Maldestra ed inattuale analisi del dibattito politico nel mondo sociale contemporaneo

Il dibattito politico andrebbe analizzato nella sua prima accezione: dalla presa del corpo nell’evento e dalle sue prime pulsazioni, dalle sensazioni e dai suoi effetti nella sua pratica, nonché dallo spazio che occupa. Il dibattito è innanzitutto dibattito non solo fra idee, visioni e termini linguistici ma tra posizioni. Quindi è fondamentale identificare lo spazio che il nostro corpo occupa e nel quale intrattiene dibattiti con gli altri corpi, con i suoi vicini. Ecco qui il primo assunto: un dibattito ha luogo se si è consci del proprio spazio e della posizione che questi assume in presenza di un altro spazio e di un’altra posizione inconscia. Il dibattito diviene politico solo in un clima di scontro, cioè quando la posizione e lo spazio a noi prossimo non può essere capito o non è utile renderlo spiegabile, nemmeno al nostro più intimo Io: occupare uno spazio è sempre il primo passo per uno scontro di posizioni e se il nostro antagonista occupa uno spazio inconsistente ed una posizione inspiegabile non farà altro che il nostro gioco; la dialettica politica contemporanea lo sa bene e si da sempre un gran da fare nel rendere torbido il panorama alla base elettorale. La politica contemporanea è un pò una rievocazione della grande guerra: di posizione, muove masse inconsistenti e variegate al suo interno, infiammabile, di sperimentazione e soprattutto oggi come non mai, globale. Ogni posizione politica contemporanea tiene conto, sin dove le conviene, della sua diversità di idee e di sentimenti: ne cavalca l’onda se la marea che la sospinge è di grande numero o di grande valore economico – sociale viceversa oscura persino la sua stessa visione e rende cupe le trame dell’avversario. Non è mai essa stessa una marea, piuttosto ne riprende i connotati mostrandone un’immagine: la politica contemporanea trasforma gli archetipi della vita sociale ed economica facendone stereotipi di semplice fattura e di facile comprensione. Si abbassano i livelli e le astrazioni nei dibattiti politici contemporanei e se ne fa un paniere di gustose idealizzazioni e prima che queste si possano compiere, vengono superate: non c’è tempo per vivere, o si supera o si annichilisce! La vita politica contemporanea è un’abbondanza di linguaggi ibridi – moderni e post-moderni – di volontà e di idee di stampo futuristico; di nostalgie nazionaliste e di un anarchico mondialismo. La politica subisce fortemente l’influenza dell’economia e l’economia subisce i moti e le pulsioni sociali e non perché economia e società siano in stretto legame bensì perché non si è fatto altro che dare alla società sempre più i connotati di un semplice fattore economico. Il pessimismo filosofico ottocentesco e le caustiche previsioni di una primordiale sociologia erano piccoli segnali d’allarme di un brusco, lento e pericoloso ribaltamento dei valori dell’uomo.

Politica e mondo della comunicazione si limitano a tradurre il reale anziché trasmutare l’irrealtà delle nostre idee in azioni reali, programmatiche e pragmatiche. Non regolano bensì vengono regolate; non illuminano ma vengono arse dall’intensità dei lumi della ragione contemporanea. Oggi, la politica si è trasformata in perfetto ideale subordinato all’economia. Da questa configurazione sembra proprio che i concetti marxiani abbiano avuto la meglio ed invece non è così: i modi di produzione dell’economia e del mercato si moltiplicano al pari dell’innovazione tecnologica ma ogni sovrastruttura – continuando con la terminologia di Marx – non riceve impulsi per un naturale ricambio o un altrettanto naturale superamento. I concetti quali sociale, politica, cultura, valore oggi più che mai non riescono a star dietro al mondo economico e tecnologico contemporaneo: l’arretratezza in campo culturale e sociale entra in comunione con i fenomeni di secolarizzazione e di eccesso di razionalizzazione, creando un cocktail sociale dal sapore nichilista. A resistere e ad evolversi rimane solo l’economia, la quale – non so se coscientemente o incoscientemente – è riuscita a coniugare il pensiero di stampo marxista con il pensiero liberista avvallando così un pensiero ultra-razionalista. L’uomo contemporaneo coniuga fini e mezzi con estremo raziocinio tanto da dimenticare tutto il resto che lo circonda. In conclusione l’economia contemporanea si è fatta ideale di primo livello, inglobando a sé tutti i vecchi ideali, subordinando i prodotti sociali quali la politica, la cultura, lo spirito ed approfittando della contemporanea svalutazione dei valori legati alla corporeità umana, strumentalizzandone il senso, la rappresentazione, la fisica, la chimica. Il totalitarismo liberista, qui maldestramente enunciato, non ha ideali di fondo, manifesti sociali, dogmi e valori da promuovere; tutto ciò che il passato umano ha offerto si reincarna in lui ritornando sotto nuove vesti. La civiltà contemporanea domina sulla terra sotto le mille e più ideologie, ognuna complementare dell’altra; si serve del mercato e dell’economia per disincantare l’uomo dai vecchi valori proponendo una semplice, arguta e spietata scappatoia: il calcolo e l’utile tradotto in surplus. Utilizza i suoi stessi tragici effetti – nichilismo e materialismo – per elevarsi ad unica ragione e speranza futura: il panorama dell’uomo, oggi, è volutamente sgombro ma al tempo stesso affollato.

Salvatore Musumarra

Classe 1987, impegnato nei settori comunicazione e media, grafico editoriale e laureando in Scienze per la Comunicazione presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania. Contributor presso alcune realtà radiofoniche siciliane e attivo in diverse correnti artistiche tra cui dadaismo, costruttivismo, futurismo. Appassionato di filosofia e sociologia e particolarmente legato agli scritti di Friedrich Nietzsche ed al filone delle filosofie della vita.

