La Polonia tenta di cancellare la storia?

«Imporre un bavaglio ai fatti storici è una questione molto seria. Un tentativo di falsificare la verità. Che a mio giudizio implicitamente ammette che parte della popolazione polacca fu complice del processo di eliminazione dei loro compatrioti ebrei durante la seconda guerra mondiale»1. Così si esprime Jan Gross, storico di Varsavia e professore emerito a Princeton, uno dei più importanti studiosi in merito alle complicità polacche nello sterminio degli ebrei. Le sue parole si riferiscono alla nuova legge della Polonia, definitivamente approvata in Senato l’1 febbraio, che proibisce ogni menzione di dirette responsabilità polacche nella Shoah. Chi lo fa, rischia fino a tre anni di carcere. Ora si attende solamente la firma istituzionale di di Andrzej Duda, il capo di Stato.

Ma quali sono i motivi di questa nuova legge?
Il primo, sicuramente, è uno dei discorsi più sentiti dalla popolazione: la questione dei “campi di sterminio polacchi”. «la nuova legge serve contro la menzogna su Auschwitz campo polacco» ha affermato il premier Morawiecki2. Su questo si può concordare. Fu il Reich ad introdurli in territorio polacco dopo averne preso il controllo e − almeno ufficialmente − non ci fu un governo collaborazionista (come ad esempio quello francese).
Ci si potrebbe allora chiedere perché questa legge ha generato indignazione e dure critiche da parte di Europa, Usa e Israele. È la risposta a questa domanda il nodo centrale della questione: il secondo motivo è di cancellare ogni collegamento dei polacchi con l’Olocausto, e quindi anche i casi di collaborazionismo.
In che misura i polacchi contribuirono all’eliminazione degli ebrei?
«Non esiste una risposta univoca. […] tantissimi polacchi (molto più dei collaborazionisti) difesero e vennero uccisi per aver protetto ebrei»3. Il problema è che, comunque, collaborarono «diverse migliaia di cittadini polacchi. Ma anche qui c’è dibattito tra gli storici: quanti lo fecero volontariamente? […] Il più grande eccidio commesso materialmente dai polacchi è il pogrom di Jedwabne: il 10 luglio 1941, quaranta polacchi (scelti dai nazisti) bruciarono vivi 340 ebrei rinchiusi in un pagliaio»4.
Inoltre potremmo indagare i perché più profondi di questa nuova disposizione: il clima politico attuale e ciò che lo ha preceduto. Negli ultimi tempi, la politica di destra al governo «si è fatta forte di uno slogan che è un’ossessione nazionale: “ridare dignità alla Polonia”. Che da una parte prende di mira l’Europa, accusata di limitare la sovranità nazionale all’interno dei confini. Dall’altro attacca gli sforzi per svelare la storia»5 è sempre Gross a parlare, che continua: «una nazione non può crescere e progredire senza fare i conti con il passato»6.
Attualmente Jaroslaw Kaczynski, presidente del Pis (Diritto e Giustizia), controlla il governo ed il Parlamento. L’ideale, sin dall’insediamento, era di promuovere una “politica storica”, quindi esaltando le virtù nazionali ma anche controllando direttamente la narrazione storica.
«Il fatto è che da quando il paese ha conquistato la libertà il principale tema della discussione pubblica sono i crimini perpetrati dai polacchi ai danni degli ebrei sotto l’occupazione tedesca. […] Era ed è una discussione che portava e porta alla messa in questione dell’identità polacca, intesa come appartenenza alla nazione cattolica, etnicamente omogenea, generosa con le minoranze (ebrei) e vittima dei vicini (russi e tedeschi)»7 è Wlodek Goldkorn a parlare, con una riflessione che può indicarci chiaramente come e perché questa legge sia stata promossa.
Infatti negli ultimi tempi il potere polacco sta scatenando una campagna d’odio verso l’Europa, la Germania ed i traditori interni. È proprio attraverso quest’ottica bisogna leggere la nuova disposizione che «per chi conosce le regole (non tanto) segrete della retorica polacca è ovvio che si tratta di un provvedimento in fin dei conti xenofobo e che si richiama all’immaginario antisemita»8 sempre parole di Goldkorn.

La scrittrice Halina Birenbaum − ebrea polacca sopravvissuta all’Olocausto − è rimasta sconcertata: «c’erano polacchi che segnalavano gli ebrei ai nazisti, ora potrebbero arrestarmi per averlo detto, ho un biglietto aereo per Varsavia ma ho paura. […] I tedeschi occupanti non sapevano sempre chi era ebreo, ma i polacchi sì. C’erano vicini coraggiosi che ci nascondevano, ma anche altri che denunciavano. Mi sento malissimo, questa legge ferisce i sopravvissuti e i milioni di cui non rimasero che numeri»9.

Non si può nascondere la storia sotto un tappeto, men che meno se si sta parlando di implicazioni con la tragedia ebraica. È certamente scorretto affidare colpe che non hanno ai polacchi, ma non si può negare che almeno qualcuno abbia favorito, aiutato ed in qualche caso sostenuto il massacro nazista. Il clima antisemita preesisteva già, in Polonia come in molti altri Paesi europei, e fare finta che così non fosse, minacciando con il carcere chi voglia fare ricerca e pubblicare le proprie scoperte in questo ambito è semplicemente controproducente.
Di sicuro le cause che hanno portato all’imposizione nazista in Germania sono sfaccettate, ma altrettanto certo è che due di queste siano state la sottovalutazione di eventi di questo genere e il non voler ammettere che la follia nazista dava voce ad un sentimento, se non condiviso, almeno già in parte esistente.

Pensiamo alla Germania ed al suo enorme sforzo di fare i conti con la propria storia. Il risultato? L’acquisizione dell’accettazione dell’altro. Non a caso quando c’è stato bisogno d’aiuto con la crisi migratoria, le porte tedesche si sono subito aperte.

