La forza gentile delle donne

Quel giorno, erano le 11.30, stavo tornando a casa in macchina. Ascoltavo un po’ di musica alla radio, quando la vettura che mi precedeva si ferma di colpo. Mi accorgo di movimenti concitati nell’abitacolo. Fermo anch’io la mia corsa. Affianco l’auto. Vedo l’uomo sferrare un pugno alla donna che sedeva dietro, accanto a suo figlio. Un’altra auto sopraggiunge. Faccio segno all’uomo di fermarsi subito. Mi manda a quel paese. Scendo dalla macchina e gli vado contro. La donna, che era alla guida di quell’altra auto, mi affianca. Esce un tesserino dalla tasca. Lui cambia espressione. La donna chiede alla signora cosa stesse accadendo. Abbiamo visto tutto, la possiamo aiutare. Lei – ricordo ancora quello sguardo – mette la mano sulla spalla dell’uomo. “Nulla. Non sta accadendo nulla. È mio marito. Andiamo a casa”. L’uomo si allontana, impaurito (gigante di argilla). La donna ci ringrazia: “Grazie, ma ora andate via”.

 

Mi ricordo ancora il silenzioso urlo di dolore di quella donna, soffocato nella vergogna. La dignità offesa. E poi il figlioletto, terrorizzato, muto testimone di tutto.

La violenza di genere è un fenomeno noto in ogni tempo. Antigone e Ipazia ci hanno raccontato le loro storie. Ma negli anni, purtroppo, poco è cambiato. Non sono mancate, certo, le motivazioni morali contro la violenza e in particolare contro la violenza su donne e bambini. Sono mancati invece quei meccanismi, quelle leve giuste per attivare nuovi processi culturali, istituzionali, politici, legislativi. Ha ragione Luisa Muraro quando, provocatoriamente, scrive: «la storia ha voltato pagina? Bene, noi le volteremo le spalle» (L. Muraro, Dio è violent, 2012).

Quella tanto cara ragione moderna, dell’uomo adulto, universale ed emancipata, si è rivelata una gabbia di ferro, funzionale al controllo generalizzato. Quel pensiero non ha solo voltato le spalle alle donne, ha aggiornato i modelli di subordinazione, di sottomissione. Una razionalità tanto lontana dal privilegiare l’intersoggettività, il rapporto con l’altro, la concretezza, l’attenzione al tempo presente, il pensiero circolare. Non ne faccio una questione ideologica o di appartenenza. È un fenomeno diffuso in tutte le società del mondo.

Alcuni anni fa, l’Orchestraccia rivisitò Lella (di Edoardo De Angelis), un classico della tradizione musicale romanesca, nella quale viene raccontata la storia di un femminicidio. Nel video dell’Orchestraccia, però, la storia cambia. Ci sono donne ferite, che portano i segni delle offese, ma che si rialzano e che cancellano da sole le tracce delle percosse, i lividi e le cicatrici. Quelle che vengono rappresentate sono donne che non cedono e non hanno paura di uomini violenti. Donne forti, ma di una forza differente; non quella, per intenderci, alla quale prelude la cosiddetta “legge del più forte” ma una forza immortale, vigente, effettiva e gentile, tutta rivolta alla pace, direbbe Maria Zambrano. Questa forza cambia la storia strappando quel “velo di Maya” che nasconde la realtà delle cose, con lo stesso coraggio e la stessa determinazione delle donne iraniane che si tagliano i capelli e si tolgono il velo. Sono gesti che allargano lo spettro semantico e simbolico di tutto quello che ci circonda.

La violenza non è solo quella del sangue e del corpo. È violenza anche la sottrazione di beni, materiali e non. C’è la violenza psicologica e dei sentimenti. L’ingiustizia, l’emarginazione, l’isolamento, il pregiudizio: sono espressioni di una violenza nelle relazioni sociali, spesso accompagnata da una violenza nell’interazione comunicativa. Nessuno può dirsi estraneo, cognitivamente, a tutto ciò. Allo stesso tempo mi chiedo quanto sia motivata la nostra volontà e il nostro desiderio di uscire da questi cortocircuiti del pensare.
Me lo chiedo perché non si può cambiare la società con la violenza, anche se in fondo è quello che abbiamo sempre fatto o tentato di fare. L’azione violenta è la distruzione di ogni possibilità; è pura disperazione. Così come la legge del più forte è la negazione di ogni giustizia, di ogni bene. Io penso, invece, ad un’azione differente. Un agire non femminista, ma femminile, che liberi le donne dalla sofferenza di relazioni malate.

Una rivoluzione che è un “agire creativo”, ispirata al bene e alla giustizia, orientata da un pensiero dell’alterità e della differenza che, in una nuova alleanza donna-uomo, affermi ogni giusta pretesa e abbassi l’arroganza dei potenti, preluda a forme migliori dello stare insieme e dia parole nuove per nuovi pensieri. Mi riferisco a un’azione “disobbediente”, non alle leggi, ma al pensiero conformista della maggioranza e all’indifferenza, e che aiuti tutti ad essere persone migliori.

 

Massimo Cappellano

 

[Photo credit Katherine Hanlon via Unsplash]

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L’amica geniale tra soggettività e femminismo

A otto anni dalla pubblicazione dell’ultimo romanzo della tetralogia de L’amica geniale, la sua autrice Elena Ferrante resta un totale mistero. Nella lettura dei suoi romanzi ci consoliamo nell’immaginarla coincidere con la sua protagonista e voce narrante, Elena Greco, e scivoliamo nelle vicende e soprattutto nelle soggettività straordinariamente dipinte dei due lead character: Lenù (Elena Greco appunto), e Lila (al secolo Raffaella Cerullo), personaggio narrato e spesso lontano ma sempre vivo nelle pagine dei quattro volumi. Due storie personali che si aprono a mai banali riflessioni universali.