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Socrate in azienda

La Filosofia è tacciata di esser qualcosa di distante dalla vita pratica, qualcosa che manca di concretezza e che rende chi ne è interessato del tutto incapace di confrontarsi con le problematiche che sorgono dalla vita quotidiana, troppo impegnati a guardare il cielo e i massimi sistemi questi esseri inadatti alla vita si troverebbero in balia delle circostanze, persi in fantomatici mondi e nelle loro elucubrazioni mentali.

Ma le cose stanno davvero così?

Nella consulenza aziendale si stanno facendo sempre più strada delle figure ibride a cavallo tra la Filosofia, le Scienze dell’Uomo e l’Economia, che è afferente molto più all’ambito delle materie umanistiche che a quelle prettamente scientifiche in senso stretto. Stuoli di Socrate si aggirano per le imprese facendo quesiti, ponendo domande e aiutando gli imprenditori a partorire maieuticamente nuove idee per migliorare il proprio business.

Mentre in molti si nutrono di stereotipi e additano la Filosofia come qualcosa di avulso dalla realtà ecco che stuoli di nuovi professionisti trovano oggi impiego nel settore della Analisi di Business e della Consulenza Aziendale.

Ma come mai tutto questo? L’analisi non può essere infatti ricondotta unicamente al modello delle scienze della natura cioè alla creazione di un modello sulla base di parametri quantitativi tratti dall’indagine di un campo omogeneo di fenomeni dal quale trarre delle leggi di funzionamento. Sarà quindi necessario prendere a modello le scienze umane.

Il caso in oggetto, l’ “Azienda”, riguarda prima di tutto la storia di persone, delle biografie, da analizzare in quanto organizzazione umana che interagisce con un sostrato materiale, analizzare un’impresa significa rifarsi a multilivelli narrativi dove nella metanarrazione biografica si innesteranno altri livelli narrativi che il ricercatore non potrà certo ignorare, salvo restituire un modello che non coglie l’oggetto stesso che si vorrebbe esaminare.

In queste indagini si tengono quindi conto di due indicazioni metodologiche liberamente tratte da Jean-Paul Sartre:

La sindrome del cameriere: è celebre l’episodio che racconta di come Sartre mentre risiedeva in una stanza di albergo si ritrovò una persona in camera e gli chiese “E chi è lei?” questi gli rispose “Sono il cameriere”, Jean-Paul non convinto della risposta ribadì “No, lei non è il cameriere, lei fa il cameriere, ma chi è lei?”. Gli analisti e gli stessi intervistati tendono a concentrare l’attenzione solo sulle funzioni esplicate da un soggetto, ma è ragionevole credere che vi sia un disegno di senso più ampio che incornicia l’agire, bisogna quindi avere un approccio olistico che valuti l’integralità della persona.

“L’inferno sono gli altri”: è l’interpretazione dell’Io sartriana; esso non si presenta come una sostanza chiusa in se stessa, al contrario essa è senza alcun dubbio una struttura relazionale che per sua stessa essenza è aperta al mondo esterno e all’altro. Noi, in tal senso, siamo nel mondo e viviamo ognuno diversamente il rapporto con la realtà, vale a dire con quello che comunemente chiamiamo “mondo esterno”, l’altro da noi. La relazione corre il rischio di essere falsata se chi indaga al posto di mettersi in ascolto proietta le proprie categorie sul caso di studio.

L’analista deve comportarsi in azienda come una sorta di Socrate, avere cioè un approccio maieutico che permetta all’azienda di far emergere la sua natura e non viceversa di proiettare le proprie idee o i propri preconcetti su di essa, un buon metodo da tenere presente è quello della Tabula Rasa o dell’epoché ampiamente noto nell’ambito dell’epistemologia che consta nel tentare quanto più possibile di “sospendere il giudizio” per lasciarsi imprimere come se si fosse una sorta di pellicola da ciò che si sta osservando. Si noterà infatti che nella stesura di questo report tale metodologia emerge anche nella costruzione dello stesso, si partirà infatti dallo studio di persone e cose per poi andarne a studiare le loro interazioni fino a restituire all’interno di una dimensione sistemica l’anatomia nell’azienda, uso deliberatamente il termine anatomia perché ogni narrazione su una cosa come ricorda Hegel implica necessariamente dissezionarla, astrarla e quindi sottrarla alla sua dimensione vitale. Le imprese sono degli organismi complessi e il loro studio implica necessariamente studiarne non solo le parti, ma soprattutto le interazioni tra esse.

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Vendesi followers. Comprasi fiducia. Cedesi reputazione.

Quando un essere umano non sa come comportarsi, si adegua al comportamento di chi lo circonda.

Il cosiddetto principio della “riprova sociale”, se applicato al mondo del web, comporta che un basso numero di seguaci influenzi negativamente gli altri potenziali followers.
Su Facebook non metteremmo mai il decimo like, ma il millesimo si.
Su Twitter è difficile che si segua qualcuno con 30 followers. Per quante cose interessanti possa scrivere. Quasi automatico seguirne uno con almeno 4000. E appena andiamo su Twitter, ancora prima della bio, della foto, del primo tweet, l’occhio cade inevitabilmente sul numero di followers.

E come spesso accade nella vita reale, nell’arco temporale di un battito di ciglia elaboriamo un giudizio che in realtà è un pregiudizio.

Se lo seguono in pochi, non è interessante.

Con la pagina de la Chiave di Sophia ho avuto modo di osservare come seguaci di fatto, che mettevano anche like ai singoli post, sono diventati seguaci per così dire “dichiarati” solo quando la pagina ha raggiunto un considerevole numero di “ mi piace.”

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Da qui la fortuna di agenzie specializzate in vendita  di followers, like, visualizzazioni, recensioni.

Qualche esempio:

http://www.comprafollowers.net/

http://www.magicviral.com/

http://www.recensionitripadvisor.it/

Tutti servizi nati per accrescere la reputazione on line di aziende, istituzioni, personaggi pubblici, politici, strutture alberghiere. Qualsiasi cosa e chiunque.

Il paradosso? E’ che l’effetto, se di reputazione parliamo, è esattamente l’opposto. Una volta scoperto il trucco, la reputazione è persa per sempre. La memoria del web, oblio o non oblio, non perdona.