 

Massimiliano Mattiuzzo

NOTE
1. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 3
2. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 2
3. Ibidem
4. Ibidem
5. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 3
6. Ibidem
7. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 28
8. Ibidem
9. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 3

[Immagine tratta da Google immagini]

 

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The Sound of Silence

Potrà sembrare strano parlare di silenzio alla fine della stagione più rumorosa e festaiola dell’anno, in un’epoca in cui, specie in una grande città, l’unica occasione possibile in cui riposare un po’ le orecchie è un blackout che metta a tacere condizionatori, televisori, elettrodomestici e tutto ciò che da decenni ormai compone un (quasi) inevitabile e costante rumore di fondo.

Il silenzio, però, non rappresenta solo un momento di pace per orecchie stressate e abusate, né deve essere visto come un vuoto imbarazzante (o addirittura spaventoso) da riempire a tutti i costi. Al contrario, in un’era di dispersione dell’identità personale, di avatar e di discrepanza tra profili pubblici e sé privati, il silenzio rimane tra le ultime possibilità che ci rimangono per gettare uno sguardo nella parte più profonda di noi stessi e secondo le maggiori tradizioni religiose, perfino per entrare in contatto con Dio.

Affascinante in questo senso è la narrazione biblica della storia di Elia, profeta di rilevanza centrale per ebraismo, cristianesimo e islam. Nel Primo libro dei Re, un Elia in fuga attende l’arrivo di Dio che gli ha dato appuntamento sull’Oreb, ma sta a lui discernere la Sua presenza. L’autore del libro racconta dell’arrivo di una tempesta di vento, di un terremoto, di un incendio e commenta ogni volta: «Ma Dio non era nel vento/nel terremoto/nel fuoco» (1Re 19,11-12). Dove il profeta riconosce la presenza di Dio è nel ‘mormorio di un vento leggero’, una presenza discreta e gentile, lontana dalle manifestazioni di potere precedenti, inudibile se non nel completo silenzio.

“Dio è umile”, diceva un sacerdote, “parla solo quando tutti gli altri tacciono”. Non è un caso, quindi, che nell’ebraismo la preghiera più importante della liturgia cominci col comando Shemà!, “Ascolta!” (Dt 6,4), o che la sura, L’aderenza, comandi Iqraa!, “Leggi!” (Corano 96,1), entrambe azioni che richiedono silenzio, apertura a quanto viene suggerito dall’esterno, sforzo di comprensione. Non è possibile, pare, riuscire a raggiungere una dimensione di vera spiritualità a meno di non mettere a tacere ogni voce, interiore o esteriore, che possa distogliere la nostra attenzione dalla ricerca di Assoluto, elemento che ricorre anche negli insegnamenti attribuiti al Buddha Siddhārta Gautama: “Se apriamo le mani, possiamo ricevere ogni cosa. Se siamo vuoti, possiamo contenere l’Universo”.

Rimane l’ingombrante interrogativo, però, del perché dovremmo approcciarci al silenzio per recuperare una dimensione di spiritualità che, oggi, si sta ripresentando prepotentemente e violentemente sulla scena mondiale. Tra terroristi che indicono “guerre sante” in umano appalto dell’ira di Dio, politici occidentali che rispondono rimanendo sul pezzo e invocando nuove crociate, leader religiosi che usano il proprio potere per obiettivi fin troppo mondani e fanatici di qualunque culto pronti a uccidere seguendo una sorta di moderno ‘luddismo morale’, abbiamo bisogno di tutto, sembra, tranne che di ‘più Dio’ o ‘più spiritualità’ sul panorama globale.

Forse, però, è proprio per questo che creare silenzio, rientrare in sé e riscoprire una comunicazione con l’io più profondo e con l’Altro è oggi più che mai necessario. In un mondo pieno di gente impegnata a parlare (a gridare) di Dio, ritrovare il modo di parlare con Dio sarebbe tutto sommato una piacevole e insperata novità.

 

Giacomo Mininni

 

[Immagine: Silent Music (Suspension), di Kara Smith, 2014]

 

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Sul detto comune “Forse non tutti i musulmani sono terroristi…”

L’aveva capito Immanuel Kant quando, nel 1793, pubblicò il saggio Sul detto comune “Questo può valere in teoria, ma non vale per la pratica”: i proverbi, i modi di dire, i “detti comuni” appunto, sono più di semplici espressioni idiomatiche e di costume, sono vere e proprie cartine al tornasole del sentire comune, della mentalità collettiva. Possono quindi creare una specifica forma mentis e le basi di un sistema di pensiero, quando non ne siano già indicatori.

È questo il caso, oggi, di un detto che sentiamo fin troppo spesso, attribuito a Oriana Fallaci e diffusosi in maniera endemica dai bar ai social network ai talk show: “Forse non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani”, un brillante sunto di teologia, analisi sociopolitica e psicologia che non lascia troppi dubbi in quanto a letture della crescente instabilità che affligge ormai ogni parte del mondo. Peccato che, come sottolineò lo stesso Kant, spesso questi detti siano pure idiozie glorificate da una facile retorica. L’attentato a Londra del 19 giugno e quello a Parigi del 29 giugno dovrebbero già essere valide confutazioni del detto preso in esame, ma lasciando da parte gli attacchi ad opera di singoli, prendiamo in considerazione invece alcuni gruppi terroristici organizzati non islamici.

In Israele, un numero crescente di nuovi coloni, ebrei sionisti, ha compiuto decine di attentati ai danni della popolazione civile palestinese (il più delle volte: nel 2015, l’attentatore scambiò un ragazzo ebreo per un arabo e lo uccise con un coltello), omicidi tesi a rivendicare la totale sovranità ebraica della Terra Santa.

In Birmania, l’etnia rohingya, di religione islamica, è sistematicamente vittima di attentati ad opera di gruppi paramilitari che si dichiarano seguaci del buddhismo theravāda, che agiscono su base nazionalista e razzista. Il tutto, peraltro, avviene con il complice silenzio del Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, ora alla guida del Paese.

