Twin Peaks: David Lynch e il concetto di “mana”, tra magia e illusione

Una grande tenda rossa, un pavimento a zig zag con motivi bianchi e neri che sembrano rincorrersi all’infinito, una lampada con accanto due grandi poltrone di pelle. Se ci si imbatte anche solo per sbaglio nel nano danzante o nella signora ceppo di Twin Peaks, le reazioni possono essere due: cambiare canale (e successivamente chiamare l’amico che ci ha consigliato di guardare una serie tv ambientata negli anni ’80 e che sembra pura follia) oppure entrare e sederci anche noi in quella sala d’attesa abbastanza inquietante.

Eh sì, perché il regista di Mulloland Drive e Velluto Blu o lo si ama o lo si detesta profondamente. Non sembrano esserci vie di mezzo, o perlomeno, fino ad ora, non ho incontrato nessuno che possa restargli completamente indifferente.  

Semafori lampeggianti, fasci di luce tremolante, cani che abbaiano, suoni che sembrano provenire da un’altra dimensione e personaggi che non hanno più nulla di umano. Il linguaggio visivo di Lynch è ricorrente, ma lungi dall’essere una semplice scelta stilista ed estetica, potrebbe trovare anche una spiegazione di tipo filosofico.

«Stare seduti davanti al fuoco è ipnotico. Magico. Provo le stesse sensazioni con l’elettricità. Il fumo. Le luci tremolanti»1. Nell’opera di Lynch ci sono veri e propri elementi magici. Prendiamo l’elettricità, per esempio, qui sembra essere una forza oscura dotata di vita propria, quasi una manifestazione di qualcosa che nulla ha a che fare con l’elettricità che noi tutti conosciamo grazie alla fisica. Anche il fuoco è un elemento centrale della serie tv che, come ha notato Roberto Manzocco,  quando appare, indica che si stanno per scatenare emozioni molto intense.  

Questa prospettiva sembra ricollegarsi a una mentalità pre-scientifica, primitiva. Per spiegarla si può fare riferimento al concetto di mana, una forza capace di permeare tutto, non solo gli oggetti viventi, ma anche quelli inanimati.

Fu il missionario ed etnologo inglese Codringtone a diffondere questo concetto, esponendolo per la prima volta nella sua opera The Melanesians del 1891. Un’espressione difficile da definire, su cui antropologi e sociologi si sono confrontati a lungo per diverso tempo. Una definizione molto efficace sembra essere quella di Durkheim, storico delle religioni, secondo cui il mana sarebbe: «la materia prima con la quale sono costruiti gli esseri d’ogni tipo che le religioni d’ogni tempo hanno sacralizzato e adorato»2.

Molti studiosi sostengono che sia proprio il mana ad essere all’origine della religione, dal momento che, rappresentando il sacro per eccellenza, esso si identifica con una forza religiosa collettiva e anonima che è contemporaneamente immanente e trascendente alla realtà.

Per capire questo aspetto, è necessario fare un ulteriore passaggio. In tempi recenti, è stato il filosofo francese Georges Gusdorf a sottolineare come la mentalità primitiva sia essenzialmente monista. In tal senso, per i popoli primitivi non esistono un mondo naturale (governato da leggi fisiche) e un mondo soprannaturale (governato da leggi divine), ma c’è un’unica realtà, che vive e pensa. Che posto assume l’uomo all’interno di essa? Dimentichiamoci la contrapposizione tra soggetto e oggetto, frutto anch’essa di una separazione tramandata da Platone a Cartesio nella storia del pensiero occidentale. Per l’uomo primitivo, l’essere umano è parte integrante di questa realtà, è fuso con essa, la vive e la sperimenta con il corpo e con lo spirito, quotidianamente.

Il mana appare quindi come un approccio fondamentale della visione del mondo degli uomini primitivi, una caratteristica che essi attribuivano a tutto ciò che li circondava: dall’albero alla roccia, anche ciò che è inanimato, infatti, è dotato di questa «capacità di avere intenzioni»3.

