Reperti incidentali: verità e comunicazione dell’informazione genetica

Ciascuno di noi esperisce un particolare legame con le proprie origini. Esiste una sorta di laccio che, anche qualora tentassimo di liberarcene, ci obbliga a fare i conti con quelle radici che ci sono, che sono le nostre e che, innegabilmente, hanno creato le condizioni, anche se solo biologiche, affinché anche noi potessimo esserci. Quando si parla della propria storia autobiografica, infatti, non si può non fare riferimento all’istante in cui la vita, biologicamente intesa, ha avuto inizio: la nascita. Poi si cresce, si diventa adulti, si invecchia. Ma la prima domanda di senso resta la stessa, ovvero: da dove veniamo? Quali sono le nostre origini? Da dove tutto ha avuto inizio?

Talvolta, in ambito clinico, la propria storia genetica può essere reperita in modo inatteso. Questo è il caso dei così chiamati incidental findings, che in italiano potremmo tradurre con l’espressione di “reperti incidentali”. Esistono, pertanto, circostanze in cui i test di compatibilità genetica, realizzati ai fini della valutazione di una compatibilità tra due soggetti che si sottopongono ad un intervento invasivo di donazione d’organo da vivente, fanno emergere risultati inaspettati, quali l’assenza di compatibilità genetica tra gli stessi, mettendo in luce delle informazioni di natura genetica che potrebbero determinare importanti conflitti tra i due pazienti in gioco, il futuro donatore e il futuro ricevente, e dunque il fallimento della donazione stessa.

Quale verità dovrebbe essere comunicata? È doveroso oppure non necessario comunicare il risultato del test genetico di un padre e di una figlia? Quale informazione dovrebbe essere trasmessa affinché il consenso possa essere definito informato? Quale informazione deve a tutti i costi essere comunicata in vista del trapianto?

Certo, se clinicamente le indagini genetiche dei due soggetti, aventi un legame familiare, portassero ad un’incompatibilità unicamente genetica tra gli stessi, ci si potrebbe interrogare sul tipo di informazione che i clinici dovrebbero sentirsi obbligati di comunicare al fine di garantire il successo del trapianto. Pertanto, l’incompatibilità genetica risulterebbe un dato irrilevante. I medici potrebbero dunque limitarsi a trasmettere l’istocompatibilità al trapianto, senza fornire ulteriori informazioni. I sostenitori del “non dire la verità” ritengono inoltre che l’autodeterminazione del paziente, in particolare di chi dona, potrebbe essere ostacolata e aggravata da un’informazione pericolosa che limiterebbe la libertà individuale stessa, impedendole di scegliere ciò che davvero desidera: in altre parole, conoscere la propria origine biologica, in un momento così delicato della propria vita, potrebbe offuscare quel desiderio profondo che l’avrebbe spinta a donare. Il privilegio terapeutico1 – espressione utilizzata in etica quando non si vuole fornire tutta l’informazione per il bene del paziente – rappresenterebbe dunque una declinazione del to not harm, di stampo ippocratico. Un ultimo fattore da considerare è il diritto alla privacy che, nei confronti di “chi sa” costituirebbe un diritto da rispettare fino alla fine.

Dall’altro lato, “il dire la verità”, come lo rivendicano i suoi difensori, legittimerebbe il donatore a dare un consenso totalmente libero alla donazione, oppure a rifiutarsi in seguito ad una ponderata riflessione tenente in considerazione tutti gli elementi fondamentali per la scelta, compresa l’informazione sull’identità genetica. Avere tutta la verità, e non solo un parziale insieme d’informazioni, permetterebbe a chi dona di riconoscere pienamente il valore della donazione, anche e soprattutto qualora questa fosse destinata a quel padre che biologicamente non le ha dato la vita. Diversamente da chi sostiene che la comunicazione di tutta la verità potrebbe determinare un’insicurezza, se non addirittura un rifiuto, alla donazione, una piena comunicazione potrebbe contribuire ad aumentarne la consapevolezza da parte di una figlia oppure di un figlio al proprio padre, una consapevolezza frutto di una riflessione data da tutte le informazioni necessarie per il consenso. Vero è, infine, che “non dire la verità” ai soggetti implicati nel percorso del dono significherebbe anche mettere in pericolo la vita del ricevente nel caso in cui, in un futuro prossimo, potessero sorgere delle malattie trasmesse dal donatore stesso, la cui identità dovrebbe poi comunque essere svelata.

Nell’obiettivo di superare queste due posizioni antitetiche, il Comitato Nazionale della Bioetica (CNB), propone una soluzione che condivido. Questa indicherebbe pertanto che:

«I consultandi siano informati preliminarmente, nella consulenza genetica pre-test, delle potenzialità e dei limiti delle analisi e delle differenze rispetto ai test tradizionali, nonché informazioni sui possibili legami biologici di parentela e informazioni di interesse farmacogenetico e di medicina di precisione»2.

L’anticipazione, da parte dei medici, della potenziale esistenza d’informazioni genetiche impreviste potrebbe costituire una buona opportunità di comunicazione affinché ciascun agente morale sia consapevole del fatto che i test genetici potrebbero far sorgere dei risultati inaspettati.

