Elogio della gentilezza

Viviamo nell’epoca dell’individualismo, in cui ciascuno di noi pone i propri bisogni e desideri in primo piano. Portato all’estremo, questo interesse limitato all’Io, porta a mettere fra parentesi l’Altro, rischiando di relegarlo a una posizione di ostacolo per i propri interessi. Il fenomeno che vede sempre più a rischio le relazioni, di qualsiasi tipo esse siano, a causa di questa tendenza sociale è stato molto studiato. Tra i contributi più influenti troviamo il discorso tenuto da George Saunders, scrittore e saggista statunitense, ai neolaureati della Syracuse University. Questo discorso è stato pubblicato in seguito e il suo titolo rende chiaramente l’idea che l’autore sostiene: L’egoismo è inutile – Elogio alla gentilezza. Superfluo dire quanto le sue parole costituiscano una lezione fondamentale per tutti noi, da ascoltare e condividere.

Seguiamo passo dopo passo l’intero discorso. Innanzitutto, in ognuno di noi c’è una tendenza – una malattia, per usare il termine che preferisce Saunders – che è l’egoismo. La stessa tradizione filosofica ci ha parlato di quest’ultimo: Hobbes, per esempio, afferma che gli interessi di ciascuno di noi sono diversi da quelli degli altri e, dunque, siamo portati a metterci in primo piano, attuando atti di egoismo. Tendiamo (se naturalmente o non e quanto frequente sono questioni molto discusse) all’egoismo, al bellum omnium contra omnes, per difendere i nostri interessi e farli prevalere. Per questa malattia esiste, però, una cura: la gentilezza.

Indipendentemente dalla nostra natura, che sia di homo homini lupus (“l’uomo è un lupo per l’uomo” hobbesiano) o zoon politikon (“animale politico” aristotelico) – ovvero: sia che la nostra natura tenda all’egoismo sia che tenda alle relazioni con gli altri – potrebbe ritenersi necessario attuare la cura, ovvero una gentilezza che consista di atti di aiuto e altruismo verso gli altri. Non si tratta di dover mettere tra parentesi il nostro io, autocausandoci danni o autoponendoci in difficoltà. Si tratta, piuttosto, di trovare un equilibrio e, pur tenendo in grande considerazione il nostro benessere, porre attenzione alle necessità altrui e mettere in atto una gentilezza che ci richiede di non rimanere neutrali di fronte alla sofferenza altrui, o alle esigenze altrui. Si tratta di rispondere all’appello a cui ci richiama il volto dell’Altro, usando un’espressione di Levinas. Questo giova anche alla nostra coscienza, poiché non reagire di fronte alla sofferenza altrui potrebbe portarci al pentimento causato dal non avere agito per l’Altro.

Vediamo l’esempio pragmatico di Saunders. L’autore si chiede: “Se guardi indietro, che cosa ti dispiace?” Ci racconta che, in seconda media, arrivò nella sua classe una nuova compagna, Ellen. Quando era nervosa, Ellen si metteva una ciocca di capelli in bocca e la masticava. I compagni molto spesso la prendevano in giro e Saunders, ora cresciuto, si pente di non essere mai intervenuto. La reazione di lei alle prese in giro era chiara: rimaneva a occhi bassi, rannicchiata, quasi volesse sparire dopo le offese ricevute. Era come se le parole negative altrui le ricordassero il posto che le apparteneva, un posto nascosto, non tra la gente, un posto in cui nessuno la potesse e dovesse guardare. Dopo poco, lei traslocò e Saunders non l’ha più vista. Dopo quarantadue anni, lui si pente non perché abbia compiuto del male, ma perché non è stato gentile. Si pente di tutte le volte in cui, e questa era una di quelle, la sofferenza altrui era davanti ai suoi occhi e lui ha reagito con neutralità.

Si interroga allora sul perché: perché siamo abituati a rimanere neutrali di fronte alla sofferenza? Perché proviamo difficoltà nell’agire con gentilezza? Perché l’egoismo è radicato in noi? Tre sono i paradigmi che, secondo Saunders, causano questa condizione odierna: ciascuno di noi si sente centro dell’universo, separato dall’universo, e dunque anche dagli altri, ed eterno. Qualcuno si sentirà innocente, altri si sentiranno presi in causa ma la verità è che tutti siamo protagonisti di questa visione egocentrica della realtà: a livello razionale sappiamo che i tre paradigmi non sono veri, ma a livello viscerale ci crediamo perché riteniamo che la nostra storia personale sia più importante, e ciò è, potremmo dire, naturale perché conta in modo diverso da quella degli altri, proprio in quanto nostra.

