Incomunicabilità: tra Crossroads di Franzen e Gorgia

Crossroads (Einaudi, 2021) è il sesto romanzo dello scrittore statunitense Jonathan Franzen. Come in altri suoi libri (Le correzioni, Libertà), Franzen esplora le complicate, delicate e a tratti surreali dinamiche di una famiglia americana, gli Hildebrandt, all’inizio degli anni Settanta. Il capofamiglia è Russ, pastore della chiesa locale in crisi su vari livelli esistenziali, sposato con Marion, una donna infelice, insoddisfatta del proprio aspetto fisico, intrappolata nei ruoli di moglie devota e madre presente – gli Hildebrandt hanno quattro figli. Crossroads è il gruppo giovanile della parrocchia di Russ, dal quale però lui è stato estromesso perché osteggiato dai giovani membri. Rick Ambrose, giovane seminarista, minaccia di prendere il posto di Russ – lo ha già preso all’interno di Crossroads ed è l’idolo di tutti i ragazzi.
Il matrimonio di Russ e Marion, nel frattempo, naufraga. Lei va segretamente da una psichiatra, e durante una seduta emergono esperienze traumatiche vissute in gioventù che aveva rimosso e di cui non ha mai avuto il coraggio di parlare al coniuge.
Nel corso del romanzo, Franzen travolge il lettore con le storie dell’infanzia e dell’adolescenza di Russ e Marion: due vite agli antipodi. Ma il vero protagonista di questo coinvolgente romanzo è l’ incomunicabilità che connota i rapporti tra Marion e Russ, che vivono come due estranei, chiusi nelle loro routine e fantasticherie: Russ pensa a Frances, una parrocchiana vedova e attraente per la quale prova qualcosa; Marion pensa alla ragazza che era e al suo passato movimentato, così diverso dalla vita monotona e inquadrata che conduce.

Nella storia della filosofia occidentale, i sofisti sono stati i primi a individuare una scissione tra realtà e linguaggio, parlando anche di incomunicabilità. Comunicare ciò che la realtà è attraverso il linguaggio è arduo, a tratti impossibile, perché ogni forma di comunicazione è in fin dei conti un’interpretazione. Eppure, come rilevano i sofisti, il linguaggio ci costituisce, costruisce mondi, è potente, persuade, ammalia. Ma può anche distruggere: i personaggi di Franzen tacciono esperienze fondanti delle loro esistenze, dando così vita a rapporti falsi e inconsistenti, e lo fanno per paura di mostrarsi, perché ciò che veramente sono e desiderano non sembra essere “dicibile” né accettabile.
Marion, come Russ (ex mennonita fuggito, in gioventù, dalla famiglia e dalla comunità), si ritrova, giovanissima, senza alcun appoggio o legame con la sua famiglia d’origine. Finisce per innamorarsi di un uomo sposato per cui sviluppa un’ossessione, che fa emergere in lei gravi problemi psichiatrici. Finisce in una clinica, poi in mano a un uomo depravato e senza scrupoli; infine approda a Russ, buono e generoso, inesperto dell’amore e del sesso, che perde la testa per lei. Ma la Marion “pre-Russ” viene da lei stessa relegata in un posto così lontano e inaccessibile, all’interno della sua mente, che finisce per essere inesistente, persino inconoscibile, e in ultima analisi incomunicabile.

Proprio come sostiene Gorgia nella sua opera Sul non essere. Sono celebri le sue tre tesi nichiliste:

  • Nulla esiste

  • Anche se qualcosa esistesse, non sarebbe conoscibile

  • Anche se qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile

Marion tace se stessa a Russ – come se non ci fosse nulla da comunicare. È impossibile raccontare a un uomo buono e devoto il suo passato depravato, il suo vero io. E allora nulla di ciò che lei veramente era e ha fatto prima di conoscerlo, è mai esistito. Ma quel nulla è il nucleo fondante della personalità di Marion, e a un certo punto emerge prepotentemente esprimendosi con folle rabbia, con gesti che le erano familiari, ma che sono sconosciuti e incomprensibili per Russ.
Anche lui tace sulla sua curiosità sessuale: Marion è stata la sua prima e unica donna, ha deciso di sposarla troppo in fretta, e altrettanto in fretta l’ha trasformata in madre amorevole e moglie consigliera, spogliandola di quel fascino e di quel mistero, di quel lato selvaggio che la caratterizzavano. Anche Russ ha rinchiuso la realtà di quella Marion in un cassetto della sua mente, gettando poi via la chiave. Quella Marion non esiste, non la si può esperire, non la si può raccontare a parole. E allora Russ si rifugia in una realtà diversa, rappresentata da Frances.