Ecco che allora si capisce meglio perché il “mana”, secondo alcuni studiosi, sarebbe all’origine della religione: «[…] se il mana viene attribuito agli oggetti in sé, allora da ciò sorgerà l’idea che tale forza possa essere manipolata, il che porterà poi alla nascita della magia; se invece si riterrà che il mana non appartenga all’oggetto in sé, ma a uno spirito che lo controlla, allora da ciò nascerà la necessità di blandire quest’ultimo, e da questa esigenza si svilupperà successivamente la religione»4.

L’immaginario creato da David Lynch fa riferimento proprio a questa mentalità di tipo primitivo e magico, a una concezione della realtà monista.

Nella cittadina di Twin Peaks, infatti, materia e spirito si fondono, perdendo i propri confini. Ecco allora perchè nulla è come sembra, tutto nasconde una realtà che va al di là di ciò che si vede. É lo spirito, però, a prendere il sopravvento. Insomma, qualcosa mi dice che in Lynch, quel che a noi sembra un sogno è la vera realtà, di cui quella materiale appare come una mera manifestazione illusoria.

 

Greta Esposito

 

NOTE:
1. D. Lynch, In acque profonde – Meditazione e Creatività, Mondadori, Milano.
2. Durkheim, Les formes elementaires de la vie religieuse, p. 284
3. R. Manzocco,  Twink Peaks. David Lynch e la filosofia. La loggia nera, la garmonbozia e altri enigmi metafisici, p. 26.
4. Ibidem

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Leggere le decisioni di giustizia attraverso Marx, le scienze cognitive e un cantastorie

Tradizionalmente il diritto e la giustizia vengono raccontati ricercando l’equilibrio tra la fissità della norma giuridica e le interpretazioni del fatto alla luce della logica giuridica. Tutto ciò in una apparente apollinea perfezione delle forme. Lo fa il giudice (o almeno crede di farlo, sempre in buona fede) e lo fanno anche (o almeno credono di farlo, usualmente in buona fede) il pubblico ed i media che si occupano di vicende di cronaca. Questa rigidità cognitiva presenta due limitazioni: da un lato non rispecchia le varie sfaccettature che il diritto e la giustizia applicata (lo jusdicere) portano con sé nell’esercizio di questa complicatissima attività del decidere umano; dall’altro, come conseguenza della prima limitazione, trasforma un fare ‘molto concreto’ dell’agire umano in qualcosa di estraneo alla percezione, non solo sensoriale ed istintiva, ma persino intellettuale.

Il ‘fare giustizia’ viene così trasfigurato in qualcosa che può essere trattato come il prodotto di un duello rusticano o di una prova ordalica, privi di regole popperianamente falsificabili o, almeno, empiricamente riscontrabili. Dove il vincitore (colui che decide) è, al contempo, l’effetto dell’espressione di una morale mitologica o di una altrettanto mitologica immoralità. Rompere la dialettica improduttiva tra fatto e diritto vuol dire creare un percorso cognitivo sulla giustizia che può ‘suonare’ come eccessivamente dissacrante, spudoratamente dionisiaco, banalmente da cantastorie. Ma sono le scienze cognitive ad imporre di rompere lo schema apollineo di una presunta dialettica costruttiva tra fatto e diritto, a favore dello schema ‘senza confini’ ed eracliteo (più aderente, appunto, allo spirito musicale dei cantastorie folk) dettato dalla psicologia cognitiva, la filosofia della mente e l’antropologia culturale.

