Unione Europea: ognun per sé e Dio per tutti

Non è mia intenzione ammorbare quanti avranno voglia di spendere parte del loro tempo per leggere questa mia riflessione, con discorsi volti unicamente a distruggere – così come la moda attuale vuole – l’idea comunitaria che regge il sistema politico ed economico europeo nel quale viviamo. Esistono critiche costruttive lì da qualche parte, sovrastate dal mare di sfoghi collettivi anti-sistema che infiammano moltissime persone, urla incontrollate, j’accuse improbabili lanciati da politici altrettanto improbabili; esistono e sono nascoste molto bene.
Tuttavia esistono anche dubbi, forse sani, forse no, legati al concetto stesso di Unione Europea che d’altra parte, visti i recenti comportamenti tenuti dagli Stati nazionali in seno all’organizzazione, inevitabilmente sorgono anche nelle più positive intenzioni.

Cos’è l’Unione Europea?
La risposta è una sola: dipende.
Dipende se intendiamo l’Unione Europea così come ci è stata raccontata, come si presenta, oppure se vogliamo farci del male e riscoprirne definitivamente la natura.
Quando e perché è nata l’Unione Europea?
Un continente uscito con le ossa rotte dal secondo conflitto mondiale aveva capito che i moti di supremazia di un singolo Paese potevano creare danni ingenti a cose e persone, quindi la possibilità per risollevarsi e prosperare era racchiusa nella collaborazione tra Stati. Dallo scontro si era passati quindi al dialogo in modo tale da affrontare meglio un futuro che – con l’inizio del dualismo USA-URSS – non si presentava certamente roseo e felice.
Un po’ come si vede nei documentari di avventura, o nei film in cui i protagonisti si trovano in una situazione di precarietà e ognuno mette in comune i propri viveri, gli Stati europei nel 1951 misero in condivisione reciproca le materie prime più importanti: il carbone e l’acciaio, entrambe utili per il settore energetico ed infrastrutturale, dando vita alla CECA.
Il primo passo verso l’Unione Europea fu proprio questo: il libero scambio di merci.

Fatta questa premessa risulta abbastanza chiaro che le radici dell’Unione Europea sono economiche, che poi l’apertura dei confini abbia interessato altri settori è fuor di dubbio, ma è diretta conseguenza di una visione decisamente materialista e del resto non poteva essere altrimenti.
Un’altra domanda che sorge spontanea è la seguente: l’UE ha mai smesso di pensare ed agire in termini economici e materialisti?
Nel già citato dualismo USA-URSS in cui anche l’Europa faceva parte dei territori contesi, assieme ad Africa, America latina e Asia, fu necessario un ulteriore passo in avanti, questa volta non nella sfera materialista ma in quella psicologica. Per rafforzare il concetto di Europa dovevano essere creati gli europei, i cittadini che avrebbero dovuto emergere dalla condizione di subalternità alle super-potenze.
Senza voler favoleggiare segreti machiavellici, se volete creare un fronte comune “umano” contro qualcuno o qualcosa che appare invincibile, dovete prima di tutto coinvolgere altre persone e farle sentire parte di un grande progetto; del resto il motto «l’unione fa la forza» è sicuramente più motivante di un «se non mettiamo assieme le economie siamo spacciati».
L’apparato extra economico dell’Unione Europea, che comprende il mito di fondazione, la simbologia, le festività laiche ecc, è servito da panacea, da utile racconto per far ingerire lo sciroppo amaro del cinico materialismo. Non è nemmeno una novità, nel corso della Storia fu un processo già sperimentato in piccolo, specialmente nel Settecento quando si formarono gli Stati Nazionali.

Appurata la base materialista dell’UE, appurata la bella immagine che di sé ha costruito negli ultimi sessant’anni viene da chiedersi cosa non sta funzionando, quale ingranaggio si è rotto o allentato.
È sotto gli occhi di tutti infatti il comportamento tenuto dai singoli Stati nel delicato tema dell’immigrazione, comportamento che ha portato alla luce numerosi rancori, anche estranei a questo problema principale e vecchi antagonismi latenti da chissà quanti anni.

Il fenomeno migratorio attuale ci ha colti di sorpresa, poche persone avevano intuito cosa avrebbe raccolto l’Europa dopo secoli di sfruttamenti e tentativi, spesso fruttuosi, di controllare indirettamente le politiche interne dei Paesi nati durante la decolonizzazione (anni ’60 e ’70 del Novecento, quindi l’altro ieri); ciò ha messo a nudo la vera natura che è propria dell’Uomo: l’egoismo.
Gli esseri umani sono capaci di aggregarsi, di modificare l’ambiente per adattarlo meglio alle proprie esigenze, sono in grado di strutturarsi in gerarchie per controllare un determinato territorio, sono capaci di spingere i confini invisibili dell’ignoto, ma alla fine dei giochi, quando si tratta di reagire improvvisamente ad un elemento considerato pericoloso o dannoso, emerge puntualmente l’egoismo che può essere individuale, oppure – come nel caso in questione – nazional collettivo.

Diversi Stati facenti parte dell’UE nei mesi scorsi hanno letteralmente chiuso le loro porte lasciando il gravoso compito di gestire i flussi migratori ad altri Stati, quelli che la geografia e il fatalismo un po’ indotto hanno voluto porre proprio come prima tappa degli sbarchi.
Davanti a tutto questo, come potrebbe un cittadino qualunque, anche se disinteressato dalla polemica a priori contro le organizzazioni sovranazionali, non considerare il mito, lo storytelling legato all’Unione Europea, inutile e – se insistentemente riproposto – irritante?

Balbettare una retorica che sembra dilatarsi in modo inversamente proporzionale alla sua efficacia, quanto può contenere le opposte derive estremiste, quelle ultranazionaliste, che stanno ottenendo un buon successo elettorale?
Per quanto tempo, infine, potrà ancora reggere la credibilità di questa Unione Europea nata per sopperire alle difficoltà, se si lascia vincere proprio dalle nuove sfide del presente?

