondanza anche mediatica (si pensi a tutti i programmi televisivi sul cibo). La filosofia potrebbe dire qualcosa sui motivi di quest’attenzione?

Oggi lo sguardo dei media ha acceso con grande e (forse) eccessiva morbosità i propri riflettori sul mondo del cibo; spesso esasperando l’attenzione sul valore nutritivo, sulla (supposta) “naturalità” delle materie prime utilizzate, e su tutto ciò che dovremmo tener presente affinché il cibo non divenga nocivo all’organismo che se ne nutre. Un fenomeno, questo, che fa tutt’uno con la generale ed esasperata volontà di sconfiggere la morte. O quanto meno, di rendere sempre più lunga la vita di coloro che da sempre invidiano gli Dei per la loro immortalità. La tecnica è sempre più potente ed efficace; perciò la vita, che la tecnica sembra vocata a supportare, ha a propria disposizione uno spazio di manovra sempre più ampio ed un tempo sempre più consono all’ampiezza dei desideri tendenzialmente sconfinati dell’essere umano. Ma tutto questo è reso possibile da un processo di universale e progressiva “quantificazione” dell’esistere, che la scienza moderna ha avviato, rischiando di far diventare sempre più pericolosamente secondaria la questione della sua (sempre della vita) “qualità”. Vivere tanto, certo… per poter realizzare finalità sempre più ardue, che fino a pochi decenni fa sarebbero apparse improbabili. Questo oggi si vuole. “Potere” sempre di più, insomma; ma per quale vita? Ecco il punto. Alla filosofia, dunque, credo spetti un compito particolarmente importante: riportare al centro del discorso pubblico una seria riflessione su come si vuole vivere; su come utilizzare il tempo in più che ci siamo guadagnati e i nuovi spazi che possiamo ormai sempre più agevolmente abitare.

Sembra invece che il vino, di cui lei si è ampiamente occupato, abbia meno risalto e diffusione a livello mediatico, pur avendo un rapporto più antico anche con il pensiero filosofico. Pensa ci sia un perché?

Non ne sarei così sicuro. Mi sembra infatti di poter dire che anche il vino, ormai, gode di una meritata attenzione. Le cose stanno cambiando; i corsi di sommelier e i corsi universitari di enologia sono sempre più gettonati! E poi, il vino, per quanto sia anch’esso un alimento, è ben diverso dagli altri alimenti. C’è qualcosa che lo caratterizza in modo specifico; rendendolo comunque diverso e forse addirittura stra-ordinario. Sì, perché il vino è come la Divinità a cui è stato originariamente “consegnato”: il vino è come Dioniso, ossia, costitutivamente “doppio”. Alimento strutturalmente “ambivalente”, capace di render sempre più lucidi e veri, sinceri e solidali, esso può nello stesso tempo farci naufragare nelle sabbie mobili della follia, nell’oscurità abitata da istinti ferini ed essenzialmente deliranti. E dunque non è mai “rassicurante”. Per questo, non ci si adegua facilmente alle regole e alle norme con cui si vorrebbe regolarne il consumo. Il vino è come l’Eros (non a caso gli antichi Greci vedevano intimamente legati Afrodite e Dioniso); capace di produrre paradisiache esperienze di unità, di amicizia, capace di rendere solidali, ma capace anche di rendere totalmente “insensati” – potendo sempre far scivolare lungo i declivi di una irrimediabile perdita di sé. E dunque di rendere inadatti al vivere comunitario e sociale. Insomma, il vino è ciò che nessun proposito salutista potrà mai riuscire a controllare, perché è troppo simile alla costitutiva improgrammabilità che caratterizza l’essere umano in quanto tale… “libero” – come sapeva bene Pico della Mirandola – di essere come la peggiore delle bestie o come il più puro degli angeli.

Una delle caratteristiche dell’arte – e con essa la poesia – possiamo dire essere la sua capacità di rompere quei legami semantico-sintattici che danno forma al mondo così come noi lo conosciamo e grazie ai quali noi attribuiamo significato alla realtà.
In quale rapporto stanno l’arte e la filosofia? Possiamo dire che l’arte da sempre è anche filosofia nella misura in cui il suo rappresentare e manifestarsi costituiscono una reale provocazione per il pensiero e la riflessione, rivelando ciò che muove dal fondo l’agire dell’uomo?

Certo, la poesia e l’arte “pro-vocano” da sempre i filosofi – e proprio per i motivi che ho appena indicato. È pur vero che ogni forma dell’agire umano è mossa da un fondamento che non ha ragione alcuna (in quanto fondamento di tutto); e che proprio a partire da questa irragionevole ragione muovono anche le parole del poeta, o più in generale le forme dell’arte. Ma queste ultime mai dimenticano – come capita invece a tutti noi, nel quotidiano –, il fondamento di cui sono espressione. Quello stesso che, in quanto tale, non può tollerare finalità che non si esauriscano nel semplice dispiegarsi di forme artistiche che non muovono mai un passo in avanti. Ecco perché le parole della poesia e le forme dell’arte in generale non significano propriamente “nulla”; appunto perché, in esse, a dirsi e dispiegarsi, è appunto un fondamento (o arché) che, in quanto “in-condizionato”, finisce per dire sempre e solamente se medesimo. Ossia, nulla di de-terminato. Facendosi semplice “negazione” di ogni determinatezza, e dunque di ogni significato, e di ogni finalità; quelli stessi che la vita, invece, mai può fare a meno di darsi e proporsi. Perché la vita quotidiana non sa del fondamento che la rende possibile, ma riconosce le cose e le persone solo in relazione a fini e scopi sempre ancora da raggiungere, e soprattutto non ancorati ad alcun incondizionato, ma liberi di essere raggiunti  o mancati – anche perché, ai nostri occhi, si danno come semplicemente “altri” da quel che le cose tutte sarebbero, in quanto semplici significati, in quanto parzialità ritenute vincolate ad un “negativo” ridotto a mera “alterità” (secondo il dettato del Sofista platonico).

Obiettivo de “La Chiave di Sophia” è quello di aprire la filosofia ad un pubblico eterogeneo e neofita, proponendo questioni centrali per l’individuo e connesse fortemente con la vita quotidiana. In che modo secondo Lei la filosofia può sempre più avvicinarsi a chi non ha mai avuto modo di approcciarsi ad essa?

La filosofia ha il dovere di arrivare a chiunque; di essere compresa e rielaborata da ogni lettore o ascoltatore. Ma… come fare? Credo che non sia poi così difficile: si tratta anzitutto di saper tradurre i grandi testi della filosofia, i grandi trattati metafisici, e di riuscire a mostrare come in quelle pagine si parli davvero di noi, delle nostre miserie quotidiane, di come in esse si parli dei nostri sentimenti, delle nostre paure, delle nostre angosce, delle nostre gioie, ma anche dei dubbi che ogni volta rischiano di frenare il cammino verso noi stessi. Sì, perché noi dobbiamo diventare quel che siamo; ce lo ricorda anche Nietzsche. E cosa, meglio di un rigoroso esercizio filosofico, può aiutarci a raggiungere questo obiettivo? Si tratta solo di mostrare come, nel parlare dell’essere e del nulla, si stia in verità parlando delle grandi opposizioni di cui ci serviamo ogni giorno… quando pensiamo o parliamo della morte, quando parliamo del bene e del male, quando parliamo del finito e dell’infinito; tutte opposizioni assolute di cui ci serviamo nel riconoscere, nelle cose di ogni giorno, il male e il bene che le sostanzierebbero…. ma anche la vita e la morte, istituenti una polarità nel cui orizzonte oscilla ogni esistenza finita. Opposizioni assolute di cui non facciamo mai esperienza, ma cui ci riferiamo come se fossero evidenti. E d’altro canto, come faremmo a giudicare “buona” un’azione se non ci riferissimo all’opposizione bene e male; un’opposizione che non sappiamo bene dove stia di casa, eppure viviamo come riferimento imprescindibile per i nostri giudizi quotidiani. Ecco in che senso la metafisica e le sue questioni (solo apparentemente astratte) incidono in ogni gesto della nostra quotidianità; anche se quasi mai ce ne rendiamo conto. La filosofia dovrebbe appunto aiutarci a riflettere con un po’ più di cognizione di causa sui presupposti che sorreggono la nostra vita, il nostro linguaggio, consentendoci di interrogare la vita e il mondo ad un livello un po’ meno banale di quanto si sia soliti fare indipendentemente dall’esercizio filosofico.

 

Luca Mauceri & Elena Casagrande

 

[l’intervista integrale è pubblicata sul N.6 della nostra rivista cartacea]

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Fede, filosofia e mistero: intervista a Vito Mancuso

In questo articolo proponiamo la seconda parte dell’intervista al filosofo e teologo Vito Mancuso, pubblicata all’interno della nostra rivista cartacea La chiave di Sophia #5 – Le dimensioni dell’abitare. La nostra chiacchierata con lui è stata così profonda ed interessante che non possiamo non condividere con voi la versione integrale dell’intervista. Buona lettura!

 

La Scolastica ha formato generazioni di teologi ad affidarsi in egual modo a ragione e fede nella loro ricerca, ma negli autori contemporanei si rileva la tendenza a privilegiare la prima e ad abbracciare più una “teosofia”. È possibile in un’era post-illuminista mantenere il paradigma scolastico, o è inevitabile che l’aspetto razionale fagociti quello fideistico?

Partirei con una considerazione di tipo storico alla luce di quello che mi chiedete in riferimento alla scolastica e alla sua promozione dell’armonia tra fede e ragione. Ora, certamente c’è un paradigma scolastico che consiste nell’armonia di fede e ragione: è il paradigma tomista, che in Alberto Magno prima e in Tommaso d’Aquino poi trova la propria consacrazione. Un’armonia tra l’altro non del tutto simmetrica, perché in questa prospettiva si considera la filosofia in funzione servile rispetto alla teologia, si pensi alla famosa espressione Philosophia ancilla theologiae. In ogni caso qui ci muoviamo all’interno di un paradigma di concordanza, di armonia, di fiducia reciproca.

La scolastica però ha conosciuto anche un’altra linea, direi opposta, la quale non crede nell’armonia fede-ragione ma al contrario tende a costruire la fede sulle macerie della ragione. Questa visione la ritroviamo nel filone francescano dove con Ockham ha trovato la maggiore espressione. Da qui nasce la fortissima opposizione alla filosofia da parte della tradizione classica del protestantesimo, e noi sappiamo che Lutero ebbe una formazione occamista soprattutto mediata da Gabriel Biel.

Questo per dire che quando parliamo della scolastica in realtà ci troviamo al cospetto di una grande dialettica: da un lato una fiducia della fede rispetto alla ragione, dall’altro una vera e propria guerra. Tra l’altro la scolastica rimanda a sua volta alla patristica, perché anche lì ritroviamo i due filoni: il primo, quello di Giustino, di Origene, del primo Agostino (penso al De vera religione o al De Magistro e in genere ai suoi primi dialoghi), che è estremamente ottimista nei confronti del lavoro della ragione e in generale dell’impresa umana. Cito al riguardo una frase di Giustino tratta dalla Prima apologia, paragrafo 21, e rivolta ai pagani: «Nel dire che il Verbo, primogenito di Dio, Gesù Cristo nostro Maestro, è nato senza rapporto umano, è stato crocifisso, è morto, è risorto ed è asceso al cielo, nulla di nuovo diciamo rispetto a coloro che, presso di voi, parlano dei figli di Zeus.» È una frase sconvolgente, perché sostiene che il centro del cristianesimo, quello che viene chiamato il kèrigma, l’Annuncio, coincide totalmente con quanto la visione greca, e quindi in generale la ricerca umana, aveva colto già da sé.