Gli addetti ai lavori o i semplici “smanettoni” hanno sviluppato negli anni una certa sensibilità, diffidenza e soprattutto consapevolezza nei confronti del mondo che esiste alla base di un post, di una recensione, di un fashion blog, di una pagina Facebook, di milioni di visualizzazioni e migliaia di follower in 5 giorni.Una volta scoperto, è un po’ come quando ti dicono che Babbo Natale non esiste. Scopri l’inganno. E la magia finisce.
Per quanto riguarda Twitter, anche un non addetto ai lavori può agevolmente rendersi conto se i followers sono “fake” o meno. In genere i follower falsi:
a) non hanno una foto del profilo
b) non hanno una bio
c) hanno molti più following che follower e questi ultimi spesso non arrivano a 5

d)sono inattivi o i loro tweet sono standard e pubblicitari

Oppure ci si può affidare anche a servizi come  Twitter Audits e Status People per avere in pochi minuti la percentuale dei follower falsi, di quelli inattivi e di quelli reali.

Prendete un paio di politici a campione e vi renderete conto coi vostri occhi.

Le problematiche che scaturiscono dalla compravendita di consenso, non sono da sottovalutare. Basti pensare che una  recente inchiesta condotta da Nielsen afferma che il 64% degli italiani basa il proprio comportamento d’acquisto sul passaparola on line, e quindi sulle opinioni e recensioni postate sui vari social. Per non parlare dell’influenza che hanno i blogger in questo senso, soprattutto nel settore della moda, argomento che approfondiremo nelle prossime settimane.

Dove inizia e dove finisce il confine tra pubblicità ingannevole ed ordinari strumenti persuasivi del marketing? E sopratutto, come facciamo quando il finto consenso non è acquistato per l’ultimo profumo di Dior ma per un politico? O addirittura per un partito?

Abbiamo una legge sulla par condicio che cronometra minuti, secondi e nanosecondi televisivi. E nel frattempo c’è un mondo parallelo il cui consenso si forma davanti ad una tastiera. Non davanti a Porta a Porta.

 

Donatella Di Lieto

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale/ Views are my own]

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La maschera di Pantalone

L’economia esiste perché esiste lo scambio, ogni scambio presuppone l’esistenza di due parti, con interessi contrapposti: l’acquirente vuole spendere di meno, il venditore vuole guadagnare di più. Molte analisi dimenticano questo dato essenziale.

Nel dibattito sui diritti dei lavoratori dipendenti che si ripete in Italia da diversi anni, questo aspetto viene volutamente posto in subordine. Eppure la chiave di comprensione del problema sta proprio tra le maglie delle norme, nei dettagli (eh già, là dove anche il diavolo mostra le corna). Il controverso articolo 18 dello statuto dei lavoratori, per esempio, prevede il reintegro nel posto di lavoro qualora un tribunale abbia accertato che il dipendente sia stato licenziato senza una giusta causa. Questa norma, quindi, non impedisce affatto di licenziare, ma di sicuro impedisce il licenziamento di un dipendente che fa attività sindacale. E’ tutto qua, ma è quello che non viene mai detto. E’ ciò che sta dietro le quinte. Il sindacato dice che senza l’articolo 18 si potranno licenziare le donne perché donne, gli omosessuali perché omosessuali e così via. I riformatori e gli imprenditori sostengono invece che così si potranno licenziare i fannulloni. Nessuna delle due argomentazioni è esatta: senza articolo 18 si potranno licenziare i rappresentanti sindacali dei lavoratori. Punto.

A chi fa filosofia (non c’è niente di più pratico della filosofia) interessa capire soprattutto ciò che accade dietro le quinte, anche a rischio di perdersi lo spettacolo sul palcoscenico. Ne vale la pena? Vale la pena fare la fila e pagare il biglietto per osservare la polvere negli angoli del teatro più delle luci stroboscopiche del palcoscenico? Sì, quasi sempre, ed in particolar modo quando lo show lo conosciamo a memoria. E infatti capita che anche a teatro ci si annoi e che volentieri si distolga lo sguardo dai costumi degli attori per sbirciare dietro la tenda. Fuor di metafora, nel caso dei diritti dei lavoratori, sul palco ci va la politica, gli attori cambiano nome nel corso delle legislature, ma il copione suggerisce sempre di ridimensionare i diritti per essere più competitivi sui mercati globali, agevolare assunzioni, pagare i debiti, far girare finalmente i soldi. I cattivi, nella rappresentazione cui stiamo assistendo, sono impersonati da sindacalisti anziani e rancorosi, la cui natura maligna mal si cela entro un sottobosco di privilegi. Dietro le quinte, alla cabina di regia, vediamo però che non ci sono i mercati, cioè i protagonisti dello scambio, ma solo una parte dell’economia, quella parte che al mercato rionale per esempio sta dietro al banco e che ci vende il prosciutto. E’ quella che bleffa mettendo il ditino sulla bilancia e magari sorniona ti dice: che faccio, lascio? Quella parte lì, quella che vuole vendere a prezzo competitivo per guadagnare più del banco vicino. E’ la stessa parte del mercato che qualche anno fa, alla faccia di Rocco Siffredi, ci raccontava che “piccolo è bello”, che il Nordest ha la giusta formula dell’economia (lavorare a testa bassa tutto il giorno) e che bisogna essere più flessibili per essere competitivi, mettendo in scena la legge Biagi col suo confuso quanto inutile coro di contratti a termine. E’ la stessa parte del mercato che a dispetto della Silicon Valley e della sua capitale Cupertino, non assumeva (e non assume!) laureati, perché chi studia nasconde una natura superba e malvagia. Allora come ora è infatti sempre molto meglio prendere in azienda il ragioniere del paese, l’amico della zia, quello che serve a messa come chierichetto, l’analfabeta del villaggio, ecc. ecc.

