Riflessione sull’importanza di educare al dolore

In principio era il thauma, e chiunque abbia un po’ di dimestichezza con la filosofia classica di certo non esiterebbe a chiamare in causa l’Aristotele della Metafisica ed il Socrate platonico del Teeteto. A detta di questi, stando alla fortunata interpretazione severiniana, la filosofia, l’arte del pensiero nascerebbe dal “terrore” dell’uomo per l’asprezza di un’esistenza instancabilmente minacciata da dolore, tormento e sofferenza, scaturirebbe dalla presa di coscienza della propria miseria dinanzi ad una realtà instabile e sconosciuta, dei propri limiti e delle proprie debolezze (se anche non si condividesse la posizione di Severino, chi mai potrebbe negare che la “meraviglia”, termine con cui tradizionalmente viene tradotto thauma, sottende un profondo e velato senso d’angoscia?). L’io indeterminato dei primi uomini, allo scontro con un mondo in apparenza ostile, viene così spronato all’autenticazione del sé e alla comprensione dei rapporti con l’altro e la natura, intrecciando dialoghi di reciproco coinvolgimento.

Ora, uscendo dalle semplicistiche categorizzazioni delle scienze, non si converrebbe con difficoltà che quelle “protofilosofie” originarie che, nella forma del mito, del rito, delle narrazioni visive o musicali, contenevano in nuce le prime forme di pensiero filosofico e che in forza di questo avevano permesso all’uomo di raggiungere un certo grado di autocoscienza derivano dalla sopraddetta inquietudine. Le pitture rupestri di Lascaux o Altamira, le vicende di dèi e semidei della letteratura cosmogonica, raccolte nell’atmosfera unificante e sacrale delle celebrazioni religiose, ordinarono un repertorio di immagini e racconti che descrivevano i profili degli enti della realtà, il senso divino del loro mutamento, i comportamenti da seguire per garantire la sopravvivenza del singolo e della comunità, anch’essa sorta come risposta all’orrorequell’orror» leopardiano «che primo / contra l’empia natura / strinse i mortali in social catena»). È dunque l’intera umanità che costruisce se stessa sulle fondamenta del thauma originario, e che in questa sua violenta nascita ravvisa il senso prettamente umano della propria miseria.

Che dire, a questo punto, dell’atteggiamento dell’uomo contemporaneo? Il diffuso consumo di droghe, fumo, alcol, psicofarmaci, la passiva fruizione di un flusso continuo di informazioni mediali e quella sorta di “trasumanar” odierno nel virtuale dei social network e delle realtà aumentate farebbero pensare ad un desiderio comunemente condiviso di seguire facili scorciatoie per fuggire il malessere esistenziale che è connaturato all’esistenza umana. Sono questi surrogati della salvezza un tempo promessa dagli idoli, immediati dispensatori di apparenti e inautentiche felicità non più assunti nel limite di norme morali o in specifici contesti situazionali (siano essi legati al campo medico o religioso come nel passato), ma abusati per soddisfare il solo bisogno di piacere imposto dall’odierna società edonista.

Che si tratti di mollezza o vigliaccheria o di una qualsiasi altra forma di vizio dell’animo non conta: sono anche queste pur sempre debolezze dell’uomo. Quel che non è tollerabile è la generale accondiscendenza ad una disumanizzazione di massa che vede la propria causa scatenante nell’incapacità di affrontare il thauma e nel non volerlo trattare con serietà e con strumenti adeguati. Educare al dolore, alla fragilità dell’essere uomo, forse altro motivo di vergogna nell’età della salda perfezione delle apparenze, non sarà allora anacronistico, ma più che mai necessario per un vivere autentico e cosciente che impedisca che il mondo e la storia accadano nell’indifferenza di tutti.

Già abbiamo a nostra disposizione un immenso inventario di armamenti: ogni opera d’arte, come quelle dei primordi, racchiudendo in sé una piccola parte dell’esperienza umana del mondo, propone modelli e anti-modelli per la gestione delle pratiche di vita. È però bene che il cadetto inesperto, per evitare che faccia cattivo uso del suo corredo militare, sia seguito passo passo da chi negli anni ha formato le proprie competenze maneggiando giustappunto quest’arsenale culturale. Saranno allora critici, divulgatori e, ancor di più, insegnanti ad essere chiamati come guide di questo progetto, e saranno i loro ruoli a dover essere, in questo senso, rivalutati e valorizzati dall’opinione pubblica. Vedere in essi dei semplici dispensatori di informazioni, attività che ormai, nell’era di Internet, puzza di obsolescenza, vale a preconizzarne la scomparsa, mentre negare la loro funzione educativa nell’affrontare le fragilità umane vanifica le tante discese agli inferi che, come quella dantesca, suggeriscono un inevitabile attraversamento del thauma per poter infine rinascere a nuova luce. «L’uomo è un apprendista, il dolore il suo maestro», ricorda Musset, e i funzionari della cultura, dopotutto, non sono che i loro mediatori.