Sempre in epoca patristica però abbiamo Tertulliano che nell’Apologetico sostiene esattamente l’opposto: che cosa c’è in comune tra il Cristianesimo e la filosofia, tra Tebe e Gerusalemme? Domanda retorica la cui risposta è chiaramente nulla. Ecco le parole precise di Tertulliano: «In che cosa sono simili i filosofi cristiani discepoli della Grecia e quelli del cielo?», domanda retorica la cui risposta è ovviamente “nulla” (Apologeticum, 46-18).

Questo ci rimanda a sua volta alla Bibbia, perché anche nella Bibbia ebraica e nel Nuovo Testamento troviamo allo stesso tempo una tendenza di apertura e fiducia e una tendenza opposta di chiusura e opposizione. Lo stesso apostolo Paolo da un lato nella Lettera ai romani, primo capitolo, condanna i pagani perché sostiene che avrebbero potuto tranquillamente, ragionando sulla creazione, giungere all’esistenza di Dio, e quindi raggiungere la conoscenza della verità, affermando perciò la stessa cosa sostenuta da Giustino quando pone una grande continuità tra il centro del cristianesimo e la ragione umana. Ma nel primo e nel secondo capitolo della Lettera ai Corinzi l’apostolo Paolo afferma quanto sostenuto da Tertulliano col porre l’opposizione più ampia possibile tra sapienza umana e sapienza divina.

Quindi noi ci troviamo al cospetto di un nucleo incandescente che dal Nuovo Testamento raggiunge la Patristica e poi giunge nella Scolastica, genera le divisioni all’epoca di Pascal tra la scuola dei gesuiti e la scuola dei giansenisti, e arriva fino ai nostri giorni, perché ancora oggi c’è una Chiesa che ha un’ala più progressista e un’ala più conservatrice, si pensi alla divisione del Vaticano II tra quella che fu la maggioranza conciliare e quella che fu la minoranza. Si tratta insomma di una dialettica che attraversa da sempre il Cristianesimo.

Il Cristianesimo è abitato da fiducia e da sfiducia nei confronti della ragione e questo vale sia per il cattolicesimo sia per il protestantesimo. La sfiducia è originaria, connaturale a Lutero, il quale parlava della ragione umana come di una puttana e pensava che la filosofia fosse un’opera del demonio. Si tratta di una prospettiva che nel Novecento rivive in Karl Barth e in genere nella cosiddetta teologia dialettica. Ma il protestantesimo conosce anche il protestantesimo liberale, quello di F. Schleiermacher, A. von Harnack, E. Troeltsch, i quali al contrario hanno nei confronti del rapporto fede-ragione lo stesso ottimismo che l’analogia entis cattolica porta con sé. Questo è lo statuto storico, detta in maniera sintetica, del rapporto tra teologia e filosofia.

Per quanto mi riguarda, io penso che sia nella stessa parola teologia che si ritrovi il senso del giusto rapporto tra fede e ragione, tra teologia e filosofia. Il termine teologia dice infatti rapporto tra Theós e lògos, e non si deve mai dimenticare tra l’altro che questa connessione non è specificatamente cristiana perché colui che ha coniato il termine ‘teologia’ è stato Platone nel II libro della Repubblica, mentre il termine teologia entra nel cristianesimo in epoca patristica perché nel Nuovo Testamento non c’è. Il che significa che questa connessione tra theós e lògos è qualcosa di originario, è una tendenza della mente e direi anche del cuore umano, in base alla quale si pensa che l’assoluto, il theós, non sia qualcosa di estraneo al mondo e alla mente umana, ma al contrario qualcosa che ha a che fare con la logica del mondo e con la logica della mente umana, direi con il linguaggio umano. Non è un caso che il termine lògos rimandi al contempo sia alla ratio nel senso di ordinamento complessivo del cosmo (come per esempio nel Vangelo di Giovanni e prima ancora negli Stoici, dove logos ha un senso metafisico), sia al senso linguistico per cui lògos è parola, frase, discorso… Questo implica l’intuizione primordiale, ovvero la grande fiducia nel fatto che la logica che governa il mondo, il lògos che è archè, che è “in principio”, abbia strettamente a che fare anche con il linguaggio umano e quindi con tutto ciò che dal linguaggio scaturisce: l’etica, la creatività, l’espressività. Siamo cioè all’interno di un unico discorso: theós e lògos, questa è l’idea di fondo che rende possibile il discorso teologico.

Ne viene a mio avviso una conclusione stringente, ovvero che nella misura in cui la teologia è fedele a sé stessa non può che essere condotta sulla base del paradigma della concordanza tra fede e ragione, ovvero secondo l’idea di Giustino, di Origene, del primo Agostino, di Tommaso d’Aquino, del protestantesimo liberale, della maggioranza conciliare nel Vaticano II e di teologi cattolici come Teilhard de Chardin, Congar, Rahner, Küng, Panikkar.

 

Nella storia del pensiero sono state molte le ‘dimostrazioni razionali’ dell’esistenza di Dio, pensiamo a Cartesio, Anselmo, Tommaso, Kierkegaard… alternando prove e argomentazioni a favore della sua esistenza o della sua inesistenza. Ritiene che oggi i numerosi tentativi del passato a dimostrazione dell’esistenza di Dio possano ancora reggersi? O forse – già con Kant – siamo giunti alla consapevolezza che la ragione di fronte alla vita – e aggiungerei anche nei confronti della fede – non è sufficiente a ‘chiudere’ il discorso?

C’è una frase di Bobbio nella lettera che consegnò alla stampa con l’incarico di pubblicarla all’indomani della sua morte, che dice: «Non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano in molti modi». A mio avviso questa è una delle più lucide esemplificazioni contemporanee del rapporto fede-ragione, perché Bobbio afferma che, come uomo di ragione, egli sa di essere immerso nel mistero.

Vede, noi normalmente pensiamo che sia la fede a parlare di mistero, mentre al contrario riteniamo che la ragione sia chiarificatrice, le assegniamo un lume che arriva e illumina ogni cosa. Ma Bobbio dimostra che non è così. È lo stesso risultato a cui giunse la grande speculazione di Kant, che pose la critica della ragion pura che si chiude con irrisolvibili antinomie: e che cos’è il mistero, se non il vedere le contraddizioni che costituiscono le esistenze stesse e le varie antinomie?

Vedere la contraddizione e riconoscerla come tale, significa cogliere due nomoi, due leggi entrambe legittime ma contrapposte l’una all’altra, e così generare l’anti-nomia. In Kant si ha l’antinomia della ragion pura e l’antinomia della ragion pratica. Da qui si origina un fondo oscuro, capiamo cioè che la ragione esercitata fino in fondo non ci consegna alla luminosità. Benché qualche positivista possa pensare il contrario, vi sono eccellenti ragionatori che chiudono il senso del loro ragionare ritrovandosi al cospetto di un irrisolvibile chiaroscuro, dove le luci sono sempre connesse alla tenebre. Ne viene il senso del mistero, termine che rimanda a mystérion in greco, il quale si rifà al verbo myō, che significa chiudere, detto di occhi e di bocca, così che il mistero è ciò che ti fa chiudere gli occhi e la bocca. E quando uno chiude gli occhi e la bocca, vuol dire che ha capito di essere alla presenza di qualcosa di più grande che non può dire, o pensare di racchiudere in una formula, e in un certo senso vi si affida.

Non a caso da mistero deriva anche mistica, il rimando alla dimensione eccedente della mente che si ritrova al cospetto di qualcosa di più grande e vi si affida. Confida, si fida, ha fiducia, eccoci qui, siamo arrivati alla fede. In questa prospettiva la fede non è qualcosa che si contrappone alla ragione, o la fede o la ragione, o si pensa o si crede, come cita una raccolta di scritti di Schopenhauer. In realtà è proprio perché si pensa fino in fondo che poi, ad un certo punto, una persona, posta di fronte alla scelta di quali debbano essere i criteri per orientarsi nella vita, capisce che deve fidarsi di un orientamento. La semplice ragione ti dà argomenti tanto per aprirti quanto per chiuderti, tanto per dire di sì alla vita quanto per dire di no, tanto per benedire quanto per maledire. La fede dunque nasce dal continuo rapporto con le domande della ragione. Senza questo rapporto la fede è un’ideologia come altre, e consegna a una delle tante appartenenze religiose che fanno parte del variegato cammino dell’umanità. Ma la fede vera è quella che, come diceva il cardinal Martini, sa affermare «dentro di me c’è il credente e il non credente», c’è l’uomo di ragione che vuole trovare ragioni e al contempo c’è l’uomo di fede che sa che si deve fidare, i due sono legati l’uno all’altro.

In questa prospettiva l’idea che qualcuno possa sostenere che la fede si basa totalmente sulla ragione, la quale arriva e giunge a dimostrare l’esistenza di Dio, è qualcosa che sfiora l’empietà dal punto di vista spirituale, perché chiunque abbia fatto esperienza della vita e del mistero religioso, intuisce che non c’è nessuna possibilità di capire, proprio nel senso etimologico del termine capio, capere, il cui participio passato è captum da cui deriva captivus cioè prigioniero, dunque capire in quanto imprigionamento. Io con la mente capisco una cosa, la capisco e la carpisco; oppure la comprendo, la prendo dentro di me, la faccio mia. Se questo avviene, non si ha la genuina esperienza religiosa, non a caso diceva Agostino: «Si comprehendis non est Deus», se comprendi non si tratta Dio, perché da Dio, da questa dimensione dell’Assoluto, dell’Essere, del Bene, da questa dimensione più grande da cui veniamo e a cui torniamo, a cui normalmente ci si riferisce dicendo divino, è chiaro che si può essere solamente capiti, compresi, nel senso di contenuti, di essere dentro.

Le prove dell’esistenza di Dio sono dunque a mio avviso qualcosa di assolutamente contrario all’esperienza del pensare e del sentire religioso. Se ne può parlare semmai come di argomenti, di tentativi di legittimare un oggetto che non sarà mai oggetto e che tuttavia devo in qualche modo oggettivare se voglio pensare, perché non posso pensare se non oggettivando. C’è infatti un paradosso costitutivo della teologia, dato dal fatto che la cosa che voglio oggettivare non sarà mai oggettivabile, non lo sarà perché mi contiene e quindi io non posso mai renderla obiectium, metterla di fronte a me, gettarla di fronte a me, e quindi vederla e così capirla. Di fronte all’assoluto, che è per definizione ciò che non ha relazione, ciò che è l’intero, l’Uno, è chiaro che mi contiene e io non posso oggettivarlo. Tuttavia se in qualche modo non oggettivo, non parlo. Quindi capisco come mai nella storia del pensiero siano nate le cosiddette prove dell’esistenza di Dio, anche se è del tutto evidente, anche alla luce di quello che hanno prodotto, che non sono prove. Sono piuttosto argomenti per dire che quel discorso ha una sua legittimità da un punto di vista razionale, e da questo punto di vista possono avere una loro utilità.

 

Lavori come Homo Deus di Yuval Noah Harari prospettano un’umanità che, rifuggendo il trascendente, divinizza se stessa e vede in un neopositivismo rivisitato un nuovo Vangelo. È questa la nuova prospettiva della teologia?

