La violenza sulle donne è una violazione

La storia non è fatta solo di date da tenere a mente senza che se ne ricordi il motivo, per questo il 25 novembre ha un valore emblematico. Il 25 novembre del 1960 in Repubblica Domenicana le tre sorelle Mirabal (Patria, Minerva e Maria Teresa) vennero uccise per aver combattuto il regime autoritario di Rafael Trujillo. Furono assassinate da sicari che fermarono la loro automobile, le uccisero e gettarono il veicolo con all’interno i corpi in un dirupo per dissimulare un incidente.

Nel 1993 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con risoluzione n. 48/104, adotta la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne riconoscendo il bisogno di una applicazione universale dei diritti e dei principi di uguaglianza, sicurezza, libertà, integrità e dignità. Sei anni dopo, nel 1999, con la risoluzione n. 54/1341, istituisce la Giornata internazionale per l’eliminazione dalla violenza contro le donne che ricorre ogni 25 novembre. La violenza sulle donne diventa formalmente una violazione dei diritti umani solo nella “Convention on Preventing and Combating Violence against Women and Domestic Violence”, nota come Convenzione di Istanbul, promossa nel 2011 dal Consiglio d’Europa. Ma quanta violenza subiscono le donne nel mondo? Secondo ActionAid si stima che in tutto il mondo il 35% delle donne abbia subito violenza almeno una volta nella vita e nel 38% dei casi a uccidere una donna è stato il partner. In Italia, nel 2022, il 91% di omicidi femminili sono stati commessi da familiari o da ex partner2 e nel 2020, in periodo di piena pandemia da Covid-19, le chiamate al numero antiviolenza e stalking 1522 sono aumentate del 79,5% rispetto al 20193. La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia a causa della “risposta inefficace” alle denunce di violenza.

Nel mondo la violenza ha tante facce: pensiamo alle mutilazioni genitali femminili, ai matrimoni precoci e combinati (ad esempio il caso di Saman Abbas), alla violenza psicologica ed economica che una donna su tre subisce, alle denunce di stalking che nell’84% dei casi non portano a una denuncia formale alle Autorità e al 26% degli italiani che individua nell’abbigliamento una provocazione sessuale. Secondo l’Istat4, le donne non denunciano perché hanno imparato a gestire la situazione da sole (39,6% per le violenze da partner e 39,5% da non partner) o perché il fatto veniva descritto come non grave (rispettivamente 31,6% e 42,4%), ma anche per paura (10,1% e 5,0%), per il timore di non essere credute, per la vergogna e l’imbarazzo (7,1% e 7,0%), per sfiducia nelle forze dell’ordine (5,9 e 8,0%) e, nel caso della violenza nella coppia, perché amavano il partner e non volevano che venisse arrestato (13,8%).

La violenza sulle donne è figlia di una cultura patriarcale (basti pensare al delitto d’onore che è stato abolito in Italia soltanto nel 1981, che svalutava la posizione della donna come individuo sociale togliendole opportunità e diritti che restavano esclusivi dell’uomo). Ma perché la violenza sulle donne si manifesta con tanta brutalità? In Amori molesti (Laterza, 2019) Silvia Bonino descrive come la violenza sessuale e affettiva sia un fattore primitivo-evolutivo, che nei maschi si connetterebbe alla sopraffazione e alla dominanza, tipica del mondo animale, e nelle femmine alla paura e alla sottomissione. Ma l’evoluzione dell’essere umano è anche culturale e per questo abbiamo sviluppato anche la capacità di favorire relazioni sociali positive. Per cambiare il modo di pensare e di agire degli uomini occorre lavorare socialmente all’indebolimento del pensiero dominante maschile, rompere la logica di servilismo, prepotenza, supremazia e di sudditanza, perché questa è una questione di diritti.

La morte violenta di ogni donna rappresenta una sconfitta per l’umanità come testimoniano, ad esempio, quella di Armita Geravand, morta a 16 anni dopo 28 giorni di coma a causa di violenze della polizia di Teheran per non aver indossato il velo, e quella di Giulia Cecchettin, la 105esima donna uccisa in Italia dall’inizio dell’anno. Questo può ancora essere il destino di una donna che rifiuta la dipendenza, in nome della libertà. Ogni violenza commessa sulle donne deve chiamare in appello la nostra morale. Ogni vittima deve diventare forza per costruire un coraggio sociale di cambiamento. È urgente che diventiamo la voce di tutte: se non ora, quando?5.

«Le donne sono una stirpe disgraziata e infelice con tanti secoli di schiavitù sulle spalle e quello che devono fare è difendersi con le unghie e coi denti dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto». Discorso sulle donne di Natalia Ginzburg pubblicato nella rivista “Mercurio” nel 1948.

Marica Notte
NOTE
1. 54/134. International Day for the Elimination of Violence against Women: https://documents-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/GEN/N00/271/21/PDF/N0027121.pdf?OpenElement: “qualsiasi atto di violenza di genere che si traduca o possa provocare danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche alle donne, comprese le minacce di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia che avvengano nella vita pubblica che in quella privata” .

2. Dati disponibili su Openpolis: https://www.openpolis.it/resta-alto-il-numero-di-femminicidi-in-italia-e-in-europa/ .
3. Le richieste di aiuto durante la pandemia: https://www.istat.it/it/archivio/257704 .
4. Violenza di genere al tempo del covid-19. Le chiamate al numero di pubblica utilità 1522: https://www.istat.it/it/archivio/242841 .
5. “Se non ora quando”: movimento di femministe italiane nato nel 2009.