La verità, quella stessa verità che Kant acclamava a tutti i costi, dovrebbe essere difesa, certo. Talvolta, però, dire tutto il vero potrebbe ostacolare il libero esercizio della propria libertà. Proprio per questo, è fondamentale ricordare come per il filosofo tedesco, se da un lato la menzogna è negazione del dovere morale dell’uomo poiché contraria al vero, dall’altro esiste una differenza tra il “dire il vero” ed “essere schietti”. La seconda pertanto, consiste nel comunicare tutta la verità, ovvero tutte le informazioni senza riserva, senza nemmeno far riferimento ad un contesto con variabili determinanti; la prima, invece, è basata sul trasmettere il vero, ma non tutta la verità, una verità i cui dettagli potrebbero anche nuocere l’altro. Ecco perché, forse, la decisione presa dal CNB, ovvero quella di aprire uno spazio di comunicazione antecedente alla realizzazione dei test genetici, potrebbe costituire una buona opportunità per dare voce a delle “verità” che potrebbero complicare il percorso di cura successivo al trapianto. Ciò nella finalità di rispettare ciascuna delle due individualità implicate nella donazione, senza invadere lo spazio dell’una o dell’altra.

 

Sara Roggi

 

NOTE
1. Beauchamp T.L, Childress J. F., Principles of Biomedical Ethics, Seventh Edition, Oxford University Press, 2012.
2. È possibile reperire il documento riguardante i reperti incidentali sul sito del Comitato Nazionale di Bioetica (CNB).

Photo Credit: Evan Kirby on Unsplash.com

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Contro il tempo, la libertà

Non c’è sera in cui, percorrendo i pochi passi dal bagno al letto, io non ricordi a me stessa, in maniera forse ossessiva, che un altro giorno è ormai finito e passato. Nello specifico, sono due le frasi che mi ripeto, sera dopo sera, senza mai stancarmi. La prima, presa da una canzone di Guccini, che in realtà non ascolto ormai da anni: «un altro giorno andato» (la sua musica ha finito, quanto tempo ormai è passato e passerà). La seconda, copiata questa volta a una poesia di Quasimodo, ricordo forse delle medie, forse delle superiori, chi lo sa: «ed è subito sera». Prima di addormentarmi ripercorro con il pensiero i momenti che hanno riempito la mia giornata, le persone con cui ho parlato, quelle con cui ho scambiato un semplice e veloce sguardo, le parole che ho detto, i piatti che ho mangiato, i particolari che mi hanno colpita, e via dicendo. Finita questa lista di istanti trascorsi e passati, inizio quella del giorno dopo: ricapitolo mentalmente le cose da fare, a volte numerose, a volte minime, fantastico sui miei desideri o progetti futuri, a volte carichi e rinvigorenti, altre volte spenti e deprimenti.

Il tempo che scorre incessantemente e passa alla velocità della luce è il nostro più fedele compagno, ma anche il nostro peggiore nemico. Il mio rapporto con lui qualche mese fa è stato abbastanza turbolento: la paura di aver perso tempo in anni di università che forse non mi porteranno laddove mi ero immaginata intraprendendo questo percorso; il rimorso di aver già rinunciato a piccoli grandi sogni, attività o impegni; il dovere di inventarmi in fretta cosa fare di qui a qualche mese… Mettiamoci dentro anche la banale preoccupazione per i primissimi capelli bianchi. E la sana invidia verso mia sorella quasi diciottenne, alla quale, sentendomi una vera nonna, ripeto con i miei migliori auguri che ha tutta la vita davanti.

Ho cercato di venirne fuori, da questo superficiale e stupido malessere che mi stavo ossessivamente creando da sola. L’ho fatto cercando di appropriarmi per davvero di quel maledetto tempo che ci caratterizza e condiziona tutti, ricordandomi di un’altra dimensione che appartiene all’uomo, alla pari del tempo. La nostra libertà! La libertà di muoverci nelle trame del tempo come ci pare e piace, la libertà di disporre di esso e di gestirlo nel modo in cui preferiamo. Preciso che con ciò non intendo la possibilità di svincolarci da una serie di obblighi alla quale siamo chiamati a rispondere per un dovere che potrei definire ‘morale’. Altrimenti, lungi dall’essere libera e volontaria gestione del proprio tempo, questa finirebbe per decadere nel caos egoistico dettato dal volere e dal piacere. Intendo piuttosto dire che, nella scelta riguardo il come poter disporre del tempo che ci appartiene, dovremmo darci tutti una lista di priorità e dovremmo provare a rispettarla quanto più ci è possibile.

Dovremmo imparare a dire ‘sì’ senza paure, ma anche imparare a proferire qualche ‘no’ secco andando oltre le convenzioni. Dovremmo impegnarci con dedizione e costanza in quanto crediamo, e riuscire a rinunciare ad impegni che lungi dall’arricchire la nostra persona finiscono invece per inaridirla. Dovremmo accogliere e passare più tempo con le persone che amiamo e stimiamo e svincolarci da quelle con cui non riusciamo più ad avere punti d’incontro.