Che cosa ci riserverà il futuro non lo so, si possono fare previsioni naturalmente ma penso che non lo sappia di preciso nessuno, neppure Harari. Leggere i libri del passato che hanno parlato di futuro e quindi giungono a parlare del nostro presente non è sempre un’esperienza di grande consonanza, concordanza, si vede quante cose si immaginano che poi non avvengono per nulla. Il destino della teologia è legato a quello della libertà, a quella capacità di cogliere il mistero di cui ho detto sopra. Nella misura in cui negli esseri umani continuerà questo fremito di fronte alla dimensione dell’inattingibile, di fronte alla libertà e al sentire la pochezza del linguaggio rispetto alle grandi questioni dell’esistenza, fino a quando rimarrà questo scarto tra il di più della vita e la mente umana, –un di più che la mente umana che comunque percepisce, che capisce che non può ridurre, ma percepisce e sente– vi sarà spazio per la teologia. È chiaro se l’umanità attraverso microchip o altri meccanismi a me ignoti riuscirà a togliere e pacificare ogni tensione, arrivando a quella conciliazione che Hegel assegnava come compito alla filosofia e che oggi si assegna invece alla tecnica, per cui l’uomo da passione diventa qualcosa di soluto, di sciolto, di assolto, e sarà un essere addomesticato, è chiaro che non ci sarà spazio per la teologia, per la religione, per la trascendenza.

Nel mio libro Il principio passione (Garzanti, 2013) ho scritto che il mondo è un esperimento e come tale può anche fallire. Ritengo che se avverrà una chiusura di un’umanità su se stessa, una totale conciliazione di un’umanità che si compiace di sé e della propria intelligenza volta a soddisfare solo i propri bisogni, questo sarà un fallimento dell’esperienza umana. Evidente quindi che non vi sarà spazio per la teologia e l’uomo sarà dio all’uomo, ma non nel senso classico Homo homini deus, cioè l’uomo è qualcosa di divino, ma nel senso che l’uomo sarà l’Assoluto. La storia del Novecento però insegna: quando l’umanità ha voluto porre l’umanità stessa, l’umanità concreta con le sue ideologie, ad assoluto, il sangue non ha cessato di scorrere. Non lo so come finirà, ma se la nostra corsa finirà in questo neopositivismo tecnologico, vi sarà certo un fallimento della religione, e con essa finirà probabilmente la filosofia, di sicuro questa sarà la sorte per quel tipo di filosofia che prende sul serio il suo essere philos e il suo coltivare philein, cioè amare, perché non vi può essere spazio per l’amore laddove tutto è appagato. E forse finirà anche il nostro essere sapiens, saremo solamente faber, non più Homo sapiens ma Homo faber, o peggio Homo consumans, ammesso che si possa dire in latino.

Per leggere l’intera intervista sulla nostra rivista cartacea: qui

Giacomo Mininni

[Credit Giacomo Maestri]

“Ci prendiamo un caffè?”: intervista a Paola Goppion

Era un giorno d’estate quello in cui abbiamo incontrato Paola Goppion nella loro torrefazione di Preganziol.
L’abbiamo aspettata in una saletta fresca; alle pareti stavano appese alcune opere realizzate per l’azienda, sul tavolino una grande pianta e una collana di fascicoli monografici sui grandi artisti del Novecento. Queste presenze non lasciavano spazio al dubbio circa l’interesse dell’azienda per l’arte e la cultura (del resto, Goppion Caffè si fa sponsor di molti eventi culturali nel trevigiano e non solo).

Poco dopo la signora Paola è arrivata e abbiamo cominciato a parlare; è una donna che sa metterti a tuo agio e sa davvero rapire con i suoi racconti: si potrebbe stare ore ad ascoltarla, e questo ci ha piacevolmente colpite ed anche un po’ affascinate. La chiacchierata è proseguita attraverso gli impianti di tostatura, dove abbiamo visto montagne di chicchi mescolarsi in grandi cisterne; siamo finite nella caffetteria, letteralmente alla fine della filiera, e la signora Paola ci ha offerto un caffè, cioè si è messa lei alla macchina, soppesando poi sapientemente con lo sguardo il colore e la consistenza della miscela che ne era uscita. Non serviva essere grandi esperti per capire che quello che ci era stato servito era un caffè “come si deve”, ovvero fatto e preparato con la giusta cura e i giusti chicchi.

Per noi è stato molto importante costruire una collaborazione con un’azienda come questa: scrivere a quattro mani l’articolo per la rivista e pensare agli eventi da realizzare insieme (il primo è finalmente quasi arrivato, sabato 20 gennaio 2018 a Palazzo dei Trecento a Treviso) è stato molto interessante e sicuramente ci ha culturalmente molto arricchito. In questo articolo vi regaliamo l’intervista che Paola Goppion ci ha rilasciato, mentre per scoprire cosa si cela dentro ad un piccolo chicco di caffè vi rimandiamo alla nostra rivista #4 – Foodismo.

 

La panoramica socio-culturale che ci ha raccontato nel suo articolo per la nostra rivista cartacea #4 ha fatto emergere il carattere del caffè di essere legante tra culture. Se questa bevanda è espressione di valori e di identità, cosa ritiene che racconti del nostro Pa0ese, l’Italia?

Noi italiani andiamo molto fuori a bere il caffè e questo fa parte della nostra abitudine e, come tale, della cultura popolare del nostro paese. Un “ti offro un caffè” contiene l’invito ad uno scambio di informazioni, di racconti, ma anche di confidenze. Il caffè è la scusa per motivazioni così diverse tra loro. Anche per vedere la partita o per giocare a carte. 
Il Caffè del resto è luogo oltre che bevanda.
E se invece ci andiamo soli, al bar a bere un caffè, quel caffè rappresenta una boccata d’aria e un momento personale. Spesso facciamo qualche passo in più per raggiungere un posto che ci piace e il caffè è fatto bene.
Che strano: siamo quasi gli unici al mondo a consumare il caffe in piedi, al banco. Questa è una particolarità tutta italiana. Racconta un mondo.

Il caffè offre una grande varietà di sapori e aromi, per esempio legati alla zona geografica, oppure alle sue stesse caratteristiche biologiche: in un secondo momento poi durante la fase di tostatura si possono attribuire al caffè sfumature di profumi ed aromi di frutti, spezie, fiori e cacao, creando delle miscele di carattere. Il caffè che beviamo dunque potrebbe raccontare molto della persona che lo sceglie. Quali sono le miscele che avete creato per le vostre edizioni limitate e di quali tipi di persone lei ritiene che riflettono l’identità?

È una bella domanda.
La motivazione della scelta dei diversi caffè in origine deriva proprio dai loro sapori diversi e dalle caratteristiche organolettiche che ognuno di loro offre. Per esempio, non ci facciamo mai mancare il caffè etiope, un’Arabica la cui fine acidità, dai toni fruttati, regala alla tazza un sapore inconfondibile.
Per noi, questo caffè, ha il sapore e il profumo del caffè veramente buono.
Alcune scelte che tuttora perseguiamo hanno i decenni della nostra attività; prima mio zio Angelo e poi suo figlio Sergio, oggi nostro presidente, hanno sempre avuto un gran palato nell’assaggio dei caffè e una vera, profonda e non comune attenzione alla selezione delle qualità componenti le miscele, non solo in termini di origine e tipologia ma addirittura in funzione delle aree di produzione. In azienda si è sempre fatta una rigorosa selezione delle partite di caffè prima dell’imbarco nel paese originario e dopo l’arrivo a destino e ancora oggi vige l’imperativo rifiuto all’utilizzo nel caso la stessa sia risultata non conforme. Lavoriamo con materie prime buone facendo focus costante sulle specifiche qualità di caffè che compongono le varie miscele, indipendentemente dal prezzo delle stesse. I caffè buoni hanno caratteristiche speciali che si traducono, semplicemente, in termini di sapori piacevoli come il cacao, la cioccolata, la vaniglia, i fiori, i sentori di mandorle, nocciole e poi di frutta e tanti altri. È una caratteristica dei caffè Arabica la leggera acidità, fine, che però non deve mai divenire astringente e fastidiosa.

Il caffè deve farsi ricordare e quasi deve lasciare il desiderio di essere ribevuto. Il nostro caffè è dedicato a chi ci trova dentro il piacere di berlo. A chi sa assaporare, a chi lo apprezza.  E per gli affezionati alla marca abbiamo creato, ormai oltre dieci anni fa, ‘Edizione Limitata’ giunta ora alla 11esima edizione. Ogni anno la lattina viene disegnata da un artista diverso.
La miscela contiene sempre e in modo evidente le qualità Sidamo o Yirgacheffe dall’Etiopia. Lì è nato il caffè e lì è nata la passione della famiglia per il caffè quando, alla fine del colonialismo, due dei fratelli Goppion, Angelo e Giovanni, avevano aperto un negozio di prodotti alimentari soprattutto per gli italiani che in quegli anni erano lì. Una volta i prodotti erano venduti sfusi e così era anche per il caffè che lì era a portata di mano e tra l’altro buonissimo.

Oltre a concepire il caffè stesso un elemento/prodotto culturale, voi riuscite anche a tradurlo in veicolo di cultura. Il vostro lavoro sul packaging lo dimostra: in che modo è nata l’idea di combinare l’arte con il caffè?

Questa è la cosa più interessante dopo la composizione della miscela; secondo noi il packaging è il racconto del contenuto e una opportunità per renderlo più interessante. Trasmettere informazioni al nostro consumatore. 
Da quasi vent’anni, sul retro dei pacchetti, pubblichiamo anche una vignetta con le ‘caratteristiche in assaggio’ che viene composta dai nostri assaggiatori. È una ‘scaletta’ esplicativa che definisce i contenuti in termini di analisi visiva (consistenza, tessitura e persistenza della crema – un po’ difficile da ottenere nell’estrazione con la moka), di analisi gustativa (aroma, dolcezza, persistenza, retrogusto).
È una guida all’assaggio.
Poi, facciamo in modo che tra il pacchetto e il suo contenuto ci sia legame iconografico; quando, vent’anni fa, siamo partiti con Nativo, il mercato del biologico era un piccolo mercato, i prodotti erano pochi e si presentavano in monocolore. Il caffè in esso contenuto, allora, proveniva dal Messico (ora Honduras). Questo ha guidato la nostra ricerca del colore del packaging dentro al surrealismo della pittura messicana del Novecento.
Il pacchetto di Nativo ancora oggi è avvolto in tratti di colori accesi e materici, in cui le piccole mani dipinte anticipano il lavoro del raccolto manuale dell’uomo e esprimendo la certificazione Fairtrade.
Questo è solo un esempio, ce ne sono altri, perché (quasi) tutti i nostri prodotti ‘si raccontano’.

Nonostante il caffè sia nato in Arabia e si sia sviluppato molto in Centro e Sudamerica, nel momento in cui la vostra azienda lo porta in Veneto è capace di farlo parlare anche del nostro territorio. In che modo dunque una bevanda così esotica si lega alla cultura del nostro territorio?

