Quel muro tra noi e l’Islam: intervista a Francesca Corrao

In questa ultima edizione di Pordenonelegge si è parlato molto, e giustamente, del mondo islamico e del suo rapporto con l’Occidente (e non solo), in termini soprattutto politici ma fortunatamente anche culturali. Anche io nel mio piccolo desidero contribuire alla condivisione di pensieri e storie su questa cultura ricca ed antica, poiché ancora una volta i libri possono costituire un porto sicuro nella tempesta del sensazionalismo e dell’approssimazione.

VENICE, 28.10.2008. BIIENNALE TEATRO 2008. THE SYRIAN POET, PLAYRIGHT AND ESSAYIST ADONIS (ALI AHMAD SAID ISBIR) © MARTABUSO/ARICI/GRAZIANERI TEATRO DRAMMATURGO SAGGISTICA Sono andata dunque ad incontrare Francesca Corrao, docente di Lingua e cultura araba alla LUISS di Roma e che nel contesto del festival friulano ha presentato il suo ultimo libro, Islam: religione e politica (LUISS University Press, 2015). Ha vissuto molti anni al Cairo, dove ha conseguito un master in Arabic Studies presso l’American University ed è stata visiting professor in numerosi atenei internazionali tra cui Beirut, Tunisi, Damasco, Parigi e Cambridge. E’ presidente del comitato scientifico della Fondazione Orestiadi di Gibellina (TP), che promuove attraverso un festival annuale il dialogo tra le diverse culture del Mediterraneo; è anche membro dell’Union of European Arabist and Islamist e dell’Institute of Oriental Philosophy della Soka University di Tokyo.
Ecco dunque quello che mi ha raccontato.

 

Abbiamo da poco ricordato, dopo quindici anni, gli avvenimenti di New York e Washington di martedì 11 settembre 2001: da allora il mondo occidentale si è trovato di fronte ad una realtà improvvisamente scomoda ed allarmante che persiste tutt’oggi, dove si rischia di associare definitivamente l’Islam al terrorismo. Quali erano prima di questa data i rapporti tra l’Islam e l’Occidente?

Per quanto riguarda il bacino del Mediterraneo, tali rapporti erano ad un bivio, nel senso che avevano preso un cammino virtuoso – mi riferisco soprattutto agli Accordi di Barcellona, che prevedevano un intensificarsi della collaborazione economica e culturale tra i paesi della sponda  Nord e Sud del Mediterraneo: si svolgevano numerosi festival e più in generale gli scambi tra docenti, artisti, intellettuali, e quindi sembrava possibile un ulteriore sviluppo di questa collaborazione, che avrebbe portato ad un progresso e una maggiore integrazione tra le due sponde del Mediterraneo. Contro questo tipo di politica d’apertura invece vi erano gruppi di potere conservatori radicali che si sono schierati dietro la figura di Bin Laden, perché contrari ad un cambiamento politico in senso democratico. Il problema è all’interno dell’Islam, dove vi sono quelli che sono favorevoli ad una modernità e ad una occidentalizzazione e altri che sono più conservatori e sono più restii ad accogliere le istanze della modernità, e altri ancora che invece intendono restare arroccati in una concezione della società di tipo clanico-medievale. Ovviamente sono delle forze di minoranza all’interno di Stati conservatori, che però hanno accesso a solide risorse economiche e a strumenti di tecnologia molto avanzati. Noi non possiamo permettere a questi nuovi nazisti di cambiare il corso della nostra storia, quindi dobbiamo migliorare e intensificare i rapporti con le persone di buona volontà musulmani credenti, secolari, liberali, democratici, socialisti – perché ci sono diverse connotazioni politiche nell’ambito della comunità islamica, e dobbiamo appunto rinsaldare tali rapporti se vogliamo contrastare questo oscurantismo.

Dal settembre 2001 e negli anni successivi con le guerre in Iraq ed Afghanistan, la fonte di tutti i mali del mondo pareva essere Osama Bin Laden, leader del gruppo terroristico di al-Qaeda; oggi sembriamo quasi esserci dimenticati quel nome, da tempo sostituito da al-Baghdadi, califfo del gruppo Daesh. Se queste cellule terroristiche sono accomunate dal tentativo di frenare l’occidentalizzazione e di destabilizzare il resto del mondo, quali sono invece i loro punti di contrasto?

Certamente i diversi gruppi sono in una situazione di contrasto reciproco: Daesh (o Isis) è infatti uno dei tanti gruppi, purtroppo ci sono diversi gruppi di radicali intransigenti, una serie di fazioni armate (ahimè), un po’ come in Italia ai tempi delle Brigate Rosse, quando oltre a loro c’erano anche altre cellule e movimenti. Ora non si sente più parlare di al-Qaeda ma di Isis, domani però si parlerà di un altro, perché il progetto di Bin Laden non era quello di creare uno Stato ma di formare tante piccole molecole che sarebbero esplose qua e là dovunque nel mondo (com’è successo purtroppo quest’estate nel nord della Francia e a Nizza). Questo era un tipo di progetto che mirava alla destabilizzazione nell’ambito delle realtà politico-culturali altre – altre, noi siamo sempre eurocentrici ma in realtà gli attentati li fanno in Bangladesh, in Pakistan, in Indonesia, in Marocco… quindi  non si può più parlare in termini di Oriente ed Occidente, dobbiamo piuttosto distinguere tra un progresso rispettoso dei diritti umani e della dignità della vita, contro invece delle forme tribali-dittatoriali della gestione del potere. Perché questo è il problema: non rispettano la dignità della vita.
Con la morte di Bin Laden c’è stata una frattura all’interno di al-Qaeda da cui è nato Daesh, ma anche altri gruppi; Isis ha creato lo Stato e quindi si è differenziata rispetto al progetto di al-Qaeda, perché si è alleata con gli ex sostenitori di Saddam Hussein (ex dittatore iracheno caduto nel 2006), i quali erano al governo dell’Iraq; erano uno Stato dunque, ma avendo perduto la guerra contro gli americani, con le nuove elezioni democratiche sono stati esclusi dal potere. Daesh ha incluso quegli ex funzionari (al-Baghdadi stesso era finanziato dall’ex dittatore) e i militari dell’esercito fedeli a Saddam, poiché volevano ricostruire uno Stato. Quindi il problema non è che il nemico di Isis/Daesh siamo noi, il primo nemico per loro in realtà sono i governi al potere nella zona: loro vogliono destabilizzare tutto per sostituirli al potere.

Di fronte a tutto questo penso a Malala Yousafzai, la coraggiosa ragazzina pakistana che ci insegna a combattere l’odio e l’intolleranza attraverso l’educazione, la cultura: una matita è più forte di un kalashnikov. Continuare a parlare del terrorismo islamico dunque inevitabilmente mette da parte gli affascinanti aspetti di una cultura millenaria diffusa in tutto il mondo, ponendo le basi a tutta la diffidenza occidentale. Lei crede che la conoscenza contribuisca ad abbattere quel muro di paura?