 

Alessandro Basso

 

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Immigrazione e disuguaglianze secondo la dialettica servo-padrone

Otto miliardari nel mondo hanno la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone. Il rapporto Oxfam ci informa di una dato impietoso, impossibile da concepire per la portata dello squilibrio. La bilancia pende drasticamente da un lato, riempiendo le tasche di un’esigua minoranza di miliardari della moneta attuale, il potere. Le disuguaglianze sociali sono la naturale conseguenza di tale disparità economica, riconsegnando dunque determinati ruoli sociali alla varie componenti. Solo attraverso ciò si delineano le figure in gioco, si determinano le persone in base al reddito, alla propria posizione da soggettività in mezzo ad altre soggettività  immerse in una logica competitiva.

La corsa al guadagno diventa ragione di vita e ragione dei popoli imponendosi come legge globale, interiorizzando la prospettiva capitalistica nell’ideale umano. L’ideale che diventa ossessione, il guadagno utile e necessario diventa desiderio e bramosia di qualcosa di più, sempre di più, guadagnare per guadagnare. Poste tali dinamiche economiche vanno considerate anche le differenti condizioni socio-culturali nel panorama mondiale. Difatti il capitale si centralizza, si accumula nei grandi centri, risucchiato dalle zone ricche di risorse da derubare e saccheggiare fin dai tempi delle prime colonie. Decentramento e creazione di disparità diventano una realtà sempre più evidente ed è la base della disparità data dalle otto persone in rapporto ai 3,6 miliardi citati ad inizio articolo.

La differenza di condizione sociale stabilisce ruoli, scrive copioni per i vari attori in scena. Servo e Padrone e non sono più delle fantasie letterarie o figure hegeliane de La fenomenologia dello spirito. Difatti la dialettica si instaura effettivamente, la condizione di sfruttamento è da identificarsi con chi è stato derubato, con chi si è ritrovato inferiore economicamente e socialmente a quelle otto persone che detengono il potere, ovvero la componente rappresentata dal Padrone. Le due figure sono assolutamente attuali anche in virtù delle condizioni lavorative che prevedono un lavoratore assoggettato ad un datore di lavoro. Proseguendo per questa linea, infatti, il rapporto dialettico tra le due figure che sono in contatto per uno scambio di servizi e benefici, si evidenzia la dipendenza che emerge da entrambe le fazioni. La dipendenza data da un servo che è pronto a compiere quel determinato lavoro poiché potrebbe trattarsi della sua unica possibilità rimasta. La dipendenza data da un padrone che, magari, non sa svolgere un lavoro e la possibilità economica lo rende assoggettato e sostenuto dal frutto del lavoro del suo sottoposto.

Disperazione e pigrizia agiata si equilibrano, trovano realtà e non solo teoresi nel fenomeno dell’immigrazione e della condizione di disoccupazione che attanaglia i vari paesi europei. La crisi economica, in molti casi, porta ad un abbassamento delle aspettative, ad un’accettazione di condizioni di sfruttamento e di inferiorizzazione e il farsi servo di migranti in fuga da un paese in guerra o privo di condizioni favorevoli e di giovani in seria difficoltà nell’approccio al mondo del lavoro. Dunque un semplice squilibrio dato da un’ambizione umana sempre crescente riesuma personaggi che pensavamo esistessero solo all’interno delle favole e dei racconti capaci di farci volare con la fantasia quali il “buono” ed il “cattivo”.

La verità ultima è che siamo ancora immersi in logiche infantili biunivoche basate sul conflitto tra il bene ed il male e forse è quello che la gente, il popolo brama di più, ne è quasi assuefatto. Il tema dell’immigrazione come tanti altri trattati nei quotidiani e nella vita pubblica e sociale riesce a soddisfare quel bisogno di conflitto che l’uomo infelice, l’uomo insoddisfatto e magari proveniente da un ambiente subculturale richiede per potersi sentire padrone della scena, della discussione e della ormai svalorizzata “cosa pubblica”.

Il capro espiatorio è servito attraverso una comodità di accusa e scelta che si copre gli occhi davanti a discorsi più complicati preferendo la soluzione semplice, la scorciatoia mentale destinata a non risolvere le questioni, bensì accentuarle e incriminarle sempre più per scaricare odio ed insoddisfazione. Tale condizione persevera e viene tutelata dalle molte piccole coscienze che credono di essere in una condizione privilegiata, da tutti quelli che credono di essere i padroni e quindi di dover recitare tale ruolo non curandosi empaticamente della situazione di chi invece risulta essere meno agiato e fortunato, come si suol dire “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Eppure in un panorama del genere chiederei a chi è, o almeno si sente, padrone se egli o ella si senta sicuro/a di quella condizione, se si senta tutelato dal momento che senza un adeguato servo si ritroverebbe incapace di auto-sussistere. Chiederei se il servo rimarrà sempre servo perché, può darsi, che esso possa essere già altro da sé e se ragioniamo nella cara logica biunivoca…

Alvise Gasparini

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Non illudiamoci di essere indispensabili

Ma cerchiamo almeno di risolvere problemi

Qualche settimana fa stavo parlando con due clienti, marito e moglie. «Di professione faccio il filosofo», spiego a loro. Ma vedo che i loro quarant’anni di matrimonio li riportano a un’epoca in cui la filosofia ancora non esisteva. Eppure avevo letto che si era diffusa già più di 2500 anni fa.

Allora continuo con una spiegazione più dettagliata su quello che faccio, e i due coniugi (proprietari di un’azienda veneta) iniziano a rasserenarsi perché inizio a parlare di efficienza, marginalità, fatturato. Dovevamo solo trovare una lingua comune.

«Quindi tu sei una sorta di lubrificante» se ne esce il marito, destando scompiglio e imbarazzo tra i presenti. E fortunatamente la moglie cerca di chiarire all’istante: «Aiuti le persone a relazionarsi tra di loro per produrre di più e lavorare meglio». Sì, indicativamente.
«Beh», continua la moglie, sperando che il marito non faccia altri riferimenti a lei poco graditi, «Qui da noi nessuno è indispensabile. Se qualcuno non lavora bene cerchiamo di rimpiazzarlo e di ripartire con qualcun altro. Abbiamo bisogno di persone che ci risolvano problemi, che li anticipino.»

Fortunatamente è nata una sincera amicizia lavorativa tra di noi, che mi ha portato a riflettere con loro su questo principio. Un modus operandi condiviso anche da altre realtà, da altre aziende. Forse è un po’ frutto dell’attuale cultura lavorativa: molto più mobile e flessibile, in cui nessuno (si dice) è indispensabile. L’azienda prima di tutto. Poi le persone. L’azienda c’era ancor prima che arrivassero la maggior parte di queste persone, e continuerà anche dopo. In un modo o nell’altro.