Nella Repubblica Centrafricana, le milizie cristiane degli anti-balaka compiono stragi coordinate e brutali ai danni della popolazione musulmana (lo stesso termine “anti-balaka” rimanda ad una contrapposizione religiosa, e può essere tradotto con “anti-musulmano”), con attacchi mirati ai civili.

In India, estremisti indù afferenti al partito del Primo Ministro Narendra Modi, il BJP, organizzano repressioni violente nei confronti delle minoranze non induiste del Paese, arrivando a imporre in alcune regioni (anche popolose e rilevanti come lo stato del Gujarat) una legge ispirata ai precetti indù, una vera e propria “shari’a induista” che punisce con l’ergastolo chi uccide una mucca.

Esisterebbero molti altri esempi anche al di fuori dell’ambito religioso e confessionale, come i movimenti del suprematismo bianco negli Stati Uniti o i rinati movimenti anarchici in Italia. Come accennato, il numero aumenta al momento in cui si aggiungono al novero anche i “lupi solitari” come Darren Osborne, Anders Breivik o perfino il nostrano Gianluca Casseri.

Espressioni come “Non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani” sono, a proprio modo, consolanti: ci portano a pensare che esiste una singola ideologia, religione o dottrina (o comune ridotte in numero e chiaramente identificabili) che è all’origine del male e della violenza, e che una volta eliminata questa, si potrà finalmente vivere tranquillamente, in pace, in armonia. L’alternativa sarebbe angosciante: riconoscere che la violenza ha sempre accompagnato la storia umana, e che individui, popoli e gruppi hanno utilizzato ogni tipo di religione o ideologia per darle una giustificazione ed una legittimazione. Certo, questo presupporrebbe anche un impegno personale e quotidiano nell’eradicazione della violenza, a partire dall’ambito individuale e educativo: fortuna che biasimare l’islam e qualunque altro capro espiatorio lo seguirà sollevi tutti da ogni responsabilità personale.

Giacomo Mininni

[Immagine tratta dalla campagna pubblicitaria Anche le parole possono uccidere realizzata da Armando Testa]

 

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Tu scendi dalle stelle

<p>Teddy Sczudlo via Getty Images</p>

Quando durante un’omelia del maggio 2014 Papa Francesco aveva scherzosamente sostenuto che la Chiesa avrebbe dovuto battezzare anche un marziano, qualora lo chiedesse, per “non chiudere le porte a nessuno”, la frase era stata accolta per quello che era: una semplice iperbole per far passare un concetto. Al momento in cui però, lo scorso 22 febbraio, la NASA ha reso nota la scoperta di Trappist-1, un sistema solare con sette pianeti, tre dei quali potenzialmente abitabili, il quesito ha assunto una dimensione se non del tutto nuova comunque concreta: come reagirebbero i sistemi teologici e culturali all’eventuale scoperta di vita extraterrestre, specie se senziente?

Nonostante l’apparenza, la questione non è certo secondaria, specie considerando che, quando Giordano Bruno teorizzò, in De l’infinito, universo e mondi del 1584, l’esistenza di altri mondi abitati oltre alla Terra, l’affermazione gli costò un processo per eresia che si sarebbe concluso con la sua morte sul rogo nel 1600. A ben guardare, però, il problema potrebbe essere tale solo da una prospettiva cristiana: per le grandi religioni orientali, infatti, il ciclo dell’esistenza non è affatto legato ad una dimensione terrestre, almeno non esplicitamente, e la presenza di altra vita senziente non scalfirebbe affatto una sensibilità che da sempre si professa universale. Anche l’ebraismo non riscontrerebbe particolari difficoltà: se da un lato alcune scuole cabaliste hanno riconosciuto in Trappist-1 il corpo celeste Neberu che, come profetizzato nel Sefer ha-Zohar, precederebbe l’avvento del Messia, per le altre (maggioritarie) scuole teologiche la vita extraterrestre sarebbe del tutto irrilevante in quello che rimane una relazione tra Dio e il popolo ebraico solo. Anche l’islam, che nella prima sura del Corano loda il “Signore dei mondi”, non avrebbe troppi problemi ad accettare l’esistenza di vita aliena, che come ogni altra rientrerebbe nel dominio di Dio.

Il cristianesimo, però, con la nascita, morte e resurrezione di Gesù di Nazareth, è indissolubilmente legato alla storia terrestre, e la presenza di altre creature senzienti su altri pianeti porrebbe lo scomodo problema di una rivelazione ripetuta: Gesù si sarebbe incarnato anche su altri pianeti? Il Suo sacrificio si sarebbe ripetuto tante volte quanti sono i mondi abitati? Vista così, la prospettiva di una civiltà aliena ripropone, “in grande”, gli stessi problemi che la Chiesa cattolica e, di lì a breve, quelle protestanti dovettero affrontare all’inizio del XVI secolo, quando le spedizioni spagnole provarono l’esistenza di un continente sconosciuto, abitato da altri popoli ed altre civiltà, che non avevano giocoforza mai conosciuto Cristo e il Suo messaggio. La prima reazione non fu esattamente esemplare, se passarono anni prima che si riconoscesse a indios e nativi il semplice status di esseri umani; fu l’impulso di Ignazio di Loyola a fornire una soluzione, pragmatica come da stile gesuita, del problema: Cristo non era stato nel Nuovo Mondo, perché era compito e missione dei cristiani del “vecchio” evangelizzarlo. L’impulso della Compagnia di Gesù non solo evitò una crisi teologica senza precedenti, ma dette portò nuova linfa alla cristianità, permettendole di espandere i propri confini come mai prima di allora, sopravvivendo ai colpi potenzialmente mortali della Riforma protestante.

Al momento, qualsiasi dibattito su come e se la religione cristiana uscirebbe dall’incontro con forme di vita extraterrestri rimane, ovviamente, nel regno della pura congettura, un esperimento mentale che però aiuta a capire se e quanto la specie umana sia preparata ad una nuova rivoluzione copernicana. Rimane il fatto che, indipendentemente da ogni altra considerazione, qualsiasi notizia ci porti ad alzare nuovamente lo sguardo verso le stelle è più che benvenuta.