C’è uno iato, secondo i sofisti, tra physis (natura, realtà) e nomos (legge, tradizione, linguaggio): tra ciò che la realtà è e ciò che diventa grazie ai filtri della tradizione, della legge, delle convenzioni sociali e religiose, delle parole. Come sappiamo, Gorgia non voleva negare l’esistenza di ogni cosa, bensì dimostrarci che arrivare ad un principio ultimo, assoluto e metafisico della realtà, è impossibile: non possiamo conoscerlo, non possiamo dirlo.
Ma, tornando agli Hildebrandt, si evince che qualcosa andrebbe detto, invece: non per mascherare, bensì per tentare di comunicare loro stessi e la loro realtà meglio che possono – e tutti noi dovremmo farlo. Sbaglieremo, perché comunicando interpretiamo sempre, storpiamo. Ma dobbiamo tentare, cercare di imparare la lingua dell’altro, cercare di far sì che anche l’altro impari la nostra: per ritrovarci, conoscerci, entrare veramente in contatto.
Il linguaggio resta, così come la nostra capacità conoscitiva (della realtà in generale e della realtà dell’altro), manchevole. Ma è l’unico mezzo a nostra disposizione per dire una realtà che per ognuno di noi è tangibile, concreta. Dobbiamo costantemente cercare di ridurre o di stare in quello iato tra realtà e linguaggio, oppure tentare di superarlo: tentativi forse impossibili, ma necessari per comunicare.

 

Francesca Plesnizer

 

[Photo via Pixabay]

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Natalia Ginzburg e le piccole grandi virtù che ci permettono di essere

 

Le virtù sono, secondo Aristotele, delle disposizioni d’animo che si trovano in noi esseri umani in potenza, e vanno sviluppate mediante abitudini ed esempi. Esse sono come abiti che impariamo a indossare correttamente grazie all’esercizio, ci permettono di vivere e di comportarci in maniera razionale – poiché, naturalmente, siamo “animali razionali”, che si realizzano e raggiungono la felicità solo esercitando la propria ragione.
Lo Stagirita distingueva tra due tipi di virtù: quelle etiche, che permettono alla ragione di dominare gli istinti e di scegliere, fra due estremi, il “giusto mezzo”, e quelle dianoetiche, che consistono invece nell’esercizio stesso della ragione. Queste ultime finiscono senza dubbio per avere un’importanza maggiore: sono la saggezza, che ha una connotazione pratica, e la sapienza, ossia quella conoscenza senza fine alcuno che eleva l’individuo.

Ma facciamo un grande balzo in avanti fino a Natalia Ginzburg, scrittrice imprescindibile per la letteratura contemporanea italiana e mondiale – osannata e citata, di recente, anche dalla scrittrice irlandese Sally Rooney.
Quali legami (e differenze) ci sono tra l’etica aristotelica e quella di Natalia Ginzburg?
Se conoscete l’autrice in questione anche solo un po’, non può non venirvi in mente Le picco le virtù (Einaudi, 1962): una raccolta di undici saggi autobiografici, un po’ racconti e un po’ memoirs; per lo più brevi, incisivi, che arrivano dritti al cuore e lo bucano, metaforicamente parlando. In essi Ginzburg racconta esperienze estremamente personali, dolorose, tenere, disincantate, che riescono a offrire uno sguardo universale, puntuale e compassionevole, su tutto ciò che più conta nelle nostre piccole grandi esistenze di esseri umani. Parla anche di relazioni e affetti, e, ripercorrendo le tappe del libro, riusciamo a capire quante e quanto importanti siano per lei le virtù che ne emergono: amicizia, affetto incondizionato, fedeltà ai nostri cari, resilienza, umiltà.
Virtù “grandi”, anzi monumentali. E quali sono, allora, le piccole virtù cui fa riferimento?