Assolutamente sì. L’arma è la conoscenza, conoscersi e allearsi con i musulmani che sono in Italia e che vengono in Italia perché vogliono prendere le distanze dalle dittature e da tutto ciò di cui ho appena parlato. Sono quelli pericolosi che vanno isolati. Anche perché sappiamo bene dove si può andare a finire, basti pensare a quello che è successo in Bosnia, dove una popolazione pacifica è diventata settaria e si sta diffondendo tra un Islam pacifico anche un proselitismo di religiosi fanatici. Pensiamo invece al Marocco, il cui re ha creato una fondazione per la formazione di religiosi che siano in grado di contrastare questo pensiero deviato dell’Islam. Il fatto è che non è facile contrastarli, bisogna essere preparati, e se i ragazzi sono ignoranti e non conoscono il Cristianesimo, ma nemmeno l’Islam o l’Ebraismo, cadono nella trappola del nazismo mentre noi ricadiamo in quella del silenzio a cui il nazismo ci aveva costretto. Cerchiamo dunque di non diffondere un nuovo antisemitismo, perché non dimentichiamo che gli arabi sono semiti come gli ebrei.

In questo senso è stata molto interessante la sua lettura de Le mille e una notte, raccolta di fiabe che ha per protagonista un re persiano talmente spaventato dalle donne da farle uccidere il giorno successivo alle nozze; questo finché non entra in scena V che con i suoi racconti riesce a rimanere in vita perché sbriciola il muro di paura del re…

Gandhi per esempio diceva qualcosa come “Io non posso convincere tutti, a me basta convincere una persona”. Voglio citare anche Hannah Arendt, per la quale la superficialità e la non conoscenza delle cose per come sono era considerata inammissibile. Noi abbiamo esempi anche in Norberto Bobbio sull’importanza del ruolo degli intellettuali di dare delle informazioni corrette per la difesa dei nostri valori, che sono valori universali, e nell’Islam e nei Paesi arabi c’è tanta gente che ha voglia di difendere i valori universali, e sopra ogni cosa la dignità della persona.

E allora, proprio per avvicinarci alla cultura millenaria e molto sfaccettata dell’Islam, vorrei chiederle qual è l’aspetto più curioso ed interessante della cultura islamica che ha scoperto durante i suoi studi.

A chi si volesse avvicinare a questo mondo consiglierei di leggere il mio Islam: religione e politica, che è organizzato in due capitoli, uno sulle antichità e uno sulla modernità, e dove ci sono riferimenti bibliografici proprio per poter approfondire. Io personalmente sono stata molto colpita dalla mistica islamica, penso al poeta Gialal al-Din Rumi in particolare: questa disciplina è estremamente interessante perché va al di là della conoscenza della religione come un elemento dogmatico ma parla allo spirito, all’essere umano, alla possibilità insita in ogni individuo di poter trasformare se stesso. Noi esseri umani abbiamo il diritto-dovere di migliorarci, di vivere la nostra fede in quanto essere umani, e quindi rispettare noi stessi e gli altri.

Quest’estate la controversissima proposta da parte di alcuni sindaci francesi sulla proibizione del cosiddetto “burkini” nelle spiagge ha diviso l’opinione pubblica internazionale, ma credo abbia anche deviato parte del dibattito dall’intolleranza religiosa alla discriminazione femminile, creando forse una nuova vicinanza tra musulmane e donne di altre fedi (o atee). Considerata la sua vicinanza al mondo islamico, ci spiega qual è la reale visione della donna al suo interno?

In seguito al colonialismo la lotta dei Paesi arabi contro di esso ha trasformato in maniera importante la consapevolezza della società araba e quindi ha portato ad emergere un nuovo ruolo della donna. A partire dal Novecento ci sono state delle donne che hanno tolto il velo, che hanno deciso di andare all’università, per emanciparsi, per andare a lavorare, per poter avere diritto al voto – una storia di emancipazione che non è molto diversa dalla nostra. Ed è una lotta contro la mentalità patriarcale. C’è una famosa sociologa libanese, Fahmia Sharaf al-Din, che ha condotto uno studio in cui dimostrava che l’ingiustizia nei confronti delle donne non è un problema dei musulmani in Medio Oriente ma è anche dei cristiani, degli ebrei, di sunniti, sciiti, alawiti… è insomma un problema di mentalità patriarcale che non vuole accettare la pari dignità alle donne. Quindi per noi donne è importantissimo essere consapevoli del nostro diritto ad essere trattate in egual misura pur mantenendo la nostra differenza. Nel mondo arabo le donne non vogliono che l’Occidente imponga loro la modalità di emanciparsi, e del resto loro hanno il diritto a trovare i loro modi per farlo e stabilire un dialogo, un confronto. Per esempio, per delle ragazze che vengono da famiglie molto conservatrici è utile mettersi il velo, perché con il velo possono andare all’università o trovarsi un lavoro, battaglie queste molto più importanti del velo di per sé perché al momento la vera necessità non è mettere o togliere il velo ma il poter lavorare. Per esempio in Marocco, come in Algeria e in Tunisia, molte donne si sono emancipate a seguito del clima di libertà che si affermò negli anni Cinquanta e Sessanta con la liberazione dal colonialismo; lì però coesistono forze conservatrici con forze innovatrici, ed ecco quindi il problema del dibattito che si sposta sui diritti: il diritto a lavorare, il diritto ad avere il divorzio, il diritto a poter viaggiare senza dover avere per forza il consenso del marito, il diritto ad avere un assegno dopo il divorzio… problemi seri, economici. Perché la società cambi ci vuole tanto tempo, non è che glielo possiamo imporre noi con la bacchetta magica: si cambia attraverso l’educazione e anche l’acquisizione di consapevolezza della propria dignità, della legittimità del proprio pensiero altro di donne.

Quindi lei sostiene che l’inferiorità della donna non è un fatto religioso ma culturale, così come del resto esiste all’interno del mondo cristiano, per cui la donna nascerebbe dalla costola dell’uomo per non essergli né superiore né inferiore ma pari, mentre poi nella realtà la situazione è (ancora) ben diversa. I testi sacri islamici come si rapportano alla donna?