La lezione di Saunders è chiara: non dobbiamo aspettare per essere gentili. Non dobbiamo dirci che lo saremo domani, dalla prossima settimana, in un futuro non precisato. Iniziamo sin da subito a praticare la gentilezza. E basta poco, basta un sorriso, un grazie, una parola.

«Praticate gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso»1.

 

Andreea Elena Gabara

NOTE
1. Judy Foreman, frase scritta con vernice sul muro di un magazzino.

 

[Photo credit Matt Collamer via Unsplash]

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Se il problema c’è, l’essere umano non risponde

Aristotele nella sua Politica, opera del IV secolo a.C., attribuisce all’essere umano una socialità innata, un istintivo senso di aggregazione che si può facilmente riscontrare nella presenza di variegati gruppi sociali, ognuno con la sua storia, le sue leggi, le sue identità culturali.
Ancora oggi troviamo difficile poter pensare a noi stessi in un’isola deserta, alla Robinson Crusoe o alla Cast Away, senza provare un vasto senso di smarrimento o angoscia che può indurre alla follia; ci collochiamo sempre all’interno di una famiglia, una compagnia di amici, un gruppo etnico-regionale, una nazione.

Nonostante ciò è capitato a tutti noi di provare un senso incolmabile di solitudine, causato da dinamiche fuori dal nostro controllo, o in altri casi ricercato spontaneamente, in modo da separarci per un periodo più o meno breve dal resto del mondo.
La domanda che sorge spontanea è: come può un animale sociale sentirsi solo?
La risposta può essere individuata sulla natura della socialità dell’essere umano, quindi aggiungiamo un’altra domanda: perché siamo animali sociali?

L’essere umano utilizza la socialità, la forza che solo una collettività può fornire, per realizzare i propri sogni; in altri termini l’essere umano è consapevole di non poter sopravvivere – fisicamente in natura, materialmente nell’epoca contemporanea – senza far parte di una società di suoi pari.
Aggiungendo per completezza un aggettivo all’affermazione aristotelica, l’essere umano è contemporaneamente un animale sociale e individuale.

A questo punto possiamo rispondere anche alla prima domanda: l’animale sociale può sentirsi solo perché quando si trova in difficoltà spicca la sua specificità di singolo e gli animali sociali che lo circondano difficilmente provano empatia per qualcosa che non appartiene a loro.
Proprio nei momenti difficili emerge questo atteggiamento, quando l’individuo risulta più fragile emotivamente.
Gli esempi sono innumerevoli, ma individuando i più estremi, di conseguenza siamo in grado di comprendere tutti gli altri.

Suicidio e tossicodipendenza sono due tematiche tristemente comuni in tempi difficili come quelli che stiamo attraversando, pur essendo delle costanti storiche, eppure facciamo ancora fatica a concepirle come mali che, sebbene colpiscano individui, ricadono inevitabilmente sull’intera collettivitàIn passato attorno a questi due drammi si è costruita una moralità che prevedeva l’ostracizzazione, il bando, l’emarginazione, sia della persona sia, in ambito religioso, della sua anima, concetti molto forti che oggi tendiamo a non comprendere ed erroneamente a confinare in epoche ormai sorpassate.

Tuttavia è sufficiente leggere i commenti sui social sotto a notizie di cronaca nera, per rendersi conto che le cose non sono molto cambiate. Negli anni c’è stato un approfondimento, un arricchimento nozionistico, per malattie emotive in passato totalmente ignorate, sconosciute o banalizzate a semplici sbalzi d’umore di persone deboli, eppure ci si scontra quotidianamente contro un muro di incomprensione.
Un commento alla notizia dell’ennesimo decesso per overdose nella mia città, mi ha particolarmente colpito e sostanzialmente recitava così: “Non capisco perché una persona debba drogarsi, non lo capisco e non lo voglio capire”Mentre se si fosse trattato di suicidio, in un contesto completamente diverso, sono certo che avrei raccolto numerosi e laconici “Egoista” rivolti al malcapitato.