Dovremmo e potremmo fare tante cose. Ma non tutto dipende da noi e dalla nostra libertà. I giorni si susseguono senza sosta, e un altro anno è ormai andato… La sola soluzione è allora ricordarci di vivere appieno ogni singolo momento della nostra vita, bello o brutto che sia. Dobbiamo ardere, per noi stessi, per il dono della vita, e per quanti ci stanno attorno. Circondiamoci di quanta più freschezza e positività riusciamo. Facciamoci avanti e consumiamo, inghiottiamo, svisceriamo il nostro presente!

«Circondatevi di uomini che siano come un giardino, o come musica sopra le acque, al momento della sera, quando il giorno già diventa ricordo».

Nietzsche

Federica Bonisiol

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Ti dono le cose che non ho mai detto

Quei momenti in cui avresti voluto dire tante cose ma non l’hai fatto, pensando fosse meglio un silenzio: quegli istanti li hai ancora in mente. Solo alla fine della giornata ritornano a occupare i pensieri e a tenerti compagnia nella notte. Ma ormai il passato è passato.

«Cos’è il ricordo se non uno spettro nascosto in un angolo della mente, pronto a irrompere durante il giorno, o a disturbare il nostro sonno, con un atroce dolore, una gioia, qualcosa che non abbiamo detto o che abbiamo ignorato?»1.

Azar Nafisi, scrittrice iraniana, così descrive il ricordo delle cose non dette e a partire da questa riflessione vorrei far iniziare questo promemoria filosofico.

Vorrei darti la possibilità di dire le cose che, quando avresti potuto e magari dovuto hai taciuto, per sentirti libero di poterlo fare almeno una volta. Per tutte quelle occasioni in cui hai scelto di non dire quello che sentivi, quello che provavi, quello che ti meritavi perché l’occasione non era giusta, non era il caso o non pensavi di poter essere preso troppo sul serio.

Per quella volta che ti sentivi il mondo crollarti addosso e volevi urlare la tua disperazione ma non potevi. Dopo aver aspettato a lungo una notizia, sperando che ti potesse giovare, spesso è arrivata la delusione che si avvinghia alle tue aspettative. Avresti voluto allora non tremare ancora e finalmente dire: “No, io non lo accetto” e poterti ribellare.

Per quella circostanza in cui, per strada o di fronte alla stazione, hai visto l’amica di anni che per un bisticcio dopo molto tempo non ti ha più parlato: quella sera invece ti ha guardato, si è voltata e non ti ha neanche salutato. L’hai salutata tu, può darsi, ma avresti voluto chiederle se davvero così ci si comporta.

Alla persona che ti ha ferito a parole, a gesti, a fatti, vorresti chiedere perché farti tutto questo male.

A quella stravagante signora che vedi ogni giorno alla fermata dell’autobus, magari vorresti chiederle come si chiama e cosa ci fa anche lei alla stessa ora lì o solo dove sta andando.

Credo che vorresti dire grazie ai tuoi genitori che vicini o lontani ci sono sempre accanto a te.

Ammetto che non confesserai mai alla persona che ami, tutto e quanto amore provi per lei, ma è un segreto che terrai per te, lo so, tranquillo.

Il tentativo che ti chiedo di fare pero’ è questo: rivela una cosa che non hai mai detto ad un altro, un nodo che hai in gola da tempo o un pensiero felice, ti sentirai più leggero.

Vorrei invece che avessi l’onestà di parlare a te stesso. Per chiarire le cose in sospeso con il tuo Io, con quel Se che alla fine è te stesso, ma mai lo stesso. Per ricordarti quanto vali, quanto veramente puoi essere contento di te quest’anno. Questo è il mio dono di Natale, per riportare alla luce chi sei e cosa hai fatto per arrivare dove ti trovi.

Non lasciare che le porte chiuse ti abbattano e non dimenticare le tue passioni per la convenienza. Non dimenticarti di te stesso dopo tante ore di lavoro, dopo tanta fatica e lascia che le cose vadano come devono andare. Devi volerti bene, rispettarti e apprezza i limiti che hai scoperto di avere, non sei sempre invincibile. Non è mai semplice ricordarti, ma ne vale sempre la pena.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE:

1. Azar Nafisi, Le cose che non ho detto, Aldelphi, Milano, p. 14

Umiltà e successo vanno d’accordo? Marc Levy ve lo dimostrerà!

Tra i moltissimi ospiti dell’edizione 2016 del festival Pordenonelegge, c’era Marc Levy, l’autore francese più venduto al mondo. L’incontro con i lettori, in occasione della presentazione dell’ultimo romanzo tradotto in italiano, Lei & Lui, ha avuto un’ottima partecipazione; il pubblico, come si potrebbe immaginare, comprendeva per la sua quasi totalità donne e ragazze, soltanto qua e là si intravedeva il volto di qualche uomo, probabilmente nel ruolo di accompagnatore di moglie o compagna.

Ciò che mi ha colpito maggiormente è il fatto che la sobria e composta location del Convento di San Francesco ha rispecchiato in maniera esemplare l’immagine che Marc Levy ha saputo dare di sé, tanto durante l’incontro, quanto dimostrandoci la sua disponibilità a rispondere ad alcune nostre domande. Marc Levy è un autentico autore di best seller: tutti i suoi romanzi riscuotono un così grande successo che il mediatore dell’incontro, Filippo La Porta, lo “accusa” di conoscere la ricetta del successo editoriale! I romanzi di Levy sono etichettabili come delle commedie sentimentali, tra le pagine delle quali spiccano i temi dell’amore, dell’amicizia, della vita, dell’ottimismo. Con quello che La Porta ha definito “Levy’s touch”, uno stile leggero e appassionato, Levy è in grado di raggiungere per lo più il lettore comune, il lettore che cerca un attimo di diletto, il lettore spensierato, ma non per questo meno serio.