Giacomo Mininni

[Immagine tratta da Google Immagini]

Mawlid al-Nabi, Natale e Hannukkah: buone feste!

Quest’anno, una volta tanto, sono arrivate le feste senza che partisse la solita, noiosa polemica sui presepi a scuola, sulle feste comandate, sugli uffici pubblici chiusi. Una volta tanto, insomma, ci sono cose più importanti di cui discutere, e tra crisi di governo nostrane e attentati internazionali parrebbe proprio così.

Anche nella crisi, soprattutto nella crisi, il periodo delle festività invernali rappresenta però un’occasione unica e necessaria di rientrare in sé, di riscoprire la dimensione del sacer, di coltivare relazioni, di dedicare almeno per qualche giorno tempo ed energia ad una spiritualità che non sia quella del dio dell’efficienza, del guadagno e del consumo. Un’occasione anche, e pare paradossale in un momento di forte divisione e di muri resi ancora più alti da quanto accaduto a Berlino e Zurigo, di riscoprire unità e comunione con chi vive forme diverse di spiritualità, appartiene ad altre religioni, professa altri credo. Il mese di dicembre, infatti, raccoglie alcune tra le feste più sacre di un gran numero di religioni differenti, in primo luogo delle tre abramitiche.

Per la religione ebraica, dal 25 al 31 dicembre si festeggeranno i giorni dell’Hannukkah, la Festa delle Luci. La festività, pur se non tra le più importanti del calendario rabbinico, ricorda un momento di forte unità culturale e nazionale per il popolo d’Israele, la vittoria della rivolta guidata da Mattatia contro i Seleucidi, che avevano conquistato Gerusalemme ed avevano proibito il culto ebraico. In origine le luci cui si riferisce la festa erano quelle del nuovo altare consacrato nel Tempio a memoria della vittoria, un segno tangibile della reistituzione del culto rabbinico, ma con gli anni il simbolismo ha prevalso, si festeggia la vittoria della luce sulle tenebre accendendo candele, si coltivano le relazioni familiari, si fa festa con balli e canti tradizionali.

Per la maggior parte dei cristiani (gli ortodossi festeggeranno a gennaio), il 25 dicembre è ovviamente Natale, commemorazione del mistero centrale del cristianesimo, la nascita di Gesù a Betlemme che segna il momento in cui Dio si fa Uomo, l’infinito scende nel finito, l’eterno entra nel tempo. Sorvolando sul fatto che con ogni probabilità Cristo è nato in tutt’altro periodo dell’anno, il Natale è sempre stato un’occasione di riunione e di incontro, nelle comunità e nelle famiglie. Non troppo recentemente, la seconda festa più importante del cristianesimo dopo la Pasqua si è ridotta ad un lucrativo business fatto di luci e regali, il trionfo del consumismo che campeggia dove invece si ricorda la semplicità e l’umiltà di un Dio che si fa povero, senzatetto e profugo: un paradosso che è necessario superare per riscoprire il senso vero della festa.

Lo scorso 12 dicembre, infine, moltissimi musulmani hanno festeggiato il Mawlid al-Nabi, la memoria della nascita del Profeta Muhammad. Non per tutto l’islam il Mawlid al-Nabi, o i Mawlid in generale (ogni ricorrenza della nascita di grandi personalità, di solito santi), è considerato una festività, dato che per alcune scuole di pensiero come la salafita festeggiare una creatura, sia pure il Profeta, sarebbe una mancanza di rispetto verso il Creatore; la tradizione popolare ha però perlopiù avuto la meglio sui divieti teologici, e il Mawlid è occasione di grandi celebrazioni in molte parti del mondo, un segno di gratitudine verso l’uomo che seguendo la volontà di Dio ha unificato la Umma (la comunità dei credenti) e ha indicato la via per il Paradiso.

Tutte e tre le religioni abramitiche, nel celebrare la propria identità, durante le festività di dicembre richiamano all’unione, all’incontro, alla riscoperta non solo e non tanto di tradizioni, quanto di relazioni e momenti di comunione. Anche e soprattutto alla luce dei recenti fatti di cronaca, sarebbe opportuno ascoltarle, meglio se lontani dal delirio consumistico e fagocitante della logica dell’Occidente capitalistico.

Buone feste a tutti, quindi. Ma proprio a tutti.

 

Giacomo Mininni

 

[Immagine tratta da The Friday Times]

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L’esilio allo specchio

Intervento del Professor Dario Calimani, Docente di Letteratura Inglese presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, tenuto al Festival Internazionale di Cultura Ebraica “Jewish and the City”, a Milano, il 14 settembre 2014.

L’ebraismo è cultura di percorsi. Le sue coordinate etiche sembrano punti di una carta geografica. Un comportamento corretto si chiama derekh eretz, ‘la via della terra’; la trasgressione nei riguardi dell’uomo o di Dio è ‘‘averah’, un ‘passare oltre’ un ‘travalicamento’ del confine del lecito, tanto che la riparazione dell’errore si chiama teshuvah, ‘ritorno’, ossia una via che ne corregge un’altra, ripercorrendola a ritroso. Detto ciò, si capisce meglio che cosa intenda Dio quando, invitando Abramo a partire per la Terra Promessa, gli dice “Lekh lekhà” (Bereshith 12.1), che secondo le diverse letture significa ‘muoviti e va’’, ‘va’ a te stesso’, ‘va’ per il tuo bene’ (Rashi), ‘va’ da solo’ (Ramban), o ‘va’ definitivamente’ (Soloveitchik). Non si tratta solo di un invito a muoversi, è anche un invito a ricercare dentro di sé il deserto di cui liberarsi, per riempirlo di significato. Abramo, la sua strada, dovrà scoprirla da sé nel corso del viaggio, dopo essersi lasciato alle spalle un vuoto di valore, un deserto. Ma deserto è anche quello in cui, idealmente, Abramo può prevedere di imbattersi nella strada che ha davanti, una strada che ancora non conosce.