In Italia, si sono inventati i modi più importanti per rendere bevibile il caffè. Da grani macinati a liquida bevanda. 
La Moka è un’invenzione di Bialetti entrata nelle case di tutta la penisola dal 1930 e la macchina per l’espresso, presentata dal suo inventore italiano in occasione dell’Expo Generale di Torino del 1884, entrò nei bar facendo diventare il caffè ‘Espresso’.
Queste sono unicità creative dell’ingegno italiano.
Da qualche anno è nato il Consorzio di tutela del caffè Espresso tradizionale, percorso per far riconoscere l’espresso diffuso in tutto il mondo come invenzione assolutamente italiana.
Poi: in Italia ci sono oltre 700 Torrefazioni e ognuna di queste ha accontentato un gusto locale. Ci sono le grandi torrefazioni, note e presenti in tutto il mondo e ci sono le medie, piccole e piccolissime che soddisfano esigenze più locali.
Goppion esporta in trenta paesi del mondo ma in Italia è presente sul territorio del Triveneto dal 1948, come fornitore di molti bar e anche attraverso una quindicina di Caffetterie a marchio tra Belluno e Venezia.
Rispondo alla domanda con un esempio pratico: una delle nostre miscele da bar si chiama Dolce. Nel suo nome si riflette la sua caratteristica di gusto più presente, la dolcezza, ma è evidente che il prodotto sia dedicato a Venezia o meglio all’importanza che la Serenissima ha avuto per il caffè che, arrivando dall’Oriente, andò da Venezia verso il resto del Mondo. Il Settecento ha visto l’apertura dei primi Caffè dove anche i grandi vedutisti del secolo si ritrovavano. 
Il pacco è foderato in un magnifico dipinto di Francesco Guardi. Ci è piaciuto pensare al restyling del nostro prodotto più antico con un’immagine che narrasse questo legame del caffè con la città magnifica.
Stringere un accordo con il Polo Museale della Ca’ D’oro, attraverso una convenzione con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, per avere l’utilizzo di due vedute di Francesco Guardi, pittore veneziano settecentesco, conservate nelle sale della Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’ Oro di Venezia ci è sembrata un’idea bellissima per coronare il senso di molte cose legate al passaggio del caffè in Italia. Stabilire l’identità di una storia vera e raccontarla nei nostri prodotti è la parte più bella del mio lavoro.

Il caffè coinvolge appieno la sfera sensoriale umana anche se nella fretta di oggi pare non esserci più il tempo per compiere scelte oculate nella grande varietà di caffè esistenti. In che modo pensate sia possibile educare il pubblico-consumatore al gusto?

Sono processi lenti. Lavoriamo bene, seriamente, comperiamo solo caffè di prima qualità, abbiamo organizzato a tutti i livelli la nostra produzione certificandola per arrivare al nostro consumatore come una garanzia. Lo facciamo mantenendo costante il nostro sapore.
Organizziamo continuamente percorsi didattici in azienda per migliorare le abilità dei baristi ma ospitiamo anche le scuole per raccontare di cose lontane che però entrano nelle nostre case tutti i giorni.
Tutto questo perché la tazza Goppion arrivi al consumatore buona così come l’abbiamo pensata.
Purtroppo caffè cattivi in giro ce n’è tantissimi e vengono bevuti lo stesso. Tra l’altro, molto spesso sono ristoranti notissimi a proporli. Questo ha ancora dell’incredibile: come sia possibile che in questi casi, dopo pietanze squisite e vini perfetti arrivi un caffè terribile, amaro e rancido. Ma, ci arriveremo un po’ alla volta a respingere il caffè come si fa per il vino se sa di tappo.

I tempi e modi di fruizione del caffè oggi sono molteplici: lo si prende “al volo” al bar, lo si sorseggia in un caffè durante un incontro con gli amici, diventa la pausa lavorativa o dallo studio da condividere con i colleghi davanti alla macchinetta. Pensa esista una relazione profonda tra caffè e tempo?

Un paio di anni fa abbiamo dedicato il nostro calendario alla relazione che c’è tra tempo e caffè.
Ci vuole tempo per sceglierlo, il caffè, il giusto tempo – lento – per tostarlo, per miscelarlo-assaggiarlo-capirlo-raccontarlo.
E quando la moka borbotta in cucina al mattino segna l’inizio del nuovo giorno.

La questione ambientale è centrale (o dovrebbe esserlo) in seno al dibattito culturale, sociale ed economico dei nostri giorni. Quale possiamo dire essere l’etica di Goppion Caffè nei confronti dell’ambiente? In che modo avete coniugato (o pensate di coniugare) l’ecosostenibilità con la vostra produzione industriale?

L’etica non è una parola ma un fatto compiuto nelle persone. 
Siamo nel lavoro quel che siamo nella vita. Lavoriamo come cresciamo i figli, con la stessa attenzione. Questo va lungo tutta la nostra produzione e nel rapporto con la nostra gente, con i collaboratori, con i clienti, distributori. Dal 2011 siamo a produzione fotovoltaica, siamo certificati ISO 22.000 per tutta la produzione, siamo certificati da Fairtrade (prima Transfair) da vent’anni, per la produzione biologica da trenta.

La nostra rivista intende riportare alla luce il valore della filosofia come disciplina in grado di parlarci di noi e del mondo odierno e anche dei piccoli gesti quotidiani come bere un buon caffè. Lei che cosa pensa della filosofia?

Non ho ancora studiato la filosofia. O molto poco. Ma penso che il fatto che la filosofia sia una riflessione sull’uomo e sul suo modo di essere, sia una materia più che mai attuale e da apprendere, studiare d’ora in poi per avere qualche strumento in più per capire il mondo complesso di oggi.
Leggere di filosofia con a fianco una tazza di buon caffè caldo e profumato: mi sembra questo il modo più appropriato per salutarvi e per ringraziarvi di averci accolti in questo spazio di lettura.

 

Elena Casagrande e Giorgia Favero

 

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Intervista Ferruccio De Bortoli: preservare e accrescere il pensiero critico

<p>Roma 11/05/2010 Trasmissione Ballaro' in onda su Raitre nella foto Ferruccio De Bortoli</p>

Il giornalismo molto ha a che fare con la filosofia, sopratutto se pensiamo alla loro relazione con la verità: entrambi agiscono ricercando la verità dei fatti, comprendendo cause ed effetti, inquadrando lo stato delle cose nel flusso della storia e fornendo così all’uomo-lettore una chiave interpretativa e una prospettiva di senso sul mondo. Il filosofo e il giornalista hanno una grande responsabilità, quella di promuovere, preservare e partecipare allo sviluppo del pensiero critico, di fare in modo che il cittadino, accompagnato all’origine dal dubbio, maturi una capacità forte di pensare in profondità e ricercando il confronto e il dialogo. Così il cittadino-lettore, oggi più che mai nell’era degli users generated contents ha a sua volta un’importante responsabilità, quella di informarsi bene e non superficialmente, essendo egli stesso, attraverso i social network e il web, capace di influenzare e orientare la percezione dei fatti. 

Su queste questione abbiamo avuto il piacere di conversare con il prof. Ferruccio De Bortoli, giornalista professionista dal 1975; direttore del Corriere della Sera dal 1997 al 2003 e dal 2009 al 2015, ha matura un’esperienza pluriennale come caporeadattore e come commentatore di economia e attualità politca. Ha anche diretto “Il Sole 24 Ore” ed è stato amministratore delegato di Rcs libri fino al 2005. Dal 2015 è presidente della casa editrice Longanesi e dell’associazione Vidas, collaborando tutt’ora come editorialista al Corriere della Sera e al Corriere del Ticino. Nel 2017 firma Poteri forti (o quasi), un libro in cui ricostruisce quarant’anni di storia del nostro paese e del giornalismo, fornendo un’inedita e preziosa testimonianza. Dal terrorismo alla crisi economica, dal declino dell’editoria fino alla comparsa di comunicatori improvvisati e agevolati dalle moderne tecnologie: De Bortoli a ricostruisce incontri e scontri, scambi di opinioni e fughe di notizie, sostenendo che oggi in Italia i poteri sono trasversali ma deboli e che una società evoluta non deve avere paura delle “verità scomode”. Un libro a metà tra il saggio e l’autobiografica, il cui filo rosso è una profonda dichiarazione d’amore per la propria professione di giornalista e per la passione che ha accompagnato e accompagna tutt’ora questo mestiere.

 

Lei è stato per diversi anni (dal 1997 al 2003 e dal 2009 al 2015) direttore del Corriere della Sera nonché direttore del Sole 24 ore dal 2005 al 2009, per cui ci sembra una persona più che adeguata a cui porre questa domanda: quali sono gli elementi che contraddistinguono e identificano il buon giornalismo?

Gli elementi sono sempre gli stessi, cioè non cambiano con il mutare delle tecnologie. Un buon giornalismo è per sua natura scomodo, irriverente, imprevedibile, non controllabile. Ci sono due termini del giornalismo anglosassone che credo possano essere assolutamente applicati anche nell’era dei social network e delle comunicazioni digitali: accurancy e fairness, dunque correttezza, credibilità e responsabilità dell’usare la libertà di cui si dispone.

Se il buon giornalismo non è cambiato, sicuramente possiamo affermare che gli strumenti e gli atteggiamenti del giornalismo (senza accezioni) sono mutati, soprattutto nel suo rapporto con il web e con i social network. Quali sono i punti fondamentali su cui riflettere in proposito, sia dalla parte dei giornalisti che dei lettori?

Stiamo vivendo una fase di progressiva riflessione sul tema dell’accesso ai social network. Nessuno mette in dubbio la grande libertà di poter avere contatti e di poter assumere informazioni di vario tipo; stiamo passando diciamo il primo periodo di entusiasmo pioneristico e ci domandiamo se la grande massa (in termini di quantità) di informazioni che abbiamo a disposizione sia di per sé utile o al contrario non sia dispersiva e qualche volta ponga una serie di interrogativi su una censura più subdola, che è quella dell’abbondanza di cose irrilevanti che rendono di per sé l’informazione rilevante trascurata oppure non messa nella giusta attenzione e nella giusta prospettiva di spazio. Quindi ci stiamo ponendo in questa fase di progressiva maturazione della nostra capacità di usare i social network di fronte al tema: tutto quello che abbiamo è utile e necessario o dobbiamo metterci nella condizione di selezionare in maniera più rigorosa le informazioni che abbiamo? Il fatto di avere un sistema che è fornito dall’informazione professionale anche dalle tante testate storiche di poter selezionare gli avvenimenti e i fatti e le opinioni sulla base della loro importanza mette il cittadino navigatore nella condizione di difendersi e nella prospettiva di non diventare, cullandosi in questo mare di informazione disordinata, un naufrago o un suddito passivo.

In questo contesto mediatico appena descritto, soprattutto in riferimento a internet, non crede che ci sia il rischio di compromissione dell’eticità del giornalista che dovrebbe in qualche modo “difendere” o comunque tener sempre conto dei diritti all’informazione dei lettori?

Il web smaschera molto più facilmente i cattivi giornalisti e naturalmente pone il giornalista di qualità nella condizione di essere per prima cosa in possesso degli strumenti tecnologici dell’informazione digitali, in secondo luogo lo pone di fronte a nuovi compiti di correttezza e di affidabilità, lo toglie da un piedistallo che storicamente aveva, perché comunque nell’informazione digitale non c’è più una grande differenza tra chi fa e chi riceve l’informazione e lo mette di fronte a dei doveri morali di chiedere scusa e di non essere così presuntuoso da ritenere di possedere, magari in esclusiva, la verità.