[Photo credit Mika Baumeister via Unsplash]

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Il paradosso delle donne. La longevità femminile significa più malattie

Oramai dovrebbe essere questione piuttosto condivisa che la medicina debba avere una declinazione attenta al sesso e al genere che sta prendendo in cura. Ma, guardando cosa dicono i dati, forse non è cosa ancora sufficientemente nota. L’ISTAT, nell’annuario statistico italiano Sanità e salute 2019 ci informa che, in Italia, la donna ha un’aspettativa di vita di 5 anni superiore all’uomo (vita media degli uomini: 79,9 anni – delle donne: 84,4 anni) ma questi 5 anni di surplus sono prevalentemente di malattia e disabilità. Ci sono diversi motivi per cui questa situazione, al contempo sanitaria ed etica, si avvera. Il principale è che si continua troppo spesso ad utilizzare il paradigma dell’entità “uomo”, che riguarda il 50% dell’umanità, come modello per il 100% dell’umanità. Un po’ come ci si ostina a fare ancora con il linguaggio, quando si dice o si scrive “uomo” ma si intendono anche le donne, perché usare altri termini è faticoso e rompe con una tradizione linguistica sedimentata nell’abitudine e ignara di quanto questa visione abbia nuociuto e continui tuttora a farlo. Infatti, dire uomo e sottintendere anche donna è quello che è accaduto per millenni di ricerca scientifica e pratica medica.

Il presupposto di partenza è questo: le stesse malattie si comportano diversamente a seconda che siano maschili o femminili, eppure sono sempre state studiate per come si presentano sugli uomini. Un caso eclatante? La diagnosi di infarto del miocardio arriva più tardiva quando colpisce le donne, perché i loro sintomi sono diversi da quelli classici degli uomini e vengono spesso mal interpretati (spesso finiscono nell’orbita dei disturbi gastrici o psichici). Il risultato? Nonostante l’infarto del miocardio sia meno frequente nelle donne, esse muoiono più facilmente degli uomini, a causa del ritardo nelle cure. Un altro punto cruciale, tra i tanti, è la farmacoterapia, in quanto gli studi farmacologici sono stati a lungo effettuati solo su maschi (animali prima e uomini poi) con il risultato che effetti e dosaggi non danno gli stessi risultati nelle donne, che sono colpite più frequentemente da maggiori effetti collaterali e minore efficacia.
Non bastasse, ci sono studi che ci informano che le donne sono più stressate degli uomini, soprattutto perché ovunque nel mondo si fanno più carico dei ruoli di care-giver (American Psychological Association, Stress in America: The State of Our Nation, 2017). Questo incrementa la loro vulnerabilità alle malattie ma influisce anche sull’effetto dei farmaci e delle varie cure.
Eppure va detto che le carenze della medicina, sebbene procurino numerosi svantaggi alla salute delle donne lungo tutta la loro vita, finiscono anche per penalizzare alcuni uomini, soprattutto in alcune malattie. È il caso, non unico, dell’osteoporosi, che è stata a lungo considerata una malattia che colpisce principalmente le donne caucasiche in post-menopausa. Questo presupposto ha modellato il suo screening, la sua diagnosi e il suo trattamento sul modello femminile, cosicché se l’osteoporosi ce l’ha un uomo, finisce che le complicanze sono maggiori a causa, perlopiù, della latenza di diagnosi.

La storia della medicina è molto coinvolta nelle ragioni delle grandi difficoltà a declinare la pratica medica a seconda di sesso e genere. Colpevole è certamente una cultura del sapere che fin dalle sue origini ha escluso le donne dalla formazione e le ha oggettificate senza tenere conto del loro contributo nemmeno come pazienti. Persino la storia dell’anatomia, che si è realizzata sulle autopsie dei cadaveri, ha dovuto accontentarsi di rari cadaveri femminili (precludendo l’approfondimento delle diversità anatomiche femminili). L’ostinazione a relegare il sapere nelle menti di una selettiva e parziale fetta di umanità ha procurato molta sofferenza e continua a produrre ancora molte ingiustizie per quanto riguarda diagnosi, prevenzione, prognosi e terapie.

Oggi, almeno per quanto riguarda i paesi occidentali, abbiamo molte donne, addirittura la maggioranza, oramai su quasi tutti i settori delle professioni sanitarie e in buona parte anche sul fronte della ricerca. Questo fatto depone favorevolmente al cambiamento che attendiamo.
È vero che le donne sono da tempo immemore il sesso debole, ma non perché nascono così, anzi, la natura della longevità è piuttosto una evidente dimostrazione della loro forza; ma l’essere state in balia di cure declinate esclusivamente al maschile e allo stesso tempo escluse dal sapere attorno quelle cure le ha rese tremendamente vulnerabili. Ora la conoscenza degli errori e la presenza delle donne all’ecclesia del sapere potrà essere finalmente una possibilità per smantellare le enormi ingiustizie che ancora affliggono molte persone nel momento più vulnerabile della loro esistenza, cioè quando soffrono e hanno bisogno di essere curate.

Pamela Boldrin

[Photo credit Towfiqu Barbhuiya via Unsplash]

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La forza gentile delle donne

Quel giorno, erano le 11.30, stavo tornando a casa in macchina. Ascoltavo un po’ di musica alla radio, quando la vettura che mi precedeva si ferma di colpo. Mi accorgo di movimenti concitati nell’abitacolo. Fermo anch’io la mia corsa. Affianco l’auto. Vedo l’uomo sferrare un pugno alla donna che sedeva dietro, accanto a suo figlio. Un’altra auto sopraggiunge. Faccio segno all’uomo di fermarsi subito. Mi manda a quel paese. Scendo dalla macchina e gli vado contro. La donna, che era alla guida di quell’altra auto, mi affianca. Esce un tesserino dalla tasca. Lui cambia espressione. La donna chiede alla signora cosa stesse accadendo. Abbiamo visto tutto, la possiamo aiutare. Lei – ricordo ancora quello sguardo – mette la mano sulla spalla dell’uomo. “Nulla. Non sta accadendo nulla. È mio marito. Andiamo a casa”. L’uomo si allontana, impaurito (gigante di argilla). La donna ci ringrazia: “Grazie, ma ora andate via”.