Il deserto, non è deserto da sempre, e non è sempre deserto. È il vuoto del passaggio, della solitudine, dell’abbandono. Ora luogo terribile dell’arrivo, ora luogo di una felice partenza. Ora passaggio obbligato, rapido quanto più possibile, che può durare, tuttavia, quarant’anni, o qualche secolo. Il deserto è la solitudine a cui Abramo è inviato, l’isolamento con cui dovrà misurarsi, soprattutto l’isolamento della coscienza nel quale dovrà fare le sue scelte e prendere le sue decisioni. Ma vuoto e solitudine possono essere riparati dalla scelta dell’uomo. Abramo lascia un deserto di disvalori per dirigersi verso un altro deserto, vergine, questa volta, da riempire di significati che ancora non sa. E quello che svolgerà sarà un percorso di ricerca. A riempire lo spazio fra il deserto da cui parte e il deserto a cui si dirige è il percorso dell’esilio. Esilio letterale ed esilio della coscienza. Lo spostamento spaziale è la metafora della ricerca di sé e del perfezionamento interiore; allo stesso tempo, è solo attraverso la sua partenza che Abramo può mettere a fuoco la propria identità, confrontandola con il prima e assegnandole laboriosamente un dopo. Ma Dio, il suo invito ad andare, il suo Lekh lekhà, lo pronuncia una seconda volta (Bereshith 22.2), sempre rivolgendosi ad Abramo, per invitarlo ancora una volta a muovere verso una nuova meta, la meta agghiacciante del Moriah, dove dovrà legare il figlio Isacco e sollevarlo sull’altare, forse per un sacrificio. E ancora una volta Abramo si muove, per provare di nuovo l’angoscia del vuoto che gli si para davanti all’improvviso. Un vuoto anche più straziante, questa volta. È quel vuoto il deserto in cui Abramo si ritrova solo, privo di qualsiasi aiuto, senza punti di riferimento, lasciato alla solitudine dei suoi interrogativi e della sua sola scelta. Scelta se ubbidire o meno, se agire o meno, se confessare o meno, se interrogare o meno. Ma, soprattutto, Abramo sa di dover scegliere la solitudine e scegliere in solitudine, per questo dice ai servitori di aspettarlo ai piedi del monte.

Il dubbio che assale Abramo è uno dei tanti deserti della coscienza che contrassegnano la Torah: la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden, la fuga di Noè dalla terra durante il Diluvio, la dispersione che segue l’episodio della Torre di Babele, la partenza di Abramo da Charan, la partenza di Giuseppe per l’Egitto e il lungo esilio del popolo in quella terra, e poi l’esilio errante attraverso il deserto vero e proprio. In ciascuno di questi casi, il confronto è con l’ignoto, con un senso da ricercare e riconoscere. Si ha la sensazione che il deserto, letterale e metaforico, il deserto, luogo d’esilio per antonomasia, sia il paradigma centrale di una storia, e sia stadio preliminare di qualsiasi progresso. L’esilio produce un vuoto che innesca un viaggio all’interno di sé, alla ricerca di valori esistenziali ed etici. Deserto ed esilio si intrecciano. Il deserto è uno spazio di esilio, anche quando è la libera scelta dell’eremitaggio; l’esilio è sempre un deserto, soprattutto quando è esilio della mente, esilio della memoria e dei sentimenti da ciò che ci si è lasciati alle spalle, per scelta o per imposizione, quando la mente, la memoria, i sentimenti sono rivolti al passato con la sensazione che certi bivi della storia avrebbero potuto riservarci mete diverse, più appaganti, meno tragiche. Esilio dell’umanità ed esilio dall’umanità.

Al centro dell’esperienza spirituale e culturale del popolo ebraico c’è, da sempre, la terra d’Israele. Ogni altro viaggio, ogni altra meta, è esilio. Un esilio talora confortevole, ma che alimenta sempre nell’intimo uno spazio di deserto che non si può riempire. Si può solo arricchire il proprio esilio con azioni compensatorie di indagine, di ricerca, di scoperta.

Non è forse un caso che galuth, l’esilio ebraico, richiami nel suo etimo la ‘rivelazione’. Ogni esilio, infatti, distanzia, avvicina, rivela. E ogni esilio porta con sé la sua memoria. Per mille esilî nella storia, si creano mille esilî nella mente.

Nessun ebreo ha mai dimenticato l’esilio babilonese e l’esilio dalla terra promessa. Né il duplice esilio dalla Spagna, da una diaspora all’altra, e gli infiniti frammenti di esilio da tutti i luoghi e da tutti i tempi dell’antisemitismo, fino agli esilî più recenti da Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Siria, Libano, Yemen, Iraq: esilî verso altri esilî, esilî senza ritorno. E poi gli esilî figurati, non meno sradicanti: l’esilio della coscienza marrana, per l’ebreo che cerca di sopravvivere nascondendosi; o, peggio, l’esilio della conversione, per l’ebreo che non resiste più al peso della diversità e della discriminazione.

L’archetipo di tutti gli esilî è, per assurdo, la liberazione dalla schiavitù d’Egitto, che si traduce in esilio nello spazio del deserto, che non è più schiavitù e non è ancora libertà in una terra propria; è meglio della schiavitù, ma è peggio della libertà.

È l’esilio in cui il popolo riprende possesso del proprio tempo e dei propri tempi, affrancandosi dai modi che ha dovuto assumere in schiavitù; l’esilio in cui il popolo si pone in ascolto della parola di Dio per reimpostare il proprio percorso. Capita tuttavia che Dio smetta di parlare, come fa con Abramo dopo l’akeda‘, dopo la legatura. Ma forse è Abramo che non sa, o non vuole, più ascoltare.

Ogni esilio è un deserto, ogni esilio è un vuoto, un tassello mancante, surrogato da memorie del passato, dal dolore del presente, e da speranze nel futuro che spesso si rivelano illusioni.