A partire proprio dal rapporto complesso tra le due amiche geniali, nato in un rione degradato e violento di Napoli negli anni Cinquanta. Il racconto nella tetralogia è estremamente introspettivo e non si riduce mai a forme edulcorate o stereotipate nel descrivere atti e pensieri che disegnano il percorso di vita femminile: né nei confronti del sesso, né in temi come matrimonio e maternità, e nemmeno nella complessa relazione tra amiche, una sorellanza e un affetto smisurati ma costellati anche da invidie, gelosie e competizione. Fin da bambina Lenù vive da subalterna di Lila e decide di collocarsi sulla sua scia, riconoscendole a pelle quella geniale libertà e indipendenza rispetto al violento ordine costituito che le circonda e che è loro imposto. Un caos nel quale però Lenù, diversamente da Lila, non sa nuotare, e dal quale infatti si sottrae grazie ai meriti scolastici che la portano lontano dal rione e della violenza, lontano dall’ignoranza e dalla parlata dialettale, lontano da quel rapporto inevitabilmente subalterno della donna all’uomo, ma anche da quella soggettività nuova e complessa incarnata da Lila. Salvo ritrovarsi adulta a Firenze, sposata con un docente universitario di ottima famiglia, due figlie al seguito, un libro pubblicato da un editore milanese, ma anche una vita domestica dedicata esclusivamente alla casa e alle bambine e una vita intellettuale tarpata dalle incombenze e segnata fin dalle origini dal desiderio di compiacimento maschile.

Sono i movimenti femministi del ’68 – ben descritti nel terzo volume de L’amica geniale – a risvegliare in Lenù questa consapevolezza, facendo germogliare in lei l’idea dei «maschi che fabbricano le femmine». Il dito è puntato su un’educazione millenaria tutta maschile che plasma e ingabbia nel suo rigore la soggettività femminile: temi che fanno eco (dichiarato e velato) ad autrici come Irigaray, Cavarero, Lanza, Muraro. Un’accusa violenta e a 360°: «Sputare su Hegel. Sputare sulla cultura degli uomini, sputare su Marx, Lenin e Engels. E sul materialismo storico. E su Freud. E sulla psicoanalisi e l’invidia del pene. E sul matrimonio, sulla famiglia […] e sulla trappola dell’uguaglianza. E su tutte le manifestazioni della cultura patriarcale. E su tutte le sue forme organizzative. Opporsi alla dispersione delle intelligenze femminili. Deculturalizzarsi. Disacculturarsi a partire dalla maternità, non dare figli a nessuno. Sbarazzarsi della dialettica servo-padrone. Strapparsi dal cervello l’inferiorità, restituirsi a sé stesse. Non avere antitesi. Muoversi su un altro piano in nome della propria differenza»1. Lenù sente finalmente di doversi liberare da quei «patti segreti» ai quali era scesa fin da ragazzina per plasmarsi all’ordine maschile del mondo, e di doversi riformare: dover «disimparare» per «capire meglio cos’ero, indagare sulla mia natura di femmina»2. Filosoficamente Ferrante rimanda dunque al pensiero della differenza sviluppato proprio a partire da quegli anni.

Questa rinuncia all’ordine maschile fa tornare Lenù a Lila, che pur non essendosi mai allontanata di un passo dal rione – manifestazione privilegiata di quella cultura da cui fuggire – sembra totalmente svincolata da ogni visione di mondo globale, paternalistica e progressista. Lila è il personaggio imprevedibile per eccellenza proprio perché capace di sfuggire a ogni ordine precostruito e anche noi lettori, come Lenù, l’amiamo e la odiamo per questo. Anche nel 2022, quando ogni rivendicazione di individualità femminile, ogni resistenza a plasmare la quotidianità in chiave patriarcale dovrebbe essere vecchia storia… ma ancora non lo è. Lo chiarisce la stessa Ferrante in un articolo pubblicato sul Guardian: «Ancora oggi, dopo un secolo di femminismo, non possiamo ancora pienamente essere noi stesse. I nostri difetti, crimini, virtù, piaceri, il nostro stesso linguaggio sono ubbidientemente iscritti nelle gerarchie maschili, puniti o apprezzati secondo un codice che non ci appartiene davvero e che quindi ci logora»3.

Questo lo sfondo della tetralogia de L’amica geniale, nella quale accompagniamo la crescita individuale di Lenù e anche noi come lei, attraverso Lila, ci mettiamo in discussione: chi siamo? Chi vogliamo essere? Come vogliamo comportarci? Quale visione di mondo ci è davvero nostra? Ma non solo: abbracciamo anche di noi i nostri lati più oscuri e facciamo pace con noi stesse, con le nostre inclinazioni e i nostri desideri, i nostri pensieri più bui. Pretendiamo una vita nostra.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1 E. Ferrante, Storia di chi fugge e di chi resta, E/O Edizioni, Roma 2013, p. 254
2 Ivi p. 256
3 Leggi l’articolo: https://www.theguardian.com/lifeandstyle/2018/mar/17/elena-ferrante-even-after-century-of-feminism-cant-be-ourselves

[Immagine di copertina: le protagoniste della serie tv L’amica geniale. Fonte: RaiPlay]

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L’articolo della discordia: “il” presidente non è la stessa cosa

Non so ancora decidermi su cosa sia più fastidioso: sapere che la nuova – e prima – Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana pretenda di essere chiamata “il” Presidente, o vedere paginate su paginate di giornali pieni di “Giorgia di qua, Giorgia di là”, “Giorgia fa questo, Giorgia fa quello”. Forse la cosa più fastidiosa di tutte è che non ci si renda conto che sono due facce della stessa medaglia: la mancanza di riconoscimento del valore di un individuo femminile.

Perché la nostra nuova Prima Ministra ci casca di continuo. Nel suo primo discorso alla Camera ringrazia Tina, Nilde, Rita e compagnia per averle aperto la strada verso lo sfondamento del “soffitto di cristallo”. Peccato che non stia parlando delle amiche con cui gioca a golf ma di individui straordinari, coraggiosi, intelligenti che hanno fatto la storia di questo Paese e che se solo fossero stati uomini sarebbero stati chiamati dignitosamente per cognome. “Lo ha fatto per un sentimento di sorellanza”, dice qualcuno con spirito conciliante. Peccato che a nessuno sia mai venuto in mente di parlare di Garibaldi, Fermi e Pirandello chiamandoli Giuseppe, Enrico e Luigi.