 

Mi ricordo ancora il silenzioso urlo di dolore di quella donna, soffocato nella vergogna. La dignità offesa. E poi il figlioletto, terrorizzato, muto testimone di tutto.

La violenza di genere è un fenomeno noto in ogni tempo. Antigone e Ipazia ci hanno raccontato le loro storie. Ma negli anni, purtroppo, poco è cambiato. Non sono mancate, certo, le motivazioni morali contro la violenza e in particolare contro la violenza su donne e bambini. Sono mancati invece quei meccanismi, quelle leve giuste per attivare nuovi processi culturali, istituzionali, politici, legislativi. Ha ragione Luisa Muraro quando, provocatoriamente, scrive: «la storia ha voltato pagina? Bene, noi le volteremo le spalle» (L. Muraro, Dio è violent, 2012).

Quella tanto cara ragione moderna, dell’uomo adulto, universale ed emancipata, si è rivelata una gabbia di ferro, funzionale al controllo generalizzato. Quel pensiero non ha solo voltato le spalle alle donne, ha aggiornato i modelli di subordinazione, di sottomissione. Una razionalità tanto lontana dal privilegiare l’intersoggettività, il rapporto con l’altro, la concretezza, l’attenzione al tempo presente, il pensiero circolare. Non ne faccio una questione ideologica o di appartenenza. È un fenomeno diffuso in tutte le società del mondo.

Alcuni anni fa, l’Orchestraccia rivisitò Lella (di Edoardo De Angelis), un classico della tradizione musicale romanesca, nella quale viene raccontata la storia di un femminicidio. Nel video dell’Orchestraccia, però, la storia cambia. Ci sono donne ferite, che portano i segni delle offese, ma che si rialzano e che cancellano da sole le tracce delle percosse, i lividi e le cicatrici. Quelle che vengono rappresentate sono donne che non cedono e non hanno paura di uomini violenti. Donne forti, ma di una forza differente; non quella, per intenderci, alla quale prelude la cosiddetta “legge del più forte” ma una forza immortale, vigente, effettiva e gentile, tutta rivolta alla pace, direbbe Maria Zambrano. Questa forza cambia la storia strappando quel “velo di Maya” che nasconde la realtà delle cose, con lo stesso coraggio e la stessa determinazione delle donne iraniane che si tagliano i capelli e si tolgono il velo. Sono gesti che allargano lo spettro semantico e simbolico di tutto quello che ci circonda.

La violenza non è solo quella del sangue e del corpo. È violenza anche la sottrazione di beni, materiali e non. C’è la violenza psicologica e dei sentimenti. L’ingiustizia, l’emarginazione, l’isolamento, il pregiudizio: sono espressioni di una violenza nelle relazioni sociali, spesso accompagnata da una violenza nell’interazione comunicativa. Nessuno può dirsi estraneo, cognitivamente, a tutto ciò. Allo stesso tempo mi chiedo quanto sia motivata la nostra volontà e il nostro desiderio di uscire da questi cortocircuiti del pensare.
Me lo chiedo perché non si può cambiare la società con la violenza, anche se in fondo è quello che abbiamo sempre fatto o tentato di fare. L’azione violenta è la distruzione di ogni possibilità; è pura disperazione. Così come la legge del più forte è la negazione di ogni giustizia, di ogni bene. Io penso, invece, ad un’azione differente. Un agire non femminista, ma femminile, che liberi le donne dalla sofferenza di relazioni malate.

Una rivoluzione che è un “agire creativo”, ispirata al bene e alla giustizia, orientata da un pensiero dell’alterità e della differenza che, in una nuova alleanza donna-uomo, affermi ogni giusta pretesa e abbassi l’arroganza dei potenti, preluda a forme migliori dello stare insieme e dia parole nuove per nuovi pensieri. Mi riferisco a un’azione “disobbediente”, non alle leggi, ma al pensiero conformista della maggioranza e all’indifferenza, e che aiuti tutti ad essere persone migliori.

 

Massimo Cappellano

 

[Photo credit Katherine Hanlon via Unsplash]

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L’amica geniale tra soggettività e femminismo

A otto anni dalla pubblicazione dell’ultimo romanzo della tetralogia de L’amica geniale, la sua autrice Elena Ferrante resta un totale mistero. Nella lettura dei suoi romanzi ci consoliamo nell’immaginarla coincidere con la sua protagonista e voce narrante, Elena Greco, e scivoliamo nelle vicende e soprattutto nelle soggettività straordinariamente dipinte dei due lead character: Lenù (Elena Greco appunto), e Lila (al secolo Raffaella Cerullo), personaggio narrato e spesso lontano ma sempre vivo nelle pagine dei quattro volumi. Due storie personali che si aprono a mai banali riflessioni universali.

A partire proprio dal rapporto complesso tra le due amiche geniali, nato in un rione degradato e violento di Napoli negli anni Cinquanta. Il racconto nella tetralogia è estremamente introspettivo e non si riduce mai a forme edulcorate o stereotipate nel descrivere atti e pensieri che disegnano il percorso di vita femminile: né nei confronti del sesso, né in temi come matrimonio e maternità, e nemmeno nella complessa relazione tra amiche, una sorellanza e un affetto smisurati ma costellati anche da invidie, gelosie e competizione. Fin da bambina Lenù vive da subalterna di Lila e decide di collocarsi sulla sua scia, riconoscendole a pelle quella geniale libertà e indipendenza rispetto al violento ordine costituito che le circonda e che è loro imposto. Un caos nel quale però Lenù, diversamente da Lila, non sa nuotare, e dal quale infatti si sottrae grazie ai meriti scolastici che la portano lontano dal rione e della violenza, lontano dall’ignoranza e dalla parlata dialettale, lontano da quel rapporto inevitabilmente subalterno della donna all’uomo, ma anche da quella soggettività nuova e complessa incarnata da Lila. Salvo ritrovarsi adulta a Firenze, sposata con un docente universitario di ottima famiglia, due figlie al seguito, un libro pubblicato da un editore milanese, ma anche una vita domestica dedicata esclusivamente alla casa e alle bambine e una vita intellettuale tarpata dalle incombenze e segnata fin dalle origini dal desiderio di compiacimento maschile.