Nell’ultimo memoir che dà il titolo all’opera, Ginzburg, con stile scarno e grezzo, a tratti brusco, non sempre uniforme ma caldo, veritiero, accogliente, racconta quali sono le virtù che andrebbero insegnate ai propri figli. Delle buone disposizioni d’animo che andrebbero trasmesse e tramandate, cucite su di loro e con loro, usando soprattutto un filo invisibile e lunghissimo, facendo attenzione a non farlo divenire mai e poi mai guinzaglio, strumento di controllo. Un filo leggero ma solido per imbastire quell’abito di cui parlava anche Aristotele, tanti secoli prima di lei.
Un genitore, dice la Ginzburg, dovrebbe insegnare non le piccole, bensì le grandi virtù: perché le grandi possono contenere le piccole, perché le piccole sono più comuni e completano le grandi, esistono e giovano se insegnate insieme alle grandi. Una grande virtù è, ad esempio, l’indifferenza nei confronti del denaro, che alimenta la generosità e rende più indolore la separazione dal denaro stesso. E ancora, sempre sulle grandi virtù: «non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore alla verità; […] non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere» (N: Ginzburg, Le piccole virtù, 1962). Non proprio un giusto mezzo aristotelico, a quanto pare, ma anzi dei moniti che scaturiscono da un impeto, perché, secondo la scrittrice, mentre le piccole virtù provengono da un istinto difensivo, le grandi invece «sgorgano da un istinto in cui la ragione non parla, […] a cui mi sarebbe difficile dare un nome. E il meglio di noi è in quel muto istinto: e non nel nostro istinto di difesa, che […] disserta con la voce della ragione» (ibidem). Ancora una volta, pare esserci distanza, tra la sua etica e quella aristotelica.

E allora che cosa lega questi due pensatori? L’idea che le virtù vadano imparate gradualmente, procedendo a tentoni, attraverso una costante imitazione. I nostri figli dovrebbero guardarci, prenderci a esempio – ma non si tratta, secondo Ginzburg, di un’imitazione “a nostra immagine e somiglianza”. Ogni figlio va lasciato essere, non va indirizzato, né va accelerato o forzato quel naturale processo che gli permette di trovare la sua vocazione, che è poi espressione del suo amore per la vita. Anche il figlio che appare come il più pigro e intorpidito, potrebbe invece essere «semplicemente in stato di attesa» (ibidem).
L’etica di Ginzburg non segue tanto la ragione quanto la praticità e la schiettezza sentimentale: i primi virtuosi dobbiamo essere noi, predisponendoci ad amare i nostri figli in quanto esseri singoli e separati da noi: «essi debbono sapere che non ci appartengono, ma noi sì apparteniamo a loro, sempre disponibili, presenti» (ibidem).
La virtù del lasciarli essere presuppone un nostro lasciarci essere: avere noi stessi una nostra vocazione, coltivarla senza mai abbandonarla, o finiremo per aggrapparci «ai nostri figli come un naufrago al tronco dell’albero» (ibidem), pretendendo da loro ciò che solo la nostra vocazione può darci. Ecco l’esempio virtuoso per eccellenza, che i nostri figli dovrebbero imparare a indossare: che il legame affettivo tra noi e loro è imprescindibile e fondamentale, ma non è l’unica cosa che c’è, né deve esserlo mai.

 

Francesca Plesnizer

[immagine in copertina tratta da Pixabay]

 

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“Sono cose da grandi” – Simona Sparaco