Oltre all’immensa superficialità con cui molte persone affrontano mali dai confini molto poco definiti, e per i quali non esiste una cura specifica o un farmaco particolare proprio perché attaccano l’animo e l’autoconsapevolezza del singolo, il problema si concentra sulla sbagliatissima convinzione implicita che possano essere circoscritti a persone predisposte, fragili, deboli eccNon si prendono minimamente in considerazione le variabili che intervengono nell’arco dell’esistenza di ciascuno di noi, che se per anni possono sorriderci, possono anche farci precipitare da un momento all’altro in un baratro senza fine.
Non si comprende che imparando a conoscere queste problematiche potrebbe essere anche più agevole affrontarle quando ci colpiscono direttamente, o quando colpiscono un nostro amico, un figlio, un nostro caro.

E infine c’è la disumanizzazione della vittima, che non è più un nome, una persona con dei sogni andati alla deriva, con delle difficoltà superabili se solo non avesse trovato silenzio attorno a sé. Chi muore diventa un numero per la statistica, finisce in pasto a chi condanna l’uso della droga, a chi vorrebbe ammazzare gli spacciatori e i discorsi sull’immigrazione spiccano il volo che è un piacere. Così gli animali sociali preferiscono litigare sfruttando le vittime dell’indifferenza, piuttosto di affrontare la realtà.

 

Alessandro Basso

 

[Photo credit Pixabay]

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Arthur Schopenhauer: la lezione del disincanto

Arthur Schopenhauer, spesso, è ricordato come uno dei più celebri pessimisti che abbia mai osato esprimere la propria opinione. Il suo pensiero è duro, limpido nella sua crudezza, senza fronzoli e diretto; indubbiamente difficile da accettare.

Il pessimismo è una modalità di pensiero che poggia su un unico pilastro: il disincanto. Se la filosofia ha sempre voluto svegliare le menti, aprire gli occhi, e rendere coscienti i cuori, il pessimismo lo fa proprio a partire dal disincanto, dalla disillusione.

Per quanto il primo istinto sia quello di rifuggirlo, vi è un’importante lezione che Schopenhauer ha lasciato e che, probabilmente, non è stata colta.

La filosofia di Schopenhauer è ormai fin troppo nota: il nocciolo della vita, in tutte le sue forme, è un bisogno mai soddisfatto, una fame che non trova sazietà, un impulso senza appagamento. Il destino dell’uomo è segnato nell’insoddisfazione e nell’egoismo, poiché egli intenderà l’altro come strumento, e sarà per coloro che lo circondano un mezzo a sua volta, per placare bisogni e aspirazioni. La direzione degli eventi è tracciata dal dolore e dalla mancanza. Della filosofia di Schopenhauer si è appreso soprattutto questo e altro non si è voluto vedere.

Eppure, proprio il pessimismo di Schopenhauer ha lasciato un profondo insegnamento, che ben si adatta allo scoramento a cui si è abituati.

Se il male, cioè l’egoismo, la mancanza, il dolore, sono la madre dell’esistenza, dov’è il bene? Se è il male il diamante grezzo che l’uomo ritrova scavando dentro di sé, che cos’è effettivamente il bene?

È la più grande conquista dell’essere umano. Schopenhauer parla di diverse forme, attraverso le quali l’uomo può giungervi, ma il percorso è sempre lo stesso.

Quando l’individuo guarda dentro di sé, e trova il suo dolore, la sua voracità, il suo egocentrismo, e ne ha orrore, allora il bene può emergere, in quanto coscienza ed empatia.

Schopenhauer suggerisce, in sostanza, che il bene non è andato perduto, e non è un principio aleatorio e irraggiungibile; è frutto di consapevolezza, e soprattutto, è una vittoria dell’uomo su stesso.

L’effetto di porre il male come fulcro della vita, e il bene come costruzione, sta nel fatto che, d’un tratto, ci si accorge dell’altro non più come strumento, ma come carne che combatte contro lo stesso dolore che si sperimenta ogni giorno. Il risultato del pessimismo di Schopenhauer è che, quando si riesce a intendersi, l’altro non è più invisibile. Quel nucleo negativo diviene così la possibilità di empatia, di apertura.

Il disincanto di Schopenhauer dà così avvio, per chi è pronto ad accoglierlo, alla ricerca del bene, inteso non come perdita in seguito a una colpa o a un’imperfezione, bensì come desiderio di rivoluzione, costruzione, salvezza.

Sebbene questa sia un’interpretazione azzardata del pensiero di Schopenhauer, soprattutto per chi lo conosce bene, è probabilmente quella di cui si ha bisogno.