Marc Levy è l’autore dei grandi numeri, certo, ma non manca di ricordare quanto lavoro ci sia dietro ad un libro. Impegno, ricerca, osservazione, capacità di dare spazio alla propria creatività, e soprattutto, umiltà. A sua detta è necessario rimanere con i piedi per terra, guardare a ciò che si fa, e non a se stessi, dedicarsi al proprio lavoro con spontaneità ed autenticità, e non con la volontà di pianificare il successo; è soltanto in questo modo, infatti, che la scrittura si manterrà terreno di libertà”.

Ma ora facciamo spazio alla nostra piccola intervista per voi lettori.

Durante l’incontro ha sottolineato più volte l’importanza dell’umiltà. Per cominciare vorrei chiederle: il fatto di avere svolto altre professioni in passato l’ha aiutata a conservare quest’importante qualità?

Indubbiamente il fatto di poter incontrare persone di orizzonti diversi permette di arricchirsi e di sviluppare la capacità di relativizzare. D’altronde anche il più grande attore del mondo risulta impotente di fronte all’infermiera che lo cura quando è ammalato. Quando si ha la fortuna di entrare a contatto con persone che svolgono mestieri ammirabili, si è a nostra volta più umili.

Scrivere è mai stato un sogno per lei?

Certo. È sempre stato un sogno, fin da quando ero bambino, ma non pensavo fosse realizzabile. Ho scritto il mio primo manoscritto all’età di 17 anni; non era affatto ben riuscito così lo gettai. Ma anche a quell’età continuavo ad avere il sogno di diventare scrittore, perché già la lettura per me era un sogno.

Come trova le idee per i suoi romanzi?

Non ho mai saputo rispondere a questa domanda. Le idee vengono dalle cose della vita, osservando le varie situazioni che abbiamo di fronte. È il miracolo di questo mestiere! Come viene un’idea? A volte dalla lettura di un articolo, a volte dal fatto che si è stati testimoni di una situazione, a volte semplicemente osservando qualcuno. Credo che il mestiere di scrittore richieda di sapere osservare ed ascoltare attentamente.

La nostra associazione e la nostra rivista trattano di filosofia. Quello che ha appena detto mi ha fatto pensare agli elementi che letteratura e filosofia possono avere in comune, per esempio lo spirito d’osservazione. C’è qualche traccia di filosofia nel suo lavoro?

Credo che dirselo da soli sia abbastanza pretenzioso. Credo che la filosofia, nel suo splendore, sia fonte di domande più che di risposte. Quindi sarebbe terribilmente pretenzioso affermare «ciò che scrivo è filosofia». Piuttosto, potrei dire che è il lettore colui che può trovare nelle mie frasi un elemento filosofico.

La lettura può aiutarci a riflettere sulla quotidianità?

Sì, ma non solo la lettura. Anche il cinema, per esempio, grazie ai suoi personaggi, con quali ci si può identificare. Un’importante funzione della letteratura o del cinema è quella di donare voglia d’essere. Quando ero adolescente e mi ponevo delle domande riguardo la mia identità, traevo voglia di vivere, voglia di adottare alcuni loro valori, di seguire la loro strada, da alcuni personaggi cinematografici.

Federica Bonisiol

Qui per l’intervista in lingua originale.

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Il linguaggio delle lacrime

Cresciamo e maturiamo con un’educazione fondata sull’essenzialità del linguaggio.

Il significato che ciascuna parola porta con sé costituisce una guida per esprimere ciò che ciascuno di noi sente. Le parole, quindi, possono riuscire a rappresentarci, a descriverci, a definire un particolare stato d’animo oppure un sentimento.

Tuttavia, nel corso di questi ultimi anni, una domanda mi è sorta spontanea, dovendo fare i conti con l’espressione di quella che era la mia sofferenza: in che modo il linguaggio riesce a decifrare ciò che viviamo, seppelliamo e ci portiamo dentro, quando tratteniamo i ricordi in una cassaforte di cui abbiamo perso il codice? Come dare parola all’impronunciabile? Perché le parole non sono sufficienti?

L’uso di un codice linguistico preciso e di riferimento talvolta non permette di far emergere ciò che è rimasto sepolto tra le pieghe dell’anima. Questo perché, per riuscire a nominare e a definire ciò che sentiamo, è necessario affrontare ciò che si è vissuto e trascurato, sollevando quel velo che rassicura ma che al tempo stesso nasconde frammenti di un passato, non permettendoci di vedere e di ricordare chi siamo stati e che cosa, all’improvviso, è andato in frantumi.

Le lacrime, come le definisce Eugenio Borgna1, sono un’esperienza interiore e testimoniano la presenza di una vita interiore, e di una vita cicatrice, che non si spegneranno mai. Esse, tuttavia, sono dei segni, non delle espressioni; dei segni indicanti «delle esperienze psicologiche e umane radicate in orizzonti dialogici di senso», come le definisce bene lo stesso autore.