Il nostro ruolo sulla terra è insomma contingente, nulla di essenziale, di determinato, di indispensabile agli altri. Ma senza spingerci all’interno dell’esistenzialismo, rimaniamo in azienda. Il ruolo dei dipendenti, ma anche dei manager, sembra costantemente appeso a un filo (un fil di ferro forse, ma pur sempre un filo). In bilico tra l’incremento del fatturato e la sostanziale capacità di non creare problemi, ma risolverli.

A questo siamo chiamati. A risolvere problemi. A rimanere in costante stato d’allerta, con una spada di Damocle posizionata sulla testa, pronti a non dare fastidio e a ridurre il fastidio.

Non basta “essere” in azienda. Non basta essere presenti. L’Esserci di Heidegger non trova spazio. Non siamo su questa terra (ma abbiamo detto di star lontani dall’esistenzialismo, limitiamoci a parlare di azienda!), non siamo in quest’azienda soltanto per confermare la nostra presenza, per affermarci, per far emergere la nostra umanità. Né siamo qui soltanto per obbedire agli ordini. Ormai è troppo poco. Siamo chiamati a risolvere problemi. Altrimenti, avanti un altro.

Sembra una guerra, una lotta perpetua in cui non si può stare un attimo con le mani in mano in stato di quiete.

E Herbert Spencer (filosofo inglese, esponente del darwinismo sociale) ci direbbe questo:

«Pur concedendo che senza queste lotte perpetue le società civili non sarebbero sorte, ed era necessario vi concorresse una forma idonea di carattere umano, feroce e intelligente, possiamo nel tempo stesso ritenere che, formatesi tali società, sparisce la brutalità del carattere degli individui, resa necessaria dal processo produttivo, ma non più necessaria dopo che il processo è compiuto».

(Herbert Spencer, Principi di Sociologia, 1967, II, pp. 22-23)

Spencer pensa quindi che questa brutalità non sia più necessaria ora che le società sono formate, e che quindi possiamo tranquillizzarci e vivere senza il pensiero che il nostro vicino di casa ci potrebbe invadere da un momento all’altro.

Vero. Ma l’azienda è come se fosse una società non ancora formata. Perché non si forma mai, non arriva mai ad uno stato di “arrivo”, di compiutezza. È un’entità in continuo divenire, per cui c’è bisogno di persone che continuamente risolvano i problemi. E, se non ottengono il risultato, la brutalità è lì pronta ad uscire dal covo. Pronta a soppiantarci per qualcuno di più flessibile, o per una macchina robotizzata che non si rivolge nemmeno ai sindacati.

Non che quello dell’avanzamento della tecnologia sia un problema. Non rientra nemmeno in un dilemma morale. Le macchine si occupano, per ora, problemi semplici, meccanici, per l’appunto. Quelli per cui non si è indispensabili in nessun caso.

Per far contenti i due coniugi veneti dovremmo riuscire a risolvere problemi ben più complessi. Come ad esempio la relazione tra le persone, i flussi di scambio di idee, comunicazioni, conflitti. Qualcosa di impalpabile, di utile e complesso. Con la genialità e con quel valore umano che − ancora − le macchine non riescono a riprodurre.

Giacomo Dall’Ava

 

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La ribellione impossibile

Perché la mia generazione non si ribella? E – soprattutto – perché non si ribellerà mai? Non vorrei aggiungere fiumi di inchiostro multimediale a quello che altri hanno scritto su questo tema. Non vorrei farlo semplicemente perché molti di loro, se non tutti, non hanno la mia età.

Questo basterebbe a squalificare le loro analisi. Troppo distante il mondo in cui sono cresciuti per poter anche solo avvicinarsi al disastro antropologico ed economico degli ultimi 10-15 anni.

Bisogna vivere intensamente il tramonto per poter capire la notte che ci attende. Dipingere da posizioni di privilegio – spesso con toni moralistici – la crisi che ci ha investito, è un gioco letterario.

Riuscire a capire qualcosa della situazione attuale, per un giovane, è invece una missione politica chiara e definita. Per questo tutti i discorsi sullo scontro generazionale, sulla fine della moralità, sull’edonismo giovanile non hanno nessun senso se non prendono in considerazione la condizione di possibilità che ha permesso il loro avvento.

La risposta alle banalissime domande poste all’inizio, allora, diventa molto semplice. La mia generazione non si ribella e non si ribellerà mai al mondo proprio perché non è di questo mondo.

La “società dello spettacolo” – rubo l’espressione dal maestro Guy Debord – ha trionfato definitivamente. E noi tutti siamo stati traslati in una sorta di meta-mondo che con quello “materiale” non ha, apparentemente, nulla in comune.

I giovani vivono in una sorta di iperuranio telematico, elettronico, estetizzante all’ennesima potenza, che ha irrimediabilmente condizionato il loro di stare-al-mondo tradizionalmente inteso.

La società dello spettacolo di Debord presenta certo delle differenze sensibili, visto che cinquant’anni fa si poteva ben dire quale fosse il confine tra chi guarda e chi è guardato. Oggi tutto questo non è possibile, visto che quel limes è venuto meno, e la barriera tra osservato e osservatore è caduta miseramente.

Il gioco delle parti è diventato irreversibile, motivo per cui tutti possono guardare, essere-guardati e addirittura guardarsi dall’esterno.

La nostra è una società che si osserva nella sua interezza, e che ha perso qualsiasi movente per agire: quando è l’occhio (elettronico?) il perno di tutte le dinamiche sociali, è inevitabile il sorgere dell’abulia e dell’accidia che caratterizzano questa generazione.

Vedo e sono visto, quindi esisto, verrebbe da dire. E il comportamento dell’osservatore è – come da tradizione – quello di rimanere fermo ad analizzare nei dettagli la situazione.

Questo iperuranio estetico ha sicuramente radici materiali ed economiche, ma viverci comporta la netta eradicazione da qualsiasi impegno – politico e non solo – nel mondo. Ecco perché i giovani non si ribellano: le leggi del meta-mondo sono completamente diverse da quelle della realtà quotidiana di un tempo.

In questo senso si può parlare anche di un’alienazione radicale, visto che la vita delle radici viene completamente obliata, fin da subito. La protesica di cui ci siamo dotati per creare il mondo virtuale ha fatto sì che molti esponenti della vecchia generazione “perdessero” il treno della nuova modernità.