Per secoli, l’esilio del popolo ebraico è stato letto come condanna per il rifiuto a riconoscere Gesù come Messia e figlio di Dio. Il mito antigiudaico dell’ebreo errante, dannato all’erranza per scontare la sua colpa teologica, ha segnato la storia ebraica, e con discriminazioni, esilî e persecuzioni l’occidente ha inverato la maledizione, costruendo la figura del diverso: l’ebreo perpetuamente ‘ambulante’, sfuggente, inaffidabile, lo Shylock spietato che contraddice la cultura dell’amore. Con ghetti e massacri, la cultura e la storia dell’occidente hanno ricreato nel proprio seno, per gli ebrei, il deserto, un deserto in cui la voce di Dio ha fatto fatica a farsi sentire.

E, tuttavia, per quanto alienante, per quanto sconvolgente, nessun esilio è passato alla memoria del popolo ebraico come una distruzione assoluta, perché lo sradicamento può spesso tradursi in rivelazione. Gli stessi esilî mitici – dal Gan Eden, nell’Arca di Noè, dopo la Torre di Babele – sono dispersioni che preludono alla costruzione dell’umanità, al suo rinnovamento, alla formazione di un’identità linguistica e culturale. Persino l’esilio in Egitto e il peregrinare nel deserto sono premesse formative indispensabili perché gli ebrei riconoscano la propria identità di popolo. Dall’esilio in Babilonia gli ebrei ritornano con il Talmud. Dall’esilio in Occidente germina l’epoca d’oro della cultura ebraica in Spagna; dalla cacciata dalla Spagna cattolica fiorisce la mistica di Safed. Il pensiero si dibatte fra il compiacimento e l’autoconsolazione.

Un caso esemplare di esilio è delineato dalla storia di Ruth. Da una Giudea in carestia, resa improvvisamente inospitale, Naomi cerca riparo nell’esilio di Moav, e un suo figlio sposa Ruth, una moabita. Poi, finita la carestia in Giudea, Naomi, dal suo esilio, ritorna in patria e Ruth la segue lasciando la propria terra, Moav, per andare a sua volta in esilio, un esilio per scelta, che diventerà poi la sua stessa patria. Da Ruth, una straniera moabita esiliata, discenderà nientemeno che re David, e da re David il Messia. È come dire che lo stesso avvento messianico deve passare per l’esperienza formativa dell’esilio. O, quanto meno, che anche dall’esilio si può trarre beneficio.

Secondo il Talmud, la Shekhinàh, la presenza divina, accompagna il popolo ebraico in ogni suo esilio. Forse sono gli ebrei a portarsi dietro Dio nelle loro fughe, a non lasciarselo mai alle spalle. Per i qabbalisti questo esilio divino è una separazione di Dio da sé stesso, Dio vive e interpreta il dolore del suo popolo. In quest’ottica, l’esilio non è per l’ebraismo un male assoluto, un male in sé. I Maestri lo considerano una punizione, un luogo in cui riparare gli errori, il castigo per una giustizia malata(1), ma basta occuparsi di Torah, precisano, e l’esilio non è più tale.(2) Eppure, dice il Talmud per bocca di Rabbi Hana bar Abba, l’esilio è una delle quattro cose della cui creazione Dio si è pentito,(3) ma è una punizione da cui ci si può liberare con il ritorno alla fede.(4) L’esilio è sempre una premessa al ritorno, intesi entrambi sia in senso fisico che metafisico. E, per ritornare, l’ebreo deve agire e aspirare. Quando il popolo ebraico ritornerà, anche la Shekhinàh lo seguirà nel suo ritorno; ma, intima il testo mistico dello Zohar (XIII sec.), “finché Israele sarà in esilio il Nome Divino rimarrà incompleto”.(5)

L’esilio del popolo ebraico nella diaspora è la dispersione da quel luogo naturale che è la terra di Israele, e questo esilio, sostiene il Maharal di Praga, è una contraddizione delle leggi di natura. Un esilio che avrebbe disintegrato per sempre l’unità di qualsiasi popolo, se non fosse stato per pochi, fondamentali, elementi coesivi: lo studio della Torah, la separazione religiosa attraverso poche regole alimentari, e la coscienza di essere in attesa della redenzione. È stata questa la resistenza del popolo ebraico all’esilio, insieme all’instancabile anelito al ritorno che dall’esilio lo restituirà alla terra d’Israele.(6)

Ma esilio è anche quello metaforico della diversità, che può diventare una scelta, e l’esilio diventa allora identità. E più la dispersione diffonde discriminazione e sofferenza più l’ebreo motiva la propria diversità. La diaspora diventa missione. Così, il Maharal di Praga riconosce il valore positivo dell’esilio e ne afferma persino la natura redentrice.(7)

Se le costruzioni mitiche dell’esilio si prestano a letture teologiche – l’esilio come punizione o prova divina –, gli esilî storici svelano la loro impietosa natura umana. La penisola iberica espulse non più di duecentomila persone, eppure quell’esilio ha segnato in modo indelebile l’animo ebraico, colpendo gli espulsi ma anche coloro che rimasero al riparo di finte conversioni, votati al tormento e alla paura del marranesimo come duplice ipocrisia, verso sé stessi e verso gli altri, pur di restare ebrei e pur di restare in Spagna. Un esilio della coscienza forse più vuoto di umanità di qualsiasi deserto materiale.

Abramo, il primo ebreo, porta nella sua definizione di identità il segno del movimento, della provenienza, dell’esilio: ‘ivrì, ebreo, è colui che viene “dal di là del fiume”.(8) E “ebrei”, anziché “figli d’Israele”, è la definizione del popolo in esilio, un popolo che vive fra stranieri,(9) un popolo che viene dall’altrove ed è diretto all’altrove. La distanza appare come qualità intrinseca alla condizione umana. E se l’esilio è necessità esistenziale, allora ogni diaspora è il presupposto imprescindibile dell’operare sulla terra.