Sono i movimenti femministi del ’68 – ben descritti nel terzo volume de L’amica geniale – a risvegliare in Lenù questa consapevolezza, facendo germogliare in lei l’idea dei «maschi che fabbricano le femmine». Il dito è puntato su un’educazione millenaria tutta maschile che plasma e ingabbia nel suo rigore la soggettività femminile: temi che fanno eco (dichiarato e velato) ad autrici come Irigaray, Cavarero, Lanza, Muraro. Un’accusa violenta e a 360°: «Sputare su Hegel. Sputare sulla cultura degli uomini, sputare su Marx, Lenin e Engels. E sul materialismo storico. E su Freud. E sulla psicoanalisi e l’invidia del pene. E sul matrimonio, sulla famiglia […] e sulla trappola dell’uguaglianza. E su tutte le manifestazioni della cultura patriarcale. E su tutte le sue forme organizzative. Opporsi alla dispersione delle intelligenze femminili. Deculturalizzarsi. Disacculturarsi a partire dalla maternità, non dare figli a nessuno. Sbarazzarsi della dialettica servo-padrone. Strapparsi dal cervello l’inferiorità, restituirsi a sé stesse. Non avere antitesi. Muoversi su un altro piano in nome della propria differenza»1. Lenù sente finalmente di doversi liberare da quei «patti segreti» ai quali era scesa fin da ragazzina per plasmarsi all’ordine maschile del mondo, e di doversi riformare: dover «disimparare» per «capire meglio cos’ero, indagare sulla mia natura di femmina»2. Filosoficamente Ferrante rimanda dunque al pensiero della differenza sviluppato proprio a partire da quegli anni.

Questa rinuncia all’ordine maschile fa tornare Lenù a Lila, che pur non essendosi mai allontanata di un passo dal rione – manifestazione privilegiata di quella cultura da cui fuggire – sembra totalmente svincolata da ogni visione di mondo globale, paternalistica e progressista. Lila è il personaggio imprevedibile per eccellenza proprio perché capace di sfuggire a ogni ordine precostruito e anche noi lettori, come Lenù, l’amiamo e la odiamo per questo. Anche nel 2022, quando ogni rivendicazione di individualità femminile, ogni resistenza a plasmare la quotidianità in chiave patriarcale dovrebbe essere vecchia storia… ma ancora non lo è. Lo chiarisce la stessa Ferrante in un articolo pubblicato sul Guardian: «Ancora oggi, dopo un secolo di femminismo, non possiamo ancora pienamente essere noi stesse. I nostri difetti, crimini, virtù, piaceri, il nostro stesso linguaggio sono ubbidientemente iscritti nelle gerarchie maschili, puniti o apprezzati secondo un codice che non ci appartiene davvero e che quindi ci logora»3.

Questo lo sfondo della tetralogia de L’amica geniale, nella quale accompagniamo la crescita individuale di Lenù e anche noi come lei, attraverso Lila, ci mettiamo in discussione: chi siamo? Chi vogliamo essere? Come vogliamo comportarci? Quale visione di mondo ci è davvero nostra? Ma non solo: abbracciamo anche di noi i nostri lati più oscuri e facciamo pace con noi stesse, con le nostre inclinazioni e i nostri desideri, i nostri pensieri più bui. Pretendiamo una vita nostra.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1 E. Ferrante, Storia di chi fugge e di chi resta, E/O Edizioni, Roma 2013, p. 254
2 Ivi p. 256
3 Leggi l’articolo: https://www.theguardian.com/lifeandstyle/2018/mar/17/elena-ferrante-even-after-century-of-feminism-cant-be-ourselves

[Immagine di copertina: le protagoniste della serie tv L’amica geniale. Fonte: RaiPlay]

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L’articolo della discordia: “il” presidente non è la stessa cosa

Non so ancora decidermi su cosa sia più fastidioso: sapere che la nuova – e prima – Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana pretenda di essere chiamata “il” Presidente, o vedere paginate su paginate di giornali pieni di “Giorgia di qua, Giorgia di là”, “Giorgia fa questo, Giorgia fa quello”. Forse la cosa più fastidiosa di tutte è che non ci si renda conto che sono due facce della stessa medaglia: la mancanza di riconoscimento del valore di un individuo femminile.

Perché la nostra nuova Prima Ministra ci casca di continuo. Nel suo primo discorso alla Camera ringrazia Tina, Nilde, Rita e compagnia per averle aperto la strada verso lo sfondamento del “soffitto di cristallo”. Peccato che non stia parlando delle amiche con cui gioca a golf ma di individui straordinari, coraggiosi, intelligenti che hanno fatto la storia di questo Paese e che se solo fossero stati uomini sarebbero stati chiamati dignitosamente per cognome. “Lo ha fatto per un sentimento di sorellanza”, dice qualcuno con spirito conciliante. Peccato che a nessuno sia mai venuto in mente di parlare di Garibaldi, Fermi e Pirandello chiamandoli Giuseppe, Enrico e Luigi.