È una questione culturale sì, infatti per esempio ci sono i movimenti delle femministe islamiche che lavorano sulla rilettura dei testi sacri e stanno svelando come questi siano stati letti in maniera patriarcale e maschilista. Nel Corano c’è scritto che l’uomo alla donna è uguale e non c’è nemmeno il problema di Adamo ed Eva e del peccato che la donna avrebbe commesso, il che costituisce in realtà una grande differenza. Dove nel Corano si dice che la donna è più debole dell’uomo e che l’uomo la deve proteggere, s’intende piuttosto la fragilità di una futura madre, non si legittima di certo l’uomo alla violenza domestica perpetrata perché ella non condivide lo stesso pensiero. Cito di nuovo la sociologa libanese Fahmia Sharaf al-Din e il suo studio, in cui dimostra che questo non è un problema del Corano, perché la violenza sulle donne la esercitano anche i cristiani – basti pensare a quale orrore sono in Italia i dati sul femminicidio. Gli uomini lo fanno perché si sentono minacciati da un pensiero diverso, perché noi uomini in generale non siamo educati ad accettare un pensiero diverso, mentre invece è fondamentale trovare il modo di interagire. I genitori, al di là dei generi e omosessuali o meno, rappresentano due modi di pensare diversi e in tal modo costituiscono una pluralità di pensiero importante per i figli, aiutandoli di fatto a vivere nel confronto con l’altro. C’è un grande filosofo giapponese che si chiama Daisaku Ikeda, presidente della Soka Gakkai International, il quale sostiene spesso l’importanza dello sviluppo del dialogo e dell’empatia e della conoscenza dell’altro, perché è così che si fuga la paura.

A proposito di filosofia, noi pensiamo che il pensiero e la cultura abbiano un peso rilevante nella vita quotidiana, che siano chiavi di lettura di ciò che succede attorno a noi. Lei che valore dà alla filosofia?

Sono assolutamente d’accordo, io adoro la filosofia. Ho citato Daisaku Ikeda, che ha contribuito alla creazione di un sistema di scuole che si chiamano Soka Gakkai (letteralmente “società per la creazione di valore”), dal grande pedagogo giapponese Tsunesaburo Makiguchi, il quale ritiene che bisogna avere una filosofia della vita e della dignità della vita da implementare nel quotidiano vivere, perché altrimenti uno si comporta in maniera barbara senza esserne consapevole. Bisogna allora avere dei valori forti da tenere presenti nel momento in cui si vive, per esempio sicuramente la bellezza, la bontà e l’utilità, ma non uno a scapito dell’altro. A tal proposto, noi in Occidente abbiamo l’uguaglianza, la libertà e la fraternità – ma poi perché la fraternità (la solidarietà) non è mai più presente nel nostro orizzonte esistenziale? Vuol dire doversi mettere in discussione nel proprio agire quotidiano e non farsi dominare da forze esterne perdendo così il nostro baricentro, la nostra convinzione. Anche Martha Nussbaum e John Rawls infatti sottolineano l’importanza di imparare a coesistere, di trovare punti di conoscenza e di valori condivisi da rispettare. Ciò significa che se il cittadino è rispettato in quanto cittadino, il suo diritto è anche quello di avere una sua fede, ma questo uomo di religione deve rispettare anche le regole degli altri in quanto cittadino, lui ma con cittadini altri. Sono queste le regole che dobbiamo tenere presenti: non dobbiamo escludere i musulmani dalla cittadinanza (che è ahimè quello che facciamo), perché sono esseri umani che hanno la dignità pari alla nostra e possono contribuire al nostro arricchimento; se noi ci chiudiamo ci esauriamo, perché la ricchezza e la crescita vengono dall’apporto e contributo di punti di vista altri.

 

Giorgia Favero

 

NOTA:
Intervista rilasciataci dalla docente il 15 settembre 2016 in occasione di Pordenonelegge (Pordenone).

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Il desiderio eclissato

Analizzare un tema come quello della pornografia e del suo rapporto con la sessualità non è cosa semplice. È necessario valutare attentamente le sfumature intrinseche a questo fenomeno, cercando di non cadere in facili semplificazioni e moralizzazioni che possono banalizzare un tema che si rivela di estrema complessità.

In che modo la pornografia si rapporta alla sessualità e che cosa la distingue dall’erotismo? La soggettività, l’individualità e il corpo come si presentano nella rappresentazione pornografica?

Spesso si crede che la pornografia sia una sorta di ‘erotismo’ più crudo ed esplicito, mentre tra le due forme di rappresentazione non solo c’è una netta differenza, ma una nega ciò che l’altra afferma. È la sessualità che entra in gioco in modo diverso nelle due forme di rappresentazione.

Michela Marzano ha sottolineato molto bene questo aspetto:

«L’oggetto dell’erotismo è il corpo erogeno: il corpo nel suo insieme in cui si concretizza il desiderio; il corpo reale non riducibile a oggetto parziale di una soddisfazione pulsionale. Quello della pornografia è il corpo-oggetto parziale, un corpo parcellizzato e privo di unità»1.

Da una parte abbiamo un corpo che ha perso la propria integrità, un corpo che diventa quasi un automa, ‘svuotato’ di ogni significato, un ‘pezzo di carne’ che viene semplicemente riconosciuto per il suo utilizzo. Di questo corpo diventato oggetto ci si concentra su singole parti e funzioni organiche, quelle che entrano in scena nella pornografia. In quest’ultima, la sessualità non appare più come un incontro, essa non riconosce la soggettività dell’altro.

Quel che è importante riconoscere e che rappresenta l’aspetto che spesso viene frainteso, è che non si tratta di considerare l’erotismo come una forma ‘dolce’ di sessualità e la pornografia, semplicemente perché più esplicita, come una forma brutale di rappresentazione dell’atto sessuale. Nessuno nega, infatti, quanto la sessualità possa avere di oscuro e violento. Pulsione istintuale e piacere si possono e si devono poter esprimere liberamente, attraverso forme molteplici e diverse. Tuttavia, nell’incontro sessuale la soggettività rimane integra, come qualcosa che non si può annientare, ma al contrario è ciò che più rende autentico l’incontro erotico.

La sessualità si fonda proprio sul pieno riconoscimento di due soggettività che si fronteggiano, che si scoprono nella loro nudità e nella loro fragilità, rivelando e nascondendo al tempo stesso. La pornografia, invece, lungi dall’essere semplicemente una descrizione esplicita dell’atto sessuale, non ha più nulla a che fare con l’incontro e con ciò che è alla base di questo, ovvero il desiderio.

Georges Bataille descrive così l’incontro sessuale:

«L’erotismo dell’ uomo differisce dalla sessualità animale, in quanto mette in questione la vita interiore. L’erotismo è nella coscienza dell’uomo, ciò che mette il suo essere in questione»2.

Nell’incontro sessuale, infatti, vi è sempre uno scarto che permane e che non può essere mai eliminato del tutto: incontro e sperimento attraverso i sensi l’alterità, ma quest’ultima non potrà mai essermi data una volta per tutte e in modo definitivo. È proprio questo che rende la sessualità una scoperta e una ricerca continua dell’altro e che fonda il ‘desiderio’, ciò che mi permette di non distruggere la soggettività che mi sta di fronte rendendola da soggetto semplicemente mera oggettualità a mio uso e consumo.

«La condanna a morte del desiderio messa in atto nella pornografia è perfettamente simboleggiata dall’occultamento del viso»3. Il viso è ciò che più rappresenta la soggettività e l’identità di un essere umano. Anche se nella pornografia la rappresentazione del viso non è completamente assente, è il significato della sua raffigurazione che si modifica. Il viso diventa una parte come un’altra di quel corpo ‘parcellizzato’, reso macchina, una ‘maschera’ che non possiede più caratteristiche umane.