Simona Sparaco, autrice di romanzi molto apprezzati come Nessuno sa di noi (2013, finalista Premio Strega), Se chiudo gli occhi (2014, Premio Selezione Bancarella), Equazione di un amore (2016), torna in libreria cimentandosi con una formula inedita.
Sono cose da grandi non è un romanzo ma una lunga lettera che Simona scrive al figlio Diego, nell’estate dei suoi quattro anni, un’estate che sarà diversa da tutte le altre perché nella vita di Diego, come in quella di tanti altri bambini, si farà spazio il male, si faranno spazio cattivi molto diversi da quelli delle favole. Cattivi che non hanno il volto dell’uomo nero ma quello di un camion bianco, che sulla Promenade di Nizza spazza via come fossero birilli vite di adulti e bambini mentre, con gli occhi ancora al cielo, contemplano incantati lo spettacolo dei fuochi di artificio. Pochi minuti di incomprensibile e assurdo dolore e quei corpi giacciono distesi sull’asfalto, immobili. Lo sguardo di Diego si sofferma casualmente sul telegiornale, mentre le immagini del tragico attentato scorrono sullo schermo, e la paura si fa spazio nel suo piccolo cuore, si annida nei suoi incubi, si trasforma in interrogativi a cui una madre fatica a trovare risposta.
Davanti al terrore che Simona legge negli occhi di suo figlio, nasce l’esigenza di mettere nero su bianco i suoi pensieri, di trovare delle parole che intrecciandosi tra loro possano costituire una rete in grado di contenere le paure di Diego, ma anche quelle di chi lo ha messo al mondo.
Da genitore, da madre di una bambina di tre anni e mezzo, mi sono ritrovata in ogni riga di queste cento pagine. Mi sono ritrovata con la testa, con il cuore, con l’anima scoperta, esposta, fragile. Perché forse le paure più profonde delle madri sono le stesse, riassumibili nella paura di consegnare tuo figlio al mondo, un mondo che appare instabile, inospitale, pericoloso e violento.
Per impedire che anche i sogni vengano inghiottiti dalla paura, Simona inventa per Diego una scatola magica, in cui custodire quanto di più prezioso un bambino possieda: i suoi desideri. Quei germogli teneri che ogni madre impara ben presto ad annaffiare e a proteggere dal vento, ad alimentare con la speranza e a fortificare con la fiducia.
Con una penna lieve, dolce, fragile, Simona Sparaco parla di paure e di speranze, parla a Diego, a se stessa, al lettore, mentre consapevolezze tanto effimere quanto tenaci si fanno strada nelle sue riflessioni: spiegare l’esistenza del male ad un bambino forse è impossibile, ma impedire che la sua ombra scura venga proiettata sulle loro piccole vite, quello è il vero compito del mondo adulto. E l’unico modo per riuscire in questa missione è impedire che la paura diventi terrore, perché il terrore paralizza e, compresse nella sua morsa, le tenere ali dei bambini perdono per sempre la capacità di spiccare il volo.
Pagina dopo pagina mi sono riconosciuta in Simona e nelle sue incertezze, nella fatica di imparare qualcosa a cui nessuno ti prepara mai abbastanza, perché solo quando stringi a te per la prima volta quel fagotto fragile e indifeso, capisci che ti sta accadendo la cosa più meravigliosa e spaventosa del mondo e che la paura non ti lascerà mai più, dovrai imparare a conviverci, addomesticarla, impedirle di sopraffarti.

«Dentro ogni madre c’è una bambina che piange. La puoi sorprendere quando diventa violenta, aggressiva, e dice che non ce la fa più. Quando il senso di responsabilità si fa opprimente, quando è la paura a prendere il sopravvento. Dobbiamo sempre nasconderla, ai vostri occhi, farci più grandi di quelli che siamo, perché solo così possiamo essere utili nel vostro percorso».

Nelle domande di Diego, nella sua dolcezza, nella sua sensibilità esposta alle intemperie del mondo, ho rivisto mia figlia, il suo soffermarsi sulle cose ben oltre l’apparenza, la sua fiducia incrollabile nelle mie capacità e, allo stesso tempo, la voglia di difendermi da ogni pericolo.
Riflessioni delicate sulla genitorialità, pensieri d’amore verso un figlio, scorci di una vita quotidiana a due, dove le storie e la fantasia rendono tutto più magico. Un volume piccolo ma prezioso che, come un abbraccio, riscalda e consola. Un libro che ogni genitore dovrebbe custodire in libreria.

«E finché sarò in vita, amore mio, ti prometto che farò di tutto per rendere la nostra casa, la nostra realtà, un luogo in cui valga la pena fare ritorno».

Stefania Mangiardi

[Immagini tratte da Google Immagini]

Intervista a Ginevra Bompiani. Il mestiere dell’editore? Inventare, sostenere la qualità e ascoltare

Ginevra Bompiani muove i suoi primi passi nell’editoria dopo il liceo, entrando a lavorare nella casa editrice del padre Valentino Bompiani e imparando così le basi del mestiere dell’editore. Era un mondo dell’editoria molto diverso dal nostro attuale, un mondo dove governavano principalmente gli uomini, dove i tempi per avere un libro erano molto lunghi, e dove non c’erano gli agenti letterari.

Mentre il padre è sempre stato un editore attento al mercato e alle sue logiche, Ginevra Bompiani crede fortemente nel gusto personale e nella gradevolezza di un libro. Così nel 2002 con amici, in particolare con Roberta Einaudi, fonda la casa editrice Nottetempo.

Scrittrice, traduttrice e saggista, ha trascorso diversi anni a Parigi e a Londra per poi trasferirsi a Roma e nei dintorni di Siena, anche per insegnare per anni letterature comparate all’Università di Siena.
Tra i suoi libri ricordiamo Le specie del sonno (1975), Spazio narrante (1978), Mondanità (1980), L’incantato (1987, Premio selezione Rapallo-Carige), e il recente Mela Zeta (2016): il suo intenso, prezioso libro sul tempo e la memoria

In un’intervista passata lei ha affermato che dall’esperienza e dal rapporto con suo padre ha imparato che l’editoria prima di tutto è un servizio e che l’editore è protagonista nel senso che deve mettere in luce il suo carattere e gusto nelle proprie scelte editoriali. Quali possiamo dire essere i valori e i principi genuini che dovrebbe avere un buon editore indipendente?

