Oriana Fallaci: Prima di tutto Scrittore

Ogni persona libera, ogni giornalista libero, deve essere pronto a riconoscere la verità ovunque essa sia. E se non lo fa è, nell’ordine: un imbecille, un disonesto, un fanatico. Il fanatismo è il primo nemico della libertà di pensiero. E a questo credo io mi piegherò sempre, per questo credo io pagherò sempre: ignorando orgogliosamente chi non capisce o chi per i suoi interessi e le sue ideologie finge di non capire. 

(dalla lettera agli studenti della scuola Rosselli di Marina di Carrara)

Chi era Oriana Fallaci? Chi era la donna che ha cambiato il significato e l’essenza stessa della parola Donna?

Oriana Fallaci lascia la Facoltà di Medicina dopo averla frequentata per poco tempo, non per mancanza di tenacia, ma per la più grande predisposizione naturale che sente dentro di sé: la passione che la porta a scrivere. Quella stessa che la porta a ricercare, capire, voler comprendere le vicende che la circondano. La scrittura invade le sue giornate, le sue notti passate a cercare di rifiutare il sonno tra una sigaretta e l’altra. Non smette mai di scrivere affermando le sue opinioni, difficili da comprendere per chi è diplomatico per natura.
Oriana delinea un’enorme se stessa nei suoi pregi e nei suoi – se così si possono chiamare – difetti. Di un personaggio che ha cambiato le concezioni storico-sociali del ‘900, per potervi partecipare fino in fondo non soltanto da spettatore, ma soprattutto da protagonista.

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Nulla la disegna meglio di quello che ci hanno lasciato le sue mani unite all’affezionata Olivetti. Sì, anche in questo è grande: scrive sentendo il suono dei tasti sotto le sue dita, facendosi chiamare “scrittore” anziché scrittrice.
E’ l’affermazione della sua passione che sembra venire prima di se stessa che la rende unica; lei che arriva a pesare trentasette chili pur di dividersi tra gli studi universitari e il continuare a mettere giù le parole nel modo più autentico possibile. Solo la passione ci rende autentici, perché ci porta a diventare quello che vorremmo fermamente.
E lei nello scrivere era capace di delineare se stessa, proprio come nelle sue interviste è sempre riuscita a delineare i suoi interlocutori.

– È strano, signora Magnani: lei ha un carattere così virile, dice sempre di stimare più gli uomini che le donne, «perché io accetti una donna bisogna che essa abbia una dignità e un carattere quasi maschile», e poi parla come se avesse degli uomini una considerazione minuscola – 

– Guardi, non ne ho nessuna. Il fatto è che le donne come me si attaccano solo agli uomini con una personalità superiore alla loro: ed io non ho mai trovato un uomo con una personalità capace di minimizzare la mia. Le donne come me subiscono solo gli uomini capaci di dominarle: ed io non ho mai trovato nessuno che fosse capace di dominarmi. Ho trovato sempre uomini, come definirli? Carucci. Dio, si piange anche per quelli carucci, intendiamoci, ma son lacrime da mezza lira – 

Se mi chiedessero quanto sarei stata disposta ad offrire per partecipare a quest’intervista, avrei risposto semplicemente “una cifra che non saprei quantificare”.
Oriana Fallaci esprime un’estrema grandezza nel tracciare esattamente il profilo dell’intervistato, chiunque sia; non solo nel ricercarne i caratteri, quanto piuttosto nel riuscire a delinearlo come se lo conoscesse da tempo e non soltanto da cinque minuti. Mi riferisco ad Oriana Fallaci che lascia parlare Anna Magnani da donna a donna, mi riferisco a due personaggi che non hanno mai avuto bisogno di affermarsi attraverso le parole, perché erano in grado di esprimersi anche soltanto tramite il loro modo di essere. Parlo di autenticità mischiata all’ironia, per descriverle fino in fondo.

Troppe volte di un grande personaggio si estremizzano i lineamenti più ostici: emerge ciò che non è, una natura che non corrisponde completamente al vero. Forse perché quello che trasmette un grande personaggio è puramente soggettivo, forse perché ognuno di noi riesce a coglierne tratti estremamente diversi. Nella fiction in due puntate andata in onda su Raiuno diretto da Marco Turco, vediamo una Fallaci costantemente arrabbiata, invasa continuamente da impeti di rabbia, più che dalla sua tenacia.
Leggere Un uomo, piuttosto che Lettera ad un bambino mai nato significherebbe discostarsi completamente da quella visione: leggendo soltanto due dei suoi libri risulta chiaro come una donna forte sia anche capace di amare tanto se stessa quanto un’altra persona. Quanto una donna indipendente sia in grado di provare il desiderio di maternità, il desiderio di diventare madre, un desiderio che è insito nella natura femminile stessa.

A chi non teme il dubbio
a chi si chiede i perché
senza stancarsi e a costo
di soffrire di morire
A chi si pone il dilemma
di dare la vita o negarla
questo libro è dedicato
da una donna
per tutte le donne.

E’ sufficiente la dedica iniziale per capire il livello di comunicazione ed empatia che unisce Oriana ad ognuna di noi: la comune essenza di essere donna, con tutto quello che ne comporta. Quante e quali domande si pone una donna che porta in grembo un figlio?
Troppe. Una donna lo sa quanto sarà difficile il mondo di oggi, quanto sarà difficile crescere una creatura che non ha colpe per tutto quello che dovrà affrontare. E’ conscia del fatto che non esiste una manuale di istruzioni con cui ci sarà un modo giusto di indicare una strada piuttosto che un’altra; sente il figlio come se stessa, per quanto non si veda mai abbastanza preparata.

Perfino lei, che preparata lo era sempre. Lei, che alla vita non ha mai detto no – fino alla sua estrema essenza – nella sua determinante battaglia contro l’Alieno.
Lei che aveva visto la Guerra del Vietnam, perché l’aveva vissuta. Lei che aveva visto la città di Beirut devastata e assediata, in cui la morte si riversava in ogni sua forma.
Oriana che era capace di non vedere soltanto le bombe, ma prima di tutto le persone, cogliendo le espressioni di chi ogni giorno temeva di non arrivare all’ora successiva, non sapendo se avrebbe abbracciato ancora una volta i suoi cari, la sua terra, la sua vecchia e rassicurante vita. In una delle sue interviste le era stato chiesto se avesse paura della guerra, essendo stata la più grande inviata di quegli scempi nel ‘900 .

Chi dice di non avere paura della guerra è un cretino o un bugiardo.