Se gli autori del passato non sono solo carta stampata, ma possono divenire consiglieri del mondo che conosciamo, in cui i giovani hanno già le rughe agli angoli della bocca, e i vecchi non vogliono ricordare ciò che hanno fatto, allora è necessario proprio il disincanto di Schopenhauer. Egli può insegnare a riconoscere il male come la possibilità del bene, l’egoismo dell’empatia, e che nulla di tutto ciò si ottiene, se non si è pronti a riconoscere se stessi per ciò che si è. Il bene emerge dal male, e lo sovrasta, solo se l’individuo osa guardare in profondità.

Il pessimismo diventa ciò da cui bisogna scappare, solo quando si avvera l’unico rischio insito in sé: la resa alla realtà così come l’abbiamo trovata*.

 

Fabiana Castellino

 

* Per comprendere al meglio la filosofia di Schopenhauer, si consiglia la lettura della sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione, edito da Einaudi, 2013

[Photo credits: Annie Spratt via Unsplash]

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Unione Europea: ognun per sé e Dio per tutti

Non è mia intenzione ammorbare quanti avranno voglia di spendere parte del loro tempo per leggere questa mia riflessione, con discorsi volti unicamente a distruggere – così come la moda attuale vuole – l’idea comunitaria che regge il sistema politico ed economico europeo nel quale viviamo. Esistono critiche costruttive lì da qualche parte, sovrastate dal mare di sfoghi collettivi anti-sistema che infiammano moltissime persone, urla incontrollate, j’accuse improbabili lanciati da politici altrettanto improbabili; esistono e sono nascoste molto bene.
Tuttavia esistono anche dubbi, forse sani, forse no, legati al concetto stesso di Unione Europea che d’altra parte, visti i recenti comportamenti tenuti dagli Stati nazionali in seno all’organizzazione, inevitabilmente sorgono anche nelle più positive intenzioni.

Cos’è l’Unione Europea?
La risposta è una sola: dipende.
Dipende se intendiamo l’Unione Europea così come ci è stata raccontata, come si presenta, oppure se vogliamo farci del male e riscoprirne definitivamente la natura.
Quando e perché è nata l’Unione Europea?
Un continente uscito con le ossa rotte dal secondo conflitto mondiale aveva capito che i moti di supremazia di un singolo Paese potevano creare danni ingenti a cose e persone, quindi la possibilità per risollevarsi e prosperare era racchiusa nella collaborazione tra Stati. Dallo scontro si era passati quindi al dialogo in modo tale da affrontare meglio un futuro che – con l’inizio del dualismo USA-URSS – non si presentava certamente roseo e felice.
Un po’ come si vede nei documentari di avventura, o nei film in cui i protagonisti si trovano in una situazione di precarietà e ognuno mette in comune i propri viveri, gli Stati europei nel 1951 misero in condivisione reciproca le materie prime più importanti: il carbone e l’acciaio, entrambe utili per il settore energetico ed infrastrutturale, dando vita alla CECA.
Il primo passo verso l’Unione Europea fu proprio questo: il libero scambio di merci.

Fatta questa premessa risulta abbastanza chiaro che le radici dell’Unione Europea sono economiche, che poi l’apertura dei confini abbia interessato altri settori è fuor di dubbio, ma è diretta conseguenza di una visione decisamente materialista e del resto non poteva essere altrimenti.
Un’altra domanda che sorge spontanea è la seguente: l’UE ha mai smesso di pensare ed agire in termini economici e materialisti?
Nel già citato dualismo USA-URSS in cui anche l’Europa faceva parte dei territori contesi, assieme ad Africa, America latina e Asia, fu necessario un ulteriore passo in avanti, questa volta non nella sfera materialista ma in quella psicologica. Per rafforzare il concetto di Europa dovevano essere creati gli europei, i cittadini che avrebbero dovuto emergere dalla condizione di subalternità alle super-potenze.
Senza voler favoleggiare segreti machiavellici, se volete creare un fronte comune “umano” contro qualcuno o qualcosa che appare invincibile, dovete prima di tutto coinvolgere altre persone e farle sentire parte di un grande progetto; del resto il motto «l’unione fa la forza» è sicuramente più motivante di un «se non mettiamo assieme le economie siamo spacciati».
L’apparato extra economico dell’Unione Europea, che comprende il mito di fondazione, la simbologia, le festività laiche ecc, è servito da panacea, da utile racconto per far ingerire lo sciroppo amaro del cinico materialismo. Non è nemmeno una novità, nel corso della Storia fu un processo già sperimentato in piccolo, specialmente nel Settecento quando si formarono gli Stati Nazionali.