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Chi non si limita a studiare filosofia solo per l’esame, ma la indossa come abito quotidiano, non può tifare per gli attori buoni o per quelli cattivi (che tra l’altro spesso si scambiano i ruoli), ma farebbe bene a svelare a tutti ciò che ben si vede dietro le quinte: un regista Pantalone della commedia dell’arte, con tanto di culone e maschera dal naso fallico. Sì, proprio lui, quello che indossa un vestito di ombre nascondendo i suoi veri obiettivi. Dopo l’operazione di scendere nella caverna, Platone ci insegna che occorre pur risalire e raccontare quel che si è visto, anche se la luce brucia gli occhi ed anche se faceva comodo pensare che esistessero davvero i buoni e i cattivi della commedia. L’abolizione dell’art. 18 toglie dignità al lavoratore e al concetto stesso di lavoro, ma pare anche realistico che ciò consentirebbe alle aziende di abbassare gli stipendi e quindi (forse) di assumere di più. Oppure, e meglio ancora, l’abrogazione darebbe alla Banca Centrale la scusa necessaria per prestarci dei soldi e rimandare di un pochino la caduta. Sono risposte diverse, provvisorie e tutte importanti, ma ai filosofi tocca formulare sempre nuove domande.

Per esempio: è vero che senza articolo 18, più che licenziare, si elimineranno di fatto i sindacati e dunque si ridurranno gli stipendi? Così facendo si ostacola la produzione cinese, ma domani la contrazione del mercato interno ci farà concorrere alla pari anche con il mercato vietnamita? E dopo domani, nuovi provvedimenti di tal fatta permetteranno di reggere l’urto dei competitors pakistani, indiani, africani? I paesi col più alto tenore di vita al mondo (Olanda, Norvegia, Danimarca, Svezia ecc.) hanno mai fatto operazioni di questo tipo? Qualora non avessero fatto operazioni di questo tipo, come mai riescono ancora a vivere in un benessere diffuso? L’istituto della schiavitù in Europa consentirebbe ai nostri produttori di vincere finalmente la sfida della globalizzazione? E’ possibile per un popolo di sessanta milioni di individui produrre beni e servizi a minor costo di nazioni che superano il miliardo di abitanti? Si può realizzare benessere eliminando politica e sindacato, ma tenendoci imprenditori e dirigenti laureati coi corsi di youtube, quando va bene, e alla Bocconi quando va male? Gli imprenditori dei Paesi emergenti e dal Pil elevato, come Cina e Brasile, agiscono in regime di libero mercato o sottostanno a rigidissime norme di import/export imposte dai loro rispettivi Stati?

Come la storia della filosofia suggerisce, le domande chiariscono molto più delle risposte. Anche quando sono retoriche.

 Massimo Bordin

Massimo Bordin è docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Scientifico di Conegliano Veneto (TV) dal 2007. Dopo essersi laureato in filosofia con Antonio Santucci alla statale di Bologna nel 1996 ha maturato una significativa esperienza come segretario della Funzione Pubblica Cgil a Belluno. Prima dell’abilitazione all’insegnamento ha esercitato il lavoro di pubblicista presso alcuni quotidiani e periodici locali. Attualmente accompagna all’attività di insegnante le ricerche di macroeconomia, analisi finanziaria e studio delle strategie.

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Ah, che crisi!

E se la famosa ed immanente “crisi” che stiamo attraversando da un quinquennio abbondante, fosse destinata ad accompagnarci più a lungo di quanto ci aspettassimo?

Parliamoci chiaro, dal 2008 quando c’è stata l’esplosione americana dei mutui sub-prime fino alla recessione tecnica annunciata dai media italiani qualche settimana addietro, ne è passata di acqua sotto i ponti.

I capelli si sono ingrigiti, qualche ruga ha fatto in tempo a comparire, denti da latte sono caduti per far posto ad aguzze puntine, maturità e lauree sono state conseguite e le vite hanno continuato nella loro naturale inerzia.

La crisi, inquietante, spettrale ed al tempo stesso assolutamente fisica e presente, è rimasta ed ha iniziato ad assumere le sembianze moleste ed abitudinarie di quell’amico dell’amico, quella persona fastidiosa, opprimente e della cui compagnia faresti volentieri a meno – perché ammorba l’atmosfera – ma non puoi, e te la devi sopportare a denti stretti e con un tirato sorriso di circostanza.

Dai vecchi giornali cartacei, passando per tv e web, il concetto di crisi ed i suoi innumerevoli corollari si sono fatti strada rapidamente, cementificandosi all’interno delle nostre coscienze in modo tanto evidente quanto subdolo.

Facciamo i conti ogni giorno con la crisi e con i suoi effetti nefasti: disoccupazione, scarsità di risorse, diminuzione delle nostre aspettative personali e del tenore di vita sperato, restrizioni di portafoglio e compressione della umana volizione.

La crisi non è solo un concetto macroeconomico che ormai ha attecchito saldamente nelle nostre coscienze, è diventata uno specchio di fronte al quale sfiliamo in continuazione, come quello situato sull’uscio di casa, che ci vede entrare ed uscire di volta in volta, osservando le nostre mosse.

Mi sento di porre una certa enfasi su questo aspetto “involontario” perché credo che sia il frutto di un meccanismo altamente condizionante per le persone, per noi tutti, e che i suoi effetti non siano necessariamente positivi.

Se da un lato, infatti, possiamo affermare che la mente umana ha sempre trovato terreno fertile nei limiti di fronte ai quali si è imbattuta ed ha provato piacere nel superare ogni ostacolo, è altrettanto vero che una condizione di costante coercizione e di depressione comporta deviazioni non trascurabili rispetto al normale atteggiamento che un soggetto assumerebbe di fronte a certi stimoli.

Ecco dunque che entrano nell’eloquio quotidiano espressioni come “risparmio, perchè c’è crisi”, “aspetto che arrivino momenti migliori per investire”, “non vale la pena rischiare, con questa situazione”, “sono fortunato ad avere quello che ho, guardati attorno”.

Espressioni quindi ordinarie, apparentemente, semplici intercalare inseriti all’interno di conversazioni e ragionamenti, oppure veri e propri tasselli che si sono inseriti saldamente all’interno del nostro processo cognitivo?