 

Beatrice Magoga

 

Beatrice Magoga, opitergina della classe 1999, è iscritta alla facoltà di lettere e al conservatorio di Bologna. Ha partecipato come membro a rotazione della giuria della III edizione del concorso di poesia “Mario Bernardi” di Oderzo e ha collaborato come articolista con L’Azione Gazzetta filosofica.

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Il coraggio di pensare: Francesco Pastorelli su come insegnare la filosofia

In molti incontriamo la filosofia per la prima volta a scuola, normalmente al terzo anno di superiori. È quella strana età in cui smettiamo di essere adolescenti brufolosi e supponenti e iniziamo lentamente a diventare adulti e a porci qualche domanda in più su noi stessi e sulla vita. C’è chi in quel periodo avverte le questioni filosofiche come quanto di più astratto e lontano dalla proprie preoccupazioni, ma altri sentono invece che le proprie domande, il proprio sguardo meravigliato sul mondo, sono in fondo gli stessi della filosofia. E allora si innamora di quella disciplina.

Affinché questo accada è necessario un insegnante capace di appassionare e di chiarire anche gli autori più difficili, ma anche un manuale che svolga la stessa funzione, sapendo essere al tempo stesso chiaro e stimolante. Ma come si fa a mantenere un equilibrio tra questi due elementi? E cosa si nasconde dietro ad un manuale di filosofia? Lo abbiamo chiesto a Francesco Pastorelli, caporedattore del settore filosofia e scienze umane della casa editrice Loescher, che dopo una laurea su Spinoza e un dottorato su Shaftesbury alla Normale di Pisa ha iniziato a lavorare nel mondo dell’editoria.

 

Buongiorno Francesco, la prima domanda riguarda appunto la conciliazione tra elementi diversi che devono essere presenti in un manuale: lo scopo principale di un buon libro di filosofia dovrebbe essere rendere appassionante la materia o spiegarla in maniera semplice e lineare? Si può raggiungere un equilibrio tra i due elementi?

In realtà un buon manuale scolastico (qualunque, non solo di disciplina filosofica) dovrebbe sempre poter offrire un testo chiaro e appassionante, anzi: ci si appassiona alla lettura e allo studio quanto più si comprendono le cose in modo immediato, anche quando complesse. La filosofia tratta tematiche che attraggono naturalmente ogni studente: riuscire ad allontanarli offrendo un testo impenetrabile sarebbe davvero un peccato mortale! Credo che si possa dire di aver raggiunto l’equilibrio che citi nella domanda quando uno studente, dopo aver letto il manuale, ha (anche solo un pochino) voglia di leggere altro oltre il manuale. Il manuale dovrebbe essere una chiave per entrare in altri posti dove non si è mai stati, e che forse non avresti mai visitato senza il manuale.

 

Non c’è mai il timore che semplificando un autore per spiegarlo si tradisca la complessità del suo pensiero? Come si fa ad esempio a rendere comprensibile per un manuale scolastico pensatori ostici come Heidegger o Husserl?

L’autore sa scrivere un buon manuale quando dimentica di essere egli stesso un autore, ma si mette al servizio sia del filosofo che intende spiegare, sia del lettore finale. Tutto questo non intacca ovviamente l’originalità dell’impostazione (taglio concettuale, scelta antologica ecc). Ma un manuale “difficile” spesso cela un autore che non vuole scomparire e ha difficoltà a mettersi al servizio di un progetto didattico. Tutto sommato, direi, è anche una questione etica. L’autore di un manuale dovrebbe essere sempre un mediatore tra questi due mondi: l’oggetto che deve spiegare e il soggetto cui deve spiegare. 

 

In Italia si fa quasi sempre e solo storia della filosofia, non hai mai pensato di realizzare per la scuola invece un libro di filosofia? Ad esempio un manuale che, invece di partire da Talete per arrivare a Derrida, affronti delle macro-sezioni (la politica, l’amore) in cui contrappone i pensieri dei diversi autori? Sarebbe possibile farlo in Italia?