Anche lo spazio e il tempo vengono completamente stravolti nella pornografia. Atti per lo più meccanici e figure stereotipate danno vita a una rappresentazione asettica, fatta di gesti a cui non appartiene più alcun significato e che sono lontani da tutto ciò che di vivo appartiene all’incontro sessuale.

Siamo così sicuri che la pornografia sia una forma ‘liberatoria’ di rappresentazione della sessualità? Non rappresenta piuttosto l’ennesimo riflesso di una società basata sul modello commerciale della transazione e dell’utilizzo che ha fagocitato anche quell’intimità e quel mistero che caratterizzano la sessualità come uno degli aspetti più affascinanti dell’interazione umana?

 

Greta Esposito

 

NOTE
1. M. Marzano, La fine del desiderio, p. 12
2. Georges Bataille, L’erotismo, p. 29
3. M. Marzano, La fine del desiderio, p. 37.

 

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Ascoltarsi: come la malattia diventa un alleato

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L’incontro Ascoltaci, ascoltati e scegli: non alimentare la malattia, tenutosi presso Villa Fior di Castelfranco la sera del 23 novembre e organizzato da Rebellato Center, ha cercato di mettere al centro delle relazioni del dottore Mark Pfister e della dottoressa Federica Becherin, un aspetto focale della medicina contemporanea: il significato della complessità e, insieme, dell’unicità di ciascun essere umano.
Lungi dall’essere considerata come un ‘castigo degli dei’ oppure come ‘una macchina non funzionante’, la malattia dovrebbe invece costituire un momento inevitabile – anzi, di certo si può ben parlare di più momenti necessari – di quel complesso insieme di funzioni biologiche che è il nostro corpo. Un corpo che abbiamo, quindi. Ma anche, e soprattutto, un corpo che siamo. Un corpo oggetto che entra in interazione con l’ambiente esterno e un corpo vissuto, attraverso il quale ciascuno di noi si esprime. Un insieme di leggi biologiche rispondenti agli input esterni, e una dimensione coscienziale che continuamente ne è chiamata all’appello. 
Esisterebbe una fisiologia normale, definita normotonia. Nel nostro organismo però, essa non può realizzarsi in termini assoluti.
Pertanto, quella umana è una fisiologia speciale, che entra in relazione con ciò che accade su più livelli.
Così chiamata simpaticonia, essa ci permette di attivare, nel nostro organismo, precise funzioni fisiologiche rispondenti ad un avvenimento inaspettato e improvviso, ovvero a ciò che in altri termini chiamiamo comunemente shock.
Lo shock, generante il momento di stress psicofisico, costituisce un periodo necessario e fondamentale.
Questa fase conflittuale, già precedentemente definita simpaticonia, ci permette in seguito di rispondere biologicamente all’iper-stress, attraverso un momento di compensazione e riparazione: la fase vagotonica.
Ciò che è risultato interessante nella relazione del Dottor Pfister è stata l’esplicazione del legame esistente tra l’accadimento generante lo stress emotivo nel presente e il richiamo – inconscio – ad un avvenimento passato, generalmente della nostra infanzia. In questo senso, possiamo perciò affermare di non essere unicamente il nostro corpo. Le relazioni fisiologiche che ci attraversano sono spesso legate a un richiamo al passato, facente sorgere in noi il momento ‘conflittuale’. È necessario tuttavia saper bilanciare momenti di stress con fasi di riposo, affinché la tensione accumulata in simpaticonia non produca in seguito un’eccessiva stanchezza fisica e mentale.

La seconda parte dell’incontro, invece, avente come relatrice la Dottoressa Federica Becherin, era focalizzata sul cibo e sul rapporto di quest’ultimo con la medicina.
Malgrado gli alimenti possano moderare e influenzare una simpacotonia oppure una vagotonia, essi non possono avere un valore assoluto circa i cambiamenti del nostro corpo.
Avere un regime alimentare corretto non è facile. E non lo è soprattutto in un’epoca come la nostra, in cui siamo tempestati da modelli alimentari incitanti la performance (per esempio, nel caso di una preparazione sportiva) e da ‘mode’ alimentari presumibilmente salutari.
Tutto dipende dalle ragioni che ci spingono a escludere un cibo, piuttosto che ad assumerne un altro. Vivere con il proprio corpo e la propria mente la scelta di seguire, per esempio, una dieta vegana significa farlo con serenità, senza sentirsi privati da qualcosa. Senza resistenze, né tanto meno restrizioni.

L’alimentazione rappresenta dunque parte del nostro ‘esserci’: include in essa desideri e bisogni. È importante, perciò, non fare del cibo che assumiamo la nostra identità, la nostra ‘etichetta’: l’individuo sopravvive grazie a ciò che mangia; tuttavia, il cibo rappresenta solo una delle componenti di cui abbiamo bisogno per vivere serenamente.
Il consiglio, come lo suggerisce bene il titolo della conferenza, è ascoltarsi. Ascoltarsi e comprendersi. Comprendersi e cercare di ristabilire un’armonia con se stessi.
Solo così, l’evento della malattia può trasformarsi da nemico a alleato.

Sara Roggi

In collaborazione con Salute+ Treviso

 

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Educare all’amore. Per fare di ogni giorno un 25 novembre

“Quando sarò grande, finirò in ospedale perché mio marito mi picchia”.

Sono le parole finali di uno spot della Rai che sta facendo molto discutere sui social.
Sono le parole pronunciate da una bimba. Parole concluse con un gelido silenzio. Mentre gli altri bambini riempiono quel “Quando sarò grande…” con le loro aspirazioni e i loro desideri. Parole definite da un futuro già scritto. Un futuro passivo. Un futuro da sottomesse.
Sbigottita, mi sono chiesta il perché. Perché strumentalizzare dei bambini, la loro tenerezza e la loro innocenza. Perché utilizzare le parole pronunciate da una bambina, delle parole peraltro crude e forti, per diffondere la sensibilizzazione contro la violenza sulle donne.
Mi chiedo, dunque, se sia necessario spingersi a tanto. E a ripetermi se, in fondo, comprendiamo davvero il valore e l’importanza di ciò di cui stiamo parlando.
È innegabile. Il bambino suscita la commozione. Un bambino è vulnerabile, fragile. Impotente rispetto ad una realtà forte e spregiudicata come la nostra.
Ma esattamente per queste ragioni, perché renderlo attore di uno spot così forte?
Una cosa, infatti, è crescere i bambini con una certa consapevolezza ed educazione. Formarli, quindi, secondo il valore del rispetto e dell’altrui riconoscimento. Renderli un poco alla volta partecipi di una realtà che può cambiare. Che deve cambiare. Accompagnandoli nella crescita attraverso un amore profondo che non è violenza. Ben altro è, invece, presentare uno spot di sensibilizzazione contro la violenza, facendo calare questa creatura nel ruolo di una donna che, nel suo futuro, si vede in ospedale perché picchiata dal proprio marito.
Oggi, purtroppo, funziona così. Lo dico con amarezza, e con una stretta al cuore. Oggi tutto deve essere ridotto a merce per attirare l’attenzione dello spettatore. Perfino la violenza. Quella violenza che, detta attraverso le parole di una bambina, fa rabbrividire.