Il cervello del giudice è composto di neuroni e sinapsi, neurotrasmettitori e DNA metilato. Non è un ‘angelo cognitivo’, ma un soggetto antropologicamente analogo a tutti gli altri individui, che ‘vivono’ di euristiche (scorciatoie cognitive) e bias (errori cognitivi) trappole mentali e pregiudizi. Le scienze cognitive, con il loro approccio ‘aperto’ e multidisciplinare indeterminato, consentono di affondare l’interpretazione sulla giustizia applicata nel cuore pulsante della decisione (nel cervello) evidenziando come questo sia paragonabile ad una biblioteca, laddove lo spazio del libero arbitrio è direttamente correlato e dettato dai ‘testi’ che formano la biblioteca medesima. Non possono essere ‘lette’ scelte differenti dai ‘volumi’ presenti in ‘archivio’ ed il contenuto di detti volumi segna il ‘colore’ del libero arbitrio e del libero convincimento (e dunque, anche, le euristiche, i bias e le trappole mentali del decisore).

Per comprendere realmente le vicende di giustizia, oltre alle scienze cognitive, è decisiva anche la filosofia, che da sempre studia i grandi temi dell’umanità, tra i quali la libertà del fare è certamente uno tra quelli più ponderosi. Sul piano filosofico lo spunto qualificante e direttamente correlato con gli statuti scientifici sulla cognizione, risiede nel pensiero di Marx ed in specie nella parte afferente il concetto di struttura e sovrastruttura. In Per la critica dell’economia politica (1859) l’autore afferma che «non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza»; più specificatamente, ed in modo precipuo circa il rapporto uomo-legge, Marx sottolinea che questo ‘essere sociale’ (l’uomo) è determinato dalla struttura della produzione economica e la legge è solo una sua sovrastruttura. Dunque, per cambiare la legge, è necessario, preliminarmente, modificare la struttura che ne sta alla base.

L’approccio da cantastorie all’interpretazione ed alla narrazione della giustizia, rompendo con lo schema dialettico tra fatto e diritto come unica chiave di lettura dello jusdicere, consente una reinterpretazione del libero convincimento alla luce della psicologia cognitiva e del rapporto conflittuale tra struttura e sovrastruttura di tradizione marxiana. Mi spiego: il cervello del giudice è, come detto, antropologicamente identico a quello di ogni altro individuo. L’io cognitivo del singolo individuo determina la prima struttura cognitiva del giudicante. Tale cervello (con la sua biblioteca personalissima sopra descritta) è però inserito all’interno di un diverso sistema cognitivo, con uno statuto suo proprio, costituito dall’apparato di giustizia che si concretizza (esplicitato in modo generico) nella garanzia di proteggere i cittadini onesti da coloro che delinquono, nel tutelare la vittima, nel sanare una ferita sociale (Durkheim), nello svolgere una funzione di ‘crime control’ e nell’ ‘istruire’ la collettività attraverso la pena ed il processo nei confronti del singolo (funzione general-preventiva della pena). L’inserimento del giudice all’interno di questo apparato o sovrastruttura di secondo livello costituisce, secondo il modello-Zimbardo (esplicitata nel testo L’effetto Lucifero), una forma assai cogente di mente estesa che ragiona, in armonia o in conflitto, con quella dell’io (di primo livello).

A questi due livelli di cognizione si deve aggiungere un ulteriore livello cognitivo, ennesima sovrastruttura rispetto all’io pensante ed all’io mente estesa, e cioè dire la legge. Come per Marx, per il quale la legge è sovrastruttura della coscienza collettiva, la medesima legge costituisce, reinterpretata in chiave scientifico-cognitiva (‘vestita’ sul giudice) una sovrastruttura (l’ennesima) nel rapporto cervello, mente estesa e mondo (laddove il mondo è il non-io del giudice, l’oggetto del giudizio, il fatto da giudicare attraverso lo jusdicere). La legge è, così, a sua volta, un nuovo livello cognitivo ed anche una nuova forma di mente estesa, che gioca un suo ruolo dialettico e confliggente con l’io cognitivo e la mente estesa costituita dall’apparato della giustizia.