Abbiamo parlato e in effetti parliamo molto spesso del dovere e della responsabilità dei giornalisti a fornire la verità e del loro dovere nel rispettare un’etica giornalistica forte; molto meno spesso parliamo invece dell’etica e delle responsabilità dei lettori, oggi messe a dura prova dai numerosi strumenti forniti dalle rete. A suo parere a quali responsabilità e dovere deve rispondere il lettore-cittadino?

I lettori nell’era degli users generated contents hanno una certa responsabilità, perché sono testimoni degli avvenimenti, partecipano sui social, commentano in diretta opinioni, interventi, fanno atti pubblici, quindi sono in grado di orientare la percezione degli avvenimenti perché comunque insomma interpretano il polso della gente, del popolo che sta attorno ad alcuni fatti  e che segue alcuni personaggi, però hanno anche la responsabilità di informarsi bene, cioè uno degli aspetti secondari degli effetti laterali dell’era del digitale nell’informazione è la comodità con la quale possiamo accedere ad ogni possibile fonte di informazione; questa comodità spesso di trasforma in passività e in accidia. Per informarsi bene bisogna fare comunque un po’ di fatica, non possiamo essere utenti passivi, dobbiamo sviluppare una capacità critica, una coltivazione del dubbio, in modo da poter confrontare in maniera corretta ciò che è rilevante da ciò che non lo è, e distinguere meglio ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è effimero da ciò che è sostanziale, ciò che è lecito da ciò che è illecito.

Tutto ciò riguarda qualsiasi tipo di giornalismo. Siamo in un’era nella quale non si può più ingannare il prossimo, si paga un prezzo elevato per la scarsa affidabilità, ma si è tenuti anche a riconoscere gli errori perché lavorando specialmente in un sistema che a volte privilegia la tempestività all’accuratezza si incorre ad una quantità di errori decisamente superiore rispetto a quelli che si potevano commettere in altre ere tecnologiche dove si poteva naturalmente decantare, aspettare, dove il tempo era più in possesso di chi faceva informazione. Adesso il tempo è in possesso dei lettori, il pendolo del potere si è spostato verso l’utenza rispetto a coloro che forniscono e fanno informazione, quindi questo è un elemento di cui vale la pena sottolinearne l’importanza, un tema di maggiore responsabilità di chi fa l’informazione e un controllo molto più stretto da parte degli utenti e del pubblico. La considerazione che comunque se si chiede scusa per gli errori commessi e la rete riconosce la buona fede, è comunque un tema di credibilità, di correttezza, di autenticità del proprio essere giornalista.

debortoli-poteri-fortiNel suo libro Poteri forti (o quasi) (La nave di Teseo, 2017) lei sostiene come i grandi paesi abbiano dei poteri forti, cioè dei poteri che sono però responsabili perché sono all’interno di un quadro di regole, rispettano l’ordinamento democratico. A differenza però di paesi come gli Stati Uniti, la Germania, la Francia i cui poteri non sfuggono alle regole democratiche ma fanno parte di una società che ha un senso di responsabilità nazionale condivisa, il dramma del nostro Paese è di non avere più poteri forti. Perché a suo parere l’Italia non è più in grado di avere poteri riconoscibili?

Nel libro cerco di sfatare un mito che è ricorrente tutte le volte che accade qualche fatto importante nel nostro Paese: si evocano secondo me a volte in maniera del tutto impropria i poteri forti del Paese che interverrebbero nel mutare il corso della democrazia o delle istituzioni privando quelle che sono le rappresentanze del popolo del loro potere e della loro capacità di agire. Io invece penso che se ci sono poteri forti che possono essere da un lato della politica (i partiti) e dall’altro dell’economia/finanza (grandi gruppi industriali o finanziari), se sono poteri forti con una storia, un’anima, un senso di responsabilità, una capacità di sentirsi responsabili per i destini del Paese come avviene diciamo nei Paesi  più evoluti che hanno una classe dirigente coesa, e comunque dei poteri  forti ma responsabili – beh, penso che questo non sia un guaio ma uno degli elementi costitutivi della grandezza identitaria di un Paese. Quando mancano questi poteri forti nella politica, nell’economia e nella finanza si lascia lo spazio ai rider, e i rider possono essere da Berlusconi a Grillo, nell’economia e nella finanza possono essere i furbetti del quartierino o gli speculatori stranieri o anche le grandi banche d’affari americane, cioè poteri assolutamente svincolati da un rapporto con il Paese e quindi privi di un controllo democratico. Penso che il problema vero sia questo: la mancanza di poteri forti naturalmente allinea e accresce poteri trasversali e occulti, deboli, cordate amicali che sono ancora per certi versi più pericolosi di poteri forti che noi identifichiamo. Nel nostro Paese abbiamo paura delle dimensioni, invece dovremmo coltivare un accrescere dimensionale delle imprese e ritornare a riscoprire secondo me l’importanza dei partiti senza i quali non c’è democrazia.

Entrando nello specifico all’interno dell’ambito giornalistico italiano, quali sono le influenze dei poteri “quasi” forti? Mi riferisco per esempio a grandi gruppi editoriali come per esempio Mondadori.

Nel libro spiego molto quali sono i rapporti tra azionisti e informazione; distinguo tra azionisti che hanno rispetto dell’autonomia, dell’indipendenza e del valore delle loro partecipazioni, nel senso che riconoscono e danno fiducia a redazioni o direzioni (poi gliela possono sempre togliere) ma naturalmente che si comportano con rispetto per quello che è il valore intrinseco dei giornali, e poi ci sono dei padroni, delle diverse tipologie di proprietari che magari usano il giornale come strumento di pressione o di potere per inseguire i propri interessi.

Noi de La Chiave di Sophia riteniamo che la filosofia sia la spinta, il motore di ogni nostra azione e quindi di ogni professione, essendo riflessione e ricerca di senso. Nel suo mestiere ritiene che la filosofia possa avere un ruolo importante? Che cos’è per lei Filosofia?

Io penso che sia importante, soprattutto nel dibattito riguardante i grandi maestri del passato e naturalmente guardando con grande attenzione allo sviluppo del pensiero contemporaneo, cioè viviamo una fase di grande tecnologia ma di scarso pensiero, esattamente l’opposto rispetto alla Grecia classica, che aveva molto pensiero e scarsa tecnologia. Noi abbiamo il compito di preservare e accrescere il pensiero critico, di fare in modo che il dubbio accompagni la vita dei cittadini responsabili, attenti e curiosi, e in questo la capacità di pensare in profondità, in larghezza e nella disponibilità a mettersi nella parte dell’altro – prendo molto Levinas da questo punto di vista cioè nel riconoscere nell’altro il prossimo – io penso che sia una delle chiavi di volta della vita contemporanea.

 

Elena Casagrande

Intervista rilasciata in occasione di Pordenonelegge 2017

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La cucina della verità: intervista a Gualtiero Marchesi

Quando abbiamo cominciato a costruire il numero #4 della nostra rivista cartacea sul tema del cibo e delle tendenze alimentari ed enogastronomiche, abbiamo pensato che la ricerca filosofica non potesse non interfacciarsi con chi rende ogni giorno viva la cucina: gli chef.  Personalità poliedriche, dalle grandi abilità tecniche e dalla profonda attenzione per il mondo circostante, riescono a riprodurre e rappresentare in un piatto il pensiero che gli è più proprio. Filosofi del mondo culinario, interpretano la realtà attraverso i loro piatti e la lavorazione delle materie prime. Proprio perchè la nostra ricerca non poteva prescindere dalla voce degli chef, non poteva prescindere nemmeno dal più grande maestro della storia della cucina italiana: Gualtiero Marchesi.

Il suo curriculum, una sorta di cursus honorum del mondo della gastronomia e della ristorazione, è lungo e sensazionale, così come l’elenco dei premi e dei riconoscimenti ricevuti, sia come chef che come persona e come rappresentante nel mondo della cultura italiana. Possiamo riscontrare l’impronta di Gualtiero Marchesi in moltissime città del mondo, ma noi oggi lo ringraziamo soprattutto per la fondazione di ALMA, la Scuola Internazionale di Cucina Italiana, di cui lui è stato un grande promotore e rettore sino a quest’anno: ha aperto i battenti nel 2004 in un bellissimo palazzo vicino Parma e con la guida di Marchesi regala al mondo alcuni tra i migliori professionisti del settore. Nel 2010 nasce la Fondazione Marchesi, «nido d’arte per i bambini e scuola creativa per i cuochi», mentre risale al 2014 la nascita dell’Accademia Marchesi, un progetto complementare ad ALMA e che rappresenta «un luogo di studio, di apprendimento e di sperimentazione dove formare i cuochi e divulgare i principi di una sana alimentazione, dove la cucina e l’arte, in tutte le sue manifestazioni, dalla musica alla scultura, alla pittura, all’architettura, al teatro… possano contribuire alla definizione del buono e del bello, coinvolgendo sia gli adulti sia i bambini».

Gualtiero Marchesi è uno degli esempi in cui cucina e filosofia sono a stretto contatto, in cui non può darsi una vera cucina senza un pensiero forte alle sue spalle. Un pensiero che si fa percorso e quindi esperienza attravero le materie prime, la loro lavorazione e la loro fruizione estetica nel piatto. Abbiamo avuto l’onore di riflettere sullo stato del mondo contemporaneo e di come la cucina debba essere una cucina della verità, in cui aristotelicamente parlando, materia e forma rilevano l’essenza del piatto. Una cucina che diventa specchio della nostra realtà e della necessità di riscoprire un rapporto sincero, vero e genuino con il cibo. Grazie Maestro!

 

La sua esperienza si è sempre intrecciata all’amore, alla passione e curiosità per l’arte: dalla pittura, scultura, alla letteratura sino alla musica. In che modo il Bello e il Buono possono coesistere in modo equilibrato? Evitando così che l’estetica si innalzi a un culto e che i cuochi si trasformino in solo esteti.

Il segreto dell’arte è proprio questo: illuminare in maniera simbolica il rapporto tra l’uomo e la natura, l’uomo e la vita, la storia, la morte.  Per questo motivo, l’arte non è distrazione, né capriccio: serve a raccontare grandi e piccoli misteri. Ridurla a qualcosa di decorativo, di futile, è come non usarla o sprecarla. L’espressione artistica si raggiunge quando si governa la tecnica talmente bene da dimenticarsela. Per questo serve studiare, formarsi, in cucina come nelle diverse arti.

La dimensione educativa e formativa è per Lei una parte fondamentale e determinante per il percorso di un cuoco e paragonando la cucina alla musica afferma che prima di tutto bisogna giungere nella condizione di essere ottimi esecutori e poi alla fine aspirare a diventare profondi compositori. Quali sono le caratteristiche che fanno di un cuoco oggi un abile compositore?

Trovo che ci siano delle somiglianze tra cuochi e musicisti, poiché ambedue lavorano sodo e di notte, devono conoscere a fondo la tecnica e saper riprodurre con esattezza una ricetta che è come uno spartito. Io apprezzo i buoni esecutori, i cuochi che sanno cucinare, che non steccano. L’interprete si trova un passo oltre. Un ruolo destinato a pochi, mentre i compositori, in grado di creare, quelli sono veramente rari. I piani di studio dell’Accademia Marchesi si basano su queste premesse.