Così risponde, soffermandosi poi sul fatto che l’unica possibilità per affrontare la paura che si ha per la guerra è superarla. Limite e possibilità, oserei dire.
Nonostante dopo la pubblicazione di Insciallah del 1990 avesse scelto di trasferirsi definitivamente a Manhattan, estremamente tenace nella sua guerra personale contro quella malattia che ogni giorno la consumava e rendeva un po’ più forte al tempo spesso, il suo spirito indomabile non le permise di rimanere indifferente all’attentato dell’11 settembre 2001.
Dapprima in un lungo articolo apparso sul Corriere della Sera il 29 settembre 2011, poi ne La rabbia e l’orgoglio – che era solita chiamare un “piccolo libro” – Oriana affrontava la tematica del fondamentalismo religioso: un argomento in cui riusciva ad essere completamente se stessa, senza cadere in ciò che avrebbe dovuto essere politicamente corretto. Un argomento particolarmente scomodo che si preferiva non affrontare, ma che lei si sentì di esprimere – come sempre – a modo suo.
Autenticamente suo.

Il puzzo della morte entrava dalle finestre, dalle strade deserte giungeva il suono ossessivo delle ambulanze.

Proprio lei che sentiva ogni giorno la morte sempre più vicina, odiava sentire quella delle persone. Odiava coglierla nell’aria, odiava coglierla nel fanatismo, odiava respirarla. Aveva sempre cercato di raccontarla, come aveva sempre cercato di esprimere ogni cosa di se stessa. Ogni pensiero o emozione, per quanto fossero estremi e poco condivisibili, erano il lato di chi ama vivere appieno la vita, di chi non è mai stato peccatore di aver trascorso un solo minuto a sopravvivere.

Apro la mia boccaccia. […] E dico quello che mi pare.

Ecco ciò che dice di sé nella sua ultima intervista concessa al New Yorker Oriana Fallaci. Lei che, fino alla fine, ha sempre cercato di fare quello che voleva. Lei che voleva morire nella sua Firenze, pur avendo amato e vissuto come cittadina del mondo.

Sulla sua lapide, soltanto tre parole: Oriana Fallaci. Scrittore.

Cecilia Coletta

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C’era una volta l’Amore

Ogni donna ha un segreto, ha un amore sciupato che affiora e divora il suo cuore malato. E’ sincero il segreto, è quella musica dolce che in passato l’ha fatta sognare e adesso non serve ad un bel niente. E se c’era una volta l’amore, ho dovuto ammazzarlo. Cesare Cremonini

Ogni donna, ogni uomo, ogni persona, vive l’amore ogni giorno. Non importa che sia San Valentino, Natale o il proprio compleanno. Tante cose – forse a volte troppe – nella vita, parlano d’amore.

Camminava a passo sostenuto, camminava senza contare i suoi respiri, camminava pensando a troppe cose, o – per meglio dire – cercando di non pensare a qualcosa in particolare. A qualcosa non era proprio la specificazione esatta, perché era qualcuno che cercava di non pensare, quel qualcuno che l’aveva ferita.
Era passato ormai qualche mese, e lei camminava per le strade di una grande città nel giorno di San Valentino. Aveva sempre detto “E’ un giorno come un altro”: in quei tre anni passati con lui non c’era stato bisogno di nessun giorno speciale, perché lo erano tutti. Era speciale guardarsi, trovarsi a dire le stesse cose inaspettatamente, pensare all’unisono, decidere insieme senza concordarlo. E poi c’erano quei giorni passati interamente a fare l’amore, quei giorni in cui avevano trovato il primo treno utile per partire verso una meta decisa all’ultimo. Quei giorni in cui avevano litigato fino a diventare assuefatti dall’odio. Quei giorni in cui un ultimo bacio pensavano che non ci sarebbe mai stato. Quei giorni in cui si ritrovavano a ridere, ridere e ancora ridere insieme. Quelle sere in cui avevano bevuto talmente tanto da non ricordarsi nemmeno dove avevano lasciato le paure. Quei giorni in cui non c’era stato bisogno di parlare, perché c’erano state soltanto lacrime. Lacrime che prontamente erano state spazzate via dai chiarimenti, dal volerci credere ancora, dal volersi vivere ancora. Perché lei aveva sempre creduto in quell’ancora. Aveva sempre creduto che avrebbero potuto affrontare qualsiasi battaglia, e anche qualunque guerra.
Eppure, da qualche mese, non avevano vinto. Avevano perso tutto. Si erano persi loro. Non sarebbe stata in grado di dire se ci fosse stato un giorno esatto in cui avevano smesso di capirsi e brillare insieme. Non se n’era accorta, non aveva fatto caso al loro spegnersi lento. Pur amandolo, non si era accorta di non essere più amata. Non si era data il tempo di capire se la vita da sola potesse fare per lei, non si era data attenuanti al dolore, non si era concessa respiri che fossero dedicati soltanto a se stessa.

E dopo quei mesi, passati a cercare il modo di ricostruirsi, pezzo dopo pezzo, si ritrovava a camminare per le strade di una delle loro tante città, il giorno di San Valentino. Le sembrava tutto amplificato ora; non aveva mai fatto caso a quanti palloncini rossi e rosa tappezzassero le strade. Non aveva mai fatto caso a quanti baci vengano dati il giorno di San Valentino, non aveva mai guardato gli occhi delle persone. Gli occhi che ora sembravano brillare.

Si accorse che anche i suoi brillavano, luccicavano, si riempivano di lacrime. Due lacrime rigavano le sue guance. Due lacrime colme di rimmel, sporche di dolore, malate d’amore. Si fermò per un attimo. Fermò la sua corsa contro il dolore, fermò i suoi passi veloci. Si fermò, fermò il suo cuore distrutto. E, per la prima volta da quando si erano lasciati, pianse. Pianse a dirotto. Pianse in mezzo ad una strada di una grande città. Pianse senza avere più lacrime. Pianse senza saper più contare i respiri. Pianse. Pianse. E ancora pianse.
Pensò a quel giorno in cui lui l’aveva lasciata, quel giorno in cui lei gli aveva detto soltanto che non era poi un grande problema, perché sarebbe riuscita benissimo a cavarsela da sola. Quel giorno che aveva fermato lacrime, vita e dolore. Quel giorno che aveva voluto evitare tutto questo. Quel giorno in cui le sue labbra si erano limitate a chiudersi in un sorriso di convenienza. Quel giorno in cui sapeva che non l’avrebbe mai più rivisto.