Questa breve divagazione vuole arrivare a un punto: se la nostra Prima Ministra parla dei pilastri del femminismo italiano citandoli per nome di battesimo, c’è da stupirsi se i giornali fanno lo stesso con lei? E pensa davvero che facendosi chiamare “il” Presidente – ignorando per altro una basilare regola grammaticale che finora non ha mai infastidito (per esempio) nessuna insegnante e nessuna docente – i giornali, i colleghi, il mondo intero la tratteranno con maggiore rispetto? Eppure, è la prima Presidente del Consiglio italiana, la prima leader donna del nostro Stato da quando esiste. Un peso che – stando alle sue parole – porta sulle spalle come un fardello, è un onere – e un onore no? – per lei aver conquistato una sedia che è sempre stata prerogativa maschile. Peccato che non basti essere donne per essere femministe e già dalle primissime mosse e dichiarazioni dei membri del suo governo e dei nuovi rappresentanti di Camera e Senato sono emerse le solite trite e ritrite posizioni cieche e sorde davanti a una società che – più che cambiare – finalmente esce allo scoperto, trova fiato in gola e voglia di lottare per ciò che sente di essere, per ciò che desidera: diritti, riconoscimento, uguaglianza.

Tutto questo passa anche per la lingua, splendida cartina tornasole del sentimento sociale. Le regole linguistiche esistono eccome ma vengono sistematicamente attaccate o aggirate, motivo per cui il congiuntivo è ormai un animale in via d’estinzione e i termini inglesi proliferano come funghi in un sottobosco. Chi scrive non è una simpatizzante di parole come “call” o “spoilerare”, eppure sono entrate nel nostro vocabolario prima ancora del loro riconoscimento ufficiale nei dizionari scritti1, per cui non c’è motivo di dimenarsi: sono una realtà e non è possibile nasconderli sotto il tappeto. Così come le ministre, le sindache, le chirurghe, le mediche, le architette, le avvocate: esistono, e sempre di più, quindi perché nasconderle sotto il mantello di un “il” e di una “o”? Parole che tra l’altro, diversamente da “spoilerare”, non sono neologismi ma semplicemente l’applicazione della regola grammaticale a un sostantivo: la novità sta appunto nel fatto che prima non c’erano ministre e adesso sì. Se ci sono, però, vanno anche nominate. Come spiega la sociolinguista Vera Gheno, nominare qualcosa significa riconoscerne l’esistenza, in modo semplice e immediato, e darne visibilità2. Se dico “il Presidente Meloni” e chi mi ascolta è vissuto fino a un minuto fa in una grotta sperduta, penserà certamente che sto parlando di un uomo; se invece dico “la Presidente Meloni” saprà fin da subito che sto parlando di una donna. E attenzione: ciò non è per sottolineare che è una donna: la questione è riportare un dato reale, ovvero che Meloni non è un uomo. Usare le professioni al femminile significa riempire anche il nostro immaginario collettivo di donne in determinate cariche e mansioni, perché nella realtà sta accadendo proprio questo. Perché creare ambiguità? Vogliamo nascondere sotto il tappeto un fatto solo perché il termine che lo descrive ci sembra cacofonico? Se davvero tutto il problema sta nella cacofonia gli (autoeletti) arbitri elegantiae non potranno che farne l’abitudine, come per centinaia di altre parole prima di queste; perché se le cose continuano ad andare in questa direzione – e c’è da augurarselo –dovranno abituarsi al fatto di avere sempre più ministre e (le) presidenti da nominare e citare, quindi se il fatto reale non dà fastidio, difficilmente alla lunga lo darà la parola.

Perché le parole, tutte, a guardarle da vicino, sono mondi meravigliosi. Chiunque abbia studiato il greco antico – lingua estremamente duttile e creativa – probabilmente ricorderà quel verbo che fa sghignazzare da secoli gli studenti ginnasiali, il famoso “rafanidòo” = “infilare un ravanello nell’ano” inventato da Aristofane in una commedia e bene o male mai più usato. Ora, è improbabile che l’italiano possa regalare perle linguistiche altrettanto elevate, ma non pensiamo che la nostra lingua sia una bella statua di marmo: essa cambia perché cambia chi la parla. Forse, piuttosto, se si teme il cambiamento della lingua si teme il cambiamento della nostra società. Che però fortunatamente in certi casi – come per sindache e (le) ingegnere – è un cambiamento da accogliere a braccia aperte.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1 Per chi non lo sapesse, «oggi una parola entra nel vocabolario se arriva ad avere un certo ‘peso’ nell’uso. Il termine deve rispondere a tre criteri oggettivi: essere usata da un numero sufficientemente alto di persone, per un periodo sufficientemente lungo e, se possibile, in contesti differenziati» in V. Gheno, Femminili singolari, Effequ, Firenze 2021, p. 28
2 Cfr. ivi p. 15, p. 33.

 

[Photo credit unsplash.com]

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Alcuni spunti attuali da The Handmaid’s Tale

Basata sul romanzo omonimo di Margaret Atwood, The Handmaid’s Tale (Il racconto dell’ancella) è una serie tv del 2017 e ancora in produzione che ha saputo far parlare di sé per il futuro (non troppo futuro) distopico che ne viene affrescato, in cui una repubblica patriarcale dominata dal fondamentalismo religioso crea un sistema di controllo totale, in cui le donne sono relegate a precisi ruoli che le tengono lontane da qualsiasi forma di decisione (comunitaria e personale) ma anche di libertà.