Questa breve divagazione vuole arrivare a un punto: se la nostra Prima Ministra parla dei pilastri del femminismo italiano citandoli per nome di battesimo, c’è da stupirsi se i giornali fanno lo stesso con lei? E pensa davvero che facendosi chiamare “il” Presidente – ignorando per altro una basilare regola grammaticale che finora non ha mai infastidito (per esempio) nessuna insegnante e nessuna docente – i giornali, i colleghi, il mondo intero la tratteranno con maggiore rispetto? Eppure, è la prima Presidente del Consiglio italiana, la prima leader donna del nostro Stato da quando esiste. Un peso che – stando alle sue parole – porta sulle spalle come un fardello, è un onere – e un onore no? – per lei aver conquistato una sedia che è sempre stata prerogativa maschile. Peccato che non basti essere donne per essere femministe e già dalle primissime mosse e dichiarazioni dei membri del suo governo e dei nuovi rappresentanti di Camera e Senato sono emerse le solite trite e ritrite posizioni cieche e sorde davanti a una società che – più che cambiare – finalmente esce allo scoperto, trova fiato in gola e voglia di lottare per ciò che sente di essere, per ciò che desidera: diritti, riconoscimento, uguaglianza.

Tutto questo passa anche per la lingua, splendida cartina tornasole del sentimento sociale. Le regole linguistiche esistono eccome ma vengono sistematicamente attaccate o aggirate, motivo per cui il congiuntivo è ormai un animale in via d’estinzione e i termini inglesi proliferano come funghi in un sottobosco. Chi scrive non è una simpatizzante di parole come “call” o “spoilerare”, eppure sono entrate nel nostro vocabolario prima ancora del loro riconoscimento ufficiale nei dizionari scritti1, per cui non c’è motivo di dimenarsi: sono una realtà e non è possibile nasconderli sotto il tappeto. Così come le ministre, le sindache, le chirurghe, le mediche, le architette, le avvocate: esistono, e sempre di più, quindi perché nasconderle sotto il mantello di un “il” e di una “o”? Parole che tra l’altro, diversamente da “spoilerare”, non sono neologismi ma semplicemente l’applicazione della regola grammaticale a un sostantivo: la novità sta appunto nel fatto che prima non c’erano ministre e adesso sì. Se ci sono, però, vanno anche nominate. Come spiega la sociolinguista Vera Gheno, nominare qualcosa significa riconoscerne l’esistenza, in modo semplice e immediato, e darne visibilità2. Se dico “il Presidente Meloni” e chi mi ascolta è vissuto fino a un minuto fa in una grotta sperduta, penserà certamente che sto parlando di un uomo; se invece dico “la Presidente Meloni” saprà fin da subito che sto parlando di una donna. E attenzione: ciò non è per sottolineare che è una donna: la questione è riportare un dato reale, ovvero che Meloni non è un uomo. Usare le professioni al femminile significa riempire anche il nostro immaginario collettivo di donne in determinate cariche e mansioni, perché nella realtà sta accadendo proprio questo. Perché creare ambiguità? Vogliamo nascondere sotto il tappeto un fatto solo perché il termine che lo descrive ci sembra cacofonico? Se davvero tutto il problema sta nella cacofonia gli (autoeletti) arbitri elegantiae non potranno che farne l’abitudine, come per centinaia di altre parole prima di queste; perché se le cose continuano ad andare in questa direzione – e c’è da augurarselo –dovranno abituarsi al fatto di avere sempre più ministre e (le) presidenti da nominare e citare, quindi se il fatto reale non dà fastidio, difficilmente alla lunga lo darà la parola.

Perché le parole, tutte, a guardarle da vicino, sono mondi meravigliosi. Chiunque abbia studiato il greco antico – lingua estremamente duttile e creativa – probabilmente ricorderà quel verbo che fa sghignazzare da secoli gli studenti ginnasiali, il famoso “rafanidòo” = “infilare un ravanello nell’ano” inventato da Aristofane in una commedia e bene o male mai più usato. Ora, è improbabile che l’italiano possa regalare perle linguistiche altrettanto elevate, ma non pensiamo che la nostra lingua sia una bella statua di marmo: essa cambia perché cambia chi la parla. Forse, piuttosto, se si teme il cambiamento della lingua si teme il cambiamento della nostra società. Che però fortunatamente in certi casi – come per sindache e (le) ingegnere – è un cambiamento da accogliere a braccia aperte.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1 Per chi non lo sapesse, «oggi una parola entra nel vocabolario se arriva ad avere un certo ‘peso’ nell’uso. Il termine deve rispondere a tre criteri oggettivi: essere usata da un numero sufficientemente alto di persone, per un periodo sufficientemente lungo e, se possibile, in contesti differenziati» in V. Gheno, Femminili singolari, Effequ, Firenze 2021, p. 28
2 Cfr. ivi p. 15, p. 33.

 

[Photo credit unsplash.com]

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Alcuni spunti attuali da The Handmaid’s Tale

Basata sul romanzo omonimo di Margaret Atwood, The Handmaid’s Tale (Il racconto dell’ancella) è una serie tv del 2017 e ancora in produzione che ha saputo far parlare di sé per il futuro (non troppo futuro) distopico che ne viene affrescato, in cui una repubblica patriarcale dominata dal fondamentalismo religioso crea un sistema di controllo totale, in cui le donne sono relegate a precisi ruoli che le tengono lontane da qualsiasi forma di decisione (comunitaria e personale) ma anche di libertà.