In Frammenti di un discorso amoroso, Roland Barthes parlando delle lacrime scrive che «piangendo si vuole impressionare qualcuno, fare pressione su di lui». Questo qualcuno, però, non è riferito unicamente a un possibile altro, quanto più a un Io autoreferenziale il quale, piangendo, dimostra a se stesso che il proprio dolore non è illusione, ma concreto, visibile.

A tale proposito, lo stesso Barthes si chiede: «Cosa sono mai le parole? Una lacrima sola dice assai di più».

Quando la parola si blocca, allora il corpo cerca di esprimersi altrimenti.

Le lacrime diventano così uno dei mezzi espressivi di un’emozione che deve essere detta in un linguaggio altro. Un linguaggio che è impastato di nostalgia e di assenza, di dolore e tristezza, ma anche di gioia e di luce.

La lacrima è dono, un dono che ci viene offerto. Molto belle sono le parole utilizzate da Jean Loup Cahrvet, e riprese da Borgna, a tale riguardo:

«Le lacrime si offrono al nostro viso, come al nostro intelletto o al nostro cuore, la loro evidenza ne rende inutile la definizione, dalla quale le protegge la loro inintelligibilità. La loro chiara trasparenza evita loro una descrizione. […] Esse parlano verso un altrove che è già oltre la loro esistenza»2.

Quell’indicibile che ci abita ha bisogno del corpo per non soffocare. Il silenzio, talvolta, inaridisce, facendo morire la vita interiore.

La lacrima, toccando nel profondo, sfiora, sussurra il non-detto. Essa rappresenta un segno di vita, di un qualcosa che vuole, in un modo o nell’altro, essere detto, pronunciato, sfiorato. Anche solo toccando la superficie di quello che poi è un malessere profondo e devastante.

Le lacrime, scrive lo psichiatra Eugenio Borgia, così come il sorriso, sono forme di vita, ovvero forme di espressione emozionale che costruiscono ponti capaci di annullare le distanze tra gli atteggiamenti normali e quelli psicopatologici. Questi “ponti” ci aiuterebbero così a ritrovare «isole di straziata normalità nella sofferenza psichica, e schegge di sofferenza psichica nella normalità»3.

Il pianto aiuterebbe così ad incanalare un’energia repressa e messa al bando dalla coscienza, attraverso una forma espressiva che, in fin dei conti, ci accomuna, costituendo una sorta  di nuovo linguaggio capace di nominare la sofferenza interiore di ciascuno.

 Sara Roggi

NOTE:
1. Borgna E., La dignità ferita, p. 194-95, Feltrinelli Editore, Milano, 2013.
2. Ibidem, p. 197.
3. Ibidem, p. 206.

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L’opera d’arte tra dono e commercializzazione

Mi ha sempre affascinato indagare la natura del rapporto che lega l’artista alla sua opera d’arte. In che modo un dipinto, una poesia o in generale un’opera “creata” come espressione dell’immaginazione e della fantasia dell’artista può “entrare” all’interno del  mercato? Che tipo di trasformazione avviene se si decide di introdurre la passione che ogni attività artistica genera  all’interno di una società dominata dal valore di mercato?

Secondo lo scrittore Lewis Hyde l’opera d’arte condivide con il dono il carattere erotico.

La letteratura sul dono è vastissima: antropologi, filosofi e sociologi si sono interessati per lungo tempo alle dinamiche che si generano all’interno di società e comunità dove accanto  all’economia di mercato vige una forma di proprietà che non risponde a interessi “quantificabili”, quella del dono per l’appunto.

Per primo l’antropologo e studioso francese Marcel Mauss nel suo saggio Essai sur le don, utilizzando studi  condotti presso popoli delle isole del Pacifico, aveva sottolineato come il “dono” costituisse il collante necessario all’interno di queste culture, ciò che consentiva l’instaurarsi di relazioni, determinando in questo modo l’identità di ogni singola comunità.

Il dono all’interno di queste popolazioni acquisisce un carattere fondamentale, dal momento che è ciò su cui si regge la solidarietà e la reciprocità all’interno del gruppo. Mentre l’economia di mercato occidentale risulta completamente slegata da questioni etico-morali, in molte società “primitive” vi è quasi un’identificazione, per cui l’economia è strettamente connessa a legami di tipo affettivo e da relazioni personali.

Sembra delinearsi una dicotomia irrisolvibile: da una parte l’ homo oeconomicus, ossessionato dal guadagno, disposto a rispondere solo ai dettami di una ragione strumentale messa al servizio del proprio egoismo; dall’altra, “gli altri”, popoli lontani che attraverso il “dono” riescono a rispecchiare la propria individualità solo all’interno di una collettività, creando una reciprocità e un insieme di relazioni che anziché depotenziare ciascuna singolarità, la rendono ancora più preziosa.

Secondo Hyde, l’opera d’arte si distingue essenzialmente da una merce. Un dipinto, una poesia o qualsiasi prodotto d’arte partecipa contemporaneamente di “due economie”, l’economia di mercato e l’economia del dono. Tuttavia, ciò che l’autore sostiene è che mentre un’opera d’arte può essere tale senza “entrare” in un’economia di mercato, essa non può esistere se non partecipa all’economia del dono.