Moglie, Marta, Zia, Nondonna, Ancella: queste sono le uniche possibilità di vita delle donne adulte nella Repubblica di Gilead, che con la forza militare si è fatta spazio dall’interno negli Stati Uniti soppiantandoli in toto. Ci sono le Mogli (e tra queste spiccano quelle dei Comandanti, l’élite del sistema); le Marta, ovvero le domestiche; le Zie, crudeli addestratrici di Ancelle, particolarmente devote alla causa e ugualmente violente; le Nondonne, peccatrici e traditrici spesso relegate in luoghi come Jezebel (bordelli) o le Colonie (dove s’incontra morte lenta e dolorosa); infine le Ancelle, quelle che, in quanto fertili o già madri, vengono rapite e utilizzate come meri “forni” per garantire la discendenza dei Comandanti. Infatti, in questo futuro distopico le armi chimiche e nucleari hanno provocato un calo drastico della natalità e le Ancelle, appositamente addestrate, vivono nelle case dei Comandanti per poter essere fecondate – nei giorni di fertilità – durante una Cerimonia (di fatto uno “stupro cerimoniale”) a cui partecipano entrambi i coniugi.

“Tu non sei qui. Tu non esisti” si ripete Difred durante queste cerimonie. Difred è la protagonista, suo è il “racconto” cui si fa riferimento nel titolo. Negli Stati Uniti il suo nome era June Osborne, editor in una casa editrice, moglie di Luke e madre di Hannah; rapita da Gilead viene addestrata come ancella e in apertura alla serie la vediamo impiegata nella casa del Comandante Fred Waterford, da qui il nome Difred: sì perché se le Ancelle non hanno più un corpo, considerato come vero e proprio mezzo di procreazione, non hanno neanche più un nome proprio. Tanto è vero che, dopo aver dato alla luce il figlio dei Waterford, June viene spostata a casa di un altro Comandante, Joseph Lawrence, dove di conseguenza diventa Dijoseph.

C’è un motivo se nel 2018, durante le manifestazioni in Irlanda per il referendum sull’abolizione dell’ottavo emendamento della Costituzione (che vieta l’interruzione di gravidanza) alcune donne si sono vestite da ancelle (abito rosso e copricapo bianco). Il libro della Atwood è addirittura del 1985 ma ci ha chiaramente visto lungo: negli anni Venti del ventunesimo secolo la società è ancora sostanzialmente patriarcale e desiderosa di esercitare il proprio controllo sul corpo femminile. Basti vedere la clamorosa cancellazione della sentenza Roe vs. Wade negli Stati Uniti poco meno di un mese fa. Per molti e molte questo è il vero e proprio centro del romanzo e anche il messaggio (per così dire) della scrittrice. June, la nostra protagonista, è una donna forte, ingegnosa e abile che non solo soffre le pene dell’inferno per non piegarsi al regime, ma riesce anche a spingere una lunga serie di personaggi (soprattutto Ancelle) a ribellarsi altrettanto. Anche in questo la modernità ha letto alcuni echi di attualità, e mi riferisco in particolare al movimento #MeToo che sta portando le donne a denunciare sempre di più i casi di stupro. Basti ricordare a questo proposito uno dei motti della saga – soprattutto della prima stagione –, una frase in latino maccheronico scritta su un muro da un’ancella poi morta suicida: “Nolite te bastardes carborundorum” (letteralmente “Non lasciare che i bastardi ti annientino”) che può agilmente diventare mantra universale.

Altrettanto interessante è la posizione delle altre donne in questo quadro: al di là delle temibili Zie, sono le Mogli ad attirare l’attenzione in quanto docili complici del sistema. Contraltare “Moglie” di June è Serena Joy Waterford: altrettanto forte e determinata ma sullo schieramento opposto, prima di Gilead è stata uno degli architetti del sistema e autrice di un libro che auspicava il ritorno delle donne al ruolo di madri e angeli del focolare. E poco importa che nella sua Gilead non potesse neanche leggere il suo stesso libro (in Gilead la lettura è proibita al sesso femminile, pena l’amputazione di un dito). Per questo Serena Joy viene vista da molti come un simbolo di tutte quelle donne che, nel nostro mondo attuale, sono partecipi ideologiche di questa autentica repressione femminile. Una donna estremamente egoista e narcisista, di pochi scrupoli, saltuariamente ribelle – si batte per esempio in un’occasione per il diritto all’educazione delle bambine – ma puntualmente punita, resta sostanzialmente complice visto che, tra le altre cose, essendo sterile ma volendo disperatamente un figlio non mette mai in discussione tutta la questione delle Ancelle.

Ma non solo questione femminile: altri spunti di riflessione stanno all’orizzonte di The Handmaid’s Tale. Merita attenzione tra le altre la lettura che ne ha fatto il famoso sociologo Slavoj Žižek, abbastanza fuori dal coro degli apprezzamenti. Ma questa è un’altra storia.

 

Giorgia Favero

 

[in copertina un fermo immagine dalla serie The Handmaid’s Tale]

la chiave di sophia 2022

La battaglia per i diritti delle donne non si è mai fermata

L’istituzione dell’8 marzo come giornata simbolo della lotta per la rivendicazione dei diritti delle donne viene fatta risalire alla tragedia accaduta a New York di seguito all’incendio scoppiato nella fabbrica tessile Cotton, dove persero la vita molte lavoratrici. In realtà l’istituzione del Womens’ day risale storicamente al congresso del Partito socialista svoltosi a Chicago nel febbraio 1908 dove venne discusso di abusi sul lavoro, diritto al voto e discriminazione sessuale. Da quel giorno i movimenti di protesta non si sono mai fermati e continuano tuttora a mutare e a trasformarsi servendosi di ogni mezzo dai più moderni social alle piazze.

È fondamentale ricordare l’8 marzo come il giorno in cui le donne rivendicano una battaglia giornaliera per tutti i diritti che ancora oggi sono loro negati, perché non è bastata la grande conquista del diritto al voto, ma ciò per cui oggi si lotta sono le pari opportunità.