A questo schema complesso e composito va poi aggiunto, in specifici casi di giustizia applicata, un altro mondo cognitivo, assai spesso alieno rispetto alle conoscenze del giudice e costituito da ‘menti estese’ quali la scienza e la tecnica (al servizio della prova penale), la normativa amministrativa (si pensi a quella antiriciclaggio rispetto al delitto di riciclaggio), oppure la scienza medica, l’ingegneria o altre specialità peritali.  Il precipitato di questa lettura della cognizione processuale, estranea alla tradizionale interpretazione giuridica (ma, come detto, da cantastorie folk) comporta delle conseguenze decisive, sia in ambito filosofico che, più specificatamente, in ambito cognitivo. Per quelle di ordine filosofico: Marx ha statuito che la liberazione dalla trappola struttura-sovrastruttura consiste nella rottura della struttura, volta poi a modificare la sovrastruttura (è la dottrina del materialismo storico); per Hegel, secondo il quale la legge è un momento della fenomenologia dello spirito, nel percorso dialettico tendente all’assoluto, detta liberazione è protesa verso l’unità epistemica nel rapporto io-mondo. Per entrambi i sistemi filosofici il riscatto e la piena coscienza è dunque possibile, così mettendo in salvo l’io dall’alienazione del sé. Per il giudice questo non può accadere. Costui non può rompere né la struttura né la sovrastruttura (l’io cognitivo di primo livello o l’io della mente estesa dei livelli successivi); né, del pari, può abbattere la sovrastruttura costituita dalla legge. In questo modo la dialettica dell’ io-giudice (con gli apparati cognitivi predetti) ed il citato non-io, costituito dalla questione di fatto da risolvere mediante lo jusdicere, resta intrappolata, senza scampo, nei percorsi cognitivi del giudice e ciò in quanto priva di una soluzione armonica. Tale indissolubile trappola si risolve, sempre marxianamente, in una continua alienazione della coscienza cognitiva. Il risultato di questa alienazione è un gioco di euristiche e bias cognitivi continui che, come in un flipper impazzito, rischiano di ‘giocarsi reciprocamente’ la pallina del fatto, oggetto del giudizio (il non-io del giudice) e della conseguente decisione. Con la evidente perdita del tasso di certezza della scientificità cognitiva di ogni decisione e del rispetto delle regole di diritto.

Luca D’Auria

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Spirito apollineo e dionisiaco nel processo penale: l’estetica del giudizio criminale

Il processo penale contemporaneo, per il vero come anche quello antico, medioevale e moderno, suscita interesse, pulsioni sociali, contesa emotiva; tende all’odio verso il colpevole e compassione verso la vittima. Basta pensare ai casi di cronaca più recenti per rendersi conto di quanta enfasi popolare accompagni la storia dei processi. Ne cito solamente alcuni: la strage di Erba, gli omicidi di Garlasco, Perugia e, da ultimo, il processo a Massimo Bossetti. Questo tuttavia accade anche per vicende giudiziarie meno cruente e sanguinose, ma ugualmente “sentite” dall’opinione pubblica, come i procedimenti contro l’ex premier Berlusconi, “mafia-capitale” o gli scandali per i conti esteri di questo o quel personaggio pubblico.

La tensione che si crea tra l’aula di giustizia e la società è palpabile e sostenere, come talvolta ha fatto la Corte di Cassazione, che tutto questo non possa incidere sul giudizio tecnico è un’illusione. Lo è per due motivi fondamentali: l’uno perché l’essere umano non è una macchina, il secondo perché è il diritto stesso che attribuisce al giudicante una funzione sociale attraverso lo scopo general-preventivo della pena che consiste nella portata educativa della pena stessa, non solamente nei confronti del reo, ma di tutta la società. Già l’antropologo e sociologo Émile Durkheim aveva categorizzato quest’esigenza laddove affermava che il delitto causa una frattura nel tessuto sociale che viene rimarginata proprio attraverso la sanzione penale e dunque il processo. La collettività ha bisogno del colpevole per emendarsi dal delitto e per essere sicura di poter vivere in pace, senza pericolo.