Moglie, Marta, Zia, Nondonna, Ancella: queste sono le uniche possibilità di vita delle donne adulte nella Repubblica di Gilead, che con la forza militare si è fatta spazio dall’interno negli Stati Uniti soppiantandoli in toto. Ci sono le Mogli (e tra queste spiccano quelle dei Comandanti, l’élite del sistema); le Marta, ovvero le domestiche; le Zie, crudeli addestratrici di Ancelle, particolarmente devote alla causa e ugualmente violente; le Nondonne, peccatrici e traditrici spesso relegate in luoghi come Jezebel (bordelli) o le Colonie (dove s’incontra morte lenta e dolorosa); infine le Ancelle, quelle che, in quanto fertili o già madri, vengono rapite e utilizzate come meri “forni” per garantire la discendenza dei Comandanti. Infatti, in questo futuro distopico le armi chimiche e nucleari hanno provocato un calo drastico della natalità e le Ancelle, appositamente addestrate, vivono nelle case dei Comandanti per poter essere fecondate – nei giorni di fertilità – durante una Cerimonia (di fatto uno “stupro cerimoniale”) a cui partecipano entrambi i coniugi.

“Tu non sei qui. Tu non esisti” si ripete Difred durante queste cerimonie. Difred è la protagonista, suo è il “racconto” cui si fa riferimento nel titolo. Negli Stati Uniti il suo nome era June Osborne, editor in una casa editrice, moglie di Luke e madre di Hannah; rapita da Gilead viene addestrata come ancella e in apertura alla serie la vediamo impiegata nella casa del Comandante Fred Waterford, da qui il nome Difred: sì perché se le Ancelle non hanno più un corpo, considerato come vero e proprio mezzo di procreazione, non hanno neanche più un nome proprio. Tanto è vero che, dopo aver dato alla luce il figlio dei Waterford, June viene spostata a casa di un altro Comandante, Joseph Lawrence, dove di conseguenza diventa Dijoseph.

C’è un motivo se nel 2018, durante le manifestazioni in Irlanda per il referendum sull’abolizione dell’ottavo emendamento della Costituzione (che vieta l’interruzione di gravidanza) alcune donne si sono vestite da ancelle (abito rosso e copricapo bianco). Il libro della Atwood è addirittura del 1985 ma ci ha chiaramente visto lungo: negli anni Venti del ventunesimo secolo la società è ancora sostanzialmente patriarcale e desiderosa di esercitare il proprio controllo sul corpo femminile. Basti vedere la clamorosa cancellazione della sentenza Roe vs. Wade negli Stati Uniti poco meno di un mese fa. Per molti e molte questo è il vero e proprio centro del romanzo e anche il messaggio (per così dire) della scrittrice. June, la nostra protagonista, è una donna forte, ingegnosa e abile che non solo soffre le pene dell’inferno per non piegarsi al regime, ma riesce anche a spingere una lunga serie di personaggi (soprattutto Ancelle) a ribellarsi altrettanto. Anche in questo la modernità ha letto alcuni echi di attualità, e mi riferisco in particolare al movimento #MeToo che sta portando le donne a denunciare sempre di più i casi di stupro. Basti ricordare a questo proposito uno dei motti della saga – soprattutto della prima stagione –, una frase in latino maccheronico scritta su un muro da un’ancella poi morta suicida: “Nolite te bastardes carborundorum” (letteralmente “Non lasciare che i bastardi ti annientino”) che può agilmente diventare mantra universale.

Altrettanto interessante è la posizione delle altre donne in questo quadro: al di là delle temibili Zie, sono le Mogli ad attirare l’attenzione in quanto docili complici del sistema. Contraltare “Moglie” di June è Serena Joy Waterford: altrettanto forte e determinata ma sullo schieramento opposto, prima di Gilead è stata uno degli architetti del sistema e autrice di un libro che auspicava il ritorno delle donne al ruolo di madri e angeli del focolare. E poco importa che nella sua Gilead non potesse neanche leggere il suo stesso libro (in Gilead la lettura è proibita al sesso femminile, pena l’amputazione di un dito). Per questo Serena Joy viene vista da molti come un simbolo di tutte quelle donne che, nel nostro mondo attuale, sono partecipi ideologiche di questa autentica repressione femminile. Una donna estremamente egoista e narcisista, di pochi scrupoli, saltuariamente ribelle – si batte per esempio in un’occasione per il diritto all’educazione delle bambine – ma puntualmente punita, resta sostanzialmente complice visto che, tra le altre cose, essendo sterile ma volendo disperatamente un figlio non mette mai in discussione tutta la questione delle Ancelle.

Ma non solo questione femminile: altri spunti di riflessione stanno all’orizzonte di The Handmaid’s Tale. Merita attenzione tra le altre la lettura che ne ha fatto il famoso sociologo Slavoj Žižek, abbastanza fuori dal coro degli apprezzamenti. Ma questa è un’altra storia.

 

Giorgia Favero

 

[in copertina un fermo immagine dalla serie The Handmaid’s Tale]

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La battaglia per i diritti delle donne non si è mai fermata

L’istituzione dell’8 marzo come giornata simbolo della lotta per la rivendicazione dei diritti delle donne viene fatta risalire alla tragedia accaduta a New York di seguito all’incendio scoppiato nella fabbrica tessile Cotton, dove persero la vita molte lavoratrici. In realtà l’istituzione del Womens’ day risale storicamente al congresso del Partito socialista svoltosi a Chicago nel febbraio 1908 dove venne discusso di abusi sul lavoro, diritto al voto e discriminazione sessuale. Da quel giorno i movimenti di protesta non si sono mai fermati e continuano tuttora a mutare e a trasformarsi servendosi di ogni mezzo dai più moderni social alle piazze.

È fondamentale ricordare l’8 marzo come il giorno in cui le donne rivendicano una battaglia giornaliera per tutti i diritti che ancora oggi sono loro negati, perché non è bastata la grande conquista del diritto al voto, ma ciò per cui oggi si lotta sono le pari opportunità.

Troppe ancora sono le disparità salariali, troppe molestie accadono fuori e all’interno dell’ambiente lavorativo e c’è ancora troppa omertà sui femminicidi (di cui si è segnato un record assoluto pochi mesi fa, il più alto tasso degli ultimi dieci anni). Troppi ancora sono gli abusi non denunciati per paura della ritorsione sulle vittime. Sono argomenti che tutti abbiamo modo di ascoltare e molte donne purtroppo di vivere ogni giorno sulla propria pelle, ma queste non dovrebbero essere battaglie relegate solo alle donne: una società civile è quella che in toto combatte per i diritti di ogni suo cittadino, perché agli occhi della società dobbiamo essere tutti cittadini con pari diritti, opportunità e doveri. E purtroppo non lo siamo ancora.