Oggi, 25 novembre 2016, è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
È una giornata in cui ci sentiamo tutti un po’ più in dovere di ricordare le 116 donne che dall’inizio dell’anno sono morte in Italia a causa di un non-amore. Ogni donna, che questo non-amore lo vive tutti i giorni inghiottita nel silenzio, rannicchiata in un angolo. Ogni donna che ha perso la vita l’anno scorso. Quello precedente. E quello precedente ancora. In Italia e nel resto del mondo. È un giorno in cui il dovere di ricordare dovrebbe diventare un bisogno, una necessità. La necessità di riflettere sulla differenza sostanziale tra amore e violenza. Perché l’amore, quello vero, non potrà mai trovare la sua forma di espressione in un lago di sangue e in delle ferite.
Oggi 25 novembre 2016 deve essere il giorno dell’amore. Di quell’amore impastato della differenza e del suo riconoscimento. Un amore fatto di libertà, di carezze e di sguardi.
Abbiamo bisogno, oggi, di proclamare la vita. Proclamare la vita, per proteggere ciascuna donna che, di questa vita, viene privata.
Lottiamo per ciascuna. Lottiamo per noi. Lottiamo per le donne. Lottiamo per l’amore.

Sara Roggi

NOTE:
Cliccare qui per vedere lo spot RAI in questione dalla pagina Facebook di RaiPlay.

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Magari scopri che sai volare

Il 31 ottobre è il giorno in cui si condensano, specialmente nel nostro paese, le diatribe sull’opportunità della festività di Halloween: non si capisce se siamo al cospetto di un sacrilego rituale di massa, oppure dinnanzi alla nobile rievocazione di antiche tradizioni. Forse dovremmo avere l’onestà di riconoscere che, a volte, c’è solo bisogno di festeggiare, di un pretesto che legittimi ciò che solitamente non sarebbe accettato, da un lato; e di incrementare esponenzialmente i consumi, dall’altro. Sulla bontà di questo, poi, potremmo discutere.

Halloween, tuttavia, può diventare un’ottima occasione per riflettere sul travestimento, sulla necessità di indossare costumi che alterino la nostra immagine. Camuffarsi da clown assassini, zucche ubriache, streghe e zombie – tutto varia in funzione del gusto della persona – variopinti, non significa celare la propria identità, come sarebbe legittimo pensare; al contrario, il travestimento diventa una maniera, seppur paradossale, di esporsi, di ostentare un’identità che – è questo il punto – non verrà riconosciuta. Il travestimento è il segno esteriore del sovvertimento – più o meno raggiunto – degli ordini sociali, secondo una tradizione di cui abbiano traccia sin dai Saturnalia. La legalità porta già da sempre con sé il momento e l’eventualità del proprio rovescio.

Il 31 ottobre, tuttavia, è anche il giorno in cui riprendo in mano, per caso o per nostalgia, uno dei romanzi più formativi che io abbia mai letto, nato dalla penna della scrittrice britannica Angela Carter (Eastbourne, 7 maggio 1940 – Londra, 16 febbraio 1992).

Notti al circo (Night at the Circus) fu pubblicato per la prima volta nel 1984, offre al lettore l’incontro con Fewer, una donna cockney che non può più fare a meno del suo travestimento: lavora in un circo come donna alata e, tutti i giorni, il pubblico applaude alle sue ali. È una superstar dello spettacolo, maestosa calca la scena alzandosi in volo, si proietta maestosa nell’aria. Grandi e piccini restano stupefatti dinanzi allo spettacolo. Un giorno, nell’intimo del suo camerino che trabocca di doni, messaggi d’amore, inviti più o meno cortesi, caviale e champagne (e tutto ciò che serve a celebrare una stella come si conviene), si presenta la figura esile di un Walser, un giornalista scettico e incredulo: il primo, forse, a rendersi conto davvero che quelle ali non sono un travestimento, che quel corpo abbondante e potente è un corpo di donna, non d’una bestia da circo, per quanto esotica e preziosa. Il solo, forse, a non volerla comprare per sé e per il proprio godimento. Ma quello scritto da Angela Carter è anche un romanzo di dolori, di vita guadagnata dopo un corpo a corpo con la morte, del volo spiccato dopo una vita trascorsa sull’orlo dell’abisso.

Il 31 ottobre uscite di casa, ignorate per una volta il travestimento che si presenta palesemente come tale, andate in libreria e regalatevi Notti al circo di Angela Carter, regalatevi l’occasione di riflettere sui travestimenti di cui, per scelta oppure no, non possiamo più fare a meno; di quelli che servono a ciascuno di noi per tollerare l’incontro con lo sguardo dell’altro, con l’occhio che scruta, indaga e consuma la nostra identità.

Emanuele Lepore

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Claire Underwood, il femminismo nel cinismo

Un personaggio moralmente disgustoso può essere un simbolo del femminismo? Claire Underwood, protagonista di House of Cards, una delle migliori serie tv degli ultimi anni, è una fredda e cinica manipolatrice. In accordo con il marito, ma talvolta anche contro di lui, Claire non si ferma di fronte a nulla pur di perseguire i propri interessi e accumulare potere, nemmeno di fronte alla madre malata di cancro.

Molti l’hanno paragonata a Lady Macbeth, eppure Claire è una donna molto più indipendente.  Il personaggio di Shakespeare è prima di tutto una moglie. Il nome con cui è passata alla storia non è il suo ma quello del marito. E per quanto perfidamente geniale, Lady Macbeth è solo una consigliera, mai un’esecutrice diretta. I suoi piani servono a sostenere e rafforzare il marito, ma nel corso della tragedia non emerge mai un suo progetto, che si possa sovrapporre o scontrare con quello del marito. Al contrario Claire ha una forte volontà autonoma; se aiuta il marito è perché crede di poter raggiungere più rapidamente i suoi obiettivi restando al suo fianco. Infatti non esita ad abbandonarlo quando inizia a percepirlo come un ostacolo, e gli torna accanto solo dopo aver ricevuto la promessa di diventare Vice Presidente.

Inoltre Lady Macbeth è una madre mancata. Per garantire il successo dell’omicidio del re Duncan ella prega così:

«venite, o voi spiriti che vegliate sui pensieri di morte, in quest’istante medesimo snaturate in me il sesso […]
Venite alle mie poppe di donna, e prendetevi il mio latte in cambio del vostro fiele, o voi ministri dell’assassinio!
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Come in un patto con il diavolo, in cambio della riuscita del suo piano Lady Macbeth rinuncia alla possibilità di avere figli, all’aspetto più importante della sua femminilità. E proprio questo, secondo Freud, che la porta ad impazzire, infrangendo una determinazione «che sembrava tratta dal più duro metallo»2. Si può «facilmente capire la malattia della donna, la trasformazione della crudeltà in rimorso, come reazione all’impossibilità di avere figli»3. Ella si rende conto che il prezzo pagato è stato troppo alto, che il potere non ha senso poiché in cambio ha rinunciato alla sua essenza di donna, al compito più prezioso che aveva come essere umano.