In molti casi si tratta di coloro che dovrebbero legiferare e amministrare governi e nazioni: il problema è proprio che appartenendo al mondo, e non al meta-mondo, la vecchia generazione si occupa, politicamente, solo del primo. L’iperuranio si è trasformato ben preso in una materia informe, anarchica e mimetica: sfido infatti chiunque a distinguere il mondo “vero” da quello “falso”. La sfida, come sempre, è vedere il doppio nell’unità.

Roberto Silvestrin

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Alle illusioni del capitalismo Serge Latouche risponde con la decrescita

Quasi quattrocento persone – e un centinaio fuori – martedì 7 marzo hanno accolto a Treviso Serge Latouche, economista e filosofo francese, in occasione del primo incontro del Festival Filosofico Pensare il presente tenutosi presso l’Aula Magna dell’istituto Enrico Fermi di Treviso.

Importanti i temi trattati da Latouche durante il suo intervento intitolato Decrescita e futuro, due termini in apparente contrasto tra loro, ma solo superficialmente.

Il ragionamento parte da un quesito sempre più centrale nella nostra quotidianità: quale sarà il nostro futuro? «La risposta – dice Latouche – non va cercata tra gli economisti perché non sanno fare previsioni a lungo termine»: è semplicemente una questione di logica legata alla consapevolezza della caducità del sistema economico che attualmente influenza pesantemente la nostra esistenza tanto da porci su un bivio; come cita Woody Allen: «Siamo arrivati all’incrocio di due strade: una porta alla scomparsa della specie, l’altra alla disperazione totale. Spero che l’uomo faccia la scelta giusta».

Il capitalismo, il consumismo, la crescita sostenibile, sono tutti fattori illusori, appartenenti ad un’epoca iniziata con la rivoluzione industriale ma che ormai da anni ha esaurito la sua spinta motrice per lo sviluppo: uno sviluppo che secondo le logiche di mercato si presenta come infinito ed inesauribile. Così come le stelle, anche le pratiche dell’economia di consumo continuano ad emanare immutate la loro luce nonostante siano “morenti”.

I danni provocati dalla continua domanda di risorse sono incalcolabili, ci stiamo dirigendo verso la sesta estinzione di massa della storia – la quinta colpì i dinosauri sessantacinque milioni di anni fa – ogni giorno scompaiono circa 200 specie di esseri viventi e non ce ne accorgiamo.

Le risorse del nostro pianeta non sono inesauribili, abbiamo a disposizione due miliardi di ettari (su sessanta) per la bioproduzione; un altro elemento “finito” riguarda la capacità di smaltimento dei rifiuti, che non è un problema unicamente legato alle sole grandi città; inquiniamo i mari, i fiumi, i Paesi del sud del mondo, alimentando e facendo prosperare malattie e “disperazione”; infine occorre considerare la fragilità del capitale, la moneta che muove gli scambi commerciali, e che “tampona” con crediti e prestiti la domanda continua di beni fondamentalmente superflui al fabbisogno del singolo individuo: una situazione simile attraverso la formazione di una bolla speculativa dalle proporzioni indefinite causò il crollo dei mercati nel 2008.

«La crescita infinita è inconcepibile, assurda, lo capirebbe anche un bambino di cinque anni», continua il filosofo economista bretone, e tutto ciò dovrebbe portarci a ripensare l’intero sistema economico. Le origini del capitalismo sono erroneamente poste durante l’apogeo delle repubbliche marinare (X-XII secolo), quando in realtà si trattava unicamente di scambi commerciali. Oggi si parla di vera e propria ideologia del consumo, e l’occidentalizzazione del mondo è la sua religione.

L’ultimo punto, ma probabilmente il più fondamentale toccato da Latouche, riguarda la felicità. È proprio questo elemento al centro della «società di abbondanza frugale» all’interno della quale si può vivere senza eccessi anche con lo stretto indispensabile: «il razionale deve lasciar spazio al ragionevole, occorre creare decrescita ed ecosocialismo» contro lo slogan dello sviluppo sostenibile e la sua spina dorsale incentrata, per esempio, sull’obsolescenza tecnologica, sull’accumulo e sullo spreco.

La domanda sorge spontanea: togliendo linfa vitale alla globalizzazione, verrà meno anche il lavoro? Secondo Latouche no. Nuovi impieghi e nuove professioni risulterebbero dalla nuova concezione di un’economia più locale e meno globale, più diversificata e meno omologata. Le parole d’ordine sono: rilocalizzare, riconvertire e ridurre; sviluppare senza esagerare, ripensare il settore primario – quello dell’agricoltura – per una migliore disponibilità di risorse, diminuire anche l’orario di lavoro: «questi sono gli ingredienti della felicità».

Alessandro Basso

Articolo scritto in occasione del primo incontro Decrescita e futuro (martedì 7 marzo) del festival di filosofia Pensare il presente, a Treviso dal 7 al 30 marzo 2017.

Da cittadini a consumatori: il valore del singolo nella postdemocrazia

Il Capitalismo ha vinto. La collettività soccombe sotto il peso degli interessi individuali, l’incubo descritto in Il Capitale di Marx si sta pienamente concretizzando. Il mondo del lavoro cambia, le identità collettive, che hanno caratterizzato il Novecento, vengono meno. La Democrazia che diamo come dato acquisito sembra oggi sempre più in balia di spinte che provengono da un libero mercato sempre meno controbilanciato da robusti, seppur flessibili, diritti sociali di cittadinanza, che garantiscano una ragionevole redistribuzione della ricchezza.

Il nuovo millennio si apre con un cambiamento radicale: più che cittadini siamo consumatori. Siamo molto più rilevanti come consumatori che come cittadini. Crouch ha coniato giustamente il termine “postdemocrazia” che designa un semplice eppur gigantesco paradosso: i sistemi politici europei e statunitensi sono in una fase di atrofia democratica, la globalizzazione rende questo fenomeno evidente, la democrazia resta nazionale in un mondo globale e cessa di esistere sulla soglia di quei luoghi dove vengono prese decisioni che influiscono sull’assetto mondiale.