La società deve essere educata al rispetto, all’uguaglianza e alle pari opportunità. In un contesto assai diverso, ma in cui si parlava di privazione di dignità e diritti, Primo Levi asseriva che fin quando non avremmo riconosciuto a tutti la dignità umana il ricordo e la lotta non si sarebbero potuti fermare: così fin quando all’ultima donna non sarà riconosciuta la sua libertà personale, individuale, sociale e lavorativa nessuna rivoluzione può terminare.

È curioso, asseriva Simone de Beauvoir ne Il secondo Sesso, che tutti i popoli hanno una storia fatta di tradizioni ed eventi determinanti, ma non le donne. Le donne non hanno mai avuto stato, nazionalità e storia, ma hanno vissuto come bambole di carne nella mano degli uomini, che non hanno permesso una divisione dei sessi che si ha solo biologicamente, ma non storicamente. Le donne, afferma la filosofa, si sono emancipate solo uscendo dal focolare paterno dove erano state relegate per secoli ad accudire generazioni che non gli sarebbero appartenute.

Asserisce la de Beauvoir: «C’è una strana malafede nel conciliare il disprezzo per le donne con il rispetto di cui si circondano le madri. È un paradosso criminale negare alla donna ogni attività pubblica, precluderle la carriera maschile, proclamare la sua incapacità in tutti i campi, e affidarle l’impresa più delicata e più grave: la formazione di un essere umano. Ci sono molte donne a cui i costumi, la tradizione negano ancora educazione, cultura, responsabilità, attività, che sono privilegio degli uomini e nelle cui braccia, ciò nonostante, si mettono senza scrupoli i figli, come prima le si consolava con delle bambole della loro inferiorità nei confronti dei maschi; si impedisce loro di vivere; in compenso, si permette loro di giocare con bambole di carne e d’ossa. Bisognerebbe che la donna fosse perfettamente felice o che fosse una santa per resistere alla tentazione di abusare dei suoi diritti».

Le donne si svincolano nella rivoluzione e nella lotta che dona loro l’indipendenza grazie alla quale sono capaci di educare le nuove generazioni a costruire una società civile. Oggi è quanto mai importante ricordare queste parole e farne un vessillo: non solo le donne, ma tutti dobbiamo educare al rispetto perché non basti più una scusa per uno schiaffo, non si dica più che donne “se la sono cercata” per un atteggiamento o un abito, perché nessuna donna subisca pressioni per la sua gravidanza a lavoro, perché tutte abbiano il diritto di abortire, perché nessuna donna veda negato un diritto concesso a un uomo.

Costruiamo una società di umani che rispettano umani, umani che godono di pari opportunità e che lottano perché mai più ne subiscano soprusi. L’8 marzo si faccia in modo che sia in ogni gesto, in ogni lotta quotidiana e che sia simbolo di una lotta che ha ancora molti traguardi da tagliare.

 

Francesca Peluso

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Quando l’impresa si fa donna

«Essere donna è così affascinante, è un’avventura che richiede coraggio, una sfida che non annoia mai» affermava Oriana Fallaci, tra le giornaliste più anticonvenzionali e femministe del secolo scorso. In particolare, della sua nota citazione, emergono due parole significative “coraggio” e “sfida” che rimandano al campo semantico dell’attività, contrariamente a quella “passività” che culturalmente viene attribuita alle donne in quanto “curatrici delle mura domestiche”, “addette alla crescita dei figli” ecc… Ma perché la sua citazione è ancora oggi, nel 2021, così attuale?

Recentemente ho letto un libro dal titolo Le donne che fecero l’impresa, una raccolta di testimonianze di donne – imprenditrici venete che, attraverso diverse difficoltà, si sono fatte carico di attività famigliari, oppure hanno dedicato la loro vita a dirigere aziende di un certo calibro nei più disparati settori commerciali. Si tratta di figure che, nella loro quotidianità, sono riuscite a creare un equilibrio tra famiglia e lavoro, senza rinunciare per questo alla loro sensibilità di madri e alle loro ambizioni professionali.

Esse hanno infatti evidenziato una forte identità e una grande vocazione verso la carriera imprenditoriale.

Oggi si parla molto spesso di parità di genere, di creazione di piani di agevolazione per donne-madri, talvolta però dimenticando che il primo scoglio contro cui ci si imbatte è quello mentale più che fisico.

Ciò che ancora manca, nonostante diversi passi avanti degli ultimi decenni, è accettare che ogni individuo è unico e indipendentemente dal genere, può essere più o meno incline a ricoprire ruoli di leadership. 

Leggendo la storia di Edy Della Vecchia, imprenditrice di Vicenza, sono rimasta colpita da alcune sue affermazioni, nelle quali ricordava come la sua inclinazione caratteriale era molto simile a quella del padre “un uomo estroso con il pallino degli affari”, diversa da quella della madre introversa e pessimista. Tale aspetto significativo l’ha spinta a seguirlo nelle sue attività commerciali fin da piccola, formandola verso quel mondo dell’imprenditoria che poi diventerà il suo. La sua storia fa proprio riflettere sulla necessità di superare quelle barriere mentali e spirituali, che “etichettano” l’individuo secondo delle forme convenzionali, non tenendo conto delle sue inclinazioni.

Analogamente la vicenda di Sabrina Carraro, il cui carattere “tosto e risoluto” viene riconosciuto dallo zio Ivo, fin dalla sua giovane età, la rende la figura adatta a mandare avanti l’azienda dei trenini Dotto, affrontando il difficile passaggio generazionale che la caratterizza. La sua particolare personalità da imprenditrice è evidente fin da subito ed è ciò che le permette di andare avanti tra le difficoltà.