E se questa crisi non fosse destinata a risolversi come ciclicamente accade?

Se fosse davvero l’emblema, la manifestazione più visibile ad acuta di un punto di non ritorno che implica necessariamente una revisione totale e globale del modo di intendere la società moderna?

Se dovessimo davvero imparare a convivere, in maniera per lo più pacifica direi – più che rassegnata – con una situazione costante di incertezza e di scarsità di opportunità e di sereno benessere?

Ho posto molti quesiti, molte domande alle quali è difficile dare risposte certe, ma che possono sicuramente aprire la strada alle nostre personali riflessioni su un tema che è diventato parte integrante della quotidianità degli adulti, ma anche dei giovani, che non hanno certo il prosciutto disegnato sugli occhi.

“Vivere ai tempi della crisi” potrebbe essere il titolo di una serie trasmessa sulla rete ammiraglia, e che riscuoterebbe un buon successo, tipo il “Medico in Famiglia”.

Quella che vi sto esponendo è semplicemente una presa di coscienza su quella che potrebbe essere l’inutilità di cercare un meccanismo perfetto per uscire dalla crisi, una scappatoia preferenziale per tornare al punto di partenza, prima che lo status quo volgesse al peggio.

Forse è proprio questo atteggiamento a mantenerci saldamente incollati ad un foglio bianco impiastricciato di colla vinilica, e a non consentirci di fare tabula rasa, di tagliare i ponti con ciò che è stato, iniziando a progettare ed immaginare un futuro diverso.

E proprio questa potrebbe essere la vera chiave di volta.

La parola “crisi” sta ad indicare una situazione di profonda instabilità, una rottura degli equilibri che genera scompensi.

Forse l’unica maniera per affrontarla e risolverla davvero sta proprio nel nostro atteggiamento mentale, e nel comprendere che se siamo arrivati a questo punto di cedimento, lo dobbiamo probabilmente alle scelte compiute dal genere umano fino ad ora, alle fermate che ha percorso il treno del progresso.

Sarò semplice e forse anche un po’ banale, ma a volte gli esempi sono più utili di tante parole.

Quando una coppia che è stata solida per molti e molti anni entra in crisi, spesso l’unico modo che si ha per riprendere in mano le redini della propria vita consiste nel fare una delle cose più complicate ed allo stesso tempo illuminanti: accantonare consapevolmente e volontariamente il passato ed i suoi errori, puntando con decisione verso il futuro, consapevoli dei valori che si sono costruiti e dei passi falsi da non ripetere.

Forse quando inizieremo a scrollarci di dosso la dipendenza dai vecchi e consuetudinari agi, per iniziare a visualizzare un mondo diverso, per necessità e per scelta, allora potremo davvero cominciare a superare – a modo nostro – la famosa ed onnipresente Signora Crisi.

 Massimiliano Santolin

Classe 1987, Massimiliano Santolin ultima gli studi al Liceo Classico A. Canova nel 2006.
Laureato in Giurisprudenza, coltiva da sempre l’amore per la scrittura, l’arte e la cultura, ed abbina una spiccata curiosità nei confronti di quanto accade nel mondo ad un anima molto sensibile.
Scrive con passione articoli che riflettono sui “perché” e i “per come” dei fenomeni che toccano la quotidianità.
Convinto sostenitore del fondamentale ruolo educativo e formativo della storia e della filosofia, sostiene con gioia l’ambizioso progetto avviato da La chiave di Sophia.

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Economia come scienza? Bluff o verità?

Una scienza che voglia dirsi tale riflette criticamente sui suoi fondamenti, in tal senso ogni scienza che voglia porsi come tale presenta sempre una metascienza finalizzata a definirne i criteri di validità. I presupposti su cui si fonda l’economia moderna vengono mutuati acriticamente dalla Filosofia Morale di Adam Smith, la presenza di presupposti non esplicitati chiaramente mettono in crisi l’intero impianto teorico, siamo infatti di fronte a una scienza non dimostrata e non falsificata. Nell’economia si postula e presuppone un campo omogeneo dei fenomeni senza un vaglio critico.

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Contro la miseria -Giovanni Perazzoli

“Contro la miseria” è un saggio di Giovanni Perazzoli, che ci fa capire come il welfare europeo riduce l’ingiustizia della lotteria della nascita (c’è chi nasce figlio di ricchi, c’è chi nasce figlio di poveri, c’è chi nasce nel paese sbagliato). Il libro è stato pubblicato da Laterza (euro 12, 150 p.).

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Adam Smith è ancora tra noi

L’Economia è diventata un tema centrale del dibattito pubblico e della nostra vita quotidiana, paroloni come Spread, BUND, BTP sono entrate prepotentemente nelle nostre vite e non c’è giorno che non guardiamo con una crescente preoccupazione a come stiano andando le cose in questo settore.

Ma come siamo arrivati a tutto questo? Read more

Intervista a Maurizio Pallante – Movimento per la Decrescita Felice – II Parte

II parte dell’intervista

Maurizio Pallante, laureato in lettere, principalmente attivo come saggista ed esperto di risparmio energetico, è presidente e fondatore del Movimento per la Decrescita Felice, un’Associazione nata sui temi della demitizzazione dello sviluppo fine a se stesso.

È stato tra i fondatori, con Mario Palazzetti e Tullio Regge del Comitato per l’uso razionale dell’energia (CURE) nel 1988, ha svolto l’attività di assessore all’Ecologia e all’Energia del comune di Rivoli. Dal 1988 svolge attività di ricerca e divulgazione scientifica sui rapporti tra ecologia, tecnologia ed economia, con particolare riferimento alle tecnologie ambientali.

È autore di molti saggi pubblicati da Bollati Boringhieri, manifesto libri, Editori Riuniti. Scrive anche per diverse testate, tra cui Carta, il supplemento settimanale della Stampa, Tuttoscienze, Il manifesto, Il Ponte, Rinascita.
Collabora con Caterpillar per la festa della Decrescita felice, di cui è il principale ispiratore. È membro del comitato scientifico della campagna sul risparmio energetico “M’illumino di meno” e della testata online di informazione ecologica “Terranauta“.