Persino l’avvocato cavalca questo istinto allorquando, sostenendo l’innocenza del proprio assistito, crea pressione emotiva sostenendo che “il colpevole è ancora in libertà”. Il caso di Bossetti è paradigmatico in questo senso: il rapimento e l’omicidio della giovane Yara ha sconquassato la quiete della ristretta e civilissima comunità della provincia bergamasca ed il bisogno di sapere “chi è stato” è un’esigenza di vita quotidiana. Nel caso oramai quasi dimenticato dell’omicidio di Milena Sutter (Genova, anni Settanta) accadde qualcosa di molto simile: una bellissima ragazzina fu “prelevata” all’uscita dalla scuola, tenuta non si sa dove per alcuni giorni e poi gettata in mare. A Genova la “terra di nessuno”, dove far ritrovare un corpo esanime, è il mare; a Bergamo un campo incolto. A quel tempo i genitori avevano paura a mandare i propri figli a scuola, oggi accade lo stesso. E’ il “pericolo dell’accettare le caramelle dagli sconosciuti”.

Il processo, chiamato a giudicare di vicende così emotivamente devastanti, è, al contrario, un laboratorio scientifico di regole, di eccezioni, di cavilli che non sono perversioni da Azzeccagarbugli ma garanzie contro gli abusi, regole che garantiscono la logicità delle decisioni, strumenti per evitare che i protagonisti del processo operino da vittime dell’impulso e dell’emozione invece che da algidi tecnici. La toga rappresenta, metaforicamente, proprio questo: la necessità di far trionfare il diritto, cioè dire la scienza giuridica. L’errore cognitivo che “stacca” il ragionamento giuridico, per offrirsi all’impulso della sola general-prevenzione e quindi la necessità di ristabilire l’ordine e soddisfare la collettività con la sua “sete di giustizia” è manifestazione della “pop justice” e dunque del prodotto giudiziario “per la collettività”, come le opere pop, rispetto a quelle della tradizione, sono nate per essere trasfuse nei manifesti e nei posters, alla portata di tutti e per tutti. Il diritto tenta di cautelarsi contro questo rischio attraverso la “rimessione del processo” che impone lo spostamento del luogo dell’udienza quando le condizioni ambientali non consentono un giudizio sereno. E’ del tutto evidente la difficoltà di capire quando il processo travalichi così tanto nel “pop” da incidere sulla terzietà del giudice.

Ancora una riflessione sul caso Bossetti: quanti possono comprendere l’anomalia di quella prova del DNA ritrovata sull’indumento intimo di Yara e quanto, proprio quella dislocazione della traccia sul suo indumento, diviene una rappresentazione estetica capace di portare ad errori di prospettiva rispetto al migliore giudizio (va ricordato che altre tracce genetiche di soggetti non identificati sono state trovate altrove ma ad esse non è stata data importanza). Com’è possibile che il Tribunale di Brescia abbia, durante l’indagine, dichiarato che è necessario fare chiarezza su quella prova e la Corte di Assise di Bergamo abbia potuto bypassare questa indicazione ritenendo quell’indizio “preciso”, oltre che “grave” e quindi pienamente capace di provare la colpevolezza di Bossetti? I giudici di Brescia si sono espressi in base ad una valutazione tecnica, che esigeva persino meno approfondito (perché la fase processuale era diversa) rispetto a quella del primo grado; eppure hanno stigmatizzato quella prova, dando le indicazioni, in diritto, di come rimediare al dubbio. Senza il rimedio suggerito quel dubbio resta come un macigno sul futuro del processo. In linguaggio giuridico il dubbio sulla prova si chiama “ragionevole dubbio” e porta all’assoluzione.

Io credo che il processo, anche quello contro Bossetti, viva e sia vissuto con questa doppia natura: una tecnica, complessa e scientifica, l’altra emotiva, passionale, general-preventiva e sociale. Tutta la vita vive di questa dicotomia, dunque anche il diritto. Lo ha spiegato al mondo il grande filosofo Nietzsche nella sua opera La nascita della tragedia, laddove ha raccontato dell’eterna lotta tra lo “spirito apollineo” e lo “spirito dionisiaco”: il primo rappresenta la perfezione delle forme, l’armonia, la logica, ed il secondo la passione, l’emotività, l’irrazionale. Il processo è come l’arte, deve trovare l’equilibrio tra il diritto apollineo e la società dionisiaca, tra il giudice apollineo e il coro (la pubblica opinione) dionisiaca. La vicenda di Bossetti è anche questo e forse, proprio per questo, appassiona la gente (il coro della tragedia greca).

