Il curioso caso di Benjamin Button

Cosa accomuna la nostra generazione a Brad Pitt? A parte, è ovvio, le sue ville, il numero di figli adottati e non, e una dea accanto?

Uno strano fenomeno legato all’età.

Ci si laurea a 22/23 anni, ma si è troppo giovani e con troppa poca esperienza per un contratto di lavoro. Allora si cominciano a vendere arti superiori, inferiori, nonne e argenteria per frequentare master (meglio noto come ponte per il mondo del lavoro), corsi di specializzazioni, ed ottenere titoli abilitativi per almeno tre generazioni.

Si comincia ad accettare ogni forma di collaborazione lavorativa. Purché non sia retribuita. Stage trimestrale, stage semestrale, stage annuale prorogabile, non prorogabile, prorogabile ma a condizione di portare il caffè saltellando su un piede solo, stage alla fine del quale “ci sarà una forte probabilità di inserimento”, stage alla fine del quale c’è semplicemente la fine.

Ci si ritrova a 26/27 anni con un curriculum pieno di date, nomi, strane parole inglesi indicanti il nulla, per alcune posizioni troppo “senior”, e per altre ancora troppo “junior”. Coordinateve.

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Nella disperazione ci si comincia a buttare sui concorsi pubblici. E qui, il delirio anagrafico. A 27 anni si può comodamente rientrare nella categoria dei “giovani tirocinanti”. A 30 sei troppo vecchia per quel tipo di qualifica. A 35 rientri tra “giovani laureati”. Roba che in Svezia a 35 anni sei già nonna.

Ma quanti anni abbiamo? Mi sento una punta confusa. In 10 anni siamo ringiovaniti ed invecchiati almeno 24 volte.

L’unica certezza è che abbiamo lavorato. Senza essere mai stati assunti.

Benjamin Button te dico levate.

Donatella Di Lieto

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Intervista a Umberta Telfener

“Che la tua mano sinistra non sappia quello che fa la tua destra, però sforzati di essere ambidestro” Gregory Bateson

Umberta Telfener, psicologa clinica è laureata in psicologia e in filosofia. Ha lavorato per 10 anni in un Servizio di Salute Mentale, collabora con la Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute dell’Università La Sapienza di Roma ed è didatta del Centro Milanese di Terapia della Famiglia. Ha scritto tra gli altri volumi: Sistemica, voci e percorsi nella complessità, Bollati Boringhieri Torino 2003; Apprendere i contesti, strategie per inserirsi in nuovi ambiti di lavoro, Cortina editore, Milano 2011; Le forme dell’addio, effetti collaterali dell’amore, Castelvecchi, Roma 2007; i citati Ho sposato un narciso, Castelvecchi editore, Roma 2006 e Ricorsività in psicoterapia, Bollati Boringhieri 2014. Potete seguirla sul blog Le forme dell’amore,  per  Io Donna.

Lei è laureata in filosofia. Quali motivazioni alla base della sua scelta?
Quando mi sono laureata in filosofia la facoltà di psicologia non esisteva ancora benché già sapessi di essere interessata alla psicologia. Quando è stata aperta la sede di Roma di Psicologia ero al terzo anno di filosofia ed ho deciso di continuare e finire. A quel punto mi ero appassionata a Dewey e agli aspetti di filosofia della conoscenza che più tardi comincerò a chiamare “epistemologia” e che sono stati il filo trasversale di tutto il mio percorso anche clinico. Mi sono poi iscritta a psicologia e ho iniziato ex novo un’altra facoltà ma la laurea in filosofia mi ha fatto procedere molto più speditamente.

Per noi de La Chiave di Sophia la filosofia non è quella materia di serie B che crea solo disoccupazione. E lei ne è un perfetto esempio. Come crede possa la filosofia essere tutelata dalla società?
La filosofia è fondamentale per apprendere lo sguardo nel vivere. Per me l’epistemologia è stata l’interesse di una vita e credo che abbia costituito il valore aggiunto del mio lavoro clinico. Non si tratta di studiare un filosofo oppure un altro – personalmente mi definisco costruttivista e sono interessata ad autori quali Rorty, Deleuze, Foucault, Varela che non ho certo studiato all’Università – quanto ritengo fondamentale l’atteggiamento verso la conoscenza. Ho la consapevolezza che è lo sguardo, sono le premesse che determinano ciò che si farà emergere da uno sfondo. Per questo considero filosofi anche uomini e donne di scienza che hanno riflettuto sulla vita, come Bateson e Heinz von Foerster. Per rispondere alla sua domanda direi che non sono i singoli autori che vanno sottolineati quanto il metodo filosofico, l’attenzione alle premesse e la conoscenza della conoscenza.