Non proprio, non ora. Le indicazioni ministeriali non hanno ancora scardinato un impianto che per consuetudine e indicazioni stesse rimane sostanzialmente storico-cronologico. Ma un po’ tutti i manuali, in realtà, offrono interessanti spunti tematici, anche interdisciplinari, pur senza arrivare al modello francese.

Nell’aria filosofica Loescher sta pubblicando proprio ora un’interessante novità, che sarà tra i banchi di scuola il prossimo anno scolastico. Si tratta di un manuale firmato da Umberto Curi, uno dei filosofi italiani contemporanei di maggior peso.

 

Volevamo chiederti qualcosa su questo nuovo manuale. Partiamo dal titolo, Il coraggio di pensare, che ricorda la massima kantiana del sapere aude. In che senso oggi bisogna avere coraggio per pensare filosoficamente e perché è importante insegnare questa audacia ai ragazzi?

Quando si progettava il manuale, ci sembrava importante che i ragazzi capissero che il mondo non si cambia da soli, ma con gli altri (oltre che per gli altri). Ma per fare le cose con gli altri, occorre condividere le idee (e quelle argomentate sono le più condivisibili, per loro natura), e quindi le parole che si usano per esprimerle. Idee (quindi parole) condivise, argomentate, discusse: queste cambiano il mondo. Se si capisce, si restituisce dignità e peso alle parole, e alle conseguenti azioni che esse possono generare. Se pensare vuol dire generare azioni, allora pensare è altamente responsabilizzante: come potrebbe non incutere timore e quindi non pretendere, il pensiero, una certa dose di coraggio?

 

In breve, qual è l’aspetto di questo manuale che ritieni meglio riuscito, e quale è l’elemento di maggiore novità rispetto alla concorrenza?

Abbiamo puntato moltissimo su due aspetti: un testo estremamente rigoroso (si ragiona sempre, non esistono idee offerte al lettore come fossero verità scolpite nella pietra) e al contempo formativo: abbiamo cercato infatti di mostrare il carattere ancora vitale di certe idee filosofiche, che hanno dato forma alla nostra vita e alle nostre convinzioni anche senza che noi stessi ne fossimo consapevoli, e come i grandi pensatori hanno cercato di mostrare le loro vie per diventare maggiorenni, ovviamente in senso intellettuale. Un bello stimolo, per ragazzi che stanno per diventarlo in senso anagrafico.

 

Come è stato collaborare con un autore importante e affermato come Umberto Curi? Il professor Curi ha sempre insegnato all’università, come avete fatto ad adattare la sua metodologia ad un manuale per la scuola superiore?

L’editoria scolastica è un’editoria di progetto: lo si condivide con l’autore e lo si porta avanti, e ognuno ovviamente (tanto l’editore quanto l’autore) ha fatto le proprie rinunce, ma sempre, e questo è il bello, in vista di un fine più alto: un progetto funzionale e valido, adatto per i docenti e gli studenti. Lavorare con Curi è stato molto divertente (anche se non sono certo mancati i momenti di tensione) perché si partiva da un assunto iniziale interessante: Curi, all’università, ha sempre dissuaso gli allievi dall’acquisto di qualsivoglia manuale, perché nessuno avrebbe potuto restituire il carattere vivo, formativo e dialogico che ha la filosofia “praticata”. I manuali a suo dire insegnavano pensieri, non a pensare. Se ha accettato di essere l’autore di un manuale scolastico è perché abbiamo condiviso e realizzato un progetto che finalmente, per la prima volta, ambiva a insegnare a pensare e non a snocciolare opinioni filosofiche.  

 

Chiudiamo infine con una domanda che siamo soliti fare a tutti i nostri ospiti: che cos’è per te la filosofia?

Prima di entrare nel mondo dell’editoria, ho insegnato per un anno in un liceo torinese e durante quel periodo mi fu chiesto di scrivere un articolo sulla filosofia per la rivista della scuola. La cosa mi spiazzò: dopo aver studiato e scritto per anni intere pagine su poche parole di alcuni filosofi, avevo perso di vista il senso generale dell’esercizio filosofico, ma la genericità della richiesta in realtà mi fece bene. E torna utile ora per rispondere. A farla breve: a nessun uomo basta respirare, bere e mangiare per essere felice o almeno sereno. Riflettere su se stessi e gli altri, sulle relazioni, “curare” l’interiorità con metodo ed esercizio (l’insegnamento di Pierre Hadot rimane insuperato) è qualcosa a cui gli uomini non possono rinunciare. C’è una gran differenza tra sopravvivere e vivere: la filosofia è quella differenza, e riesce ad esserlo senza costruire barriere, ma anzi abbattendole.

 

Lorenzo Gineprini

 

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