Che cos’è che distingue una merce, legata alla “commercializzazione”, dalla trasmissione di un dono? Il dono è qualcosa che ci viene “elargito” e che non possiamo ottenere attraverso lo sforzo o attraverso il denaro, ovvero «attraverso un atto di volontà»1. Un bene diventa una merce nel momento in cui possiede un valore di scambio e un valore di mercato, ovvero non ha un valore di per sé, ma ne assume uno solo nel momento in cui viene separato da chi lo “valuta” e confrontato con un’ altra merce, poiché solo in questo modo può essergli applicato un “prezzo”.

Il dono,  invece, introduce un altro tipo di valore legato alla capacità di creare e riprodurre relazioni sociali. In questo caso, non è tanto il bene in sé a risultare importante, quanto i legami che si creano con esso.

Proprio per questo Hyde parla di carattere “erotico” del dono, in contrapposizione alla razionalità che si esprime attraverso la circolazione delle merci all’interno dell’economia di mercato.

Ogni donazione è un gesto di apertura e di fiducia sociale nei confronti dell’altro. Come evidenzia già Mauss, ogni dono, infatti, necessita di un “controdono”, solo così è possibile non interrompere il cerchio di relazioni che questa forma di proprietà alimenta. Tuttavia, a differenza di uno scambio commerciale, la trasmissione del dono avviene senza alcuna forma coercitiva o contrattuale.

Avendo soltanto un valore d’uso (in contrapposizione alla merce che ha un valore di mercato), il dono per essere tale deve venir costantemente “consumato” attraverso il movimento, continuando a nutrire colui al quale viene donato. Nel momento in cui un dono si ferma e non viene ridonato a sua volta, viene tesaurizzato, perdendo la forma che lo caratterizza.

Quando un artista dà forma a un’opera d’arte, una parte di questa creazione è essa stessa un dono. Gli elementi che gravitano intorno all’attività artistica come il talento, l’intuizione e l’ispirazione possono essere  definiti “doni”, dal momento che è possibile svilupparli e coltivarli attraverso la volontà, ma compaiono inizialmente nell’animo dell’artista senza alcuno sforzo, attraverso un elemento di gratuità.

La natura di “dono” che l’opera d’arte esprime non si manifesta solo nell’animo di chi la crea. Quando la tela si allontana dal pittore e diventa oggetto di fruizione all’interno di un museo o di una galleria, essa, come espressione dei “doni” dell’artista, rivolgendosi al nostro animo può risvegliare anche i nostri stessi “doni”: «La creazione artistica che ci tocca, che commuove il cuore, vivifica l’anima, delizia i sensi o ci dà il coraggio di continuare a vivere, in qualunque modo vogliamo descrivere l’esperienza, viene ricevuta come si riceve un dono»2.

L’artista contemporaneo, quindi, si trova in tensione costante tra la sfera del dono, a cui la sua arte appartiene e la commercializzazione all’interno del mercato, necessaria per la sua sussistenza. Ciò che Hyde cerca di sottolineare è che c’è sempre il rischio che l’arte come dono possa venire distrutta dal mercato, ma l’artista può e deve cercare in tutti i modi di riconciliare le due economie.

Il mercato è espressione del logos, parte dello spirito umano tanto quanto eros, per cui non si può eliminare, al massimo si può soltanto limitarne l’influsso. In che modo? Cercando entro certi limiti di vendere sul mercato ciò che abbiamo ricevuto come dono (l’opera d’arte) e utilizzare ciò che abbiamo guadagnato dalla vendita per incrementare la sfera del dono (cioè investirlo nella nostra arte).

Un artista che mira al successo attraverso il commercio delle sue opere, ma senza perdere i suoi doni, ovvero senza venire meno all’autenticità della sua arte, non deve partire dal mercato (ovvero la sua creazione non deve semplicemente rispondere alle esigenze del mercato e della commercializzazione), ma può partire solo dalla sfera del dono in cui si compie l’opera, per poi tentare di trasferirsi all’interno dell’altra economia. Solo in questo modo l’arte può rimanere legata alla dimensione erotica del “dono”, l’unica sfera che per Hyde rende l’arte propriamente tale.

 

Greta Esposito

 

NOTE
1. L. Hyde, Il dono. Immaginazione e vita erotica della proprietà, p. 13.
2. Ivi, p. 14.

[Immagine tratta da www.artenatura.altervista.org]

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Sulla maternità surrogata e il concetto di dono

Sulla questione della maternità surrogata ho già dato un mio contributo con l’articolo del mese di settembre: “La maternità surrogata e il turismo procreativo dell’occidente”, ma le affermazioni che si sono susseguite nelle ultime settimane, relativamente alla possibilità di considerare la maternità surrogata un dono, hanno alimentato il mio desiderio di riproporre l’argomento.