Quel giorno che – ormai – era così lontano. Quel giorno in cui le lacrime non erano uscite perché avevano aspettato il momento giusto. Il momento in cui l’amore si era trasformato in dolore. Il momento in cui aveva lasciato che il dolore la prendesse del tutto. Il momento in cui tutto il male era pronto a diventare bene. 

Quel San Valentino a cui non aveva mai pensato, era diventato il primo giorno in cui le era rinato il coraggio di amarsi. Amarsi e A(r)marsi. Smettere di sopravvivere e ricominciare a vivere. Quando il dolore lascia il posto alla vita, quello era stato il suo momento. Capendo che amare se stessa sarebbe sempre stato qualcosa su cui contare, capendo che l’amor proprio genera anche quello che ti regalano gli altri.

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Se c’era una volta l’amore – nel mondo di oggi – ogni persona almeno in un’occasione, ha cercato di ammazzarlo. Gli ha dato calci, pugni e schiaffi finché non l’ha rincontrato.
L’unico amore che rimane sempre, è quello per ciò che ci fa sentire vivi. Noi stessi. Noi con le nostre passioni e i nostri sogni da realizzare. Noi con i nostri difetti e i nostri momenti no. Noi con le nostre paure e troppi dubbi. Noi col nostro impegno e la nostra determinazione. Noi che prima di guardare indietro, dobbiamo guardare avanti. Noi che prima di guardarci dentro, dobbiamo guardare quello che vogliamo raggiungere. Noi che prima di dire “E’ impossibile”, dobbiamo essere in grado di provare cosa significhi.

Esattamente undici anni fa, circa a quest’ora, ho avuto un incidente in cui ho rischiato la vita. Non so per quale strano caso, da quel giorno credo all’impossibile. Credo alla vita un minuto alla volta. Credo perfino all’amore, nonostante io abbia dovuto ammazzarlo più di qualche volta.

Amare se stessi è l’inizio di una storia d’amore che dura una vita. Oscar Wilde

Cecilia Coletta

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Ordinariamente amore

È notte. Un’ora imprecisata della notte. Tutto intorno è buio nella stanza. E lei se ne sta lì. Con la testa appoggiata nell’incavo tra la spalla e il collo di lui. In quello che loro chiamano il “suo posto”. Perché sembra fatto apposta per lei, per la sua testa. È della sua misura. È un incastro perfetto.

Se ne sta lì. Con gli occhi aperti. Ad ascoltarlo. Il rumore del suo respiro. Il rumore del battito del suo cuore. Il rumore del suo sonno. Rumori  familiari.

Se ne sta lì e si sente completa. Si sente calma in questa notte rubata dall’insonnia. Respira a fondo il suo odore. Crea ricordi. Non potrebbe essere altrove. Non dovrebbe essere altrove. Semplicemente, non vorrebbe essere altrove, se non lì.

Ed è una piccola rivelazione improvvisa, quella di amarlo. Quella di trovarsi nella situazione in cui amore e vita vanno di pari passo. È un modo diverso di amarlo. È quell’ amore che parla di quotidianità e di condivisione. Condivisione di giornate che iniziano troppo presto e finiscono troppo tardi senza essere riusciti a dirsi più di poche parole. Condivisione di raffreddori e influenze intestinali. Condivisione di pasti frugali e di sere passate a dormire sul divano – esattamente un minuto dopo aver finito di mangiare. È quell’amore che rende speciale una domenica passata abbracciati sul divano, senza fare nulla.  È quell’amore in cui ci si trova a capirsi con uno sguardo e a non capirsi quando si parla troppo. È quell’amore in cui a volte si sta avvolti nei silenzi e delle altre si passano ore a parlare del futuro. È quell’amore in cui si litiga per delle sciocchezze e si fa pace con un sorriso, con un bacio, senza farla durare troppo. È davvero un modo diverso di amarlo. Non è pensarlo in modalità Superman, capace di risolverti tutti i problemi, ma è sapere che c’è, nonostante i problemi. È sapere che c’è, anche se ti metti quel pigiama. È sapere che c’è, anche se sei una grande rompic*****ni. È sapere che c’è, nonostante i difetti, la fatica e i malumori. È sapere che ti sta accanto e che ti ama, come solo lui riesce a fare. Ed è un amore che a tutti gli altri può sembrare monotono, ma che a te riempie il cuore. È amore che sa di vita. È amore che la rende speciale, la vita.

È semplicemente amore.

È ordinariamente amore.

E in questa notte si scopre follemente innamorata. E avrebbe voluto svegliarlo per dirglielo, subito. Per dirgli che lo amava. Ma lo amava non con le farfalle nello stomaco come i primi tempi. Non con il cuore galoppante di una ragazzina. Lo amava senza aver bisogno di cercare continuamente qualcosa di nuovo. Lo amava col cuore solido di chi sa già chi ha di fronte, con allegati i pregi, i difetti e le caratteristiche ics. Lo amava senza se e senza ma, ma con gli anche se. Lo amava con la fermezza di chi ha già passato del tempo assieme e sa che i problemi non li abbattono. Lo amava con la completezza di chi sa che non c’è un “io e te”, ma un NOI, che è diverso. Lo amava col cuore leggero di chi non si accorge del tutto della fortuna che ha. Lo amava col cuore ingenuo di chi crede ancora che l’amore esiste. Più semplicemente, lo amava con tutto il suo cuore, che non ha alcun bisogno di spiegargli com’è perché forse lo conosce meglio di lei.

Ma decide di non svegliarlo. Di tenersi quella rivelazione così improvvisa tutta per lei, ancora per un po’, ancora per questa notte. Di godersi quel suo piccolo momento speciale in cui riesce a guardarsi dentro e rimanerne sorpresa, piacevolmente sorpresa – il che è una rarità. Glielo dirà la mattina seguente. Salutandolo gli dirà “ti amo”, come tutte le altre mattine. Ma sarà diverso. Almeno per lei. E forse lui capirà. O forse no.

In fondo.. è solo “ordinariamente amore”.

Giordana De Anna

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Equilibrati, equilibristi e squilibrati.

Coinvolgete Dio. Scomodate il prete. I fiorai. Gli srotolatori di tappeti bianchi. Le risaie. Lo zio d’America. Il centrotavola di calle in tinta con quei 12 giri di tulle in cui siete immerse dalla vita in giù. Coinvolgete noi. Che dobbiamo comprarci vestiti che non metteremo mai più, scarpe col tacco che da ubriache togliamo perdendole e tornando a casa scalze. Noi che mentre voi con passo fiero da “ce l’ho fatta” percorrete quella navata, pensiamo soltanto ad una cosa: “ Sei una meringa ambulante”.