Non posso dire come dev’essere un editore, ma soltanto come volevo essere io: ho sempre pensato che il lavoro editoriale fosse molto creativo, sia nell’invenzione e produzione dei libri che nella forma del volume. Mi è molto piaciuto per esempio produrre il libro di Luciana Castellina e Milena Agus Guardati dalla mia fame; a partire da un racconto di Castellina su un evento efferato nelle Puglie del primo dopoguerra, farlo raccontare da due scrittrici così diverse, secondo due punti di vista opposti. Oppure chiedere a una studiosa di fisica, Monica Colpi, di spiegarmi in un libretto (Buchi neri evanescenti) la scommessa perduta da Stephen Hawking.  Ma anche la pagina si può inventare, per renderla più leggibile; la copertina, e così via…
Inventare, sostenere la qualità, essere in ascolto. Questo intendo per ‘servire’.

Dalla sua esperienza con Nottetempo, a suo avviso qual è la fase o le fasi più importanti dal momento che giunge un manoscritto fino alla sua pubblicazione?

Sono tutte importanti. Se il libro non ha raggiunto la compiutezza, è molto importante il dialogo con l’autore. E poi tutte le fasi, che sono molte, fino a renderlo quell’oggetto agile e leggero, dietro al quale è difficile immaginare il grande lavoro che lo ha fabbricato.

Il mercato editoriale è ancora in crisi. Le copie vendute negli ultimi anni sono diminuite ancora e sono calati anche i prezzi di copertina, la vendita degli e-book sembra rivoluzionare il mercato dell’editoria ma ancora con fatturati modesti. A suo parere come possono interagire in futuro cartaceo e digitale? Possiamo parlare veramente di una morte della carta?

Non credo proprio, per ora. Ai lettori piace toccare il libro, sfogliarlo, tornare indietro. Da noi il digitale non ha fatto ancora una grande strada. Quando la farà, speriamo che ne godano le foreste.

Mentre la percentuale di lettori in Italia è ancora molto bassa, aumenta la percentuale di scrittori. Il progressivo aumento di neo-scrittori è facilitato dal successo del self-publishing e dall’editoria a pagamento ma anche dalla nascita esponenziale di blog. Quanto può incidere questa tendenza a suo parere sul futuro dell’editoria?

Purtroppo credo che ci siano più scrittori che lettori. Ma uno scrittore che non legge è raramente interessante. Il web sta cambiando molte cose e sembra una strada senza ritorno. Bisogna stare con occhi e orecchie puntate per capire a quali radure, a quali marine ci porterà.

I grandi gruppi editoriali italiani e le loro fusioni hanno decretato le logiche del mercato editoriale italiano ma anche il consumo e l’acquisto dei libri. Con grandi store di marca, autogrill, supermercati, libreria di catena e premi letterari, sempre di più i grandi gruppi riescono a vendere e monopolizzare in modo capillare il mercato del libro in Italia. Possiamo parlare di monopolio del mercato editoriale? O di una volontà di creare un’egemonia politico-culturale?

La direzione è quella, ma quando si apre una strada maestra, accanto a lei si snoda sempre un viottolino che va da tutt’altra parte. Il viottolino in questo caso è fatto dalla piccola editoria di qualità, che, io credo, continuerà a inventare e creare e scoprire nelle pieghe del mercato. Dopo tutto il mercato è una leggenda, non bisogna crederci troppo.

Il caso Amazon. Il grande colosso che ha monopolizzato i processi di distribuzione del libro (e non solo) nel mondo. Potremmo dire che con Amazon sono cambiati anche le abitudini all’acquisto di un libro. Può essere recuperato a suo avviso quel sincero e genuino rapporto tra editore-libraio e libraio-cliente?

Non c’è dubbio che sia comodo ricevere dei libri senza muoversi di casa, soprattutto libri difficili da trovare in libreria. Ma la gente soffre di solitudine e se il libraio sa fare il suo lavoro, potrà mantenere questo rapporto ancora a lungo.

Una domanda per i nostri lettori: che cos’è per lei Filosofia? Quale possiamo dire essere la filosofia che ha accompagnato fin dalle origini Nottetempo e il suo essere editore?