Luca D’Auria

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Diritto e giustizia alla luce dell’antropologia culturale

Una riflessione sull’utilità evolutiva dei sistemi di procedura penale per la mente del giudicante.

L’antropologia culturale studia le mutazioni della conoscenza sul modello di quelle genetiche. Con una differenza fondamentale, che, in quelle culturali, i geni-idee, “viaggiano” assai velocemente e sono così destinate ad essere riformulati ed anche destituiti in poco tempo, mentre le mutazioni genetiche sono rare e intervengono in tempi assai lunghi. Porre l’attenzione ai mutamenti culturali insiti nell’accertamento penale è interessante perché rispecchia pienamente questo approccio antropologico e pone altresì delle questioni spinose relative alla reale utilità di queste mutazioni rispetto alla funzione sociale della giustizia penale. E’ noto come ogni mutazione (prima fra tutte quella genetica) ricombini la struttura su cui interviene e questa “novità”, per essere accettata, debba essere “giudicata” favorevole per l’evoluzione della specie di riferimento, prima di divenire un nuovo patrimonio consolidato. Accade lo stesso per le mutazioni culturali, laddove in luogo dei geni vi sono, appunto, i geni-idee, con la peculiarità precedentemente accennata e cioè che queste sono assai rapide ad entrare a far parte del bagaglio del pensiero ma con altrettanta velocità possono non resistere al principio evolutivo e dunque essere accantonate perché disutili. Valutando le modifiche di paradigma del processo penale ci si rende conto come, nel volgere di pochi secoli, il processo ed in specie la legislazione, che funge da patrimonio genetico del medesimo, siano stati oggetto di mutazioni considerevoli: si è passati rapidamente da una fiducia incontrastata nel giudizio divino (l’ordalia) per arrivare, oggi, al processo “ad armi pari” (il sistema accusatorio moderno) passando per l’Inquisizione, che riponeva la massima fiducia nel giudicante e nella funzione della tortura come naturale via per raggiungere la verità, senza trascurare il sistema della prova legale in cui, a ciascun mezzo probatorio, veniva assegnato un valore numerico di affidabilità predeterminato, togliendo al giudice ogni forma di interpretazione soggettiva ai fatti. Differentemente da ciò che la vulgata sostiene usualmente, il modello processuale penale italiano è certamente, nei suoi connotati normativi, uno dei più evoluti di sempre. Basta infatti pensare che le norme che lo compongono ricalcano tutti i criteri tipici di demarcazione tra metodi scientifici e pseudo-scienze, a favore della soluzione scientifica dell’impianto regolatore del procedimento. Vale ricordare i due principali cardini dell’epistemologia recepiti dal codice: quello neopositivista, già di origine newtoniana, della verificabilità empirica degli assunti e quello falsificazionista di tradizione popperiana. L’accusa infatti deve provare il suo atto d’accusa portando delle prove concrete dei fatti che dimostrino l’accadimento e la sua attribuibilità ad un determinato soggetto. Tale proposta cognitiva non può essere un postulato ma deve altresì resistere alle confutazioni (e dunque deve poter essere falsificata); in questo modo, nella sua motivazione, il giudice è chiamato a esaminare i dati empirici che riscontrano quanto sostenuto dall’accusa ed anche esplicitare il perché l’ipotesi resiste alle smentite. Alla luce di tutto ciò v’è da chiedersi per quale motivo il giudizio di colpevolezza (oltre ad ogni ragionevole dubbio) possa non risultare sempre manifesto o, addirittura, essere smentito, sulla base dei medesimi elementi, dal giudice di rango superiore. Una risposta può essere offerta proprio