Claire Underwood ha un rapporto ben diverso con la maternità. Ha avuto 3 aborti, due quando era troppo giovane per crescere un bambino, uno durante la campagna elettorale del marito Frank, quando i due non avevano né il tempo né la disponibilità emotiva per avere un figlio. Al contrario di Lady Macbeth, schiacciata dal rimorso, Claire non accetta che qualcuno la faccia vergognare o sentire in colpa per le sue decisioni.  Quando una collega le chiede con malizia “Ma non hai dei rimpianti a non aver avuto figli?”, lei gelida risponde “E tu non rimpiangi mai di averne avuti?”. La maternità non è la cosa più preziosa che una donna possa avere, rinunciarci non la priva delle sue potenzialità o della sua umanità, si possono scegliere altri modi per realizzarsi.

Tracie Egan Morrisey probabilmente esagera quando definisce su jezebel il personaggio interpretato da Robin Wright Penn «un’antieroina e guerriera femminista»4. Claire lotta per i suoi obiettivi, non certo per i diritti di tutte le donne nella società. Eppure così facendo offre senza dubbio un modello femminile fortemente indipendente. Claire persegue con determinazione i suoi (pur discutibili) obiettivi,  non si sottomette di fronte a nessuno, rifiuta le norme sociali sul ruolo della donna che la vincolerebbero ad una posizione secondaria. Anche come first lady Claire non si accontenta di essere solo una comparsa sorridente, ma interviene direttamente nella vita politica; come quando denuncia l’oppressione degli omosessuali in Russia, malgrado il marito le abbia detto di tacere per evitare problemi diplomatici.

Se la descrizione di Claire vi ha ricordato Hillary Clinton, non siete i soli. Anche Michael Dobbs, creatore dei libri da cui è stato tratto House fo Cards, ritiene che la Clinton sia il personaggio politico che oggi più si avvicina a Claire Underwood. «She is a political figure in her own right – behind the scenes, but now increasingly in front of the scenes»5. Dobbs, assistente di Margaret Tatcher negli anni Ottanta, se ne intende di donne forti al potere.

Può darsi che queste signore non ci piacciano, che riteniamo eccessivi i compromessi a cui sono scese per ottenere la loro attuale posizione. Eppure è forse inevitabile che per creare una figura femminile che prima non esisteva si debba avere una determinazione che può sfociare nel freddo cinismo.

Per quanto Claire Underwood non sia certo un modello da imitare per le donne di oggi, con la sua ricerca di indipendenza tesa fino all’estremo, fino a sfilacciarsi e diventare solitudine nell’egoismo, apre una strada. Che forse le donne del futuro potranno percorrere senza bisogno di vendere l’anima al diavolo.

Lorenzo Gineprini

Lorenzo Gineprini: nato nel 1994 a Torino, dove studia Filosofia. Redattore del Brockford Post, collabora anche con altre riviste. Appassionato della Germania e della filosofia tedesca, che ama far dialogare con fenomeni pop contemporanei: dal cinema alla moda, dalla musica alle serie tv.

NOTE:
1. William Shakespeare, Macbeth, Sansoni, Firenze, 1950
2. Sigmund Freud, Saggi sull’arte, la letteratura, il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 2015
3. Idem
4. http://jezebel.com/house-of-cards-claire-underwood-is-a-feminist-warrior-1524425272
5. https://www.buzzfeed.com/jimwaterson/you-might-think-that-but-we-couldnt-possibly-comment?utm_term=.mjWL4Z2nb#.ttrBX3GE9

[Immagine tratta da Google Immagini]

Sibilla Aleramo, “Una donna”

Ogni opera letteraria è un messaggio che deve incontrare i propri lettori, e questo destino non è mai prevedibile. Una donna (1906), romanzo d’esordio di Sibilla Aleramo (Marta Felicina Faccio, 1876-1960), dopo un discreto successo e un lungo periodo d’oblio, fu riscoperto nel 1975 e incontrò un nuovo, straordinario favore di pubblico perché i tempi erano più favorevoli: i temi apertamente femministi che l’autrice aveva anticipato di molti decenni erano adesso oggetto di un dibattito acceso.

Una donna  elabora in forma di romanzo le esperienze giovanili dell’autrice. Da subito ci viene incontro una figura vivace e aperta al mondo: «La mia fanciullezza fu libera e gagliarda», una ragazza affascinata dal padre, che vede come un esempio di forza e indipendenza, mentre non trova mai una sintonia con la madre debole e sottomessa al marito.

Quando il padre accetta la proposta di dirigere una fabbrica in un paese del sud, la protagonista è entusiasta, e dà una mano in ufficio nonostante la giovanissima età, creando scalpore in paese, dove «regnava una grande ipocrisia. In realtà i genitori, sia fra i borghesi, sia tra gli operai, venivano sfruttati e maltrattati dai figli, tranquillamente; molte madri sopra tutto subivano sevizie in silenzio, (…) l’ipocrisia era stimata una virtù. Guai a parlare contro la santità del matrimonio e il principio della autorità paterna! Guai se qualcuno si attentava pubblicamente a mostrarsi qual era!».

Ma il padre ha una relazione con un’altra donna: la moglie, quando lo scopre, tenta il suicidio gettandosi da una finestra. Sopravvive, ma una forma di demenza progressiva impone il suo ricovero in un manicomio.

Intanto la protagonista, nemmeno sedicenne, è attratta da un giovane impiegato della fabbrica: le loro schermaglie si risolvono un giorno quando «accanto allo stipite d’una porta (…) fui sorpresa da un abbraccio insolito, brutale: delle mani tremanti frugavano le mie vesti, arrovesciavano il mio corpo fin quasi a coricarlo attraverso uno sgabello, mentre istintivamente si divincolava».

L’unica soluzione è un matrimonio “riparatore”, ma ben presto la protagonista scopre quanto il marito è meschino e incapace di capire la sua personalità. L’unica consolazione è la nascita di un bambino, su cui la ragazza riversa tutto il suo affetto.

La vita famigliare risulta noiosa, soffocante, finché la protagonista, corteggiata a una festa da un giovane uomo, finisce per rispondere alle sue attenzioni dopo averlo inizialmente respinto. Scoperto il fatto, il marito la maltratta e la segrega in casa finché lei, in un momento di sconforto, tenta il suicidio ingerendo del laudano.