Questa non è una domanda: è un trabocchetto! Auguri a voi.

 

Quando entriamo in una libreria non possiamo non rimanere incredibilmente sorpresi nel vedere così tanti libri negli scaffali, l’uno diverso dall’altro per il formato, per la carta, per la copertina, per la rilegatura e per i molteplici colori. Se a questo ci aggiungiamo quel profumo di carta lavorata che solo i libri possiedono, capiamo quanto il prodotto libro sia frutto di lunghi e articolati processi.

Il più delle volte scegliamo un libro guardando la casa editrice e la copertina, dimenticandoci spesso che l’universo libro e la sua qualità sono dati da tutte quelle persone che partecipano alla sua creazione: dalla correzione, all’editing, dalla scelta della carta e del suo formato all’impaginazione.

In un mondo in cui i grandi gruppi editoriali soffocano il mercato editoriale, puntando al numero di vendite e dimenticandosi dell’arte del libro, esistono ancora piccole e medie realtà dove il prodotto-libro è curato in ogni sua parte.

Ginevra Bompiani ne è esempio con Nottetempo: una casa editrice che fin dalle sue origini aveva in mente un’idea ben chiara di libro, un libro che si immedesimasse in modo naturale col il lettore, un oggetto-libro che, oltre al contenuto, pensasse un po’ allo stesso modo alla forma del libro.

È importante che il libro abbia un contenuto intenso ma anche una sua grande leggibilità, leggerezza aerea, che sia quindi un libro amichevole, un vero e proprio compagno. La lettura è una cosa difficile, un’operazione solitaria, e quindi il libro dev’essere un oggetto comodo e leggibile: importante per Nottetempo infatti è la fisicità del libro in totale simbiosi con la fisicità del lettore.

Un’editoria quindi che guarda più alla realtà che al mercato, un’editoria che fa più il mestiere dell’editore, in senso passionale e appassionato, che non il mestiere dell’imprenditore, e in questo la personalità e professionalità di Ginevra Bompiani emerge in modo evidente.

Elena Casagrande

Le molteplici vie interpretative dei messaggi legati alla salute: dal contesto al valore dell’informazione

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Nel precedente articolo abbiamo visto come il concetto di salute, pur rappresentando uno dei cardini dell’umana esperienza, non può essere ridotto ad una sola e chiara unità di senso, ma la sua posizione e determinatezza dipendono dai continui mutamenti che i contesti socio-culturali attribuiscono alla nozione di uomo e al relativo concetto stesso di salute. In altri termini, non esiste una sola definizione di salute ma sussistono una moltitudine di concetti tra loro simili che, valutati nella loro interezza, riescono a restituire il senso del concetto medesimo. Inoltre, abbiamo visto come una delle situazioni fondamentali all’interno di questo paradigma sia quella di riuscire a comunicare con chiarezza e con metodo la propria definizione di salutare al fine di ottenere un “vantaggio competitivo” che possa persuadere gli animi nell’assecondare tale dimensione unificante il senso.

Questo ragionamento, che sulla carta può apparire molto teoretico e di difficile interpretazione, è stato ben riassunto da un esempio, spesso citato nella letteratura bioetica, che trova una esemplare rappresentazione nel libro di Nikolas Rose, La politica della vita, Einaudi 2008 (pp. 224-227). L’esempio di Rose fa riferimento al sito internet del Prozac creato nel 2001 dalla Eli Lilly per promuovere l’alfabetizzazione scientifica tramite la divulgazione di forme di salvaguardia della salute, che ebbe un enorme successo a livello di visite. Come riporta Rose (p. 226), l’home page di questo sito era intitolata “La tua guida per valutare e guarire dalla depressione”. Il sito, da quanto dichiarato, non voleva sostituirsi alla diagnosi medica né proporsi come forma alternativa alla stessa, ma si prefiggeva la volontà di aiutare le persone a capire cosa fosse la depressione e quali misure si potessero attuare per curarla o prevenirla. Per realizzare tale proposito il sito forniva non solo una spiegazione biologica della patologia associandola a disfunzioni di neurotrasmettitori ecc., ma esponeva come per prevenire e superare questa patologia fosse necessario cambiare il proprio sé, ovvero praticare ciò che in filosofia assume il nome di “tecniche del sé”, tanto che lo stesso Rose scrive: “il processo di guarigione, riportato nel sito, prevedeva un intero dispiegamento di tecniche del sé: praticare scoperta di sé, volersi bene, mangiare bene, […] e leggere il volantino informativo di Prozac.com” (p.227).