Infine Chiara Rossetto, produttrice di farine, è l’esempio della donna tenace, che nonostante i numerosi rifiuti utilizza l’inventiva per offrire qualcosa di più al cliente finale, mettendosi nei panni delle donne che acquistano il suo prodotto. La sua sensibilità la spinge a pensare alle necessità delle clienti, le quali ricercano anche ricette con cui poter utilizzare le farine, non solo una materia prima da comprare. Con questa convinzione si iscrive a corsi di cucina, partecipa a fiere e più in generale immagina in grande il futuro della propria azienda.

Questi esempi ci lasciano alcuni importanti insegnamenti sulla prospettiva che dovremmo assumere per il futuro. La vera sfida, per ritornare alla citazione della Fallaci, non è soltanto riuscire ad avere delle condizioni favorevoli per agevolare le donne al lavoro, ma pensare che non sia qualcosa di “insolito” vedere una donna alla guida di un’azienda, così come non avere pregiudizi in tale ambito. Il coraggio consiste proprio nello sfatare antichi clichès che, incancreniti nei secoli, devono essere grattati via come ruggine. Da lì si può partire poi a ragionare sulle necessità effettive di donne e uomini e sulle concrete condizioni per favorire questa parità.

 

Anna Tieppo

 

[immagine tratta da Unslash]

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Poesia per l’emancipazione: le parole di Virginia Woolf

Uno spettro che palpita e si reincarna nei grandi scrittori, secolo dopo secolo, istante per istante: il fantasma della poesia è la penetrante immagine con cui si chiude il capolavoro di V. Woolf Una stanza tutta per sé (1929). Nel suo saggio più celebre l’autrice inglese elabora brillantemente il suo pensiero sulla condizione femminile nella letteratura patriarcale, concludendo con un’intensa perorazione finale rivolta a tutte le donne: l’esortazione a scrivere, suggerendo come unico riferimento l’ascolto di sé e del proprio ritmo narrativo.
Questa conclusione dal tono vivace e severo, di appello allo studio e alla libertà di pensiero, è una scheggia tagliente nella coscienza delle lettrici: perché la penna, la buona penna, afferma la Woolf, si rivela sempre nella piena libertà intellettuale; e una simile libertà scaturisce, a sua volta, dalla possibilità di ricevere con una buona istruzione le basi essenziali per interpretare e affrontare autonomamente il mondo. La scrittrice ci invia un messaggio fondamentale: l’istruzione è il trampolino per decifrare la vita complessa che ci circonda, e indagarla, e interrogarla, e darci delle risposte.

Ma da un punto di vista più concreto, la nobilitazione della scrittura ha uno scopo reale? L’atto di scrivere quale importanza potrà mai avere nel faticoso, guerresco percorso di emancipazione delle minoranze?
Italo Svevo ci fornisce un possibile spunto di risposta, descrivendo la scrittura come il migliore strumento di purificazione mentale, che permette di esprimere con chiarezza pensieri ed idee altrimenti ingarbugliati e difficilmente districabili. La scrittura diventa allora l’espressione più alta della razionalità umana, il frutto fecondo di una conoscenza progressiva della propria interiorità, in grado di aprire spiragli sulla nostra anima ed estrarne degli spizzichi, suggerirne dei barlumi.

Scrivendo possiamo riaffermare la nostra identità, ma quest’ultima non è un’entità statica che si limita a venire “rivelata” dalle parole: essa al contrario si sviluppa di istante in istante, fiorisce ancora e ancora; l’identità è sostanza multiforme e in perenne maturazione, che si lancia dietro alle visioni proposte dalla penna e si modifica in base alle nuove parole e ai nuovi orizzonti che grazie a quella stessa penna scopre o inventa.
Scrivendo, quindi, scopriamo noi stessi e contemporaneamente ci realizziamo, tassello dopo tassello; scrivendo siamo tensione, perché ci compiamo costantemente.

È naturale e implicito che attraverso la scrittura sviluppiamo spirito critico, punto di partenza universale per la sovversione dei sistemi precostituiti; ed è di conseguenza altrettanto naturale che chi esercita il potere in tali sistemi favorisca il livellamento della cultura media e la diffusione di una generale disinformazione, allo scopo di indebolire sistematicamente le autocoscienze.
L’ignoranza è come un coltello di cui viene sfruttata la lama per controllare le masse; è una frana sulla grotta dell’Io inizialmente teso a indagare la molteplicità luminosa del mondo e che invece rimane isolato nel buio disorientante del non sapere, condannato ad un’eterna fragilità.
L’ignoranza è, fondamentalmente, il terreno sterile che l’ombra fantasma narrata dalla Woolf non poteva abitare.

Quel fantasma letterario non è più quindi solo un’elegante metafora della poesia, ma diventa l’emblema di un valore, quello della conoscenza, di un obiettivo per le donne, quello di scrivere, e di un ideale: scavare continuamente nella crosta tenera della realtà per coglierne squarci sempre più ampi e arricchire autenticamente, passo dopo passo, la propria visione del mondo.

 

Cecilia Volpi

 

Nata a Mantova nel 2002, ho frequentato il liceo scientifico; a diciassette anni ho vissuto in Messico un’esperienza di studio semestrale, promossa dall’associazione Intercultura. In settembre mi iscriverò probabilmente alla facoltà di Lettere di Torino, indirizzo linguistico. Mi appassiona molto la dimensione del dibattito, dei viaggi e delle lingue straniere.

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L’imprescindibilità dell’essere donne

Nel momento in cui penso a me stessa, cercando di definirmi, sento di dover anzitutto registrare che sono una donna. Probabilmente un uomo, quando riflette su se stesso, non comincia classificandosi come un individuo di un certo sesso: lui è un essere umano. Nel suo rapportarsi al mondo, può dimenticare la propria particolare anatomia. La donna, invece, sente incessantemente il peso del proprio corpo sessuato, che risulta costantemente implicato in ogni sua relazione con il mondo.