Lei afferma che «La cucina non è un fine ma un mezzo. È uno dei linguaggi con cui parlare a se stessi e al mondo». Considerando le profonde trasformazioni socio-culturali che hanno attraversato e tutt’ora attraversano la nostra società, possiamo dire che la cucina ha anche il dovere di raccontare i cambiamenti che interessano l’individuo e la società tutta? Può individuarci due momenti storici particolari in cui la cucina ha cambiato sé stessa in funzione dei bisogni dell’uomo e della sua società?

riso-oro-e-zafferano_La chiave di SophiaCon la caduta dell’Ancien Régime, i cuochi di corte si sono ritrovati disoccupati e si sono messi in proprio. La grande ristorazione nasce dalla Rivoluzione francese. In Italia, il cambiamento avviene quando, nel ristorante di via Bonvesin de la Riva, a Milano, nasce la Nuova cucina italiana, non più succube dei ricordi di fame, della guerra, della quantità immediata a discapito della qualità.

Erano ormai cambiati i ritmi e gli stili di vita, l’apporto calorico poteva essere ridimensionato, studiate meglio e applicate le giuste cotture, rendendo il piatto leggibile, curando la composizione, i rapporti tra vuoti e pieni, tra i colori, le forme del cibo e la forma del piatto. Non a caso, ho sempre disegnato piatti e stoviglie per ottenere un’armonia visiva e concettuale. La materia è forma e il contenuto è il suo contenitore. Solo così l’esperienza ri-creativa e sapienziale della cucina diventa totale e quindi anche estetica.

Viviamo in un’epoca in cui ogni informazione è presa e consultata sul web: da un lato proliferano i blog di cucina, siti internet dove trovare ricettari e vademecum culinari, dall’altro ogni nostra esperienza, compresa quella enogastronomica, è mossa e influenzata da siti e realtà come TripAdvisor dove la recensione e il feedback da parte di altri utenti-consumatori diventa la premessa fondamentale dalla quale prendere le nostre scelte. A Suo parere, perché ritiene che l’uomo abbia bisogno innanzitutto del parere soggettivo altrui nel giudicare un luogo, un ristornate o un locale? Non abbiamo dimenticato forse quello spirito di curiosità e scoperta che ci caratterizza?

Pensiamo solo alla fissazione di fotografare tutto quello che mangiamo. Il web è sommerso di foto di piatti. Credo che questa paranoia sia l’effetto di un bisogno estremo, di una paura da esorcizzare, facendo quello che fanno gli altri, unendosi al branco. Muoversi con la massa rassicura, maschera l’angoscia di non essere accettati. La tomba dell’originalità!

Al fine di tutelare, custodire e raccontare una cultura della cucina vera, secondo Lei, verso quale direzione l’informazione, il giornalismo e la comunicazione in generale dovrebbe muoversi?original_raviolo-aperto-gualtiero-marchesi_la-chiave-di-sophia

L’informazione è diversa dal consumo di informazioni. Fare cultura richiede una certa preparazione e soprattutto curiosità e sincerità.

Ho sempre sostenuto, anche polemicamente, che al posto dei critici, spesso incapaci di cucinare alcunché, avremmo bisogno di più cronisti, gente che sappia raccontare cosa ha visto, ha sentito e mangiato, magari aggiungendo anche il perché e il per come di un piatto, ciò che pensava in quel momento il cuoco.

Quali sono state le tendenze in grado di affermarsi nel panorama culinario italiano e che hanno sviluppato un loro pensiero, rispondendo ad un reale bisogno e non semplicemente imponendosi e scomparendo come una semplice moda?

Bisogna sempre partire dal passato, dissetarsi alla sorgente per riuscire a capire il futuro. Rileggere le ricette della tradizione, attualizzandole, alleggerendole, senza pasticciare e giocare con le apparenze. Restare legati al clima. Se lavoro al mare non posso proporre una cucina alpina e viceversa. Scegliere sempre il meglio che offre il mercato, seguendo le stagioni, quando i frutti della terra raggiungono la pienezza del gusto.

Il resto è moda, va e viene.

Si può affermare che è cambiata la testa e soprattutto il palato delle persone, non si mangia più per fame ma per appetito e questo sposta sempre più il centro dei comportamenti dal mondo dei bisogni a quello dei desiderio, potremmo dire “dallo stomaco alla mente”, assumendo un nuovo punto di vista sull’oggetto del cibo a quello della cultura. A questo proposito e in risposta alle richieste di un nuovo consumatore sempre più attento, come risponde la ristorazione tradizionale? E quali sono i suoi criteri di scelta?

Non sarei così sicuro che il cambiamento sia concluso, è ancora in atto. Per questo è necessario dedicarsi alla ricerca e alla formazione sia dei consumatori sia dei cuochi. Ricordiamoci, anche, che la globalizzazione comporta e comporterà un sempre maggiore meticciamento della cucina, a partire dagli ingredienti. Non è facile stabilire dei criteri di scelta, validi oggi e tra dieci anni. L’unica cosa che si può ribadire è che la forma è materia e la materia è forma, che il buono è anche il bello.

Quali sono secondo lei i valori fondamentali della cucina italiana e del sistema agroalimentare italiano?

Come dicevo prima, l’estrema varietà. Siamo un Paese lungo e stretto, percorso da microclimi diversi, addirittura opposti, storie di persone e modi di pensare multiformi. Sembra una debolezza ma è una forza. Questo continuo confronto e il peso specifico di una grande civiltà ci hanno regalato il senso della misura, la percezione di cosa sia l’eleganza che non ha nulla a che vedere con lo sfarzo, l’esibizione del lusso. Siamo mediterranei e greco-romani, viviamo in uno spazio dove la prima regola è riconoscere il limite e trasformarlo da ostacolo in opportunità e − perché no? − in bellezza.

È importante anche riflettere intorno al nuovo senso dello stare assieme, trovando un motivo di aggregazione nell’identità del cibo consumato, diventando anche una paradossale sollecitazione etica oltre che intellettuale. Qual è la Sua posizione sulla ritualità dei pasti e sul valore aggregativo del cibo?

original_rosso-e-nero-coimbra-gualtiero-marchesi_la-chiave-di-sophiaIn passato, il rito del cibo si svolgeva in casa, perché la casa paterna era il vero, indiscusso, centro del mondo. Oggi, non credo che questo legame sia, fatte le debite eccezioni, più forte. Prevale, secondo me, il desiderio di trasformare i dettagli in rito. Forse, la modernità è afflitta da una vera e propria crisi di nostalgia più che per le cose in sé, per quello che rappresentano. Il consumismo si basa sull’apparenza. Possedere, imitare è più sbrigativo che essere o avere qualcosa, perché ce lo siamo conquistato.

La nostra rivista intende riportare alla luce il valore della filosofia come disciplina in grado di parlarci di noi e del mondo odierno e anche pratiche quotidiane come la cucina.  Lei che cosa pensa della filosofia?

Mi piace, innanzitutto, che la parola abbia a che vedere con il concetto di amore verso qualcosa. Amore della conoscenza. L’unico modo per onorare la nostra umanità.

 

Martina Basciano e Elena Casagrande

Photo credits ritratto: Luisa Valieri

Sulla nostra rivista #4 articolo speciale di Gualtiero Marchesi, per leggere qui

 

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Vivere e scrivere la montagna: intervista a Paolo Cognetti

<p>Scrittore Paolo Cognetti fotografato a Estoul in baita</p>

Paolo Cognetti ha vinto il Premio Strega 2017 con il suo romanzo Le otto montagne (Einaudi). Nel libro la montagna è uno sfondo, ma anche un collante, una meta, il luogo del ricordo. Cognetti racconta di un’amicizia tra due ragazzi, Pietro e Bruno, che si snoda attraverso gli anni. Pietro è un ragazzino di città, che ogni estate viene portato dai suoi genitori a Grana, paesino valdostano ai piedi del monte Grenon. Qui egli incontra Bruno, pastore e montanaro, destinato a diventare per lui un amico speciale – quello della vita.
Cognetti ha scritto di montagna anche ne Il ragazzo selvatico (Terre di Mezzo, 2013), una sorta di diario personale in cui narra di come trasferirsi in montagna lo abbia aiutato a superare una crisi personale e creativa. Lo scrittore ha inoltre pubblicato il “romanzo di racconti” Sofia si veste sempre di nero (Minimum fax, 2017), Manuale per ragazze di successo (Minimum fax, 2017), ma anche dei saggi su New York (New York è una finestra senza tende, Laterza, 2017), città da lui molto amata.
Milanese di nascita, vive da anni in montagna, in una baita a 2000 metri. Lo conosciamo al festival letterario Pordenonelegge il 14 settembre 2017, dove ha tenuto una conferenza assieme a Enrico Brizzi dal titolo Camminare, scalare, vivere; da questo incontro è nata, nei giorni successivi, questa intervista.

 

Lei dedica Le otto montagne a un amico che l’ha ispirata, guidandola «dove non c’è il sentiero»: è grazie a questo amico che è nato il personaggio di Bruno? Che rapporto ha questa amicizia reale con quella letteraria?

L’amicizia reale ha ispirato quella del romanzo; questo libro non è un’autobiografia però tutto quello che c’è dentro ha un certo grado di verità – come succede sempre nella narrativa. Sono veri i personaggi, sono veri i luoghi, sono vere le relazioni. Scrivendo un romanzo succede che la vita diventa qualcosa di “sognato”, si discosta dalla realtà per diventare qualcos’altro. Inoltre, vari aspetti di alcune mie amicizie reali confluiscono nel personaggio di Bruno.

La montagna è un ambiente puro, schietto, elimina il superfluo e va all’essenziale. Secondo lei, quanto influisce l’ambiente montano sui rapporti umani? Parlo di rapporti familiari (penso ad esempio a Gianni, il padre di Pietro ne Le otto montagne) ma anche sentimentali e d’amicizia (mi viene in mente Lara, che si lega a Bruno, alla quale l’essenzialità sembrava non bastare).

Dipende da come uno sceglie di vivere in montagna. È anche possibile vivere in montagna così come in città. Non vorrei descrivere la montagna come un mondo in cui tutti vivono in maniera diversa e più pura. È possibile condurre un’esistenza da cittadini in un paese montano provvisto di tutti gli agi, di tutto il superfluo: mezzi di comunicazione e di intrattenimento, auto, televisione, computer e via dicendo. Ci sono invece alcune persone che vivono la montagna come luogo più semplice, più autentico, ed essi stessi si spogliano di diverse cose. Io ho veramente pochissime cose su (in montagna, nella mia baita, N.d.R.) e faccio una vita il più possibile semplice, e questo in effetti entra nei rapporti, che diventano anch’essi spogliati di tante sovrastrutture o canali di comunicazione che abbiamo oggi a disposizione. Le amicizie si fondano sullo stare insieme, sul camminare, sul lavorare e poco altro. Mi sembra in questo modo di riuscire a creare rapporti più schietti e più profondi al tempo stesso. Per quanto riguarda i rapporti familiari, quello che è successo a Pietro e Gianni è ciò che è accaduto a me: questo padre in città non c’è, perché dedica la parte migliore di sé a quello che fa fuori di casa, al lavoro. Diventa un padre reale col quale è possibile parlare e avere una relazione solo in montagna. Nel mio romanzo accade questo, ma io non ho tanta esperienza di famiglia, non me la sono costruita, mi piacciono di più i rapporti di amicizia piuttosto che quelli familiari.

Sia ne Il ragazzo selvatico che ne Le otto montagne c’è un paesaggio alpino che è selvaggio ma non completamente: lei scrive che sulle Alpi c’è una lunga storia di presenza umana che però oggi vive un’epoca dell’abbandono. Anche a Grana c’è «assenza di decoro, disprezzo per le cose, gusto nel maltrattarle e lasciarle andare in malora». C’è per lei un fascino particolare nell’abbandono del paesaggio alpino che rimanda al “ricordo come rifugio”, la frase che scrive Gianni in un libro degli ospiti?