L’identità di classe e la religione, che un tempo erano elementi fondanti della politica tradizionale, si sgretolano e con essi i partiti politici ormai sempre più distanti dalla popolazione e in balia del “marketing” politico. La svalutazione della politica e l’idea che il marcio della società si annidi nella classe dirigente ha reso sempre più la democrazia esposta alle pressioni di élite e grandi imprese che esercitano ora un ruolo di primo piano. Il nuovo millennio è una sorta di mondo post-feudale dove il potere non è più in mano agli stati e agli organi democratici, ma in mano a una sorta di nuova aristocrazia formata dalle grandi imprese. Uno Stato ha bisogno di legittimazione democratica, le élite non ne hanno bisogno. La crescente nostalgia per gli Stati-Nazione è appunto nostalgia per un passato che sta passando, quei dispositivi si dimostrano oggi strumenti del tutto inadeguati a organizzare e gestire la vita pubblica rispetto ai compiti politici che abbiamo di fronte.

In questo mondo paradossale abbiamo molto più potere come consumatori che come cittadini, determiniamo molto più il mondo e noi stessi per quello che compriamo piuttosto che per quello che votiamo, dimenticandoci che il mercato senza poteri a controbilanciarlo è destinato strutturalmente a inasprire le diseguaglianze e quindi a catalizzare i malesseri sociali che sfociano a loro volta in politiche protezionistiche, retrograde e difensive, che risultano rimedi peggiori del male che vorrebbero curare. Lo svilimento della classe dirigente e la politica “gratuita” per uscire dai soliti “magna magna” e l’idea che essa non dovesse essere un lavoro ha reso la politica stessa un ambito aristocratico, cioè ristretto a persone benestanti, per non dire ricche, e qui gli esempi si sprecano.

La crisi aumenta, i malesseri agitano le masse contro la classe politica a cui si vogliono togliere i privilegi, il che fa sì che avvenga l’ascesa di una classe politica di ricchi, spesso imprenditori, che rappresentano molto di più la matrice dei mali delle masse piuttosto che la loro salvezza, il paradosso dell’epoca contemporanea sta tutto qui. Gli Stati-Nazione nella loro concezione novecentesca sembrano dei nani mentre a turno sfilano davanti ad essi grandi compagnie che impersonano a turno Biancaneve.

Matteo Montagner

Cocaina e capitalismo

Esiste ormai un’ampia letteratura a dimostrazione del fatto che la cocaina sia uno dei principali business mondiali. Tuttavia alcuni dettagli sembrano sfuggire riguardo il perché sia proprio la cocaina ad essere diffusa e utilizzata praticamente in ogni strato sociale e ad ogni latitudine. Proprio questi dettagli suggeriscono però che a partire dalle sostanze di cui ci serviamo, possiamo capire meglio il tipo di società in cui viviamo.

Un abile studioso, nonché sperimentatore in prima persona della cocaina, è stato Sigmund Freud, che ci ha lasciato un breve ma preciso resoconto di cosa la sia cocaina e di come interagisca con le capacità psico-fisiche di chi la utilizza.

Nelle sue varie prove Freud ci riporta che a seguito dell’assunzione della sostanza si prova «un aumento dell’autocontrollo e ci si sente più vigorosi e dotati di un’aumentata capacità di lavoro», effetti dati dalla «scomparsa di quegli elementi che in uno stato di benessere generale sono responsabili della depressione»1. Questo comporta la possibilità che «un protratto e intenso lavoro, mentale e fisico che sia, può essere compiuto senza che appaia alcuna sensazione di stanchezza» e che «il bisogno di cibo e di sonno […] fosse completamente eliminato»2.

Supportato anche dagli esempi di sfruttamento minerario delle popolazioni amazzoniche da parte degli occidentali in epoca moderna attraverso la cocaina, Freud ne mostra l’apporto al corpo e alla mente di chi la usa un surplus energetico notevole. L’aspetto interessante di queste osservazioni, comunque risapute, sta nel fatto che questi progressi fisici che la cocaina comporta si sposano benissimo con il modello sociale che da qualche secolo viviamo, quello capitalistico, appunto. Le prestanza fisica e l’assenza della sensazione di fatica comportano infatti la possibilità di un lavoro più duraturo nel corso delle ore e più stabile nei suoi obiettivi. In questo modo, nel caso ad esempio del lavoro fisico, è possibile portare carichi che normalmente non si porterebbero, non sentire il peso del sonno o della variazione di umore, velocizzare gli spostamenti, garantendo una prestazione lavorativa assolutamente razionale ed ergonomica. Lo stesso vale per i lavori meno manuali, che vedono un incremento della concentrazione e un perseguimento assiduo dell’obiettivo da raggiungere.

I fondamentali scopi capitalistici come l’accumulo e l’utilizzo delle risorse e la minimizzazione di tempi ed energie sprecate per il lavoro, sono dunque garantite e massimizzate dal cocainomane al lavoro (come già era stato intuito presso le popolazioni sudamericane da cui la coca proviene). Il modo in cui iniziò ad essere utilizzata allora, per razionalizzare il lavoro in miniera, e il modo in cui viene usata oggi, suggeriscono anzi che la cocaina assume senso solo all’interno della logica del lavoro.

Ma di riflesso, anche la dimensione extra-lavorativa è investita dal potere di tale sostanza o quantomeno dall’atteggiamento cocainomane (alta concentrazione nell’obiettivo, massimizzazione della capacità fisica, ecc). Non è un caso che anche nei luoghi del divertimento e nei momenti di svago questa sostanza sia usata per gli stessi motivi. Se buona parte della vita è assorbita dal lavoro e da richieste di prestazioni sempre più elevate, cioè da contesti in cui deve vigere al meglio la logica razionale e di efficienza, si sentirà in modo maggiore la necessità che il tempo restante venga effettivamente e sicuramente ben speso nelle attività ricreative. Questa garanzia, o concentrazione nell’obiettivo opposto a quello lavorativo, ribalta semplicemente lo scopo ma non la logica: come si cerca l’efficienza nel lavoro, si cerca l’efficienza dell’obiettivo ‘svago’. Che viene, sempre grazie alla cocaina, intensificato al limite per trarne il massimo del vantaggio, del godimento, dell’estraneazione, della prestazione. Lo scopo, in entrambi i casi, è sempre ‘il massimo’.