dall’antropologia culturale, che, si sa, è uno dei formanti delle scienze cognitive. Durkheim ha ben evidenziato come il delitto crei una ferita nella società e la punizione del colpevole rappresenti, non solamente il ripristino della legalità, ma specialmente la cura contro quella ferita ed il male che essa ha prodotto; in questo modo il giudice si trova ad avere una funzione di garante del tessuto sociale e, in ciò, può trovare, nell’evoluzione culturale del processo (che crea orpelli spesso inestricabili rispetto ad una pronta risposta repressiva) un limite a tale ruolo di “clinico” del male prodotto. Ciò non avviene con pregiudizio o cattiva conoscenza delle regole processuali, ma proprio mediante percorsi cognitivi naturali, principalmente dovuti al ruolo svolto. La disutilità dell’evoluzione (giuridico-culturale) può dunque fare da freno alla rigorosa applicazione del diritto. In quest’operazione mentale il giudicante si trova a sostituire l’epistemologia con l’ermeneutica e ciò nel senso che supera la regola attraverso l’interpretazione. L’epistemologia obbliga infatti ad un ragionamento esclusivamente basato sulla disciplina normativa e non consente di aggirare questa in nessun modo; di contro, l’ermeneutica, metodo tipico dello storico, vuole che chi è chiamato a dare significato ad un fatto utilizzi tutte le conoscenze possibili, tra cui l’interpretazione. Se uno storico vuole decodificare uno scritto antico, magari leggibile solo parzialmente, attingerà ad altre fonti per tentare la migliore interpretazione. L’epistemologo, di contro, dovrebbe dichiarare sconosciuta la parte non manifesta. Per la prova penale e per il principio del ragionevole dubbio, la normativa impone la medesima condotta: il giudice deve fermarsi sui “vuoti probatori”, non può utilizzare né la scienza propria né altre conoscenze per superare il dubbio, magari re-interpretando la prova. Spesso, però, ciò non accade. Dal punto di vista delle scienze cognitive questa può essere una trappola mentale (un’euristica) che scaturisce dal ruolo di “crime controller” del giudice; dal punto di vista dell’antropologia culturale si può affermare che l’evoluzione normativa e dunque culturale (del processo) si frapponga alla soluzione sociale del problema-delitto e dunque assurgere al ruolo di evoluzione disutile (per l’evoluzione stessa) della specie (società). Questo “imbrigliamento” della mente del giudicante nel ruolo svolto, richiama gli esperimenti di Zimbardo (raccolti nel volume “L’effetto Lucifero”) secondo cui l’attribuzione di una determinata funzione ad un essere umano ne “ricabla” i percorsi neurali, anche e ben al di là di quelle che sarebbero le propensioni di costui, al di fuori del ruolo assegnatogli. Queste ragioni danno una illuminante spiegazione alla scollatura che assai spesso si può riscontrare tra il diritto e la giustizia applicata, laddove il primo è il lato dell’evoluzione culturale ed il secondo la sponda della modalità adattiva per l’evoluzione della specie dei geni-idee contenuti nelle regole astratte. Il giudice si trova così sul crinale di un doppio ruolo, quello di custode principale dell’evoluzione antropologico-culturale e quello del controllore del buon andamento sociale e del distributore di decisioni che sappiano rispondere a questa sua proiezione extragiuridica. Ciò porta ad inestricabili problematiche di ordine cognitivo per rendere compatibili tali ruoli, con buona pace per gli assunti dogmatici che vogliono il giudice, sempre e comunque, esente da contraddizioni ed errori mentali, diversi da quelli patologici preveduti dal codice come cause di impossibilità a svolgere la funzione (da cui le quasi insignificanti regole sull’astensione e la ricusazione).