Ci date bomboniere che verranno buttate appena dietro l’angolo della sontuosa villa con arazzi, palme e colonne doriche, ioniche e corinzie in cui siamo stati sequestrati da cascate di prosciutto, canzoni da esterna di Uomini e Donne, lancio di bouquet e vino scadente.
Ci ammazzate con foto di voi in viaggio di nozze mentre fate quell’attività adrenalinica chiamata snorkeling.
E poi? Dopo manco tre mesi, ancora con la fede giallo Puff Daddy larga 5 centimetri al dito, cominciate la vostra vita da equilibristi.
Lui che mette e toglie la fede che manco Copperfield. Lei che se la guarda compiaciuta mentre il marito le ha appena comunicato un’ennesima fondamentale riunione alle 23. Lei che appena lui si butta sotto la doccia per eliminare tutte le prove olfattive di consumato adulterio, passa a setaccio tasche, trolley, spazzole, cellulari, tablet, pc. E ci becca sempre qualcosa. Quasi sempre un capello lungo e nero corvino. Ma lei è bionda e col caschetto. Giorno dopo giorno il capello diventa una parrucca. Le riunioni finiscono alle 4 del mattino. Lui, sospettoso dell’altrui sospetto, comincia a spostarsi tra gli ambienti di casa portandosi dietro una carriola con dentro tasche, trolley, spazzole, cellulari, tablet, pc. D’altronde, chi è che non ha bisogno di spazzolare un tablet in corridoio? Mese dopo mese lei, sagace come un mandrillo, comincia a notare che il marito fa più riunioni di Obama, che ogni volta che entra dalla porta d’ingresso lascia una scia di vaniglia, cocco e iris, che la schiena è piena di graffi che lui farà passare per sante stigmate, e che forse, ma forse, anche se “ieri mi ha detto ti amo togliendosi la ruchetta dall’incisivo”, “sente ogni tanto” un’altra. Sono passati mesi. Lui nel frattempo si è fidanzato con tutta Milano, Londra, Miami e zone limitrofe. Ha le chat intasate di emoticon che fanno occhiolini, cuori pulsanti e frasi da picco glicemico. Ha cambiato più letti di una hostess dell’Alitalia. E lei si è illuminata: “ Ti stai sentendo con una”.

La genialità, a volte.

A questo segue la fase della negazione di lui. Dei ricatti di lei, che credendo di essere una fine stratega, non lascia ma fa scontare. Dei continui ed indisturbati tradimenti di lui. Che credendo di essere un fine stratega non lascia ma cerca di farsi lasciare.

Scopo: procacciarsi/evitare  il mantenimento. A seconda del ruolo.

Segue l’autoconvincimento di lei che le cose si siano messe apposto. Segue, esattamente in questo frangente, come da protocollo, la nascita di un figlio. passa qualche mese di finto equilibrio. E poi ciak, si ricomincia. Continui ed indisturbati tradimenti di lui. Autoconvincimento di lei. Ricatti. Bugie. Squallore. Nascosto squilibrio. Quotidiano equilibrismo.

Questi appena descritti, sarebbero per la società, anche ed ancora del 2015, “equilibrati”, in quanto sposati, con figli, casa e magari un cane.

Poi ci sono quelli che vengono visti come “squilibrati”.
Sono quelli che al massimo coinvolgono l’Ikea, per una convinvenza.
Sono  “single”, “soli”, “zitelle”, “scapoli”, “un po’ strani”, “frivoli”.
Sono quelli il cui mantra è “no non sono sposata, no non sono divorziata, no non sono lesbica”.
Sono quelli che si sono sposati a 38 anni per convinzione e non a 25 per convenzione.
Sono quelli che non fanno figli per risolvere una crisi coniugale.
Sono quelli che non dicono “mio figlio” ma “nostro figlio”.
Sono quelli che non dicono “la madre di mio figlio”, ma “Lei”, con la L maiuscola.
Sono quelli su cui gli equilibristi si appoggiano senza pietà per trovare l’equilibrio della loro squilibrata coppia.
Sono quelli che non è che fino ad ora non si siano sposati perché nessuno se li è caricati. Ma perché sposarsi è una roba seria. Come i figli. Come l’amore. Come il tradimento. E proprio perché è una roba seria, non si calcola, non si analizza, non si programma. Non si finge. Sono quelli che potrebbero sposarsi in due mesi, e per questo “squilibrati”. Perché loro l’amore lo riconoscono a chilometri. Così come riconoscono quelli che non sanno stare soli.

Sono quelli che hanno scelto. E che non si sono fatti scegliere. Sono quelli che non generalizzano. E che chiedono che non si generalizzi.

Donatella Di Lieto

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale/ Views are my own]

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Selezionati per voi: Dicembre 2014

I TRE LIBRI DEL MESE

Un dicembre senza Natale non sarebbe un vero dicembre. Un Natale senza luci non sarebbe un momento di vita.

Tutto l’anno siamo assaliti dalla pesante routine, in ogni giorno, in ogni singola ora, in ogni momento in cui attraversiamo la strada o camminiamo in un parco.

A dicembre, tutto il nostro grigio, improvvisamente si illumina.

Camminare diventa meno faticoso. Vedere le luci è finalmente alla nostra portata.

Proprio per questo, a dicembre ho deciso di consigliarvi dei libri che sappiano di vita, che te la coinvolgano totalmente. Dei libri da regalare alle persone a cui volete bene. Non consideriamo mai la possibilità di regalare un libro, perché ci sembra un regalo poco di moda.

Eppure, regalando un libro si regala un pezzo di noi. Si regala un pezzo di un altro. Si può dire “Ti amo”. Si può dire “Ci sono”. Si può dire “Auguri”. Si può dire “Ti penso”. Si può dire “Mi manchi”.

Si può dire tutto quello che a parole non si dice: si può dire perché qualcuno diceva  che almeno a Natale si dice sempre la verità.

“Donne” di Camilleri, per essere trasportati in un universo completamente femminile, dove si raccontano pregi e difetti di tutte noi.

“I giorni dell’eternità” di Ken Follet: ambientato nella Guerra Fredda, il terzo libro della trilogia dell’Autore che ha conquistato la stagione autunnale.