L’economia, che giustamente persegue l’obiettivo di massima capacità di raccolta e sfruttamento di risorse ed energie, si trova conforme negli scopi e nelle capacità che la cocaina offre. Per questo, e non per caso, è proprio questa sostanza a divenire il perfetto alter ego del nostro tempo. Solo per questo è vero che, come ricorda Roberto Saviano, «nessun business è così dinamico, così innovativo, così fedele allo spirito del libero mercato come quello della cocaina»3.

Non si tratta di insinuare una vena complottista nel confine tra mercato capitalistico e mercato illegale, alludendo a un qualche patto che uomini facoltosi instaurano con trafficanti di ogni specie. Questo aspetto, pur esistente, è forse la parte meno interessante e curiosa dell’intero processo. Si tratta invece di capire che cocaina e capitalismo condividono la stessa anima e sono due imprescindibili facce della stessa medaglia perché identico è il loro intento una volta inquadrato da un punto di vista più profondo.

Per questo sempre Freud, sia da sperimentatore che da acuto scienziato, poteva dire che per il bene umano è conveniente sia moderare e controllare l’uso della coca, sia ammorbidire i limiti, le regole e le prestazioni che la società industriale del ‘900 stava già formando e in cui oggi ci vede completamente immersi.

Luca Mauceri

NOTE:
1. S. Freud, Coca e cocaina, trad. it. di Aldo Durante, Newton Compton, 1996, p. 35.
2. Ibidem.
3. In questo Articolo di Repubblica 

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L’opera d’arte tra dono e commercializzazione

Mi ha sempre affascinato indagare la natura del rapporto che lega l’artista alla sua opera d’arte. In che modo un dipinto, una poesia o in generale un’opera “creata” come espressione dell’immaginazione e della fantasia dell’artista può “entrare” all’interno del  mercato? Che tipo di trasformazione avviene se si decide di introdurre la passione che ogni attività artistica genera  all’interno di una società dominata dal valore di mercato?

Secondo lo scrittore Lewis Hyde l’opera d’arte condivide con il dono il carattere erotico.

La letteratura sul dono è vastissima: antropologi, filosofi e sociologi si sono interessati per lungo tempo alle dinamiche che si generano all’interno di società e comunità dove accanto  all’economia di mercato vige una forma di proprietà che non risponde a interessi “quantificabili”, quella del dono per l’appunto.

Per primo l’antropologo e studioso francese Marcel Mauss nel suo saggio Essai sur le don, utilizzando studi  condotti presso popoli delle isole del Pacifico, aveva sottolineato come il “dono” costituisse il collante necessario all’interno di queste culture, ciò che consentiva l’instaurarsi di relazioni, determinando in questo modo l’identità di ogni singola comunità.

Il dono all’interno di queste popolazioni acquisisce un carattere fondamentale, dal momento che è ciò su cui si regge la solidarietà e la reciprocità all’interno del gruppo. Mentre l’economia di mercato occidentale risulta completamente slegata da questioni etico-morali, in molte società “primitive” vi è quasi un’identificazione, per cui l’economia è strettamente connessa a legami di tipo affettivo e da relazioni personali.

Sembra delinearsi una dicotomia irrisolvibile: da una parte l’ homo oeconomicus, ossessionato dal guadagno, disposto a rispondere solo ai dettami di una ragione strumentale messa al servizio del proprio egoismo; dall’altra, “gli altri”, popoli lontani che attraverso il “dono” riescono a rispecchiare la propria individualità solo all’interno di una collettività, creando una reciprocità e un insieme di relazioni che anziché depotenziare ciascuna singolarità, la rendono ancora più preziosa.

Secondo Hyde, l’opera d’arte si distingue essenzialmente da una merce. Un dipinto, una poesia o qualsiasi prodotto d’arte partecipa contemporaneamente di “due economie”, l’economia di mercato e l’economia del dono. Tuttavia, ciò che l’autore sostiene è che mentre un’opera d’arte può essere tale senza “entrare” in un’economia di mercato, essa non può esistere se non partecipa all’economia del dono.

Che cos’è che distingue una merce, legata alla “commercializzazione”, dalla trasmissione di un dono? Il dono è qualcosa che ci viene “elargito” e che non possiamo ottenere attraverso lo sforzo o attraverso il denaro, ovvero «attraverso un atto di volontà»1. Un bene diventa una merce nel momento in cui possiede un valore di scambio e un valore di mercato, ovvero non ha un valore di per sé, ma ne assume uno solo nel momento in cui viene separato da chi lo “valuta” e confrontato con un’ altra merce, poiché solo in questo modo può essergli applicato un “prezzo”.

Il dono,  invece, introduce un altro tipo di valore legato alla capacità di creare e riprodurre relazioni sociali. In questo caso, non è tanto il bene in sé a risultare importante, quanto i legami che si creano con esso.

Proprio per questo Hyde parla di carattere “erotico” del dono, in contrapposizione alla razionalità che si esprime attraverso la circolazione delle merci all’interno dell’economia di mercato.

Ogni donazione è un gesto di apertura e di fiducia sociale nei confronti dell’altro. Come evidenzia già Mauss, ogni dono, infatti, necessita di un “controdono”, solo così è possibile non interrompere il cerchio di relazioni che questa forma di proprietà alimenta. Tuttavia, a differenza di uno scambio commerciale, la trasmissione del dono avviene senza alcuna forma coercitiva o contrattuale.

Avendo soltanto un valore d’uso (in contrapposizione alla merce che ha un valore di mercato), il dono per essere tale deve venir costantemente “consumato” attraverso il movimento, continuando a nutrire colui al quale viene donato. Nel momento in cui un dono si ferma e non viene ridonato a sua volta, viene tesaurizzato, perdendo la forma che lo caratterizza.

Quando un artista dà forma a un’opera d’arte, una parte di questa creazione è essa stessa un dono. Gli elementi che gravitano intorno all’attività artistica come il talento, l’intuizione e l’ispirazione possono essere  definiti “doni”, dal momento che è possibile svilupparli e coltivarli attraverso la volontà, ma compaiono inizialmente nell’animo dell’artista senza alcuno sforzo, attraverso un elemento di gratuità.

La natura di “dono” che l’opera d’arte esprime non si manifesta solo nell’animo di chi la crea. Quando la tela si allontana dal pittore e diventa oggetto di fruizione all’interno di un museo o di una galleria, essa, come espressione dei “doni” dell’artista, rivolgendosi al nostro animo può risvegliare anche i nostri stessi “doni”: «La creazione artistica che ci tocca, che commuove il cuore, vivifica l’anima, delizia i sensi o ci dà il coraggio di continuare a vivere, in qualunque modo vogliamo descrivere l’esperienza, viene ricevuta come si riceve un dono»2.