Appurata la base materialista dell’UE, appurata la bella immagine che di sé ha costruito negli ultimi sessant’anni viene da chiedersi cosa non sta funzionando, quale ingranaggio si è rotto o allentato.
È sotto gli occhi di tutti infatti il comportamento tenuto dai singoli Stati nel delicato tema dell’immigrazione, comportamento che ha portato alla luce numerosi rancori, anche estranei a questo problema principale e vecchi antagonismi latenti da chissà quanti anni.

Il fenomeno migratorio attuale ci ha colti di sorpresa, poche persone avevano intuito cosa avrebbe raccolto l’Europa dopo secoli di sfruttamenti e tentativi, spesso fruttuosi, di controllare indirettamente le politiche interne dei Paesi nati durante la decolonizzazione (anni ’60 e ’70 del Novecento, quindi l’altro ieri); ciò ha messo a nudo la vera natura che è propria dell’Uomo: l’egoismo.
Gli esseri umani sono capaci di aggregarsi, di modificare l’ambiente per adattarlo meglio alle proprie esigenze, sono in grado di strutturarsi in gerarchie per controllare un determinato territorio, sono capaci di spingere i confini invisibili dell’ignoto, ma alla fine dei giochi, quando si tratta di reagire improvvisamente ad un elemento considerato pericoloso o dannoso, emerge puntualmente l’egoismo che può essere individuale, oppure – come nel caso in questione – nazional collettivo.

Diversi Stati facenti parte dell’UE nei mesi scorsi hanno letteralmente chiuso le loro porte lasciando il gravoso compito di gestire i flussi migratori ad altri Stati, quelli che la geografia e il fatalismo un po’ indotto hanno voluto porre proprio come prima tappa degli sbarchi.
Davanti a tutto questo, come potrebbe un cittadino qualunque, anche se disinteressato dalla polemica a priori contro le organizzazioni sovranazionali, non considerare il mito, lo storytelling legato all’Unione Europea, inutile e – se insistentemente riproposto – irritante?

Balbettare una retorica che sembra dilatarsi in modo inversamente proporzionale alla sua efficacia, quanto può contenere le opposte derive estremiste, quelle ultranazionaliste, che stanno ottenendo un buon successo elettorale?
Per quanto tempo, infine, potrà ancora reggere la credibilità di questa Unione Europea nata per sopperire alle difficoltà, se si lascia vincere proprio dalle nuove sfide del presente?

 

Alessandro Basso

 

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La parola “io”: patologia del nostro tempo

«La parola Io è uno strano grido che nasconde invano la paura di non essere nessuno…»

Giorgio Gaber

Il culto dell’Io pervade il nostro tempo e le nostre esistenze. Se il XX è stato il secolo della psicoanalisi, il XXI è senza dubbio l’epoca che sta conducendo alle estreme conseguenze la psicologia dell’Io. Riportando l’attenzione sul singolo e sull’esplorazione del proprio inconscio, Freud e seguaci hanno senz’altro aperto un varco all’interno della conoscenza dell’uomo, della sua storia personale e dei propri meandri più remoti e celati, realizzando una vera e propria rivoluzione nel panorama culturale e sociale del Novecento. Il nostro tempo, tuttavia, sembra aver operato una vera e propria stortura rispetto alle iniziali scoperte della psicoanalisi. Se quest’ultima aveva ridestato l’attenzione dell’uomo verso il proprio interno affinché si rivolgesse poi rinnovato verso l’esterno, la società contemporanea, con le sue spinte culturali, economiche e politiche sembra celebrare quotidianamente l’Io e l’affermazione del suo potere come condizione esistenziale par excellence.