Troppe ancora sono le disparità salariali, troppe molestie accadono fuori e all’interno dell’ambiente lavorativo e c’è ancora troppa omertà sui femminicidi (di cui si è segnato un record assoluto pochi mesi fa, il più alto tasso degli ultimi dieci anni). Troppi ancora sono gli abusi non denunciati per paura della ritorsione sulle vittime. Sono argomenti che tutti abbiamo modo di ascoltare e molte donne purtroppo di vivere ogni giorno sulla propria pelle, ma queste non dovrebbero essere battaglie relegate solo alle donne: una società civile è quella che in toto combatte per i diritti di ogni suo cittadino, perché agli occhi della società dobbiamo essere tutti cittadini con pari diritti, opportunità e doveri. E purtroppo non lo siamo ancora.

La società deve essere educata al rispetto, all’uguaglianza e alle pari opportunità. In un contesto assai diverso, ma in cui si parlava di privazione di dignità e diritti, Primo Levi asseriva che fin quando non avremmo riconosciuto a tutti la dignità umana il ricordo e la lotta non si sarebbero potuti fermare: così fin quando all’ultima donna non sarà riconosciuta la sua libertà personale, individuale, sociale e lavorativa nessuna rivoluzione può terminare.

È curioso, asseriva Simone de Beauvoir ne Il secondo Sesso, che tutti i popoli hanno una storia fatta di tradizioni ed eventi determinanti, ma non le donne. Le donne non hanno mai avuto stato, nazionalità e storia, ma hanno vissuto come bambole di carne nella mano degli uomini, che non hanno permesso una divisione dei sessi che si ha solo biologicamente, ma non storicamente. Le donne, afferma la filosofa, si sono emancipate solo uscendo dal focolare paterno dove erano state relegate per secoli ad accudire generazioni che non gli sarebbero appartenute.

Asserisce la de Beauvoir: «C’è una strana malafede nel conciliare il disprezzo per le donne con il rispetto di cui si circondano le madri. È un paradosso criminale negare alla donna ogni attività pubblica, precluderle la carriera maschile, proclamare la sua incapacità in tutti i campi, e affidarle l’impresa più delicata e più grave: la formazione di un essere umano. Ci sono molte donne a cui i costumi, la tradizione negano ancora educazione, cultura, responsabilità, attività, che sono privilegio degli uomini e nelle cui braccia, ciò nonostante, si mettono senza scrupoli i figli, come prima le si consolava con delle bambole della loro inferiorità nei confronti dei maschi; si impedisce loro di vivere; in compenso, si permette loro di giocare con bambole di carne e d’ossa. Bisognerebbe che la donna fosse perfettamente felice o che fosse una santa per resistere alla tentazione di abusare dei suoi diritti».

Le donne si svincolano nella rivoluzione e nella lotta che dona loro l’indipendenza grazie alla quale sono capaci di educare le nuove generazioni a costruire una società civile. Oggi è quanto mai importante ricordare queste parole e farne un vessillo: non solo le donne, ma tutti dobbiamo educare al rispetto perché non basti più una scusa per uno schiaffo, non si dica più che donne “se la sono cercata” per un atteggiamento o un abito, perché nessuna donna subisca pressioni per la sua gravidanza a lavoro, perché tutte abbiano il diritto di abortire, perché nessuna donna veda negato un diritto concesso a un uomo.

Costruiamo una società di umani che rispettano umani, umani che godono di pari opportunità e che lottano perché mai più ne subiscano soprusi. L’8 marzo si faccia in modo che sia in ogni gesto, in ogni lotta quotidiana e che sia simbolo di una lotta che ha ancora molti traguardi da tagliare.

 

Francesca Peluso

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Quando l’impresa si fa donna

«Essere donna è così affascinante, è un’avventura che richiede coraggio, una sfida che non annoia mai» affermava Oriana Fallaci, tra le giornaliste più anticonvenzionali e femministe del secolo scorso. In particolare, della sua nota citazione, emergono due parole significative “coraggio” e “sfida” che rimandano al campo semantico dell’attività, contrariamente a quella “passività” che culturalmente viene attribuita alle donne in quanto “curatrici delle mura domestiche”, “addette alla crescita dei figli” ecc… Ma perché la sua citazione è ancora oggi, nel 2021, così attuale?

Recentemente ho letto un libro dal titolo Le donne che fecero l’impresa, una raccolta di testimonianze di donne – imprenditrici venete che, attraverso diverse difficoltà, si sono fatte carico di attività famigliari, oppure hanno dedicato la loro vita a dirigere aziende di un certo calibro nei più disparati settori commerciali. Si tratta di figure che, nella loro quotidianità, sono riuscite a creare un equilibrio tra famiglia e lavoro, senza rinunciare per questo alla loro sensibilità di madri e alle loro ambizioni professionali.

Esse hanno infatti evidenziato una forte identità e una grande vocazione verso la carriera imprenditoriale.

Oggi si parla molto spesso di parità di genere, di creazione di piani di agevolazione per donne-madri, talvolta però dimenticando che il primo scoglio contro cui ci si imbatte è quello mentale più che fisico.

Ciò che ancora manca, nonostante diversi passi avanti degli ultimi decenni, è accettare che ogni individuo è unico e indipendentemente dal genere, può essere più o meno incline a ricoprire ruoli di leadership. 

Leggendo la storia di Edy Della Vecchia, imprenditrice di Vicenza, sono rimasta colpita da alcune sue affermazioni, nelle quali ricordava come la sua inclinazione caratteriale era molto simile a quella del padre “un uomo estroso con il pallino degli affari”, diversa da quella della madre introversa e pessimista. Tale aspetto significativo l’ha spinta a seguirlo nelle sue attività commerciali fin da piccola, formandola verso quel mondo dell’imprenditoria che poi diventerà il suo. La sua storia fa proprio riflettere sulla necessità di superare quelle barriere mentali e spirituali, che “etichettano” l’individuo secondo delle forme convenzionali, non tenendo conto delle sue inclinazioni.