Luca D’Auria

Utilità del sacro o sacra utilità? Isis, la “fatwa” che giustifica il traffico di organi umani

L’Isis, attraverso la Fatwa (68), ovvero una sentenza religiosa emessa dal consiglio degli ulema il 31 gennaio 2015, esplica come l’espianto di organi da un prigioniero per salvare un musulmano sia giustificabile. Tuttavia, il testo, da solo, non costituisce la prova che lo Stato Islamico abbia avviato un traffico di organi umani.

Ci imbattiamo nelle divergenze che si schiudono circa la questione se si debba rifiutare la pena di morte in quanto tale oppure soltanto determinate forme della sua esecuzione. Vi è il pericolo di regredire rispetto alle conquiste ottenute all’epoca dell’Illuminismo. Correva l’anno 1764, Cesare Beccaria pubblicava il suo libro Dei delitti e delle pene in forma anonima. L’autore dimostra che «la morte non è né utile, né necessaria».
È possibile chiedersi, in luce della Fatwa dello Stato Islamico, se l’argomentazione contro la pena di morte, fondata sulla sua scarsa utilità, possa dirsi soddisfacente. Ovvero, se in alcuni casi fosse possibile dimostrare l’utilità di un’uccisione, l’eliminazione di una vita sarebbe ammissibile?

Tale quesito apre uno spiraglio di luce per la suddetta sentenza. Una vita per una vita. Indossando, per un momento, gli occhi dello Stato Islamico, il prigioniero verrebbe condannato a morte; pertanto, perché non rendere utile la sua uccisione per salvare una vita?

Sorgono spontanee le seguenti domande: qual è il valore di una vita e la sua dignità? E la sua sacralità? Come è possibile divergere nella concezione di un valore inviolabile?

Kant, nella sua Fondazione della Metafisica dei Costumi, argomenta la tesi secondo la quale la dignità umana è connessa all’idea di valore: «si tratta di un valore intrinseco all’essere umano, in quanto essere capace di darsi leggi morali, e dunque universali»1. Nella massima di non trattare mai gli uomini come mezzi ma sempre come fini vi è implicita l’idea che alcuni valori non sono violabili.

Risulta impossibile la proposta di “una vita per una vita”. E ne deriva la sua sacralità.
La sacralizzazione della persona, compiuta da Durkheim, esprime la fede nei diritti umani e nella dignità dell’Uomo. Per lui la sacralità della persona rappresenta l’unico sistema di credenze che «possa assicurare l’unità morale del Paese», e non solo uno dei possibili sistemi di credenze corredati di effetti integrativi. La sacralizzazione della persona permette di costituire un vero e proprio legame sociale.

È opportuna, inoltre, una riflessione sulla tematica del dissenso in fatto di valori.
Il dissenso genera molteplici possibilità. Naturalmente non sono i valori o i sistemi di valori ad agire, ma soltanto le persone. Esse possono unirsi in azioni comuni anche in quei casi in cui i loro valori differiscono. La differenziazione è causata dalla complessità delle esperienze. Esse giocano un ruolo propulsivo essenziale.
Nel nostro sistema di valori la vita risulta essere inviolabile, come recita l’articolo 3 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del 1948. Come sostiene Hans Joas, l’affermarsi dei diritti umani va inteso come un processo di sacralizzazione della persona. Il relativo successo dei diritti umani indica che la sacralizzazione della persona pare oggi prevalere sulla scena della società. Rimaniamo, così, sconcertati dalle parole che trapelano dalla Fatwa 68 dello Stato Islamico. Il suddetto documento ci ricorda che l’idea della sacralizzazione della persona non può essere considerata tranquillamente acquisita. In una visione lungimirante, i diritti umani possono ottenere una possibilità solo se «essi vengono sostenuti dalle istituzioni e dalla società civile, sono difesi con argomentazioni e incarnati nelle pratiche della vita quotidiana»2.

Jessica Genova

NOTE:
1. Immanuel Kant, Fondazione della Metafisica dei Costumi, Roma 2009.
2. Hans Joas, La sacralità della persona. Una nuova genealogia dei diritti umani, Milano 2014.

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