Sì, trovo un fascino in questo. Noi probabilmente non sappiamo nemmeno che cosa sia un paesaggio davvero selvaggio: sulle Alpi, ovunque andiamo, a guardar bene troviamo dappertutto segni della presenza umana, del lavoro. Fin da piccolo mi sono abituato a vivere la montagna come un luogo abbandonato, pieno di ruderi, dove qualcosa che c’era prima, ora non c’è più, e questo è romanticamente molto struggente. Mi riferisco proprio alla poetica romantica dell’abbandono. Le Alpi io le collego a questo, cosa che non mi succede andando in Himalaya, come racconta Pietro ne Le otto montagne: lì non c’è questa sensazione di abbandono e non percepirla cambia molto, perché l’ambiente montano cambia decisamente carattere.

Alle tematiche della memoria e del ricordo si lega infatti ciò che Gianni dice dei ghiacciai alpini, «memoria degli inverni passati che la montagna custodisce per noi». In lei quindi è molto vivo il legame che lega la montagna al ricordo e alla memoria?

Sì, senz’altro, anche nella mia vita privata. Solo da bambino puoi vedere la montagna con la meraviglia dei luoghi nuovi, tutti da esplorare. Da grande essa diventa, al contrario, il luogo della tua memoria. Mi piace molto ripercorrere i vecchi sentieri e viaggiare nel tempo mentre cammino in montagna. Ma la montagna è anche un luogo di memoria collettiva perché io cammino per i luoghi della Resistenza, per esempio, o attraverso i luoghi delle Guerre Napoleoniche, o lungo i percorsi dove hanno lavorato i montanari che non ci sono più. Mi piace molto essere in grado di leggere questo paesaggio grazie a chi me lo ha insegnato, grazie ai libri che ho letto o grazie agli amici che ho frequentato. Mi piace sapere dove sto passando, capire cosa c’è stato lì, ecco.

Ne Le otto montagne lei scrive che «è impossibile trasmettere a chi è rimasto a casa quello che si prova lassù», però ha cercato di farlo. Pensa di esserci riuscito o crede che, in un certo senso, solo chi ha vissuto davvero la montagna possa capire fino in fondo l’ambiente descritto e tutto ciò che esso comporta?

A volte gli scrittori mettono nei loro libri degli “esorcismi”, e con quella frase («è impossibile trasmettere a chi è rimasto a casa quello che si prova lassù») volevo dire che quello che stavo cercando di fare rischiava di essere un fallimento, perché è impossibile raccontare la montagna a chi non la conosce. Invece poi mi è successo di parlare con i lettori che in montagna non ci sono mai stati, e ho riscontrato che sono rimasti colpiti, a modo loro, dal libro. Penso ai grandi romanzi di mare: io il mare non lo conosco per niente, eppure leggendo Conrad o Jack London mi sembra quasi di sapere tutto su come si sta su una barca. Credo che la grande scrittura questo riesca a farlo; io ci provo.

Il titolo Le otto montagne viene da una storiella che un vecchio nepalese racconta a Pietro, di un mondo composto da otto montagne e otto mari, con al centro un monte altissimo, il Sumeru. Pongo a lei la domanda che il nepalese pone a Pietro: ha imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne o chi è arrivato in cima al Sumeru? Crede che questi due percorsi rappresentino in realtà due tipologie di personalità che forse non si oppongono così tanto, bensì si completano?

Sì, sono assolutamente d’accordo. Forse spesso succede che queste due personalità siano interne a noi, due parti di noi, e non per forza due persone diverse. Ho pensato tanto a Hermann Hesse, scrittore che ho amato molto durante l’adolescenza: queste due vie somigliano un po’ alle due vite di Siddharta. Egli compie una prima parte della sua ricerca come eremita e poi pratica l’ascesi per anni: questo rimanda alla figura del monaco, quello che sta cercando di salire sulla cima del Sumeru. Poi, soddisfatto da questa ricerca, Siddharta si dedica invece alla vita dei sensi, diventa un commerciante, un amante delle città, delle donne, della vita materiale. E forse questa è la parte della sua storia che corrisponde a quella del viaggiatore che fa il giro delle otto montagne. Poi Hesse ha sviluppato questo tema in un altro gran bel libro, Narciso e Boccadoro, dove questi due destini sono incarnati da due personaggi distinti: Narciso è il monaco che passa tutta la sua vita in un monastero, Boccadoro l’artista che cresce in quel monastero come orfano, ma ben presto parte per seguire la sua vocazione. Tutti e due nella vita cercano di realizzare la loro grande opera d’arte: nel caso del monaco l’opera d’arte può essere il raggiungimento dell’illuminazione, della pace, della comprensione del mondo. Nel caso dell’artista è invece riprodurre tutto questo in un capolavoro. Mi piace molto l’idea che nessuna delle due vie sia quella giusta, sono due possibilità, magari entrambe presenti nella vita di ciascuno di noi.

Non pensa, quindi, che Bruno de Le otto montagne si sia perso qualcosa, rimanendo metaforicamente in cima al monte Sumero e rifiutandosi di girare per le otto montagne?

Beh sì, ognuno di noi si è perso quello che non ha vissuto. Un viaggiatore, per esempio, si perde la casa, si perde la vita di chi sa di appartenere a un luogo e costruisce una relazione con quel luogo. Questo è ciò che Pietro non avrà mai, quindi anche lui si perde qualcosa. Quando uno sceglie una strada, si perde tutte le altre. Ma quello che intendo dire è che non la sento come una vera perdita.

Che rapporto c’è tra la sua attività di scrittore e la montagna? Quanto la montagna ha influito e influisce sulla sua scrittura e come si percepirebbe, lei, senza la montagna?

Da un punto di vista lavorativo, la montagna è il luogo dove io scrivo. Io sono tornato in montagna a trent’anni, in un posto della mia infanzia, dopo averlo abbandonato e dimenticato per tanto tempo. Sono tornato in seguito a una crisi personale e d’ispirazione, e la montagna mi ha restituito la concentrazione necessaria per scrivere, quindi è il luogo dove lavoro meglio, è diventata la mia “stanza dello scrittore”. Poi è entrata nei miei libri con grande potenza, come luogo, come tema, come relazione, come persone. Per me, ora, ha grande rilevanza anche la scrittura del paesaggio, che prima era relativa: ero uno scrittore, mi sembra, più di personaggi, e invece scrivendo di montagna è come se il paesaggio avesse acquisito, nella mia scrittura, tutta un’altra importanza. Lo si vede dal modo in cui la scrittura cerca di raccontare il paesaggio montano, di leggerlo, di renderlo vivo.

Intraprendere una salita in montagna e scrivere un romanzo sono esperienze che per certi versi si assomigliano, perché in entrambi i casi c’è fatica, sofferenza, sforzo fisico e mentale, ma anche il timore di non farcela e la tentazione di mollare. Però alla fine si giunge alla meta e si raggiungono una pace e una soddisfazione particolari. Lei paragonerebbe la gestazione di un racconto o di un romanzo alla salita/scalata che si intraprende in montagna?

No, scrivere è più difficile. Con pazienza e testardaggine so che arriverò in cima alla montagna in ogni caso, mentre non è così per la scrittura. La metafora non regge, poi, nel caso in cui si scriva un brutto libro, perché non si scala mai una brutta montagna. Invece, si può arrivare in fondo a un romanzo, ma non è detto che si sia riusciti a fare quello che si doveva fare. Scrivendo non c’è nessuna sicurezza, mentre in montagna io sento di conoscere i luoghi, so quali sono le mie forze e arrivo sempre in cima, prima o dopo. Scrivere per me è difficoltoso, è un’attività molto rischiosa, nel senso che non sono mai sicuro di dove sto andando o che quello che sto facendo sia buono. Mi manca molto il rapporto artigianale con il lavoro (poi credo che sia così, magari un falegname mi può smentire). Intendo dire che, ad esempio, quando un falegname comincia a lavorare a un manufatto, sa quello che sta facendo, sa come lo deve fare e sa ciò che otterrà. Nella scrittura non è così: è un continuo avventurarsi al buio usando le poche cose che sai per farti luce.

Ne Le otto montagne lei scrive che «uno va in alto perché in basso non lo lasciano in pace». Molti percepiscono nella montagna una sorta di magia, la vedono come un rifugio dove non arriva la contemporaneità o le preoccupazioni della vita di città. Perché secondo lei proprio la montagna ha questa capacità di far spogliare l’uomo e fargli subire una metamorfosi in cui recupera una genuinità e una semplicità che nella frenesia della città non c’è o è difficile da trovare?

Lei però parla più che altro di ciò che succede in vacanza, o durante un viaggio, in un periodo di riposo dal lavoro. Se uno va in montagna a lavorare, non è che si lascia alle spalle le preoccupazioni. Io in questo momento sono molto vicino alle persone che in montagna ci vivono, quindi penso più a loro, anche perché una delle cose che credo di aver cercato di raccontare è che la montagna non è solamente “l’altrove dei cittadini”, di chi passa tutta la vita in città e ogni tanto va su, si cambia d’abito come il padre di Pietro, e con la sua camicia a scacchi trova una tranquillità momentanea in montagna. La montagna di chi ci abita e di chi ci lavora non è un paradiso, piuttosto è un luogo dove si è più soli e anche più liberi, come accade in tutti i luoghi lontani dalla società. Per me la frase «in basso non ti lasciano in pace» è anche legata a una certa tradizione storica della montagna come luogo di resistenza. Penso alla Resistenza partigiana, alle eresie dei valdesi, al modo in cui la montagna ha sempre ospitato e protetto le minoranze, a chi è andato a nascondersi su in alto, scappando dalla pianura che spesso è luogo del potere e della prepotenza cittadina. Questa idea mi piace molto: sono infatti andato a vivere in montagna anche per riuscire a fare la vita che voglio io – cosa che non potevo fare in città.

In montagna, quindi, è del tutto assente questa frenesia che c’è in città oppure per chi ci vive e ci lavora c’è, ma è una frenesia di tipo diverso?

Io credo che la frenesia appartenga a chi fa una vita frenetica. Io abito ancora, in parte, a Milano, ma non definirei la mia vita frenetica. La frenesia è una dimensione personale. La montagna può invece rispecchiare un bisogno di concentrazione, di fare silenzio attorno a sé, senza lasciarsi distrarre troppo dalle cose della vita odierna, contemporanea. Ma questo (condurre una vita frenetica, N.d.R.) può succedere in città come in montagna.

Lei trova che ultimamente la montagna sia una meta turistica gettonata per moda o perché molti si ritrovano a vivere una certa inquietudine, magari figlia del nostro tempo o del modo in cui si vive, e quindi hanno bisogno di scappare?

Sì, penso che sia così (cioè che sia vera la seconda, N.d.R.). Però vorrei dire che la montagna è una meta molto meno gettonata, oggi, rispetto ad anni fa. Ci sono infatti un sacco di case vuote, è un dato di fatto. Credo che la montagna andasse molto più di moda negli anni ‘60 o ‘70. In questo periodo mi parlano spesso di questa presunta “invasione della montagna”, ma a me viene da rispondere che io quest’invasione non l’ho vista. Abitandoci, non vedo questa “moda” della montagna, o se c’è, semmai, dura pochissimo, forse un paio di settimane in agosto. Penso che a settembre in montagna non ci sia già più nessuno.