Il pensiero qabbalistico direbbe ottimisticamente che la condizione umana stessa è una frammentazione, la rottura del perfetto equilibrio universale. La ricomposizione dei frammenti, la ricostituzione dell’unità originaria è un obiettivo ideale, una riparazione all’esilio, realizzabile alla fine del tempo. A consentire il recupero delle scintille sparse è il pentimento, la teshuvàh, il “ritorno” dell’uomo a Dio e di Dio all’uomo(10). Ma teshuvàh è anche la “risposta” che l’uomo non sa dare – o non sa ricevere – alla domanda instancabile dell’esilio.

In quest’ottica di esilio assoluto, neppure la terra d’Israele è la meta definitiva. O, se lo sarà per l’ideale sionista che riporta il popolo a recuperare l’antica patria, non lo sarà, e non lo è ancora, per quella visione religiosa che vuole il ritorno in Israele come segno ‘riparatore’ dell’epoca messianica. Il ritorno è uno spazio continuamente differito dalla necessità dell’esilio esistenziale.

L’esilio è dunque uno spazio ambiguo. A tenere viva la consapevolezza dell’esilio ebraico è, oltre all’antisemitismo, la nostalgia per una terra che l’ebreo diasporico continua a sentire come Terra Promessa. “Il vero esilio di Israele in Egitto – dice un rebbe chassidico – era l’aver imparato a sopportarlo”(11). La coscienza dell’esilio sembra rispecchiare il senso della precarietà esistenziale.

Ma è inevitabile chiedersi perché l’ebraismo debba sperimentare come costante questo confronto con l’esilio letterale; perché la storia lo riporti prima o poi a confrontarsi con il deserto dentro e fuori di sé – e non penso solo alla Shoah, ma all’antisemitismo di questi giorni in Europa, alla fuga degli ebrei dalla Francia. Deserto è il nonsenso del pregiudizio ed è l’assenza di umanità.  Un deserto sin troppo popolato, tuttavia.

A ridimensionare ogni esilio, nella memoria collettiva, c’è voluta la Shoah, di fronte alla quale nessun esilio geografico è più il peggiore dei mali. L’ebreo si è dovuto misurare con altri esilî e altri deserti, esilî altrui: l’esilio della coscienza, l’esilio dell’umanità, l’esilio della pietà, l’esilio della ragione. È questa ferita sempre aperta a mostrare all’opera il linguaggio occidentale, che converte il galuth, la ‘rivelazione’ dell’esilio ebraico, nel dolore irredimibile dell’exilium.

È drammaticamente vero che la liberazione non è sempre libertà. A volte uscire dall’Egitto significa diventare prigionieri dell’ossessione e dell’angoscia.(12) La Shoah è un Egitto senza uscita, che non cessa di mietere le sue vittime. Persino la difesa disperata, talora smoderata, di Israele dal terrorismo sembra vittima di un incubo senza fine: la minaccia di una nuova Shoah.

L’esilio ha lasciato la sua eredità, e ti ricolloca in un deserto dove tutto deve essere ricostruito da zero, come se non si fosse già vissuti abbastanza, come se già non si fosse dato abbastanza alla propria civiltà. Come se ancora si dovesse rispondere non di ciò che si fa ma di ciò che si è stati, di ciò che si è subìto, di ciò che si è. Colpevoli, in ogni caso, per la memoria che si porta.

La memoria non è un antidoto all’esilio, ne è però la resistenza, il rifiuto all’oblio delle radici. L’ebraismo ricorda senza sosta la Creazione (“Zikkaron le-ma‘aseh bere’shith”, ‘ricordo per l’opera dell’inizio’) e l’uscita dall’Egitto’ (“zecher li-tziath Mitzraim”): non esiste inizio uscita dalla schiavitù se non si dà voce alle cose, se non si ha memoria di sé.

Così Abramo farà del lekh lekhà di Dio il proprio ubi consistam, ritrovando sé stesso nel proprio esilio, e conservandone la memoria.

Ma per quanta positività si cerchi nell’exilium, il suo segno originario fondamentale è l’ex- della sua radice, che ne fa un essere fuori, essere separato, essere distante, essere stato. Un non là che si coniuga con il non più. Lo spazio dell’alterità costruisce l’identità dell’assenza, della privazione e del non-riconoscimento.

L’esilio ebraico è forse un esilio particolare, che non permette alla memoria di spegnersi, e la trasmette ai posteri. “è più facile strappare un ebreo all’esilio piuttosto che strappare l’esilio dall’animo dell’ebreo”(13), proprio perché la Terra Promessa è sentita come ‘terra perduta’. Ed è la memoria a nutrire l’esilio, a mantenere vivo il senso di appartenenza sradicata, la nostalgia dell’altrove, l’ansia del ritorno. Duplice e contraddittorio il rapporto fra l’esilio e la sua memoria, come il segno stesso dell’esilio, che è condanna e vita insieme: avrebbe potuto essere morte, anziché esilio. In molti casi lo fu.

Un antico midrash racconta che le Tavole della Legge erano larghe sei palmi. Nel consegnarle all’uomo, Dio ne teneva fra le mani due palmi, Mosè altri due. I due palmi liberi al centro erano vuoti (14), e il Maharal di Praga dice che quel vuoto è lo spazio in cui prende vita il Patto stesso in divenire, Patto che solo grazie a quel vuoto si realizza.(15)

Come i due palmi centrali delle Tavole, anche l’esilio è un vuoto, una realtà che si definisce per assenza, per distanza, per perdita. Un deserto. Un vuoto presente che esiste soltanto in relazione alla pienezza di un passato perduto. L’esilio è lo spazio ideale della negoziazione, forse anche fra Dio e l’uomo, ma certamente fra l’uomo e l’uomo; è lo spazio in cui l’uomo, privato delle differenze e provvisto della sua sola umanità, può riconoscersi nella sete dell’altro. Come nelle Tavole della Legge, le mani tenderanno l’una all’altra, senza mai toccarsi, condividendo tuttavia l’esperienza di quello spazio vuoto che è l’esilio comune dell’umanità, in un impossibile contatto incessantemente anelato. Che sarebbe già, tuttavia, un patto, un contratto.