Da questo piccolo esempio possiamo trarre almeno due grandi spunti di riflessione, la prima è che per porre le basi per la diffusione di un concetto relativo alla salute, in questo caso per divulgare cosa sia la depressione, non basta individuare un messaggio focalizzato unicamente sul farmaco o sulle cause che possono portare a riscontrare tale patologie, ma è necessario inserire tale messaggio nell’ambito di una dimensione di senso più ampia che preveda dei cambiamenti all’interno della vita dei soggetti. Il sito del Prozac mirava proprio a questo: non soltanto fornire informazioni sul farmaco o sulla patologia, ma offrire le stesse all’interno di un contesto che fosse facilmente assimilabile da chiunque visitasse il sito e che potesse farlo diventare un vettore di “alfabetizzazione scientifica”. In altri termini, le differenti modalità di espressione della comunicazione della salute, mirando ad uno specifico contesto di riferimento, pongono in essere delle modalità di trasformazione della soggettività in grado di orientarne la peculiare esplicazione nel mondo. Il sito del Prozac e la campagna pubblicitaria creata per questo farmaco ha rivoluzionato il modo d’intendersi stesso del soggetto, infatti noi tutti oggi sappiamo dell’esistenza della depressione, ovvero dell’infelicità patologica, e associamo comunemente la stessa non solo al campo della salute, ma anche a delle modalità differenti con le quali poterla usualmente definire o inquadrare, situazione che prima della stessa campagna nessuno di noi avrebbe potuto fare. Ne segue che la divulgazione del messaggio relativo alla depressione è riuscito a cambiare il contesto di base sul quale noi agiamo e attribuiamo importanza alle nostre espressioni vitali quali indicatori di salute.

Se la prima riflessione è relativa alle modalità con le quali è necessario comunicare, ovvero far breccia sul contesto di senso che si deve modificare, la seconda è relativa alla valenza del messaggio stesso che si pone in essere. Anche in questo caso l’esempio di Rose è fondamentale, poiché produrre alfabetizzazione riguardo la salute, dunque cambiare e agire sui contesti, può essere interpretato eticamente almeno sotto due diverse modalità espressive: da una parte si può cogliere tale situazione come una forma benefica d’informazione che può portare dei grandi vantaggi ad alcune persone, generando un reale valore per l’utente e per la sua vita; dall’altro lato questo fenomeno può essere visto come creazione di un concetto assimilabile alla mera vendita o creazione di notorietà del brand che produce la soluzione a quel problema. In altre parole, agire sull’alfabetizzazione vuol dire lavorare sul contesto di senso, che può, a sua volta, portare a creare delle necessità e dei bisogni fittizi che non esistevano in precedenza, o viceversa vuol dire fornire delle risorse per catalizzare, organizzare e rispondere a bisogni reali che non avevano ancora trovato completa espressione.

Il problema fondamentale relativo alla comunicazione della salute che ci si pone in bioetica è proprio questo, ovvero quando le azioni di divulgazione sono generate per il bene della collettività e quando invece esse sono generate per il solo profitto di chi detiene i brevetti di un particolare farmaco o di una particolare istituzione sanitaria?

Risolvere tale quesito è praticamente impossibile, poiché l’indeterminatezza oggettiva del concetto di salute pone in essere delle dinamiche interpretative del tutto soggettive del messaggio comunicativo che, agendo su contesti generali che poi si personificano, danno vita molteplici e soggettive vie interpretative. Ne segue che la citazione di Rose, riportata nelle righe precedenti in cui si mette in luce cosa il sito del Prozac proponesse quale forma d’informazione, può essere salutata da alcuni come una manna dal cielo e, nel contempo, vista da altri come mera forma di pubblicità del più basso livello culturale.

Produrre un messaggio univoco e senza alcun dubbio etico all’interno della sfera della salute è assolutamente impraticabile e chiunque agisce in questo difficilissimo campo, come vedremo nei prossimi articoli, deve continuamente lavorare sui contesti e confrontarsi con questo immenso quesito per riuscire a generare informazioni capaci di apportare reale valore alle singole persone che si trova ad assistere.

Francesco Codato

Momenti di trascurabile felicità – Francesco Piccolo

Quanti istanti nel corso della nostra vita meritano di essere ricordati per la felicità con cui li abbiamo vissuti?