– “Io e te” di Niccolò Ammaniti: capire cosa significhi crescere, entrare nell’adolescenza e cercare di schiudere il proprio guscio sul mondo, senza avere paura, senza doversi nascondere.

Cecilia Coletta 

I TRE FILM DEL MESE

Il 2014 è ormai agli sgoccioli. Dicembre è il mese in cui molti critici tirano le somme di una lunga stagione cinematografica tra recuperi di film persi nei mesi scorsi e visioni intensive per stare al passo con le ultime uscite. Non solo Cinepanettoni quindi, l’ultimo mese dell’anno ha in serbo per gli spettatori numerose e piacevoli sorprese. Abbiamo scelto per voi le tre pellicole che non potete assolutamente farvi sfuggire.

-“Magic in the moonlight”: Woody Allen torna alla regia dopo i passi falsi degli ultimi anni e confeziona una piacevole commedia che gira intorno al mondo del mistero e dell’occulto. A dividersi la scena ci sono due beniamini del pubblico del calibro di Colin Firth ed Emma Stone. Tra atmosfere che ricordano molto “La rosa purpurea del Cairo”, costumi eleganti e battute frizzanti, questa pellicola rappresenta il modo migliore per iniziare Dicembre. Un Allen di sicuro non al massimo della forma, ma decisamente migliore rispetto a flop del calibro di “To Rome with love”. USCITA PREVISTA: 4 DICEMBRE.

-“St. Vincent”: Restiamo nell’ambito della commedia e della leggerezza, anche se declinate qui in salsa cinica e nichilista. Nelle prossime settimane infatti, questo piccolo gioiello di Theodore Melfi si candiderà a vincere la Palma di sorpresa del mese, se non dell’anno. Merito come sempre, di uno straordinario Bill Murray nella parte di un rude veterano di guerra alle prese con un vicino di casa dodicenne che lo farà tornare ad apprezzare la bellezza della vita. USCITA PREVISTA: 18 DICEMBRE.

-“Il ragazzo invisibile”: Chiudiamo questa mini selezione con un film italiano. Nel mese dedicato all’invasione delle solite e ritrite commedie natalizie, il premio Oscar Gabriele Salvatores, torna alla regia con un insolito film di genere. Un fantasy su un supereroe estremamente normale, che dovrà far convivere i suoi nuovi super-poteri con i problemi tipici di un adolescente medio. Un kolossal d’autore, se così vogliamo definirlo. Una storia in cui gli effetti speciali non vengono usati in funzione spettacolare, ma per valorizzare i sentimenti e le emozioni che solo un grande regista come Salvatores sa raccontare nel migliore dei modi. Da non perdere. USCITA PREVISTA: 18 DICEMBRE.

Alvise Wollner

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Intervista a Umberta Telfener

“Che la tua mano sinistra non sappia quello che fa la tua destra, però sforzati di essere ambidestro” Gregory Bateson

Umberta Telfener, psicologa clinica è laureata in psicologia e in filosofia. Ha lavorato per 10 anni in un Servizio di Salute Mentale, collabora con la Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute dell’Università La Sapienza di Roma ed è didatta del Centro Milanese di Terapia della Famiglia. Ha scritto tra gli altri volumi: Sistemica, voci e percorsi nella complessità, Bollati Boringhieri Torino 2003; Apprendere i contesti, strategie per inserirsi in nuovi ambiti di lavoro, Cortina editore, Milano 2011; Le forme dell’addio, effetti collaterali dell’amore, Castelvecchi, Roma 2007; i citati Ho sposato un narciso, Castelvecchi editore, Roma 2006 e Ricorsività in psicoterapia, Bollati Boringhieri 2014. Potete seguirla sul blog Le forme dell’amore,  per  Io Donna.

Lei è laureata in filosofia. Quali motivazioni alla base della sua scelta?
Quando mi sono laureata in filosofia la facoltà di psicologia non esisteva ancora benché già sapessi di essere interessata alla psicologia. Quando è stata aperta la sede di Roma di Psicologia ero al terzo anno di filosofia ed ho deciso di continuare e finire. A quel punto mi ero appassionata a Dewey e agli aspetti di filosofia della conoscenza che più tardi comincerò a chiamare “epistemologia” e che sono stati il filo trasversale di tutto il mio percorso anche clinico. Mi sono poi iscritta a psicologia e ho iniziato ex novo un’altra facoltà ma la laurea in filosofia mi ha fatto procedere molto più speditamente.

Per noi de La Chiave di Sophia la filosofia non è quella materia di serie B che crea solo disoccupazione. E lei ne è un perfetto esempio. Come crede possa la filosofia essere tutelata dalla società?
La filosofia è fondamentale per apprendere lo sguardo nel vivere. Per me l’epistemologia è stata l’interesse di una vita e credo che abbia costituito il valore aggiunto del mio lavoro clinico. Non si tratta di studiare un filosofo oppure un altro – personalmente mi definisco costruttivista e sono interessata ad autori quali Rorty, Deleuze, Foucault, Varela che non ho certo studiato all’Università – quanto ritengo fondamentale l’atteggiamento verso la conoscenza. Ho la consapevolezza che è lo sguardo, sono le premesse che determinano ciò che si farà emergere da uno sfondo. Per questo considero filosofi anche uomini e donne di scienza che hanno riflettuto sulla vita, come Bateson e Heinz von Foerster. Per rispondere alla sua domanda direi che non sono i singoli autori che vanno sottolineati quanto il metodo filosofico, l’attenzione alle premesse e la conoscenza della conoscenza.