Sono due le dichiarazioni che prenderò in considerazione; la posizione espressa all’AdnKronos Salute dall’oncologo Umberto Veronesi in data 19 febbraio 2016: «l’utero in affitto è un gesto nobile, è una donazione», alla quale è seguita dieci giorni dopo quella della senatrice Emma Bonino a Bergamonews: «Posso fare una domanda: se posso donare un rene in questo Paese perché non posso donare un utero? Io non lo farei, ma non capisco perché non si deve fare».

Se rifletto sull’utilizzo della parola donazione nelle due dichiarazioni ritrovo un forte legame con l’intenzione di esercitare un gesto solidale e il proporsi di portare avanti una gravidanza per altri è una generosità che forse, ripeto forse, posso comprendere quando riguarda persone che sono legate da una profonda amicizia o che intrattengono tra loro legami di sangue (sorelle). In questi casi ci si offre di aiutare una persona cara a realizzare un desiderio di genitorialità che altrimenti non potrebbe concretizzarsi.

Ritengo alquanto difficile poter fare la stessa valutazione qualora si tratti della decisione di una donna di mettere il proprio corpo a disposizione di sconosciuti senza richiedere nulla in cambio.

Di sicuro si tratta di una tipologia di generosità e solidarietà che difficilmente concorderebbe con studi antropologici, psicologici e sociologici che, a partire da Marcel Mauss[1] si sono dedicati allo studio delle dinamiche della fenomenologia del dono.

Questi studi sostengono che il dono sarebbe uno dei modi più comuni ed universali per creare legami sociali e relazioni umane.

Il meccanismo del dono si articolerebbe in tre tappe fondamentali basate sul principio della reciprocità: dare, ricevere (l’oggetto deve essere accettato) e ricambiare; di conseguenza, il dono davvero gratuito non esisterebbe. In questa prospettiva, il dono comporta sempre l’aspettativa e l’obbligo morale di una restituzione. Il valore del dono ricevuto sta proprio nell’assenza di garanzie per il donatore, un’assenza che richiede una buona dose di fiducia negli altri.

Alla luce di tali considerazioni, può rientrare in questo schema la maternità surrogata a favore di terzi, estranei, spesso destinati a rimanere tali?

La donazione del rene, chiamata in causa dalla senatrice Bonino, con tutte le distinzioni del caso, può aiutare ad orientarci.

In Italia, dal 2010, il Consiglio Superiore di Sanità ha autorizzato la cosiddetta “donazione samaritana”, ovvero la possibilità di donare un rene ad una persona sconosciuta che verrà ovviamente sottoposta a tutti gli accertamenti fisici e psicologici del caso. Il parere del Consiglio Superiore di Sanità prevede che il donatore ed il beneficiario rimangano nell’anonimato sia prima che dopo l’intervento.

Difficile da immaginare l’identità della persona tanto generosa da farsi espiantare un organo vitale e che agisce solo per un dovere morale senza nulla in cambio (un autentico soggetto morale kantiano).

Da ritenersi fondamentale la valutazione psicologica e psichiatrica del donatore per evitare che dietro tale aspirazione si nascondano la necessità si espiazione, spesso diffusa tra i soggetti subalterni (uno dei primi a proporsi per un espianto di rene fu un detenuto), o la pulsione narcisistica a compiere un atto eroico in grado di riscattare una vita “sbagliata”. Mi chiedo se anche i casi di maternità surrogata per solidarietà verso estranei non si prestino ad un simile lettura.

Ritengo che il problema stia a monte e riguardi la moralità del gesto che si va a compiere. A differenti livelli e con differenti implicazioni, sia donare un rene, sia portare a termine una gestazione per terzi sono esperienze non prive di conseguenze sul piano fisico e psicologico. La grande differenza tra le due pratiche risiede nel fatto che la donazione di un rene salva vite umane, la maternità surrogata soddisfa un desiderio, non si tratta di un’esigenza vitale e avere un figlio non può essere risolto nel desiderio e nel capriccio dell’io individuale costi quel che costi.

Silvia Pennisi

NOTE

[1] MARCEL MAUSS, Saggio sul dono. Forma e natura dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, 2002.

Caro Babbo Natale…

Era stata una di quelle giornate fredde ma che regalano il sole per qualche ora. Un sole che fa fatica a scaldare, ma che ci prova lo stesso perché non incontra nessuna nuvola nel cielo. Una di quelle giornate in cui puoi vedere nitidamente le montagne innevate dalla finestra. Una di quelle giornate in cui appena esci inizia a pizzicarti il naso, le guance ti si colorano subito di rosso e le mani ti si ghiacciano all’istante. Una di quelle giornate in cui ti senti quasi obbligata a fermarti in pasticceria a prenderti una cioccolata calda per scaldarti, magari anche con un po’ di panna. Era stata una perfetta giornata di Dicembre.

Era uscita subito dopo pranzo, Laura. Lei e il suo pancione per le vie della città. Le luci, gli addobbi, gli odori, le musiche. Non sapeva spiegare perché, ma il Natale le aveva sempre messo una gran allegria addosso. Avere le persone amate riunite attorno a un tavolo, i preparativi, la ricerca del regalo perfetto. Il Natale era il suo periodo magico. Laura e il suo pancione si erano lasciati travolgere dal Natale per quasi tutto il pomeriggio. Laura e il suo pancione. Erano sempre in due. Da quando era rimasta incinta non si era sentita mai sola. Neanche dopo aver ricevuto la notizia.