Noi de La Chiave di Sophia riteniamo che la filosofia sia la spinta e il motore di ogni nostra azione e anche di ogni professione, perché è riflessione e ricerca di senso. Nel suo mestiere di scrittore, ritiene che la filosofia abbia un ruolo importante? Che cos’è per lei la filosofia?

La filosofia c’entra strettamente con quello che faccio. A modo mio compio la ricerca del filosofo, che è ricerca di verità, un tentativo di comprensione dell’animo umano, dell’esperienza umana, di cosa significa stare al mondo. La filosofia io la faccio a modo mio, raccontando storie, indagando. A me sembra che narrare sia appunto questo: un’indagine che si svolge attraverso la scrittura, scrivendo del mistero che sono le persone. Penso quindi che ci sia molta filosofia nella mia attività di scrittore.

 

Francesca Plesnizer e Elena Casagrande

 

[Credit: Stefano Torrione]

 

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La scomparsa del pensiero con Ermanno Bencivenga al Tocatì Festival

Verona – Domenica 17 settembre, il filosofo Ermanno Bencivenga sarà ospite alla nuova edizione del Tocatì Festival, Festival Internazionale dei Giochi in Strada di Verona. Un evento atteso e di prestigio per la rassegna giunta alla XV edizione e diventata un punto di riferimento, come ogni anno, per la scoperta delle tradizioni culturali riconosciute dall’UNESCO come parte del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità (Convenzione del 2003).

Ermanno Bencivenga, professore ordinario di filosofia presso l’Università di California, ha scritto diversi libri dove il gioco è protagonista, tra questi: Giocare per forza, Parole in gioco, La filosofia in sessantadue favole, e anche racconti, tragedie e raccolte di poesie e è stato chiamato ad intervenire all’interno del programma Riflessioni, uno spazio di incontri e conferenze di esperti che raccontano il mondo ludico da diverse prospettive.

L’incontro, in programma presso la Biblioteca Civica di Verona domenica 17 settembre alle ore 17.00 vuole mettere a tema quella che Bencivenga definisce, nel suo recente libro La scomparsa del pensiero (Feltrinelli 2017), “castrofe gentile” della società contemporanea: il rischio che la nostra capacità di ragionare scompaia a causa dell’esposizione a mezzi di comunicazione più veloci del tempo necessario allo svilupparsi del pensiero logico.

155564Raccontando la sua esperienza di professore, Bencivenga mostra come questa “catastrofe gentile”, silenziosa quanto devastante, riguarda soprattutto i giovani. È in atto una vera e propria mutazione antropologica che andrà a sottrarre alla nostra specie la risorsa più preziosa: il ragionamento. Ad essere più esposte alla proliferazione dei mezzi d’informazione e di comunicazione, sono proprio le nuove generazioni, con il risultato inquietante che i giovani si abitueranno sempre più all’idea che qualcun altro, o meglio qualcos’altro, ragioni per loro. Un saggio che ci mette in guardia di fronte alle insidie della mutazione antropologica che sottrae alla nostra specie la sua risorsa più preziosa: il ragionamento.

«Solo chi gioca, nelle mille e disparate manifestazioni in cui il gioco si realizza, è vivo, esiste. I labirinti ludici dell’essere sono l’essere», scrive in Filosofia in gioco. Un appuntamento importante per ripensare il nostro rapporto con il gioco e soprattutto con la realtà mutevole che ci circonda, dove la Filosofia diventa un utile strumento per affrontare le problematiche cui siamo chiamati ad affrontare.

Con lui dialogherà Olivia Guaraldo, professoressa presso il Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia dell’Università degli Studi di Verona.

Maggiori info: qui

 

Elena Casagrande

Curare il nostro territorio: intervista a Giacomo De Luca di Savno Servizi

Perché praticare la raccolta differenziata è così importante?
La questione dell’inquinamento e del riscaldamento globale è solo una parte della risposta. Il vero motivo riguarda infatti il territorio: consideriamolo alla scala che vogliamo, ma ce ne dobbiamo prendere cura, con tutti i mezzi che sono in nostro potere.
Questo è quello che ci racconta Giacomo De Luca, presidente di Savno Servizi, azienda che gestisce il servizio integrato dei rifiuti solidi urbani per 44 comuni della Provincia di Treviso e che si occupa del servizio di raccolta delle principali frazioni merceologiche dei rifiuti, del loro trattamento e/o smaltimento. Un’attività sicuramente importante nel mondo d’oggi e che rende il nostro impatto sul pianeta e sul territorio un po’ meno gravoso e che, soprattutto, ci fa sentire orgogliosi del nostro ruolo di cittadini.

 

Negli ultimi due secoli l’uomo ha corso verso il progresso considerando solo molto marginalmente l’impatto della sua evoluzione nei confronti dell’ecosistema in cui egli stesso viveva e vive. Secondo lei in che modo progresso e cura ambientale possono andare di pari passo?

Progresso e cura ambientale devono andare di pari passo perché sono complementari. Il progresso è ora e deve continuare; se però, dopo aver preso in considerazione l’idea di progresso, si trascura l’ambiente, si rischia di tornare indietro anziché andare avanti. Perché se non c’è la cura dell’ambiente cosa progrediamo a fare? Tutto deve essere in funzione dell’ambiente, perché senza cura ambientale non si va avanti. La dimensione umana è chiamata in prima linea, è uno dei tasselli principali, altrimenti non c’è progresso.

mezzi_3La cosiddetta mentalità dello scarto, della quale il saggista americano Alvin Toffler parlava già all’inizio degli anni Settanta, si è profondamente radicata nella nostra società ed è la modalità di consumo alla quale da allora siamo abituati e con la quale siamo cresciuti. Nel momento di necessità ecologica che oggi stiamo vivendo più che mai, sono state sviluppate tecniche con cui anche tali scarti possono diventare una risorsa. Con quali modalità Savno si inserisce in questo modello?

Savno si inserisce ai primi posti di questo modello, tant’è vero che l’azienda è stata premiata dall’Università  di Roma e dall’ARPAV perché è stata in grado di chiudere il cerchio del rifiuto organico. Ciò significa che raccogliamo il rifiuto organico delle famiglie, lo portiamo nel laboratorio del centro di raccolta. Da questa lavorazione ricaviamo energia, calore, e soprattutto il biogas per far funzionare i nostri camion. I camion che vanno a fare la raccolta funzionano a biogas, combustibile naturale prodotto appunto dai rifiuti che andiamo a raccogliere: questa è la grande novità. Va detto però che da parte delle persone c’è un’attenzione particolare verso la raccolta differenziata. I nostri risultati derivano dall’educazione di gran parte dei cittadini, sebbene non di tutti purtroppo, perché senza il loro apporto non saremmo riusciti a fare nulla. Però c’è ancora molta strada da fare; quel che va capito è che il bene che deriva dalla raccolta differenziata è di gran lunga superiore ai suoi costi di gestione. Per fortuna i mezzi di comunicazione hanno preso atto di questa situazione e ne stanno parlando sempre di più. Io spero che continuino per spronare l’attenzione della gente verso una buona raccolta.

A quali nuovi progetti vi state dedicando/quali nuove strategie siete in procinto di attuare in termini di ecologia?

Il nostro sforzo più evidente è quello di riuscire ad eliminare del tutto le discariche. A mio avviso queste sono state uno degli errori più grossi del nostro passato, viste le conseguenze deleterie che provocano all’ambiente. Dovremmo cambiare mentalità ed imporre per legge l’eliminazione delle discariche, perché è chiaro che con la discarica non si hanno costi di smaltimento, ma i costi appaiono dopo! 

Voi puntate molto del nostro futuro nell’educazione dei bambini all’interno delle scuole. Come si approcciano i bambini alle tematiche ambientali? Pensate siano capaci di ampliare anche le vedute degli adulti?

Io devo dire che sono i bambini ad insegnare ai più grandi, soprattutto a casa, perché sono in grado di coinvolgere gli adulti, di correggerli, e di destare la loro attenzione, magari sgridandoli quando hanno comportamenti non idonei. In particolare i bambini hanno capito il riutilizzo degli oggetti, forse grazie anche alla loro ampia creatività. I progetti scolastici si muovono proprio in questa direzione, dunque riteniamo che il nostro finanziamento di queste attività sia un vero investimento per il futuro. Nello specifico durante questi laboratori i bambini imparano il concetto di riciclo, per essere poi chiamati a creare un nuovo oggetto partendo da uno scarto.

raccolta-differenziata_savno-servizi_la-chiave-di-sophia-01Il territorio veneto e nello specifico quello della provincia di Treviso è da anni premiato come territorio in cui viene riciclata la più alta percentuale di rifiuti urbani; ciò naturalmente fa onore anche alla vostra azienda. Secondo lei, com’è possibile che esista ancora una tale disparità all’interno del territorio italiano e con quale modalità lo Stato e i media – a cui ha già accennato in precedenza – potrebbero intervenire maggiormente?

Lo Stato e gli Enti Locali dovrebbero imporsi, adottare delle buone pratiche e imporle. La provincia di Treviso è ai primi posti non solo in termini di raccolta differenziata e porta a porta, ma anche per quanto riguarda il costo della raccolta. I nostri costi di gestione sono infatti tra i più bassi in Italia. Anni fa si pensava che il costo della raccolta porta a porta rendesse la questione inaccessibile. Ebbene, questa teoria è stata smentita dalla pratica. Mi sembra che alcuni non vogliano sforzarsi di capire quanto il porta a porta sia invece accessibile e praticabile. L’aspetto economico non è un limite, si tratta soltanto di migliorarsi e di darsi da fare.

Il cambiamento climatico sembra un fenomeno così devastante ed inevitabile che forse probabilmente il singolo cittadino non sente minimamente di poter fare la differenza. Quali parole vi sembrano le più efficaci per convincere le persone che anche il singolo può fare la differenza?

Oggi i cittadini sono abbastanza consapevoli di tutte le questioni sopra enunciate, ed orgogliosi di aver contribuito a raggiungere un risultato incredibile. La raccolta differenziata ha sicuramente minore rilevanza rispetto ai grandi sconvolgimenti ambientali, ma anch’essa ha il suo peso. È la modalità attraverso la quale ciascuno di noi può contribuire alla conservazione dell’ambiente che ci circonda. Dobbiamo capire che il territorio ha bisogno di essere curato.

Veniamo ora a qualche consiglio pratico: che cosa sbagliamo più spesso nelle nostre abitudini rispetto al riciclo dei rifiuti?

Bisogna stare attenti innanzitutto ai rifiuti che buttiamo nel secco, sebbene questo venga poi trattato e selezionato prima di essere smaltito negli impianti di macerazione. Inoltre sarebbe necessaria qualche piccola attenzione in più, come quella di sciacquare i contenitori di alluminio prima di gettarli nel bidone.

Noi de La chiave di Sophia pensiamo che la filosofia riguardi molto da vicino la nostra vita quotidiana. Qual è la vostra concezione di filosofia?

La filosofia è la disciplina che ci ha aiutato a pensare e che ci dà idee per il futuro. La nostra filosofia è quella di capire qual è la richiesta non solo del cittadino, non solo del portafoglio, ma anche e soprattutto del territorio.

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www.savnoservizi.it

 

Elena Casagrande e Giorgia Favero