L’artista contemporaneo, quindi, si trova in tensione costante tra la sfera del dono, a cui la sua arte appartiene e la commercializzazione all’interno del mercato, necessaria per la sua sussistenza. Ciò che Hyde cerca di sottolineare è che c’è sempre il rischio che l’arte come dono possa venire distrutta dal mercato, ma l’artista può e deve cercare in tutti i modi di riconciliare le due economie.

Il mercato è espressione del logos, parte dello spirito umano tanto quanto eros, per cui non si può eliminare, al massimo si può soltanto limitarne l’influsso. In che modo? Cercando entro certi limiti di vendere sul mercato ciò che abbiamo ricevuto come dono (l’opera d’arte) e utilizzare ciò che abbiamo guadagnato dalla vendita per incrementare la sfera del dono (cioè investirlo nella nostra arte).

Un artista che mira al successo attraverso il commercio delle sue opere, ma senza perdere i suoi doni, ovvero senza venire meno all’autenticità della sua arte, non deve partire dal mercato (ovvero la sua creazione non deve semplicemente rispondere alle esigenze del mercato e della commercializzazione), ma può partire solo dalla sfera del dono in cui si compie l’opera, per poi tentare di trasferirsi all’interno dell’altra economia. Solo in questo modo l’arte può rimanere legata alla dimensione erotica del “dono”, l’unica sfera che per Hyde rende l’arte propriamente tale.

 

Greta Esposito

 

NOTE
1. L. Hyde, Il dono. Immaginazione e vita erotica della proprietà, p. 13.
2. Ivi, p. 14.

[Immagine tratta da www.artenatura.altervista.org]

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Sviluppo sostenibile per i paesi del Terzo Mondo

Le cronache di ogni giorno, le migrazioni bibliche che ci investono attraverso il Mediterraneo, non solo di persone che fuggono dalla guerra, ma anche, in larga misura, per ragioni economiche, ci pongono in modo pressante il problema di definire un processo di “sviluppo sostenibile” per il Terzo Mondo e soprattutto quali siano i modi migliori per interpretare tale espressione e quali i più diretti per raggiungere gli scopi che esso si prefigge.

Il primo obiettivo da raggiungere è quello di migliorare le condizioni di coloro che sono emarginati economicamente, risultato che si può conseguire attraverso un approccio diretto ai mezzi di sussistenza e alla soddisfazione dei bisogni primari, che deve consistere nella basilare idea che si debbano creare possibilità di occupazione.

Ma quali sono le reali possibilità di intervenire nei Paesi del Terzo Mondo per aiutarli “a casa loro”?

Non è pensabile di programmare interventi di industrializzazione su larga scala, al massimo si può pensare di favorire la nascita di piccole aziende per esempio alimentari e di lavoratori autonomi nel settore meccanico e dell’artigianato. Questi settori potrebbero svilupparsi con un minimo di sostegno ufficiale e assistenza economica dato che queste attività impiegano più abitanti nelle città del Terzo Mondo del “moderno” settore “industriale” e pertanto vale la pena di considerarli attentamente come fonti di mezzi di sussistenza.

Tuttavia le cooperative e le piccole aziende potranno prosperare con difficoltà se mancheranno opportunità di formazione professionale adeguata e di sostegno istituzionale.

Ciò di cui c’è bisogno è la ristrutturazione dei processi di produzione di reddito e una gestione che consenta di diversificare i mezzi di sostentamento per coloro che generalmente dipendono in modo precario dall’agricoltura.

Però perché tali iniziative abbiano possibilità di successo è necessario creare collaborazione e coordinamento con le istituzioni dei Paesi in cui intervenire su piccola scala.

E’ comunque necessario uno studio attento dei sistemi di soddisfazione dei bisogni primari senza base di mercato e/o monetaria, quali sono diffusi nelle società orientate alla sussistenza, il che potrebbe darci la chiave per intervenire nel modo migliore in termini concreti e meno impattanti per quelle comunità.

Ad esempio varie popolazioni agro-pastorali, benché abbiano un accesso limitato a moderni strumenti di miglioramento economico, riescono bene a soddisfare i loro bisogni. Esse ci riescono attraverso un attento adattamento all’ambiente in cui vivono combinando opportunità limitate di coltivazione e allevamento, queste popolazioni sono in grado di mantenere se stesse e i loro animali all’interno di un fragile ecosistema.

Infatti il secondo obiettivo da perseguire è quello di prevenire il degrado ambientale.

Lo sviluppo economico non deve comportare il peggioramento relativo alla qualità dell’ambiente e delle funzioni ecologiche. In base ai meccanismi istituzionali del sistema economico il “mercato” coglie solo indirettamente e parzialmente il degrado ambientale attraverso l’impatto sulla produttività, sulla salute umana, sui costi di sfruttamento delle risorse, ecc., e le risposte che ne conseguono non sempre sono adeguate.

E’ quindi necessario intervenire con mezzi innovativi per scongiurare che un ulteriore sviluppo economico su larga scala non faccia altro che accelerare il degrado ambientale, purtroppo già in atto in quei Paesi, con conseguenze disastrose anche a livello planetario.

In generale esistono quattro principali approcci diretti alla prevenzione e al controllo dei danni ambientali:

  • analisi costi-benefici
  • valutazione delle risorse
  • politica macro-economica
  • ricerca applicata alla sostenibilità.

Un approccio di questo tipo alla soluzione sia dei problemi del Terzo Mondo che dell’ambiente può essere incentivato dalla partecipazione ampia e ponderata dell’opinione pubblica.

Una attenzione diretta a creare mezzi di sussistenza, attraverso la promozione e la costituzione di attività integrate su piccola scala, richiede l’attiva collaborazione dei potenziali beneficiari, mentre per lo sfruttamento dell’ambiente l’opinione pubblica occidentale può agire sui propri rappresentanti politici e ristrutturare gli interventi economici per tali finalità.

L’interpretazione di sviluppo sostenibile richiede quindi di orientarsi non verso un massiccio sviluppo, ma ad alternative meno dannose nei loro effetti secondari per tutte le popolazioni interessate e più efficaci nel migliorare le condizioni di vita dei più emarginati.