Era stata una splendida giornata. Degna di Dicembre. Degna del Natale. Pensava Laura quella sera, accoccolata sul divano vicino al marito che dormiva, lasciandole una mano sulla pancia. Tra qualche anno, in una giornata così, aiuterà Giulio a scrivere la letterina per Babbo Natale. Lo aiuterà a posarla tra i rami dell’albero. Lo guarderà rimanere incredulo e stupito la mattina dopo nel non trovarla più. E si era ricordata di quando era bambina lei. Dell’emozione nello scrivere la lettera con i suoi desideri e della speranza tutta infantile che si realizzassero. Perché scrivere la letterina a Babbo Natale non è solo fare una lista delle cose che si vogliono; è consegnare i propri sogni, i propri desideri, le proprie speranze a qualcuno e credere che si possano avverare, senza dubbi, senza paure.

È ricordando questo che Laura, quella sera, nonostante i suoi trent’anni, si trova a scrivere la sua letterina.

Caro Babbo Natale,

questo 25 Dicembre sotto l’albero vorrei trovare:

  • Un contenitore in cui mettere tutte le mie paure. Paura per la salute di Giulio. Paura di non essere una mamma adeguata. Paura dell’accoglienza che il mio bambino riceverà dalla società e dal mondo.
  • Un vaso in cui trovare tutta la forza di cui necessiterò per aiutarlo a sfruttare appieno tutte le sue potenzialità, a raggiungere i suoi grandi traguardi, a conquistare la sua identità. La forza di non arrendermi mai, ma di provarci e di amarlo nonostante tutto, nonostante il senso di impotenza che forse spesso mi assalirà. La forza di vederlo cadere e rialzarsi, senza proteggerlo troppo.
  • Un mondo pronto per il diverso. Un mondo che non si dichiari aperto alle differenze e alla diversità solo a parole e che poi nella quotidianità risulti esserne distante.
  • Un futuro in cui mio figlio riuscirà a realizzare le sue aspirazioni, la sua autonomia, la sua vita. Che possa studiare, avere una famiglia, avere un lavoro: avere quello che desidera.
  • Un manuale d’istruzioni per essere dei buoni genitori. Per insegnare a Giulio a guardare oltre i commenti e le azioni in cui si imbatterà e per insegnargli a trattare gli altri con rispetto e dignità.
  • Un libro in cui trovare le risposte a tutte le domande che mi farà ingenuamente e a cui, a me, mancheranno le parole per rispondere.

Caro Babbo Natale, quest’anno e per i prossimi della mia vita voglio che solo che il bambino che sta per nascere e a cui hanno già diagnosticato la Sindrome di Down, il mio bambino rida, canti, salti, balli. Come una futura mamma qualsiasi voglio solo che il mio bambino sia felice.

Giordana De Anna

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[Immagini tratte da Google Immagini]

La forza del perdono

Siamo tutti impastati di debolezze e di errori; perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze: questa è la prima legge di natura.

Voltaire

Una delle cose che risulta più difficile per l’essere umano è il saper perdonare; molto spesso siamo convinti che il perdono sia un semplice atto riducibile all’espressione “mettere una pietra sopra” o che basti il solo dimenticare per ripristinare un rapporto.

Un’errata concezione del perdono ritiene che chi perdona sia un debole; tale considerazione però porta con sé delle domande: se il perdono è veramente la risposta dei deboli, perché risulta così difficile? Perché ci costa così tanto? Pur sapendo che sia giusto, perché lo concediamo con così tanta fatica? Read more

I paradossi della fiducia: scommessa, dono e affidabilità

Perché fidarsi, scommettere su qualcuno o qualcosa? Perché smettere di cercare di controllarsi e controllare, abbandonandosi al benvolere altrui? In base a cosa credere o sperare che una persona onori la fiducia in lei riposta?
Sono queste le domande con le quali la professoressa Michela Marzano introduce la sua lectio magistralis tenutasi a Brescia il 20 giugno scorso, in occasione del Festival dei Filosofi lungo l’Oglio.
Il suono della sua voce sospende il brusìo della sala gremìta di ascoltatori.

Prima di entrare nel vivo della trattazione, la filosofa cerca di rispondere alle domande partendo da alcune considerazioni.
Diversamente dal passato, oggi la fiducia è sempre e solo una “scommessa”, la stessa di cui parla Pascal riferendosi tuttavia alla fede; la fiducia è, come direbbe Simmel, un “salto nel buio”, tanto che l’imprevedibilità che la caratterizza non ci permette di pretendere o sperare di conoscere ciò che sta al di là del nulla in cui ci buttiamo. È per questa ragione che, continua la professoressa, la natura essenziale della fiducia è quella del dono: un dono incondizionato che, come anche nell’amore, non prevede una ricompensa proveniente dall’altro.
Il rapporto fiduciario che si instaura tra due individui inoltre, è’ indipendente, o non necessariamente dipendente, dall’affidabilità altrui: tra fiducia e affidabilità intercorre un rapporto di tipo asimmetrico: posso fidarmi ciecamente di un amico, indipendentemente dal fatto che, in più occasioni, mi abbia dimostrato di essere poco affidabile. Read more