Si salva, e la famiglia si sottrae alle chiacchiere trasferendosi a Roma. Lì la protagonista, sempre più convinta di doversi esprimere anche al di fuori della famiglia e conquistare una vita indipendente, collabora con una rivista femminile. Il marito la ostacola, e quando lei propone di separarsi, lui la ricatta rifiutando di lasciarle il figlio. Ma quando lei scopre che il marito ha una relazione con un’altra, se ne va comunque. Il libro che ha scritto forse permetterà al figlio, un giorno, di capire la sua scelta e il tormentato cammino che l’ha portata a quel passo: «Partire, partire per sempre. Non ricadere mai più nella menzogna. Per mio figlio più ancora che per me! Soffrire tutto, la sua lontananza, il suo oblio, morire, ma non provar mai il disgusto di me stessa, non mentire al fanciullo, crescendolo, io, nel rispetto del mio disonore!».

Una storia autobiografica, dicevamo; ma, per l’autrice, un esempio di vita nel quale altre donne possano riconoscersi. Il titolo stesso, così generico, va in questa direzione; e anche la singolare scelta stilistica, per cui tutti i personaggi sono indicati per il rapporto che hanno con la protagonista (il padre, il marito, la direttrice…) senza mai usare dei nomi propri.

Si potrebbe forse definire un romanzo di formazione, ma con una sostanziale differenza: mentre in questo genere, di solito, le esperienze giovanili preludono a una consapevolezza che porta i protagonisti a accettare un posto nel mondo, qui il percorso sembra inverso. La protagonista si sforza in ogni modo di adattarsi alle convenzioni, non discute mai il principio, all’epoca ovvio, per cui a una donna spetta solo «amare, sacrificarsi e soccombere». Il matrimonio e la maternità sono accettati come passi obbligati, ma la consapevolezza che «la buona madre non deve essere, come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere una donna, una persona umana», la spingono a infrangere fino in fondo le convenzioni, in nome del rispetto per se stessa. Una sfida, una prova da affrontare, capace ancora – pure in un linguaggio che suona ormai antiquato, di provocare i lettori.

Giuliano Galletti

[Immagini tratte da Google Immagini]

Elogio a Partenope

In estate a Venezia si crea quella cappa di umidità che ti si attacca addosso, sui vestiti, sulla pelle, e anche un po’ sui pensieri. Appare e se ne va, poi torna in pieno inverno per qualche attimo fugace, per sconvolgere il freddo a cui aveva involontariamente ceduto il passo. Nella canicola si riconoscevano persone e cose vaganti, si arrampicavano sui ponti al ritmo dettato dagli scalini, molti si facevano le foto con alle spalle il canale più famoso d’Italia. Superato il grande arco di acciaio, cemento e vetro, si entrava sul lato della stazione in quel momento semideserta. 

Treni fermi, allineati in attesa di un annuncio. 

Capitreno: tre, schierati a triangolo equilatero, all’ombra del primo porticato; discutevano del più e del meno, quasi sempre turni, sindacati, ritardi, scioperi.

Turisti: pochi, si facevano aria con ventagli improvvisati, cercavano di estorcere un biglietto alla macchinetta elettronica, quella che non si fa problemi a prendersi le ferie quando vuole mandando sullo schermo un avviso di indisponibilità momentanea, un momento indefinito.

Il tabellone con gli orari e le destinazioni: lui nero, perché il nero fa elegante; gli orari e le destinazioni in arancione, perché l’arancione fa contrasto al nero anche sotto il sole.

Una donna era seduta alla panchina del binario 3 dove arrivava e partiva il lungo serpente rosso per Napoli.

“Aspetti qualcuno?”

 “Il treno per tornare a casa”

“Non hai visto il tabellone? È in ritardo di centosedici minuti, si sono pure scusati per il disagio”

“Accidenti – ma l’imprecazione era un’altra – non ci avevo fatto caso”

“Napoli vero?”

“Sì”

“Il tuo accento sai, un po’ ti ha tradita”

“Anche il treno mi ha tradita”

“Già, ma se posso chiedere, una donna che torna da sola a Napoli, non sarà pericoloso?”

Mi guardò scostandosi leggermente i capelli dal viso.

“Dovevo essere ammogliata?”

“No, lo dicevo per quello che si sente dire in giro”

“E cosa si dice?”

“Che c’è la criminalità, che non si può andare in giro la sera, che ti rubano tutto appena arrivi”

“Ci mancano le sparatorie, gli inseguimenti e la terza guerra mondiale”

Sorridemmo entrambi.

Lei per aver sentito una sciocchezza, io per aver capito di averla detta.

“Ma tu ci mai stato a Napoli?”

“A dire il vero no”

“Quindi basi le tue opinioni sul sentito dire”

“In effetti… però potresti raccontarmela tu”

“Dovresti vederla, le parole non rendono bene l’idea”

Ci andai.

Alla fine misi da parte le dicerie, tappai anche gli occhi per non indovinare il labiale e ci andai. Presi quel treno, qualche tempo dopo s’intende, senza ritardo e senza lunghe attese assieme a strani personaggi annoverabili tra i seccatori di professione. Entrai in quel labirinto, perché la prima figura che mi venne in mente appena vidi Napoli fu un labirinto.

Napoli è un labirinto a ordine sparso su più piani.

Comincia, finisce, ricomincia, si interrompe, riprende altrove, ora si sviluppa verso ovest, poi inclina impercettibilmente il capo e cammina a nord-est. È un mosaico di tante cose; palazzi, case, genti, persino di pavimentazioni.

E le strade?

Le strade sono innumerevoli, molto lunghe e disposte quasi a griglia, sono griglie disegnate a seconda del tempo, dell’umore, dell’urbanista, degli abitanti stessi e dei secoli. Seguono il percorso dei palazzi, si aprono in piazze e piazzette, in alcuni punti formano fazzoletti a trapezio e spuntano panchine, un piccolo quadrato verde con un paio di alberi divenuti ormai d’asfalto. Portano ovunque e non smarriscono nessuno, ci si perde per poi ritrovarsi, ci si allontana con la consapevolezza di tornare ancora più vicini da dove si era partiti. 

Strade e vicoli, dai nomi altisonanti, dai vecchi rettangoli di pietra con la scritta ormai invisibile, con il selciato sconnesso dai crateri, dai sampietrini scomparsi.

La gente si arrangia, la battuta può salvare da una giornata di pioggia interiore. Parlano e impari i loro gesti solo se hai abbastanza curiosità per farlo. L’ Eh napoletano è come il get inglese: lo puoi mettere ovunque. Eh = sì; sono d’accordo; va bene; mi fa piacere vederti; sono a disposizione; è giusto ciò che dici; ti sto ascoltando; finalmente hai capito!

La gente di Napoli è come le sue vie.

I monumenti, le chiese, il silenzio e il frastuono.

Napoli è un contrasto, non va capito perché un contrasto non si può capire, al massimo lo si coglie e non si scarta nulla per non perdere la visione dell’insieme.

È una donna.

Un elogio dedicato a chi non c’è mai stato.

A chi pensava di non andarci mai.