Poiché un approccio utilitaristico del tipo appena indicato esige che, se c’è possibilità di scelta, venga seguito il corso di azione che considera maggiormente gli interessi di tutte le persone coinvolte, si dovrebbero, “eticamente” parlando, intraprendere queste alternative.

Quindi possiamo concludere che lo “sviluppo sostenibile” non è una panacea, ma che neppure, necessariamente, è una aporia. Pertanto lo sviluppo sostenibile, considerato come ricerca di opportunità di sussistenza entro i mezzi offerti dall’ambiente naturale, è un concetto veramente fondamentale nella ricerca di un approccio coordinato e integrato ai problemi sia del Terzo Mondo che dell’Ambiente.

Matteo Montagner

LA CINA ABOLISCE LA LEGGE SUL FIGLIO UNICO. Le devastanti conseguenze di trentacinque anni di pianificazione familiare forzata

Dopo aver per trentacinque anni forzatamente mantenuto sotto controllo la crescita demografica del Paese, Pechino cambia orientamento: lo Stato Comunista Cinese ha abolito la legge sul figlio unico.
Se torniamo indietro nella storia, il 1 ottobre 1949, l’allora presidente Mao Zedong, annunciando la nascita della Repubblica Popolare Cinese, attuò una serie di misure politiche atte a favorire la natalità; tale politica familiare portò al raddoppio del numero della popolazione cinese.
Alla morte di Mao, nel 1976, la Cina contava quasi un miliardo di persone e dopo qualche anno, nel 1979, il Governo cinese iniziò a promuovere una politica di regolazione delle nascite attuando una serie di provvedimenti di pianificazione familiare. Per l’occasione venne anche istituita una Commissione di Stato per la Pianificazione Familiare composta da migliaia di ufficiali addetti ai controlli in tutto il Paese.
Le famiglie vennero registrate in due differenti liste, quella urbana e quella rurale: alle prime venne assolutamente vietato di avere più di un figlio, mentre alle seconde venne concesso di avere un secondo figlio solo se il primo nato fosse stata una femmina; pena severissimi provvedimenti a livello pecuniario e fisico.
Con gli anni economisti e sociologi cinesi iniziarono a divulgare dati preoccupanti: rallentamento dell’economia, invecchiamento della popolazione e diminuzione della forza lavoro. La politica del figlio unico doveva essere assolutamente ridiscussa.
Già nel 2013 furono apportate alcune modifiche alla legge nel tentativo di ribilanciare il tasso di fecondità nel frattempo sceso sotto il livello di sostituzione. Per cercare di evitare un collasso demografico e il conseguente annientamento di alcune minoranze etniche il numero di figli per ogni famiglia venne portato a due, ma solo nel caso in cui uno dei coniugi fosse stato figlio unico.
Nelle scorse settimane lo Stato cinese, con l’annuncio dell’abolizione della “politica del figlio unico”, chiede alla popolazione di cominciare a produrre nuove braccia pronte a lavorare. L’obiettivo è consentire alla Cina di contare su una forza lavoro in grado di sostenere una popolazione sempre più vecchia.
Trentacinque anni di forzata pianificazione familiare hanno comportato “effetti collaterali” drammatici ed oramai irreparabili.
Dal 1979 ad oggi, secondo dati stimati Ministero della Salute di Pechino, sono stati perpetrati circa quattrocento milioni di aborti, un genocidio silenzioso se si pensa ai quindici-venti milioni di morti della Shoah, il tutto nell’indifferenza e con il benestare delle autorità.
Le ripercussioni negative non finiscono qui; oltre il dramma degli aborti indotti, vi è il grande numero di donne sottoposte alla sterilizzazione forzata. Anche in quest’ultimo caso ci troviamo di fronte ad una palese violazione dei diritti umani e ad un oltraggio alla dignità umana.
Ulteriore elemento da valutare è la sproporzione tra la popolazione maschile e quella femminile, il numero dei maschi risulta, in maniera totalmente innaturale, superiore a quello delle femmine. Si tratta di un dato che riguarda essenzialmente le realtà rurali; in effetti, in campagna, molte famiglie furono costrette a rinunciare non solo al secondo o terzo figlio, ma ad interrompere la gravidanza o a praticare l’infanticidio qualora il feto fosse stato di sesso femminile. Ciò avrebbe permesso ai genitori di tentare altri concepimenti con lo scopo di avere un figlio maschio che nelle zone rurali significa forza lavoro, intesa come forza fisica, fondamentale per il supporto all’economia familiare.
Le famiglie che decidevano di portare comunque a termine la gravidanza, spesso, non denunciavano le nascite all’anagrafe crescendo così “figli senza nome” privi di qualsiasi documento d’identificazione, che non potevano frequentare scuole e che non avevano accesso alle strutture sanitarie.
Nel 2013 all’appello mancavano decine di milioni di donne.
Ad oggi, con le nuove direttive dello Stato cinese, presumibilmente, la percentuale degli aborti si dimezzerà, ce ne saranno meno di prima, ma ce ne saranno ancora; se anche un solo aborto indotto e forzato, personalmente, è sempre troppo, rifletto sul dramma di milioni di aborti che probabilmente saranno la metà dei milioni di prima ma pur sempre milioni. Forse il dato peggiore è la logica che sta sotto queste politiche, ovvero che la popolazione cinese può avere tanti figli quanti decide il Governo in un determinato periodo storico. Quando i cinesi erano troppi, se ne è contenuto il numero con l’aborto statale; quando ci si è resi conto che ne servivano di più si è proceduto ad attenuare la morsa sulla legge del figlio unico consentendone un secondo solo a quelle coppie in cui almeno uno dei genitori è unico per legge, fino ad oggi, tempo in cui si incoraggiano le famiglie ad avere due figli perché è considerato legittimo plasmare l’uomo in base alle necessità economiche di un Paese, un uomo che non è il fine dell’economia ma un semplice mezzo il cui sfruttamento dipende da un beffardo calcolo di interesse.
È evidente che la vita umana e l’unicità delle persone, per il Governo cinese, non sono valori da proteggere e tutelare. Le persone esistono in Cina unicamente in funzione dello Stato, il quale periodicamente e a proprio piacimento decide di arrogarsi il diritto di disporre liberamente della vita umana.
Silvia Pennisi

[immagine tratta dal sito www.progettoitalianews.net]