Aristotele diceva: «La femmina è femmina in virtù di una certa assenza di qualità. Dobbiamo considerare il carattere delle donne come naturalmente difettoso e manchevole»1; San Tommaso, riprendendo Aristotele, considerava la donna «un uomo mancato, un essere occasionale»2. Sembrerebbe che il corpo dell’uomo abbia un senso autonomo, indipendente, mentre quello femminile non avrebbe alcun senso se non rapportato a quello del maschio. In quest’ottica, è l’uomo a decidere ciò che la donna dev’essere. Appare al maschio immediatamente come un individuo sessuato, per lui ella rappresenta l’Altro.

Nelle società primitive si trova sempre una dualità: quella dell’Uno e dell’Altro (Zeus-Urano, Sole-Luna, Bene-Male, Dio-Lucifero). L’alterità si manifesta come una categoria costitutiva del pensiero umano. Hegel comprende la violenta importanza di tale categoria: il soggetto è capace di scoprirsi solo opponendosi a ogni altra coscienza, esso vuole affermarsi come essenziale e rendere l’Altro un inessenziale. La coscienza dell’altro, tuttavia, gli oppone a sua volta la stessa pretesa, rendendo obbligatorio il riconoscimento della reciprocità del loro rapporto. Nello scontro tra i sessi, invece, solo uno dei due termini si è affermato: l’uomo. Quest’ultimo, abolendo ogni relatività, ha definito la donna come pura alterità. Sorge spontaneo chiedersi perché la donna si dimostra così passiva, così incline a piegarsi, perché si fa porre come l’Altro, senza rinfacciarsi a sua volta come Uno?

I due sessi non si sono mai divisi il mondo in parti uguali; ancora oggi, nonostante la situazione sia nettamente migliorata, la donna versa in una condizione di inferiorità: anche se le sono stati riconosciuti dei diritti, una lunga abitudine sembra ancora impedire che trovino nel costume la loro espressione concreta. Economicamente uomini e donne costituiscono due caste distinte: i primi solitamente godono di condizioni più favorevoli; inoltre, sono ancora loro a detenere la maggioranza delle cariche socialmente più importanti. Ormai è più che risaputo: la storia è stata fatta dai maschi, per questo le donne faticano ancora a partecipare alla costruzione dei fatti umani nel mondo.

Fin dall’antichità, legislatori, preti, letterati e filosofi si sono dilettati a descrivere la debolezza della donna e a dimostrare che la sua condizione subordinata è un dato naturale, voluta da Dio e utile per la terra. Tuttavia, alcuni punti di rottura si registrano con Montaigne, che sembra intuire l’ingiustizia del destino femminile, ma afferma contraddittoriamente che «è contro ragione e contro natura che le donne siano padrone in casa propria. Non lo è che governino un impero»3.  Solo durante l’Illuminismo si comincia a considerare lucidamente la questione. Diderot riconosce che le donne in ogni società «sono state trattate come esseri inferiori»4, perciò si adopera a mostrare che sono esseri umani come l’uomo. Poco dopo è la volta di Stuart Mill, che le difende con estremo ardore fino a sostenere «che la carriera delle donne debba rendere giustizia alle loro facoltà»5.
Ciononostante, il mito dell’Altro era ed è ancora caro a tanti, del resto come biasimarli se non lo sacrificano volentieri! Occorre, infatti, molta abnegazione per cessare di considerarsi il Soggetto assoluto e unico.

La maggioranza degli uomini oggi non afferma apertamente questa presunzione, non afferma l’inferiorità della donna. Probabilmente sono troppo «democratici» per non riconoscere astrattamente in tutti gli esseri umani degli uguali. Tuttavia, si sente spesso pronunciare che le donne sono in condizione di uguaglianza di fronte agli uomini e che non hanno quindi più niente da rivendicare, e contemporaneamente si sente dire che le donne non saranno mai in condizione di uguaglianza, per cui le loro rivendicazioni sono vane. Ciò perché l’uomo oscilla passando facilmente dalla semplice constatazione dell’inuguaglianza concreta e la tematizzazione dell’uguaglianza astratta, alla tematizzazione dell’ineguaglianza concreta e la tentazione di abolire l’uguaglianza astratta. Risulta ancora difficile misurare l’estrema importanza di certe discriminazioni sociali, che sono presentate come insignificanti, ma le cui ripercussioni sono così tanto profonde nella donna da farle credere che siano determinate dalla natura.

Dunque, cosa vuol dire percepire di essere donne? Molto si è detto e scritto e molto io stessa ho appreso vivendo, eppure la questione non è affatto giunta al capolinea, e probabilmente il suo scopo ultimo è non raggiungerlo mai. Non dobbiamo ignorare il fatto che sentiamo di non poter prescindere dal nostro corpo femminile per valutare la nostra esistenza; questo fatto così immediato può sembrarci ovvio e quindi aggirabile. Tuttavia, bisogna problematizzarlo costantemente, perché condiziona il nostro modo di vivere il mondo.

 

Giulia Castagliuolo

 

NOTE
1. Aristotele, Superiorità del maschio nella riproduzione, in Opere, Riproduzione degli animali, vol. V.
2. T. d’Aquino, Summa Theologica, parte I questioni 92 e 99.
3. M. de Montaigne, Saggi, libro III, Milano, Bompiani, 2012.
4. D. Diderot, Sur les femmes, Paris, Gallimard, 2013.
5. S. Mill, la servitù delle donne, Roma, Savelli, 1977.

 

Giulia Castagliuolo, studentessa al terzo anno di filosofia presso l’Università Alma Mater Studiorum di Bologna. Abbraccia l’idea di una filosofia come creazione che spinge a credere nella vita e ad agire nel mondo.

Voci e immagini per l’8 marzo

Volevo scrivere qualcosa di significativo e di interessante per la giornata dedicata alle donne, ma più riflettevo, più ricordavo e leggevo, più mi rendevo conto che di parole profonde, incisive, grandi e importanti ne sono state dette davvero tante. Allora ho pensato che la cosa più giusta da fare era diffonderle ancora, trasmetterle, farvele scoprire o ricordare. È vero, di parole nuove ne servono sempre, ma ricordare quelle del passato, forse, può darci più forza e farci sentire meno sole.