Mi può fare tre esempi pratici di come applica la filosofia alla sua vita?
Nel lavoro clinico mi occupo precipuamente delle premesse che determinano i comportamenti dei miei utenti: i pregiudizi che li limitano, le idee perfette che li organizzano, i presupposti che li guidano. Contemporaneamente presto attenzione a quali siano le categorie con le quali io stessa mi avvicino ad una situazione problematica e sono pronta a cambiare le mie categorie qualora i feedback che ricevo mi indichino che la situazione è in stallo oppure non evolve.
Penso che costruire ipotesi, scegliere percorsi e pensare soluzioni non sia limitato alle caratteristiche del sistema osservato. Le soluzioni emergono dalla decostruzione di idee e comportamenti ed implicano tutti i partecipanti al processo: l’individuo che chiede aiuto, i suoi familiari reali o fantasmatici, io stessa e tutti gli operatori che collaborano consapevolmente o meno alla costruzione del sistema semantico determinato dal problema. Chiamo questo “il sistema osservante” che mi include inesorabilmente.
Ogni definizione di un problema non può essere giusta o sbagliata in senso assoluto. La riflessività diventa lo strumento attraverso il quale agire/operare/pensare in maniera etica. Intendo per riflessività un modo di riproporre la propria esperienza a se stessi in modo da pensare e riflettere sulle azioni che sono emerse dalle azioni che abbiamo fatto già. Si tratta della capacità di utilizzare se stessi per interrogare se stessi in relazione alla danza con se stessi e con altri, Questo me lo ha insegnato la filosofia e il mio ultimo libro clinico lo esemplifica molto efficacemente (Bianciardi M., Telfener U., Ricorsività in psicoterapia, riflessioni sulla pratica clinica, Bollati Boringhieri, Torino 2014)

Quali sono le dinamiche che scattano tra narcisismo patologico e social network? Come questi ultimi influenzano il narcisismo patologico?
I social network sono una ottima e utile vetrina e permettono di tenere i piedi in più staffe, di presentare un aspetto ottimale di sé. Permettono cioè di presentarsi splendidi e splendenti, negando i propri lati bui, oppure di chiedere insistentemente di venir salvati dall’interlocutore di turno. Permettono la velocità, la polifonia, la frammentarietà, il controllo, insomma sono strumenti ideali per lanciare ami e ricevere conferme. Sono sempre stupita di come – purtroppo soprattutto le donne, ma non solo – si tenda a rispondere ai narcisismi delle persone colludendo e confermando la loro grandiosità, in un processo di esaltazione della personalità molto spesso ridicola.
Vorrei comunque portare la vostra attenzione anche al mio ultimo libro sulle relazioni amorose (Gli amori briciola, quando le relazioni sono asciutte, Magi editore 2013) che descrive una tipologia molto attuale di relazioni asciutte e scarne. In questo caso i social network vengono usati a fini utilitaristici e non come vetrina personale.

Quanta correlazione c’é tra selfie e narcisismo patologico?
C’è una enorme correlazione tra selfie e società narcisistica così come tra selfie e società sempre più visiva. Il narcisista patologico non necessariamente ama ritrarsi, esattamente come non è elegante e palestrato né curato. Contrariamente alla credenza diffusa il narcisista delusivo o maligno – che è quello più grave e più sofferente – non è vanesio e spesso è trascurato nell’abbigliamento e nello spazio che abita.

Ha avuto in cura dei casi di tecno- dipendenza, da whatsapp, facebook, twitter?
Non sono un’esperta di dipendenze. Credo che per trattare le tecno-dipendenze siano necessari strumenti e conoscenze specifiche che io non ho, credo che l’intervento non sia quello generico della psicoterapia ma un intervento specialistico molto puntuale che deve proporre tecniche temi molto definite. Anni fa quando era di moda “second life” mi è capitato di trattare situazioni di bigamia da network, molto interessanti e dolorose.

Leggendo “Ho sposato un narciso” la sensazione che si ha è quella di avere tutto ad un tratto gli strumenti per poter leggere e capire persone, comportamenti e situazioni fino a qualche pagina prima assolutamente indecifrabili. Crede che questo avvenga anche con la filosofia? Nel senso, se conosci i concetti base della vita, riesci a leggerla e capirla? E magari, anche ad accettarla?
Non credo si tratti di conoscere i concetti di base della vita quanto di avere un metodo epistemologico per intervenire sulle operazioni del vivere e sulla relazione tra griglie di decodifica degli eventi, interpretazione degli stessi e conseguente atteggiamento verso la vita. Non credo neppure che lo scopo del vivere sia solamente quello di accettare la vita. L’accettazione è il primo passo per arrivare poi a parteciparvi in prima persona con una modalità proattiva ed emotiva oltre che razionale.

La citazione filosofica con cui riassumerebbe la sua vita.
“Che la tua mano sinistra non sappia quello che fa la tua destra, però sforzati di essere ambidestro” Gregory Bateson

La redazione

[Immagini tratte da Google Immagini]

Belle vere

La domenica e i miei consueti ed annoiati zapping da un canale all’altro. Mi imbatto in un programma di MTV che racconta la perdita di peso di alcune teenager. Rimango colpita; quelle ragazze hanno davvero un peso eccessivo, che non solo è pericoloso per la salute, ma non riesce a farle sentire loro stesse.

Diciott’anni, centoventi chili, quarantacinque da perdere in un’estate. La prima espressione che mi è balzata in mente è stata Forza di volontà. Fatica. Entrambi i termini con la F maiuscola, si intende.
Mary è stata seguita da un nutrizionista pronto a cambiare le sue cattive abitudini alimentari, è stata aiutata e supportata da tutti, ma prima di tutto da se stessa.
Nei momenti di sconforto ho sentito suo padre urlare che avrebbe potuto farcela, un grido che è arrivato dentro di lei. Un grido che ho sentito echeggiare dentro di me.
Durante l’estate è dimagrita venti chili, poi è partita per il college ed è riuscita a perderne altri venti.

Ha pianto di gioia. Ho visto le lacrime incorniciarle il viso; ho pianto anche io. Io che, pur non sapendo cosa significhi avere tutti quei chili in più, conosco fin troppo bene la sensazione di sentirsi a disagio, di guardarsi attorno e notare soltanto chi riteniamo “migliore”.

Mary è apparentemente un ragazza come tante; a mio vedere – invece – è una delle persone più determinate che ci siano. E’ chi è capace di trasmettere forza, ricordandomi che anche io ho molto obiettivi da raggiungere, e soprattutto anche noi, Donne che non ci sentiamo mai abbastanza adeguate.

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La parola chiave – forse – è proprio ABBASTANZA. Abbastanza belle. Abbastanza magre. Abbastanza simili alle modelle che notiamo.
Io stessa ho passato tanto, troppo tempo, a pensare di non farcela. A guardarmi in quello specchio bugiardo o troppo veritiero, che dir si voglia. Mi sono sentita dire di essere anche troppo. “Troppo cicciottella”, proprio come mi aveva detto quell’allenatrice che mi ha escluso dalla sua squadra per questo motivo.

E poi, parliamo di questa moda curvy; sì alle modelle con le forme. Perché se la cosa fosse prassi acquisita si dovrebbero sostenere campagne apposite? La moda di dare visibilità a queste persone, che altrimenti visibilità non ne avrebbero secondo i canoni.