Si tratta allora di ridefinirsi, ciascuno, nella distanza e nella diversità, per riconoscere, oltre all’aridità del deserto, l’esilio dell’altro. Calarsi nel deserto per ritrovare sé stessi, non nelle dinamiche di massa ma nel rapporto diretto con l’esilio del tu, e riconoscersi dando senso a quello spazio vuoto che ci divide, e prendere noi stessi senso nel rapporto con l’altro. Perché non c’è liberazione dall’esilio che non contempli, oltre alla libertà propria, la libertà dell’altro. E non c’è altro spazio d’azione che quel deserto, quello spazio di espressione potenziale che sta al centro delle Tavole, nello spazio vuoto fra l’io e il tu, che solo un patto può riempire, perchè la libertà comune sta lì. Il deserto, alla fine, è meno deserto se lo si condivide.

La forza della speranza non può che nutrirsi dell’esperienza stessa dell’esilio, amara e consolatoria insieme:

Vienna, 1939. Un ebreo vuole lasciare il paese per mettersi al sicuro. Va allora in un’agenzia di viaggi e dice all’impiegato:

“Buongiorno. Vorrei un biglietto.”

“Un biglietto per dove?”, chiede l’impiegato.

“Non lo so. Non ho preferenze. Ha un mappamondo?”

“Sì, certo. Eccolo”. L’impiegato mette il mappamondo sul bancone. L’ebreo, allora, lo fa girare velocemente, chiude gli occhi e punta il dito su un paese a caso. Poi apre gli occhi e guarda: “Inghilterra!”

“Ah bellissimo paese.”, dice l’impiegato, “Purtroppo, lì, chiedono il visto.”

L’ebreo, allora, gira di nuovo il mappamondo, chiude gli occhi e ripunta il dito a caso: “Stati Uniti!”

“Oh, che peccato: sarebbe una splendida scelta, ma non accettano più ebrei.”

L’ebreo gira ancora il mappamondo, chiude gli occhi e punta il dito: “Sudamerica!”

“Ma,” ribatte l’impiegato, “veramente, è un posto poco sicuro per un ebreo”.

L’ebreo fa girare di nuovo il mappamondo, chiude gli occhi e punta ancora il dito: “Australia!”

L’impiegato lo guarda con un sorriso stampato sul volto: “La più bella scelta che potesse fare! Ma c’è una lista d’attesa di parecchi anni!”

L’ebreo, sconfortato, si appoggia al bancone e chiede all’impiegato: “Scusi, non lo avrebbe un altro mondo?”

NOTE

1. Sifra 88d.

2. Tanna de Be Elyyahu, a c. di M. Friedmann, Vienna, 1902, p. 148.

3. Sukkah 52b.

4. Mekhilta, H.S. Horovitz ed., Berlin, 1931, pp. 114-115, 252.

5. Zohar, VaYetzé, 154b-155a.

6. Cfr. Ben Zion Bokser, The Maharal. The Mystical Philosophy of Rabbi Judah Loew of Prague, London, Aronson, 1994, pp. 171-174.

7. Cfr. A. Neher, Il pozzo dell’esilio, Genova, Marietti, 1990, p. 48.

8. Rashi nel commento a Genesi 14:13.

9. Cfr. U. Cassuto, A Commentary on the Book of Genesis, Jerusalem, The Magnes Press, 1964, II, pp. 302-03.

10. Cfr. A. Safran, La Kabbalà, Roma, Carucci, 1981, p. 367.

11. Hasidic Anthology, a c. di L.I. Newman, New York, Shocken Books, 1963, p. 99.

12. Cfr. L.L. Langer, “Remembering Survival”, in Holocaust Remembrance. The Shapes of Memory, a c. di G.H. Hartman, Oxford-Cambridge (Mass.), Blackwell, 1994, pp.70-80.

13. S. Levin, cit. in A Treasury of Jewish Quotations, a c. di J.L. Baron, New York, Aronson, 1985, p. 112.

14. Shemoth Rabbah, XXVIII, 1; XLVII, 6.

15. Cfr. A. Neher, Il pozzo dell’esilio, pp. 45, 135.

Dario Calimaniurl

 

La Shoah, Israele e l’ebreo diasporico

Il Novecento è stato per l’ebraismo un secolo da dimenticare. La crisi che ha prodotto nella psicologia ebraica è una ferita che ci porteremo dentro per un tempo inimmaginabile; come se la storia non ci avesse già segnato a sufficienza l’animo e la mente, lasciando nel nostro inconscio collettivo lo sfregio delle sue cicatrici. Il Novecento ha confermato e ha legittimato in noi antichi sentimenti: sospetto, paura, sfiducia, tentazione di fuga, il pensiero a un passaporto sempre valido; e un senso di precarietà che da ansia si è nel tempo trasformato in consuetudine.

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Etica e politica dell’ebraismo italiano

[di Dario Calimani – articolo tratto da ‘Pagine Ebraiche’, Dicembre 2010]

La crisi della cultura e della politica italiane sta forse trascinando con sé anche la cultura e l’etica dell’ebraismo che viviamo?

La domanda viene naturale quando si mediti sul dibattito intermittente in corso con il mondo cattolico, da un lato, e con il mondo politico, dall’altro. Chi, da anni, cerca di tenere vivo il dialogo con il mondo cattolico avrebbe ogni elemento a disposizione per ricredersi sulla sua utilità ogni qualvolta, attraverso le sue molteplici e variegate voci, la Chiesa si esprime nei confronti dell’ebraismo. Con tattica semplice e collaudata, voci sempre diverse si risvegliano per negare la Shoah, per riaffermare il valore della “pro perfidi Judaeis”, per rimproverare chi non riconosce la silenziosa santità di Pio XII, per affermare che il Vaticano ha salvato più ebrei di quanti non ne abbia lasciati morire, per biasimare l’ebreo caparbio che non si converte, per aggredire la cultura (ebraica) del relativismo. Ogni tanto poi il cristianesimo scende in politica, e dal suo piedistallo religioso censura l’ingiustizia di Israele che, contro l’interesse politico dei palestinesi, continua a esistere.

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