Andiamo un po’ sul concreto: un esempio di come il pensiero della decrescita potrebbe realizzarsi nelle politiche dei paesi?

Eccovi un esempio concreto molto semplice, al posto di parlare di sciocchezze, poniamo che venga posta al centro della politica economica industriale la riduzione degli sprechi nelle energie nelle case, si creerebbe un sacco di lavoro. Un lavoro di qualità e utile perché diminuirebbero gli sprechi di energia e le emissioni nocive di anidride carbonica, ma se una casa diminuisce i consumi diminuisce anche i suoi costi di gestione –qui viene il bello- perché un conto è se devo usare 20 metri cubi di combustibile al metro quadro per riscaldamento, un conto è se ne uso 5. In un certo numero di anni i risparmi sulla gestione ammortizzano il costo di investimento. Ricapitoliamo: 1. Abbiamo creato lavoro di qualità 2. Abbiamo ridotto l’impatto ambientale 3. Abbiamo creato a medio-lungo termine un vantaggio competitivo per il proprietario dell’abitazione.

Noi oggi spendiamo dei soldi per comprare delle fonti fossili non rinnovabili dall’estero che sprechiamo al 70%, una parte di quei soldi li possiamo spendere invece per pagare i salari alle persone che lavorano perché non si sprechino queste energie. Ottimizziamo un bene, anzi ottimizziamo tutti i beni di cui disponiamo: l’energia, la forza lavoro e il nostro capitale di investimento che ci frutterà a lungo termine.

Se dovessi fare un esempio più astratto invece direi che tra la recessione in cui versiamo ora e la decrescita c’è lo stesso divario che intercorre tra una persona che non mangia perché non ha da mangiare e una persona che non mangia perché ha deciso di fare una dieta di cui godrà i benefici in termini di benessere fisico. Sembrano concetti astratti, ma vi ho appena mostrato come si possano tradurre in buone pratiche, infatti entrambe le persone non mangiano, ma uno non fa una scelta e a lungo termine starà peggio, l’altro fa una scelta selettiva e progettuale e in conseguenza della sua scelta starà meglio.

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Quindi la decrescita felice può essere una via d’uscita dalla crisi attuale?

E’ l’unica vera alternativa alla crisi attuale. Noi diciamo che la crisi attuale è causata dalla crescita, se fosse vero quello che diciamo non può essere la crescita la soluzione della crisi. Nessun problema si risolve rafforzando le cause.

Mi spiego meglio, in una economia finalizzata alla crescita tutte le aziende devono farsi la concorrenza investendo in tecnologie sempre più perfezionate che aumentano la produttività. Si punta a macchinari sempre più perfezionati che nell’unità di tempo (minuti, ore, giorni) consentono di produrre di più con meno persone, ma se consentono di produrre di più con meno persone vuol dire che aumentano l’offerta di merci, ma nel contempo diminuiscono la domanda di merci perché creando maggior disoccupazione riducono anche il reddito spendibile in quelle stesse merci. Avete presente un cane che si morde la coda? E’ un circolo vizioso.

Per superare il divario tra l’incremento dell’offerta e la diminuzione della domanda che è insito nel meccanismo della crescita si è fatto ricorso ai debiti per tenere alta la domanda, quindi debiti per compensare il deficit della domanda, e qui abbiamo il secondo step di questo circolo vizioso. I debiti sono l’altra faccia del meccanismo della crescita, senza debiti non ci sarebbe crescita. L’indebitamento che noi oggi abbiamo in Italia e nei paesi industriali nasce da questa contraddizione: immaginare una crescita all’infinito che non si sostiene economicamente senza ricorrere all’indebitamento.

L’indebitamento comincia nel 1961 con il boom economico quando le industrie sfornavano sul mercato quantità sempre maggiori di prodotti tecnologicamente allora avanzati e inducevano le persone a comprare questi prodotti firmando delle cambiali, dei debiti.

Nella provincia in cui abito la Cassa di Risparmio faceva la sua pubblicità al credito al consumo alle famiglie dicendo “l’erba voglio”, mia madre mi insegnava però che questa non cresce nemmeno nel giardino del re.

Quale è il messaggio? Non hai soldi? Non importa te li diamo noi basta che compri!

Andando avanti con questo processo siamo giunti al punto che anche i debiti pubblici oltre a quelli privati ci portano a indebitarci per pagare i debiti che abbiamo già contratto in passato, ma se si entra in questa spirale diventa difficile uscire. La politica economica tradizionale non è in grado di farci uscire da questo circolo vizioso perché in fase di recessione, in fase di crisi, le ricette economiche sono quelle di rilanciare la domanda per far ripartire i consumi, ma visto che la domanda è in gran parte costituita da debito per rilanciare la domanda si devono rilanciare i debiti. Se invece si fanno delle politiche per ridurre i debiti, le politiche di austerità, riducendo i debiti si riduce la domanda e quindi si aggrava la crisi.

Oggi le politiche economiche e industriali non ci fanno uscire dalla crisi, non sono in grado di salvarci.

Sul Fatto Quotidiano il responsabile dell’ambito economico del giornale, estremamente avverso alle prospettive della decrescita, un laureato alla Bocconi, dopo averci criticato e attaccato aspramente ha fatto una intervista ad un economista inglese Stephen King, omonimo del famoso romanziere, il quale ha detto “Non illudetevi la crescita non ci sarà più”.

Ho comprato il libro in cui King sostiene questa prospettiva ed è un economista che solitamente ripete tutti i luoghi comuni più scontati delle politiche della crescita, non è un economista illuminato o un visionario, ma solitamente un ortodosso dell’Economia della crescita. E’ un economista perfettamente inquadrato nella logica della crescita il quale ha detto chiaro e tondo che la crescita non ci sarà più!

La situazione ha assunto una portata difficile da risolvere e non a caso dal 2007-2008 l’Occidente e gli economisti stanno provando a risolvere la situazione senza alcun risultato.