Eppure, io viaggio controcorrente. Io credo che siano i nostri sorrisi a fare la differenza. Che siano le nostre lacrime sincere a raccontare di noi. Che siano i nostri obiettivi raggiunti a formarci. Impulso, emotività, spontaneità, capacità di pensare con la propria testa ed uscire dagli schemi. Queste siamo noi.

Dimagrire non significa togliere chili in più, è considerevole soltanto se è un obiettivo che ci si è personalmente prefissati.
E si rimane belle, non lo si diventa per la perdita di chili. Belle vere, belle da morire.

Ciò che cambia è soltanto una parola: consapevolezza.
Di guardare quel dannato, bugiardo-veritiero specchio, e ridergli in faccia, perché abbracciamo la forza che c’è in noi.

Marta Visentin

24 anni, studio servizio sociale a Venezia, una (speriamo) futura assistente sociale e passioni… bè sono fissata con il cinema, guardo almeno un film al giorno, leggo moltissimo e di tutto, e amo i fatti!

Vivere per l’Islam

La riflessione di oggi è nata dopo aver letto una frase su Facebook condivisa da una donna di religione mussulmana.

“We are peraphs living in times when living for Islam is more difficult then dying for it”

La frase può essere così tradotta: “ Probabilmente viviamo in un’epoca in cui vivere per l’Islam è molto più difficile che morire per esso”

Se non mi stessi trovando in un mondo islamico da circa un anno, quasi sicuramente avrei letto queste parole in un modo diverso. Mi sarei basata sulle notizie che arrivano in Italia di guerre, guerriglie, lotte, stragi e rivendicazioni e avrei messo a fuoco solo la seconda parte. Morire per esso.

Ma cosa vuol dire invece (per una donna) vivere per l’Islam?

Premesso che posso fare riferimento solo alla realtà di Doha, quella che ho conosciuto fino ad oggi, alle persone incontrate e alle esperienze che mi sono state raccontate, posso affermare che la maggior parte delle donne mussulmane sono fiere di essere tali.

Indossano l’abaya e il velo con orgoglio. Rispettano usanze e preghiere. Ho addirittura conosciuto donne europee che si sono convertite alla religione mussulmana e l’hanno fatto con la piena libertà, consapevolezza e convinzione.

La maggior parte delle donne arabe in Qatar sono donne che lavorano, che guidano, che viaggiano. E sono donne che lottano. Lottano contro il pregiudizio del velo.

Perchè diciamoci la verità. Quel velo, apparentemente così sottile, è in realtà una barriera spessa e pesante. È un muro. Un ostacolo che noi (non mussulmani) preferiamo aggirare piuttosto che affrontare. Preferiamo far finta di non vedere piuttosto che cercare di capire.

Chiara Amodeo - Doha

La condizione della donna varia da Paese a Paese.

Il riconoscomento dei loro diritti dipende molto dall’interpretazione che si da alla Legge Islamica (la Shari’a).

I più conservatori interpretano i passi del Corano includendo differenze di status e diritti tra i due sessi.

I movimenti più attuali invece danno un’interpretazione più paritaria.

Detto questo, per quanto le mussulmane possano essere fiere dei loro costumi e delle loro tradizioni, non si può certo dire che essere una donna in Qatar sia semplice. Locale o espatriata, europea o asiatica, poco importa: gli ostacoli sono all’ordine del giorno. I pregiudizi sono tantissimi. I luoghi comuni non si contano nemmeno.

Chiara Amodeo Doha

Allora mi chiedo, sarà per questo che vedo sempre più donne locali trasferirsi a Londra, la meta più ambita ed amata da ogni qatarino e già in parte conquistata grazie a quella bandiera bianca e bordeaux che sventola su Harrods?

Chiara Amodeo


[Immagini tratte da: http://stylonica.com/top-20-hijab-styles/ e  https://www.flickr.com/photos/61832963@N05/5627087731/]

Semplicemente donne

Sembra facile elogiare la figura femminile; è banale e forse scontato affermare quanto ogni donna sia carica di forza, volontà e determinazione. Io credo, invece, che sia opportuno andare oltre e dedicare uno spazio per tutte noi, noi Donne.

Siamo un concentrato di pregi, emozioni e sensibilità che molto spesso vengono confusi, in maniera riduttiva, per insignificanti debolezze: un errore commesso indifferentemente da uomini e dalle donne stesse che conduce ad una situazione in cui, per dimostrare il nostro valore, dobbiamo essere disposte a dare in misura maggiore di un uomo, sacrificando aspetti del nostro carattere e della nostra vita.

Ingenue coloro che pensano che la causa di tale misfatto si limiti ad essere il genere maschile; la furbizia degli uomini sta nell’accettare la poca consapevolezza che molte donne hanno nelle proprie capacità. Non li definirei “stronzi”, ma semplicemente astuti.

Conosco molti tipi di donne e ognuna di queste la considero meravigliosa; tutte sono capaci di creare attorno a loro – in modalità e ambiti differenti – “meraviglia”.

Eppure, non ho potuto fare a meno di notare come molte di noi non si preoccupino di esaltare e coltivare le loro doti, riducendo i loro meriti a scontate capacità.

Ma qual è il vero motivo per cui questo succede?

Il punto focale della faccenda è qualcosa di complesso, un aspetto che è insito in noi da quando nasciamo: la nostra femminilità.

Significa passione spinta dall’intelligenza, arte mescolata a creatività, determinazione accompagnata da una buona dose di pazienza, bravura conservata nella sfera della lealtà, perseveranza per una sana competizione, sensibilità sostenuta da forza, sensualità per trasmettere dolcezza. Il tutto – però – lo definirei condito da quelle nostre immancabili compagne, che talvolta ci tradiscono: le emozioni. E’ da ammettere; la nostra lucidità non è sempre pari a quella dell’uomo.

Amiamo qualcuno sentendo le farfalle nello stomaco, rendendoci conto che le nostre mani sudano, alla meno peggio avvertendo un lieve rossore che colora le nostre guance o improvvisandoci in un’ostentata spigliatezza. Nasciamo figlie e, pur lamentandoci, per i genitori faremmo di tutto; diventiamo madri e i nostri figli diventano la parte più importante di noi. Ci immergiamo nel nostro lavoro con carica emotiva allo stato puro: un esame andato male è una sconfitta, un lavoro perso è una riorganizzazione totale della nostra dimensione. Siamo amiche per esserci nei momenti sì, ma soprattutto in quelli difficili; offriamo una spalla su cui piangere e un sorriso per incoraggiare le persone a cui teniamo. Ci coloriamo la vita con un hobby o uno sport che ci piace praticare; trasformiamo il bianco e il nero della routine in un’esplosione di concretezza e idee.