Pochi, penserete voi. Pochi, penserebbe chiunque in realtà. Esistono per brevi frazioni di tempo, contrapposti a quelli di enorme dolore. Sono quelli in cui ti dimentichi di tutto ciò che non funziona, in cui riesci perfino a dimenticare di esistere forse, in cui per un attimo smetti di sopravvivere.

E vivi. Irrimediabilmente, forse. Sconsideratamente, magari.

Ma tra i momenti di palpabile felicità e di lacerante dolore, ci sono dei momenti differenti. Quelli in cui ognuno di noi si ritrova nella quotidianità senza nemmeno farci caso. Quelli che si mimetizzano perfettamente nella sequenza delle nostre ore ordinarie. Sono nascosti, non capita spesso di notare che esistano.

Sono “Momenti di trascurabile felicità”, come li definisce Francesco Piccolo nel titolo della sua breve ed intensa introspezione del nostro essere. Proprio perché noi siamo continuamente, in una sequenza sospesa tra rimanere e divenire. Perché ci sono quelle sensazioni che – almeno una volta nella vita – abbiamo provato tutti. Ci sono quelle situazioni, ricorrenti e non, in cui non consideriamo il fatto che si possa realmente toccare con mano la felicità.

Tutte le persone che non sono belle, o che sono brutte, poi quando le conosci diventano più belle, sempre.

Gli sms dopo le undici di sera che dicono: «dove sei?», che significano molto di più di quello che dicono.

 La prima e l’ultima pagina di un libro.

 Le coppie che stanno insieme da tanto tempo e che giocano a carte in silenzio, la sera.

 Quando mi rendo conto che tra due persone c’è un amore segreto. Me ne accorgo quasi sempre, subito, da un gesto o uno sguardo. E mi piace, mi fa sentire complice.

 Le grandi librerie, perché puoi girare, toccare, sfogliare, senza nessuno che ti voglia dare un consiglio.

 L’odore di pane del primo mattino.

 Un litigio furioso per una questione di principio.

 Tutti i sogni di una notte, gli ultimi giorni da sindaco del sindaco, tutte le feste a sorpresa, e il rumore della carta da regalo quando viene scartata.

 Il fatto che nessuna donna al mondo riesca a ottenere dal parrucchiere la pettinatura che desiderava. 

 Tutte le donne nel gesto di legarsi i capelli.

Nessuno se ne rende mai conto, di questi stralci di vita: io non faccio mai caso a quando individuo al supermercato la fila che scorre più velocemente. Quell’attimo in cui ho la percezione di aver compiuto un’impresa eroica, pur essendo una cosa apparentemente da nulla. E la sensazione che provate quando qualcuno che vi ha superato in fila alle poste ha sbagliato sportello in cui andare? Quella piacevole sensazione di rivalsa impagabile, quasi più irruenta del bere un mojito ghiacciato su una spiaggia della Polinesia.

Eludere un divieto e non essere colti in flagrante; aspettare che lui o lei si faccia sentire perché in fondo noi l’abbiamo già fatto troppe volte. Un vissuto che si ripete, esattamente come un vissuto che può ancora sorprenderci. Stralci di pensieri quelli di Francesco Piccolo. Stralci che ci rendono tutti comuni nei gesti e al tempo stesso differenti nelle sensazioni.

Non amiamo mai abbastanza momenti apparentemente insignificanti, non amiamo mai abbastanza la possibilità di viverli. Ci concentriamo sulle piccole e grandi cose che non vanno, non considerando quegli impercettibili e minuscoli momenti di immediata spensieratezza.

Quante cose ci sfuggono di mano prima di toccarle con coscienza? Quanta vita perdiamo senza emozionarci? Ammiro chi sorride anche senza alcun apparente motivo. Ammiro chi afferra la vita a piene mani, ammiro chi si mette in gioco nonostante le difficoltà. Perché la vita viene concessa un volta soltanto, perché attimi importanti e insignificanti ci sopraggiungono soltanto una volta. Non perdersi nessun momento di trascurabile felicità, questo ci insegna questo breve libro di Francesco Piccolo.

Da tenere sul comodino, come per tenere a portata di mano la vita di tutti i giorni e quella di un minuto soltanto. Da tenere in tasca per trovare il coraggio di affrontare tutto ciò che ci pervade.

In un attimo si può trovare la felicità, tanto quanto in un momento più lungo. E’ sufficiente non dimenticarlo, perché significherebbe smettere di credere che valga sempre la pena di vivere la vita.

Cecilia Coletta

[immagini tratte da Google immagini]