Scriveva Oriana Fallaci ne Il sesso inutile (1961): «I problemi fondamentali degli uomini nascono da questioni economiche, razziali, sociali, ma i problemi fondamentali delle donne nascono anche e soprattutto da questo: il fatto d’essere donne. Non alludo solo a una certa differenza anatomica. Alludo ai tabù che accompagnano quella differenza anatomica e condizionano la vita delle donne nel mondo».
E poi ancora: «Per quanto possibile, evito sempre di scrivere sulle donne o sui problemi che riguardano le donne. Non so perché, la cosa mi mette a disagio, mi appare ridicola. Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione esse debbano costituire […] un argomento a parte […]. Il padreterno fabbricò uomini e donne perché stessero insieme, e dal momento che ciò può essere molto piacevole, checché ne dicano certi deviazionisti, trattare le donne come se vivessero su un altro pianeta dove si riproducono per partenogenesi mi sembra privo di senso».

Vera e propria pietra miliare del femminismo è il Secondo sesso di Simone de Beauvoir, un tomo di oltre 700 pagine dato alle stampe nel 1949 e dove si legge: «Certamente, se si mantiene una casta in stato d’inferiorità, essa rimane inferiore: ma la libertà può spezzare il cerchio […]; così gli uomini si sentono indotti, nel loro stesso interesse, a emancipare parzialmente le donne: esse non devono fare altro che seguire la loro ascesa, e i successi che ottengono le incoraggiano in questo senso; sembra più o meno certo che prima o poi raggiungeranno una perfetta eguaglianza economica e sociale che porterà con sé una metamorfosi interiore». Questo è ancora vero e va tenuto presente in una società come quella di oggi in cui, contrariamente ai nostri stessi desideri, spesso sono proprio alcune donne (e spesso per ignoranza) le peggiori nemiche della causa delle donne. A questo lego una famosa frase attribuita a Mary Wollstonecraft, filosofa settecentesca, perché stupisce come le cose a volte sembrino non cambiare: «Vorrei che le donne avessero potere non sugli uomini, ma su loro stesse».

Tante parole e pensieri, molto profondi e molto belli, nonché storie e curiosità, le hanno condivise anche le mie colleghe de La chiave di Sophia: Sara, Greta, Pamela, Fabiana, Sonia, Francesca.

Parole sì, ma anche immagini. Forse è scontata e banale ma per me, che ho concluso il mio percorso di studi in architettura arte e design con una tesi sulla cartellonistica italiana degli anni ’50, resta ancora straordinariamente incisivo il ricordo di questo fazzoletto rosso a pois, di questo sguardo serio, di quelle semplici parole: possiamo farlo.
Restando nel mondo delle immagini, mi piace citare le opere di Anne Taintor, di cui ho già parlato anche in questo articolo, per affrontare il tema anche con un po’ di sana ironia.
Una delle immagini più potenti, ma anche un po’ inquietanti, la rilevo nella Giuditta di Gustav Klimt: ci si può vedere un urlo di guerra nei confronti degli uomini in quella testa di Oloferne, ma messa lì nell’angolino buio a me fa pensare che la cosa più importante è lei, quella donna che sfida la società, che si prende finalmente il suo spazio, e che se costretta è in grado di usare anche le maniere forti.

Per minare poi l’oggettivazione della donna nel terreno più adatto, quello del corpo, vi propongo le opere di Jenny Saville, artista classe 1970: niente corpi statuari o bellezze mozzafiato, basta modelli irraggiungibili e largo spazio invece alla totale imperfezione, alla violenza, l’obesità, la gravidanza, la carne nuda e cruda.

Tante poi sono state le donne che nel corso della storia, per quanto ad esse antagonista, sono riuscite a lasciare un segno e ad aprire uno spiraglio sempre più ampio al lavoro, al genio, alla creatività e al potere femminile. Accennerò solo ad alcuni esempi del tutto casuali, andando a cercare in ambiti diversi. Hatshepsut, sovrana (faraona? La faraone? Donna faraone?) tra i più grandi della storia dell’antico Egitto secondo gli storici ma soggetta, per motivi controversi, a damnatio memoriae dai suoi successori. Murasaki Shikibu, pseudonimo di una ignota dama di corte vissuta durante la dinastia Heian e autrice attorno all’anno Mille di uno dei capolavori della letteratura giapponese, il Genji Monogatari. Rosalba Carriera, artista e intellettuale veneziana: nella prima metà del Settecento non c’era viaggiatore che se ne andasse da Venezia senza essersi fatto fare un ritratto a pastello dalle sue mani abili. Freya Stark, viaggiatrice inglese e fondatrice del travel writing novecentesco, che nel 1927 si imbarca da sola verso il Medio Oriente per imparare l’arabo e che racconta più volte di come le persone che incontra non si capacitino del suo essere lì, non maritata, solo per interesse verso la grammatica. Amelia Earhart, aviatrice americana scomparsa nelle acque del Pacifico nel 1937 ma con il primato di prima persona ad aver sorvolato sia sull’Atlantico che sul Pacifico. E poi certo, per fortuna ce ne sono state (relativamente tante), Elisabetta d’Inghilterra, Indira Gandhi, Marie Curie, Malala Yousafzai, Florence Nightingale, Artemisia Gentileschi, Saffo, Benazir Bhutto, Maria Montessori, Emmeline Pankhurst, Anna Politkovskaja e l’elenco continua. Le “Storie della buonanotte per bambine ribelli”, scritto da Elena Favilli e Francesca Cavallo è stata forse una grandissima operazione mediatica ma evidentemente ce n’era il bisogno.

Concludo con piacere con quella che a prima vista può sembrare la meno “femminista” di tutte: Jane Austen. Dal suo mondo di ricami e di carrozze, di chaperon e di matrimoni combinati, di etichetta e di costrizioni, arriva illuminante il suo monito, scivolato in una lettera alla nipote Fanny, aspirante scrittrice: «Niente donne perfette, per favore: come sai, mi danno il voltastomaco».

 

Giorgia Favero

 

[Photo credits Tomoko Uji su unsplash.com]

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