Analogamente la vicenda di Sabrina Carraro, il cui carattere “tosto e risoluto” viene riconosciuto dallo zio Ivo, fin dalla sua giovane età, la rende la figura adatta a mandare avanti l’azienda dei trenini Dotto, affrontando il difficile passaggio generazionale che la caratterizza. La sua particolare personalità da imprenditrice è evidente fin da subito ed è ciò che le permette di andare avanti tra le difficoltà.

Infine Chiara Rossetto, produttrice di farine, è l’esempio della donna tenace, che nonostante i numerosi rifiuti utilizza l’inventiva per offrire qualcosa di più al cliente finale, mettendosi nei panni delle donne che acquistano il suo prodotto. La sua sensibilità la spinge a pensare alle necessità delle clienti, le quali ricercano anche ricette con cui poter utilizzare le farine, non solo una materia prima da comprare. Con questa convinzione si iscrive a corsi di cucina, partecipa a fiere e più in generale immagina in grande il futuro della propria azienda.

Questi esempi ci lasciano alcuni importanti insegnamenti sulla prospettiva che dovremmo assumere per il futuro. La vera sfida, per ritornare alla citazione della Fallaci, non è soltanto riuscire ad avere delle condizioni favorevoli per agevolare le donne al lavoro, ma pensare che non sia qualcosa di “insolito” vedere una donna alla guida di un’azienda, così come non avere pregiudizi in tale ambito. Il coraggio consiste proprio nello sfatare antichi clichès che, incancreniti nei secoli, devono essere grattati via come ruggine. Da lì si può partire poi a ragionare sulle necessità effettive di donne e uomini e sulle concrete condizioni per favorire questa parità.

 

Anna Tieppo

 

[immagine tratta da Unslash]

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Poesia per l’emancipazione: le parole di Virginia Woolf

Uno spettro che palpita e si reincarna nei grandi scrittori, secolo dopo secolo, istante per istante: il fantasma della poesia è la penetrante immagine con cui si chiude il capolavoro di V. Woolf Una stanza tutta per sé (1929). Nel suo saggio più celebre l’autrice inglese elabora brillantemente il suo pensiero sulla condizione femminile nella letteratura patriarcale, concludendo con un’intensa perorazione finale rivolta a tutte le donne: l’esortazione a scrivere, suggerendo come unico riferimento l’ascolto di sé e del proprio ritmo narrativo.
Questa conclusione dal tono vivace e severo, di appello allo studio e alla libertà di pensiero, è una scheggia tagliente nella coscienza delle lettrici: perché la penna, la buona penna, afferma la Woolf, si rivela sempre nella piena libertà intellettuale; e una simile libertà scaturisce, a sua volta, dalla possibilità di ricevere con una buona istruzione le basi essenziali per interpretare e affrontare autonomamente il mondo. La scrittrice ci invia un messaggio fondamentale: l’istruzione è il trampolino per decifrare la vita complessa che ci circonda, e indagarla, e interrogarla, e darci delle risposte.

Ma da un punto di vista più concreto, la nobilitazione della scrittura ha uno scopo reale? L’atto di scrivere quale importanza potrà mai avere nel faticoso, guerresco percorso di emancipazione delle minoranze?
Italo Svevo ci fornisce un possibile spunto di risposta, descrivendo la scrittura come il migliore strumento di purificazione mentale, che permette di esprimere con chiarezza pensieri ed idee altrimenti ingarbugliati e difficilmente districabili. La scrittura diventa allora l’espressione più alta della razionalità umana, il frutto fecondo di una conoscenza progressiva della propria interiorità, in grado di aprire spiragli sulla nostra anima ed estrarne degli spizzichi, suggerirne dei barlumi.

Scrivendo possiamo riaffermare la nostra identità, ma quest’ultima non è un’entità statica che si limita a venire “rivelata” dalle parole: essa al contrario si sviluppa di istante in istante, fiorisce ancora e ancora; l’identità è sostanza multiforme e in perenne maturazione, che si lancia dietro alle visioni proposte dalla penna e si modifica in base alle nuove parole e ai nuovi orizzonti che grazie a quella stessa penna scopre o inventa.
Scrivendo, quindi, scopriamo noi stessi e contemporaneamente ci realizziamo, tassello dopo tassello; scrivendo siamo tensione, perché ci compiamo costantemente.

È naturale e implicito che attraverso la scrittura sviluppiamo spirito critico, punto di partenza universale per la sovversione dei sistemi precostituiti; ed è di conseguenza altrettanto naturale che chi esercita il potere in tali sistemi favorisca il livellamento della cultura media e la diffusione di una generale disinformazione, allo scopo di indebolire sistematicamente le autocoscienze.
L’ignoranza è come un coltello di cui viene sfruttata la lama per controllare le masse; è una frana sulla grotta dell’Io inizialmente teso a indagare la molteplicità luminosa del mondo e che invece rimane isolato nel buio disorientante del non sapere, condannato ad un’eterna fragilità.
L’ignoranza è, fondamentalmente, il terreno sterile che l’ombra fantasma narrata dalla Woolf non poteva abitare.

Quel fantasma letterario non è più quindi solo un’elegante metafora della poesia, ma diventa l’emblema di un valore, quello della conoscenza, di un obiettivo per le donne, quello di scrivere, e di un ideale: scavare continuamente nella crosta tenera della realtà per coglierne squarci sempre più ampi e arricchire autenticamente, passo dopo passo, la propria visione del mondo.

 

Cecilia Volpi

 

Nata a Mantova nel 2002, ho frequentato il liceo scientifico; a diciassette anni ho vissuto in Messico un’esperienza di studio semestrale, promossa dall’associazione Intercultura. In settembre mi iscriverò probabilmente alla facoltà di Lettere di Torino, indirizzo linguistico. Mi appassiona molto la dimensione del dibattito, dei viaggi e delle lingue straniere.

[Photo credit unsplash.com]