Noi Donne riusciamo a sognare ed essere realiste allo stesso tempo, grazie alle nostre idee brillanti e all’essere all’altezza di ogni situazione: non è rilevante che sia la più difficile o lontana dalla nostra prospettiva, saremo sempre in grado di renderla alla nostra portata. Riconosco la nostra forza, tanto quanto quella degli uomini. La sola differenza? Spesso – anche inconsapevolmente – non la accettiamo o non la qualifichiamo come tale.

Maria Callas, soprannominata la “Divina”, artista e Donna senza tempo, si definiva troppo sensibile; riprendendo le sue parole sosteneva di essere nata “troppo fiera ma troppo fragile”. Apprezzata nell’intero panorama musicale e artistico, non riuscì mai a convivere con la sua emotività: una carriera sfolgorante che non fu mai sufficiente a colmare ogni sua insicurezza. Nella Tosca di Puccini, intonava “Vissi d’arte, vissi d’amore..”: non è un caso che Tosca fosse il personaggio che preferiva interpretare. Una donna passionale incapace di domare la propria gelosia e le proprie emozioni; la Callas visse con Onassis un amore travolgente e malato proprio come quello tra Tosca e Cavaradossi, amori per i quali la donna è disposta a rinunciare ad ogni parte di sé e del suo carattere. Donne che donano tutte se stesse, Donne che amano senza sconti. Eppure, l’amore della Divina la portò ad una triste clausura alla fine della sua carriera: non fu capace di non annullarsi, rinunciò al suo potentissimo talento dimenticando di avere il gran dono di saper regalare le emozioni che racchiudeva in sé. Travolgeva il palcoscenico, era capace di fare suoi i ruoli che interpretava fino ad assimilarne lati positivi e negativi. Incapacità di amarsi quando scendeva dalle scene; l’amore per la vita le diede soddisfazione e fin troppo dolore.

Coco Chanel nacque figlia di un semplice venditore ambulante e rimase orfana a soli dodici anni. Icona di stile ed eleganza, fu in grado di credere nelle sue capacità e di sviluppare la sua passione. “The elegance is when the inside is as beautiful as the outside”; la bellezza interiore di noi Donne è capace di influenzare anche il nostro aspetto esteriore. La Donna che creò l’eleganza visse per realizzare i suoi obiettivi: dalla creazione di cappelli in Boulevard Malesherbes, alla boutique al 21 di Rue Cambon. Il suo grande amore, Boy Capel, fu anche il suo finanziatore; l’unico a credere in lei fin dall’inizio, le rese facile il successo, garantendole le risorse economiche necessarie e molte occasioni per sviluppare il suo talento. Coco non sposò mai Boy; un po’ per la grande diversità delle classi sociali a cui appartenevano, ma soprattutto perché lui la mise di fronte ad una scelta limitante: la prospettiva di una famiglia con lui oppure il suo lavoro. Gabrielle scelse, quasi senza rendersene conto, il suo lavoro. Senza che le pesasse, non riusciva a concepire la vita senza le sue creazioni, la sua arte, la sua maggiore fonte di femminilità. Quando Boy morì a soli trentotto anni, per Chanel fu un grande dolore: nonostante questo, il modo di concepirlo fu quello di rinnovarsi ancora, continuando a riempire il suo percorso di successi, per fare di sé la prima fonte di orgoglio. Avrebbe voluto condividere quell’amore appieno, ma non fu mai disposta a rinunciare a quell’aspetto della sua vita che le dava forza e consapevolezza delle proprie capacità.

Carmela Rosalia Iuculano, nota moglie del boss di Cosa Nostra Pino Rizzo, si sposò a soli diciannove anni per sfuggire alla sua realtà familiare, credendo di poter cambiare la propria vita. Presto si rese conto di aver sposato un uomo crudele, che non solo non le portava rispetto, ma, rapito da un gretto maschilismo, la umiliava e costringeva a subire ripetute violenze. Carmela iniziò ad odiare quella vita e soprattutto se stessa; non si amava più e non si piaceva, diventò anoressica e venne spogliata della sua dignità. Con l’arresto del marito venne coinvolta nella realtà del clan mafioso: tutti i boss ammiravano la sua bellezza e intelligenza e ben presto impararono a sfruttare le sue doti per i loro interessi. Quando venne arrestata, una volta ottenuti i domiciliari, tornò a casa e subì il rifiuto dei suoi tre figli: si vergognavano di lei, non erano più capaci di attribuirle la figura di madre.

Nel 2004 Carmela ha iniziato a collaborare con la giustizia, affiancata dall’avvocatessa Monica Genovese ha conquistato la sua libertà. Contribuendo all’arresto di moltissimi mafiosi, ha riaperto il suo capitolo di Donna. Quanto coraggio, quanta forza. Le sue paure hanno lasciato spazio al suo amore per i figli e per la vita: ne è uscita da Donna Libera, ne è uscita migliore di prima. Cresciuta nella sua libertà, ha ridato vita al suo coraggio di Donna.

Donne che si sono dimenticate o che non si sono rese conto del loro valore. Donne che si sono lasciate morire o sono state in grado di ricostruirsi; Donne che grazie alle loro emozioni hanno realizzato grandi obiettivi molto spesso senza rendersene conto.

Vivere ricordandoci quanto valiamo, amandoci, valorizzando noi e quella nostra tanto odiata emotività.

Perché – vi dirò un segreto – un bacio non è un bacio senza batticuore, la rabbia non è tale senza un urlo, un progetto portato a termine non vale se non sono state versate lacrime per realizzarlo.

Per cui, ascoltate di più quel cuore, urlate più forte e piangete senza vergognarvi: siate Donne senza dimenticare che la nostra femminilità è il miglior pregio che ci potesse capitare.

Cecilia Coletta

immagini tratte da Google Immagini ]

Il Bianco, il Nero e la sabbia.

La prima domanda che sorge quando si parla di Doha è “ma dove si trova?”. Inutile parlare del Qatar, meglio dire che si è vicino a Dubai, la cugina famosa.

Invece, la prima cosa che ti colpisce di Doha è il caldo. Un caldo pazzesco, umido. avvolgente e asfissiante. Certo, dipende molto dal periodo ma diciamo che l’autunno e l’inverno sono stagioni alquanto sconosciute da queste parti. Read more