Alessandro Basso

[Immagine di Alessandro Basso]

Per Anna Marchesini, attrice dalla vita “obesa di vita”

Nel 2014, rivolgendosi a Fabio Fazio che le chiese quale fosse per lei il senso della vita (una domanda facile, vero?!), Anna Marchesini, ormai straziata dall’artrite reumatoide, con una parlata strascicata ma dignitosa, quella di una grande persona e di una grande donna – una di quelle creature che non si arrende, e non vuole farlo, che vive di futuro come chiunque altro vivrebbe di ossigeno – rispose con una di quelle frasi che, se ascoltate, non può che cambiare il tuo modo di vedere le cose: «Sono così interessata, appiccicata, morbosamente ghiotta, obesa di vita che mi interessa pure la morte, che di essa è il finale e non è detto».
Da allora, questo divenne il mio motto – e mi risultava anche facile applicarlo, essendo io un ciccione. Ecco Anna, sono stato autoironico, sei fiera di me? Lo so che, da dietro quel sipario di broccato che chiamano “morte”, mi hai sentito.

Fu da quell’intervista che chi scrive capì che Anna Marchesini andava conosciuta appieno, e non solo come (pur eccezionale) attrice di varietà, di teatro, di televisione.
Comprai il suo romanzo Il terrazzino dei gerani timidi e lo lessi d’un fiato. Lo feci per curiosità, perché mi torturava una domanda, riguardo questa donna, che allora ricordavo “solo” per quei video che trovi su YouTube vestita da sessuologa o da Lollobrigida, da cartomante o da cameriera-secca-dei-signori-Montagnè: come può Anna, trovare la serenità nella sofferenza fisica? Dopo una vita che le ha dato così tanto, la malattia non l’ha forse infiacchita per sempre?
La risposta mi venne leggendo questa frase: «Respiravo profondamente l’aria della sera, si trascinava dietro un tiepido profumo di gerani, mi assalì il timore che tutto sarebbe rimasto identico e immutabile come quei vasi indifferenti, nulla era certo – mi dissi – ero stanca, quel difficile esercizio di equilibrio, in bilico tra l’infanzia, il presente e il futuro remoto, aveva incredibilmente moltiplicato il tempo […]. Ecco – mi dissi – questo preciso attimo, è gioia. Il silenzio là fuori era così dolce che mi pareva di sentirne il canto; da qualche parte avevo letto che tutto è armonia se solo riusciamo a sentirla, così rimasi in ascolto ed ebbi cura di muovermi, senza spostarlo».

Sono le piccole cose. Ecco il segreto per la felicità. Non lamentarsi per quello che non si ha più – o di quello che non s’avrà mai – ma gioire di quello che c’è. Fu la prima lezione di esistenzialismo della mia vita. E non m’era giunta da un grande filosofo, ma da una divertente attrice e delicata scrittrice.
La protagonista del romanzo non è Anna Marchesini, ma è una donna che le somiglia molto, indubbiamente, e per sua stessa ammissione; la grande attrice sublimava sé stessa, ultimo glorioso esercizio di metodo Stanislavskji, nelle vite degli altri; perché questo era per lei essere-Anna-Marchesini: vivere la propria vita per (e con) la vita-degli-altri. Ed ecco perché Anna non poteva che essere un’attrice, la più grande, la migliore.

Parlando con i ragazzi del Liceo Artistico “Ripetta” di Roma, nel 2008, la Marchesini disse: «Mi ero iscritta a psicologia, ma divenni attrice perché andando all’università in treno, vedevo sempre una finestrella accesa. Madonna, avevo una curiosità e mandavo una sfoglia di me a guardare. Mi immaginavo una donna che faceva il caffè, una camera da letto dopo che due persone avevano finito di stringersi, una ragazza che rincasava tardi, oppure uno che era in bagno a spingere e basta! Io mi immaginavo cose meravigliose. Avevo una passione per la vita-degli-altri, e io ci volevo guardare dentro. Avevo un voyeurismo ginecologico per la vita degli altri».
È così che nascono le grandi passioni, da grandi curiosità personali… che poi, nel progredire della storia dell’Universo, non sono che piccole meraviglie quotidiane. La giovane orvietana Anna, che ogni mattina si recava a La Sapienza per seguire le lezioni di Psicometria, si meravigliò di una lampadina accesa, e divenne Anna Marchesini – non è ironico? Lo è, e lei, anche raccontandolo, faceva di tutto perché apparisse tale.

Indipendentemente dal valore filosofico delle sue parole (valore di cui la Marchesini era perfettamente consapevole, e in cui si crogiolava: «D’altronde da bambina volevo essere il Messia donna!» disse nel 2008), Anna aveva una missione, e una volontà precisa: essere ironica – sempre e comunque. Sentiva come suo il compito di strappare un sorriso, un momento di gioia, di esilio dall’abisso dell’anima quotidiana: e per far ciò, lo aveva capito ben prima del grande successo con Il Trio, occorre necessariamente prendere in giro l’ordinario, ridicolizzare (con eleganza e intelligenza, però) la grande mitologia, portare all’estremo i tabù di una società, quella italiana in particolare.
Ed ecco spiegati la sublimità della parodia dei Promessi Sposi e personaggi immortali come la Signorina Carlo, inviata – con tanto di cofana à là Moira Orfei – da Quelli che il calcio… a commentare improbabilmente partite di pallone, di cui a malapena capiva regole; o come la sessuologa Merope Generosa che, al momento di pronunciare le parole più “sconce” tipiche della sua professione, si imborghesisce a tal punto da sostituire il termine “pene” con “malloppetto ciccioso e pendulo” e “ragazze che hanno rapporti pre-matrimoniali” con “zozzone sporcaccione”; o come la cartomante Amalia che – con esagerato accento romanaccio – invitava i suoi ascoltatori a telefonare e a “non porcastinare inoltre il tempo perché le linee ponno ésse ingorgate, ma la regia mi trasloca un buzzicone ch’ha acchiappato aa linea”.

Maestra di meta-teatro, Anna era fieramente donna, e donne erano i suoi personaggi, sempre e comunque: donne che si rapportano all’uomo, ridendo e prendendolo (e prendendosi) in giro, perché la vita è esattamente questo: autoironia, umiltà, abbandono. Maschera di sé stessa – perché la sua vera lei erano appunto le maschere – ci lascia cosa, se non un sorriso, una risata, forse una piccola lacrimuccia?

Ma forse no!, lei non vorrebbe che piangessimo: la morte è la fine, ma non è detto… perché, anche nel dolore e nella malattia, da vera maestra di esistenzialismo teatrale, Anna sapeva perfettamente che la situazione è grave, ma non è seria.
Solo che se in politica questa frase è un’accusa esplicita ad atteggiamenti vergognosi, nella vita di tutti giorni, sul palco della nostra storia particolare, e dietro le quinte dell’esistenza, è un valore, e si chiama leggerezza.

David Casagrande

[Immagine tratta da Google Immagini]