Noi una soluzione l’abbiamo: l’unica maniera per uscire dalla crisi è la decrescita.

Perché? Se al centro della politica economica-industriale venisse posto il discorso della riduzione degli sprechi si libererebbero delle risorse, dei soldi e con essi si potrebbero fare degli investimenti. I soldi che si liberano per fare investimenti e rilanciare l’economia non sono debiti! Sono riduzione delle spese per l’acquisto di materie prime perché in fondo il debito che noi abbiamo è un debito nei confronti della natura. Abbiamo fatto dei debiti per tenere alta la domanda e i consumi, vuol dire che abbiamo spinto i consumi oltre il limite della natura. Quindi noi diciamo che dobbiamo ridurre il debito nei confronti della natura.

Se si riduce il debito nei confronti della natura si liberano dei soldi con i quali possiamo rilanciare l’economia uscendo dal circolo vizioso dell’indebitamento.

Se le nostre case consumano di meno, ci sono meno rifiuti non riciclabili o recuperabili e quanto altro noi stiamo facendo, una decrescita selettiva del Prodotto Interno Lordo e stiamo creando una occupazione utile nelle attività che ci consentono di ridurre il debito nei confronti della natura. Sostituiamo un circolo vizioso con un circolo virtuoso.

Il discorso teorico fila, ma in concreto cosa si propone di realizzare la decrescita felice? Con che procedimenti e meccanismi si declina fattivamente?

Noi lavoriamo in 3 direzioni, le paragoniamo alle tre zampe di uno sgabello, se ne manca una il nostro sgabello non sta in piedi. Hanno tutte e tre la stessa importanza.

LA PRIMA GAMBA DELLO SGABELLO: lo sviluppo di tecnologie più avanzate di quelle in corso che non sono più finalizzate all’aumento della produttività, ma sono finalizzate alla riduzione degli sprechi. Passiamo dalla tecnologia finalizzata alla crescita alla tecnologia finalizzata all’efficienza e all’efficacia.

Fa sorridere quando veniamo tacciati di voler tornare all’età della pietra perché per migliorare l’efficienza delle nostre attività antropiche è evidente che occorreranno tecnologie più evolute, cambia solo il fine dell’acquisizione di nuova tecnologia e dell’innovazione.

Nuove tecnologie non finalizzate all’aumento della produttività e quindi alla riduzione del lavoro umano con conseguente aumento dell’offerta e di diminuzione della domanda, ma alla riduzione dello spreco di risorse, cioè l’aumento dell’efficienza con cui si utilizzano le risorse.

Lavoriamo con industriali a cui spieghiamo che oggi se vogliono rilanciare la loro produttività devono mettersi nell’ottica di ridurre gli sprechi. All’azienda immobiliare diciamo “Pensi davvero di poter ancora andare avanti costruendo case che non compra più nessuno? Tu potrai guadagnare soltanto ristrutturando al meglio le case esistenti facendo in modo che consumino di meno così da creare un vantaggio concreto e tangibile nel medio-lungo periodo anche per il cliente, che potrà essere o meno sensibile alle tematiche ambientali, ma in questo caso verrà colpito da un argomento oggettivo.”

Il 16 giugno faremo alla Camera dei Deputati un convegno in cui spiegheremo agli industriali queste prospettive per aumentare la loro competitività, ai sindacalisti e ai politici. Porteremo l’esempio concreto di diversi industriali che stanno lavorando in questa direzione superando la crisi e che riescono a lavorare perché recuperano il denaro per gli investimenti dai risparmi che ottengono.

Noi non siamo favorevoli a priori alla creazione di nuova energia rinnovabile se questa serve a sostenere altra crescita perché prima bisogna rendere efficiente il sistema esistente riducendo gli sprechi. Le fonti rinnovabili al posto delle fonti fossili sono un secondo passaggio. Se si spreca il 70% dell’energia il nostro sistema energetico assomiglia a un secchio bucato che continuo a provare a riempire d’acqua. Se sono intelligente per riempire il secchio non cambio la fonte con cui riempirlo nonostante il buco, ma è tappare la falla, quindi ridurre gli sprechi facendo una decrescita selettiva.

E solo se riduco gli sprechi le fonti rinnovabili riescono a compensare il fabbisogno residuo.

SECONDA GAMBA DELLO SGABELLO: modificare gli stili di vita. Consiste in tre cose:

  1. Riscoprire la virtù della sobrietà: una persona sobria non consuma troppo, fa durare le cose, è una persona che non tiene alta la domanda. Il sistema economico finalizzato alla crescita dovendo sostenere una domanda che crescesse all’infinito ha dovuto far percepire la sobrietà e la morigerazione come qualcosa di negativo favorendo invece un modello consumistico. La sobrietà è stata trasformata abilmente nel vizio della taccagneria dandole una accezione negativa. Le persone devono spendere, devono consumare, devono sostenere il sistema che esige una offerta in continua crescita. Riscoprire il valore della sobrietà significa ridurre il valore del nuovo.
  2. Scoperta dell’autoproduzione, chi autoproduce non deve comprare tutto. Richard Sennet ha scritto molte pubblicazioni, insegna sia negli Stati Uniti che alla London School of Economics, un allievo di Anna Arendt, il quale nel libro “L’uomo artigiano” scrive che la capacità che distingue l’uomo da tutti gli altri esseri viventi è la capacità di fare delle cose con le mani sotto la guida dell’intelligenza progettuale, nessuno degli altri animali fa queste cose. Quando gli uomini e le donne fanno delle cose con le mani si attiva un flusso di informazioni che va dal cervello alle mani: la conoscenza degli strumenti, dei materiali, delle tecniche di fabbricazione. Mentre le mani mandano una serie di informazioni al cervello si realizza quindi un ciclo cognitivo che parte dal cervello alle mani e segue dalle mani al cervello, queste infatti essendo munite di tatto e di apprensione mandano al cervello delle informazioni molto più precise di quelle che vengono inviate dagli occhi. Mettere le persone nelle condizioni di non saper fare niente perché hanno bisogno di comprare tutto significa privarle di una componente fondamentale che secondo noi va invece riscoperta. Il nostro movimento ha l’UNISF, l’Università Del Saper Fare, in cui le persone reimparano a fare tutte quelle cose che erano diffuse nelle nostre case fino a un paio di generazioni fa. La maggior parte delle persone che frequenta l’UNISF è la fascia degli under 30, un dato significativo, noi facciamo cose con le mani dal periodo Neolitico, circa 12000 anni fa, mentre non sanno fare più niente da circa dopo la Seconda Guerra Mondiale, 70 anni fa, 70 anni nei confronti di 12000 sono nulla, i giovani avranno perso le capacità, ma non ne hanno perso la memoria e quindi sentono questa cosa come una privazione delle loro capacità. Le cose fatte con le proprie mani riempiono i giovani di una soddisfazione particolare che altre cose non fanno. Essere parzialmente autonomi dal mercato significa essere più liberi e chi più delle giovani generazioni coltiva questo desiderio? E’ più ricca una persona con tanti soldi e che non sa fare niente, ad esempio una famiglia che si riscalda con il riscaldamento a gas, o una famiglia più povera che però coltiva un pezzo di bosco per alimentare delle stufe? Se domani i Russi o in Libia chiudono i rubinetti del gas chi delle due famiglie è più povero? Quello che ha più soldi, ma non trova sul mercato le merci di cui ha bisogno o chi a prescindere può accedere alle risorse funzionali al proprio sostentamento? Nella cultura e nella saggezza dei popoli mediterranei questa consapevolezza c’è dal tempo del mito di Re Mida, i soldi non si mangiano, i soldi non ci vestono, i soldi non ci riparano dalle intemperie. Con i soldi si possono comprare quelle merci che non si possono autoprodurre, ma la ricchezza non si misura col denaro. Se leggete quello che dice la Banca Mondiale o quello che dicono le associazioni non governative una persona è povera quando ha un reddito giornaliero procapite inferiore a 2 dollari, questa distinzione è abbastanza ingenua, se uno ha due dollari e abita in centro a Treviso senza legami intersoggettivi e necessita di tutti i beni è povero, ma se uno vive in campagna ed è in una rete di solidarietà con le persone non è povero, perché i soldi gli bastano per acquistare quanto gli serve e per procacciarsi quelle poche cose che non si possono scambiare sotto forma di dono, qui il nucleo fondante della seconda gamba: riscoprire le reti sociali e i rapporti fondati sul dono, sulla reciprocità, sulla solidarietà. Ridurre la mercificazione dei rapporti umani.
  3. LA TERZA GAMBA: la politica. Il nostro Movimento ha scritto chiaramente che non sostiene un partito politico e non vuole essere a sua volta un partito fra partiti, però facciamo politica suggerendo delle misure da adottare a livello amministrativo e governativo. Ho citato prima un meeting al quale parteciperemo in cui illustreremo delle politiche industriali a tutti i partiti, cercando di sensibilizzarli. Noi non privilegiamo un rapporto con un partito, siamo aperti a tutti coloro che si interessano concretamente alla realizzazione delle nostre proposte.

Caliamo nel concreto queste tre gambe? Prendiamo il caso della riduzione degli sprechi energetici in ambito domestico.

PRIMA GAMBA: Stili di vita.

Servono delle famiglie sensibili alla necessità di ridurre gli sprechi energetici delle loro abitazioni.

SECONDA GAMBA: Reti sociali.

Le famiglie possono ridurre i loro sprechi se ci sono delle aziende che vendono dei prodotti che permettano loro di ridurre gli sprechi.

TERZA GAMBA: La politica

Serve una amministrazione comunale che nel regolamento edilizio vincola la licenza di abitabilità a immobili che abbiano una certa scala di consumi energetici.

STILI DI VITAàEVOLUZIONE TECNOLOGICA/PRODOTTI AZIENDALIàPOLITICA COERENTE=DECRESCITA

Quindi la vostra azione parte dai nuclei familiari per raggiungere le aziende e infine educare o giocare di sponda sull’azione amministrativa. Per ora come è stata la risposta da parte dei soggetti a cui vi rivolgete?

Assistiamo a cambiamenti molto significativi. Il più lento di tutti è il sistema politico, ma gli industriali sono assolutamente allineati. Un imprenditore agricolo ad esempio vuole realizzare un insediamento umano a impronta ecologica e quindi realizzare case che non consumino energia, in cui le famiglie possano avere l’autoproduzione del cibo e tutta una serie di servizi che vanno nella direzione che vi sto raccontando. L’insediamento sarà previsto per circa 60 famiglie, penso avrà una domanda molto superiore, 200, 400 famiglie! Intendo dire che ci sono molte persone sensibili a questa tematica che non vedrebbero l’ora di cogliere questa opportunità. L’unico problema in questo esempio è la politica che ancora non ha fornito all’imprenditore la licenza di costruire questo insediamento. Le persone e le famiglie, l’impresa e le amministrazioni comunali sono i tre aspetti fondamentali e salvo qualche problema questa tendenza si sta diffondendo in modo crescente, si inizia a capire che soltanto dalla sinergia di tutti e tre questi fattori è possibile ottenere dei risultati. Noi non privilegiamo nessuno dei tre fattori, sono coessenziali nella nostra visione.

La Chiave di Sophia

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Giochi a somma variabile

Cosa ha a che fare l’economia con la filosofia?

In realtà le due materie sono inevitabilmente intrecciate, basta guardare le pubblicità degli ultimi giorni per leggere “Il tuo broker di fiducia”. Sembra che qui entri appunto in gioco una componente fondamentale dell’Economia: la Fiducia.

Spesso crediamo che il linguaggio delle scienze economiche sia la matematica, rigidi parametri quantitativi, tabelle e diagrammi, mentre essa si fonda prevalemente su una variabile imponderabile quale l’umano, i suoi sentimenti e quindi alla sua stessa base soggiaciono presupposti antropoligici: che cos’è l’uomo? Che cosa faranno le persone? Read more