«La parola Io / questo dolce monosillabo innocente / è fatale che diventi dilagante / nella logica del mondo occidentale / forse è l’ultimo peccato originale»1. Con queste parole Giorgio Gaber canta la crisi dell’uomo contemporaneo, la quale si fonda propriamente sull’esaltazione del narcisismo. L’atteggiamento che tende ad esaurire la personalità nell’esclusiva considerazione di se stessa, è proprio quanto la psicoanalisi aveva individuato come il denominatore comune delle malattie mentali. I messaggi sociali, culturali ed economici veicolati dai social media fanno apparire l’Io come la sola e vera realtà. L’unica, sulla quale le nostre vite si debbano fondare. Tuttavia, sono tragicamente sotto gli occhi di ciascuno le conseguenze di questa finzione chiamata Io. Suicidi, omicidi, femminicidi, infanticidi, criminalità organizzata, attacchi terroristici. In tutti questi casi a dominare è la parola Io. Essa invita ad agire seguendo il proprio interesse egoistico, il proprio godimento personale, senza tenere in alcuna considerazione la presenza e il rispetto per l’altro. A ragione, facendo parlare il narcisista, Gaber scrive: «son disposto a qualsiasi bassezza per sentirmi importante». Questo è lo specchio di una società seriamente malata, che ha abdicato la dimensione originaria della relazione in favore del narcisismo, che sfocia in egoismo.

Secondo l’epistemologia genetica di Piaget, l’egoismo è una fase dello sviluppo che dovrebbe terminare intorno al terzo, quarto anno d’età. In questo periodo il bambino riconosce di non essere solo al mondo e di dover partecipare alla Vita, condividendola con altri simili, confrontandosi con loro e riconoscendo che la propria libertà è limitata ma proprio per questo preziosa. Il tempo ipermoderno sembra aver disconosciuto questo centrale passaggio dello sviluppo socio-individuale. L’egoismo, che oggi non viene superato nella prima infanzia, si trascina fino all’età adulta e permea tragicamente i nostri comportamenti. Riferendosi a questo Gaber scriveva: «negli adulti, diventa più allarmante e cresce la parola Io». L’esaltazione, che il nostro tempo fa della parola Io, suggerisce un potere esibito dal singolo come espressione di forza. È proprio così che si afferma il dominio dell’uomo sull’altro uomo. È in questo modo che il potere diviene violenza, sopruso, abuso, annientamento. Possibilità senza vincoli. Libertà senza legge. Solo così, infatti, il narcisista può affermare se stesso e il proprio essere. Solo così può provare l’ebbrezza di essere il centro del mondo. Solo così può nutrire la falsa illusione di bastare a se stesso e di non avere bisogno dell’altro. Salvo poi cadere in un profondo e sterile isolamento, prodromo della depressione, malattia dilagante nella nostra epoca.

È tempo di riconsiderare l’uomo come essere-in-relazione. La storia del pensiero, da Platone ad Aristotele, da Agostino a Tommaso D’Aquino, da Montainge ad Hegel, ci ricorda come l’uomo è un essere che può vivere solo in relazione con l’altro da sé, in un legame intersoggettivo autentico, in cui si perde parte della propria libertà per ritrovarla, più ampia e completa, nel legame con l’altro, con gli altri. È dunque necessario prendere le distanze dalla pervasività della parola Io in favore del Noi. Far dominare il Noi al posto dell’Io, significa riaffermare l’Umanesimo del quale siamo figli2. Significa stabilire relazioni di qualità, basate su rispetto, attesa, ascolto e comprensione dell’altro. Significa abbandono di parte delle proprie pretese egoistiche, per unirsi all’altro. Affinché questa unione avvenga, come suggerisce lo psichiatra Andreoli, è necessario riconoscere la propria fragilità. A partire da questa presa di coscienza è possibile cercare l’altro, fragile anch’egli ed unirsi a lui, che al contempo ci cerca poiché a sua volta si è riconosciuto fragile.

Nel panorama contemporaneo sembra sempre più difficile abbandonare l’egoismo, accettare le ferite narcisistiche. La società nella quale viviamo prospetta infatti la felicità nell’Io, proprio laddove, come abbiamo mostrato, non può realizzarsi. Essa infatti può compiersi solo quando l’uomo trascende se stesso, in favore di qualcosa che non è se stesso, che sta fuori di sé, che sta oltre. Ecco perché il filosofo danese Kierkegaard ebbe a dire: «la porta della felicità si apre verso l’esterno, cosicché può essere rinchiusa solo andando fuori da se stessi».

Alessandro Tonon

NOTE:
1. La presente e le seguenti citazioni son tratte da G. Gaber, La parola Io, nell’album Io non mi sento italiano, 2003.
2. Su questi temi rimando alla mia intervista al professor Vittorino Andreoli.

 

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