Mi può fare tre esempi pratici di come applica la filosofia alla sua vita?
Nel lavoro clinico mi occupo precipuamente delle premesse che determinano i comportamenti dei miei utenti: i pregiudizi che li limitano, le idee perfette che li organizzano, i presupposti che li guidano. Contemporaneamente presto attenzione a quali siano le categorie con le quali io stessa mi avvicino ad una situazione problematica e sono pronta a cambiare le mie categorie qualora i feedback che ricevo mi indichino che la situazione è in stallo oppure non evolve.
Penso che costruire ipotesi, scegliere percorsi e pensare soluzioni non sia limitato alle caratteristiche del sistema osservato. Le soluzioni emergono dalla decostruzione di idee e comportamenti ed implicano tutti i partecipanti al processo: l’individuo che chiede aiuto, i suoi familiari reali o fantasmatici, io stessa e tutti gli operatori che collaborano consapevolmente o meno alla costruzione del sistema semantico determinato dal problema. Chiamo questo “il sistema osservante” che mi include inesorabilmente.
Ogni definizione di un problema non può essere giusta o sbagliata in senso assoluto. La riflessività diventa lo strumento attraverso il quale agire/operare/pensare in maniera etica. Intendo per riflessività un modo di riproporre la propria esperienza a se stessi in modo da pensare e riflettere sulle azioni che sono emerse dalle azioni che abbiamo fatto già. Si tratta della capacità di utilizzare se stessi per interrogare se stessi in relazione alla danza con se stessi e con altri, Questo me lo ha insegnato la filosofia e il mio ultimo libro clinico lo esemplifica molto efficacemente (Bianciardi M., Telfener U., Ricorsività in psicoterapia, riflessioni sulla pratica clinica, Bollati Boringhieri, Torino 2014)

Quali sono le dinamiche che scattano tra narcisismo patologico e social network? Come questi ultimi influenzano il narcisismo patologico?
I social network sono una ottima e utile vetrina e permettono di tenere i piedi in più staffe, di presentare un aspetto ottimale di sé. Permettono cioè di presentarsi splendidi e splendenti, negando i propri lati bui, oppure di chiedere insistentemente di venir salvati dall’interlocutore di turno. Permettono la velocità, la polifonia, la frammentarietà, il controllo, insomma sono strumenti ideali per lanciare ami e ricevere conferme. Sono sempre stupita di come – purtroppo soprattutto le donne, ma non solo – si tenda a rispondere ai narcisismi delle persone colludendo e confermando la loro grandiosità, in un processo di esaltazione della personalità molto spesso ridicola.
Vorrei comunque portare la vostra attenzione anche al mio ultimo libro sulle relazioni amorose (Gli amori briciola, quando le relazioni sono asciutte, Magi editore 2013) che descrive una tipologia molto attuale di relazioni asciutte e scarne. In questo caso i social network vengono usati a fini utilitaristici e non come vetrina personale.

Quanta correlazione c’é tra selfie e narcisismo patologico?
C’è una enorme correlazione tra selfie e società narcisistica così come tra selfie e società sempre più visiva. Il narcisista patologico non necessariamente ama ritrarsi, esattamente come non è elegante e palestrato né curato. Contrariamente alla credenza diffusa il narcisista delusivo o maligno – che è quello più grave e più sofferente – non è vanesio e spesso è trascurato nell’abbigliamento e nello spazio che abita.

Ha avuto in cura dei casi di tecno- dipendenza, da whatsapp, facebook, twitter?
Non sono un’esperta di dipendenze. Credo che per trattare le tecno-dipendenze siano necessari strumenti e conoscenze specifiche che io non ho, credo che l’intervento non sia quello generico della psicoterapia ma un intervento specialistico molto puntuale che deve proporre tecniche temi molto definite. Anni fa quando era di moda “second life” mi è capitato di trattare situazioni di bigamia da network, molto interessanti e dolorose.

Leggendo “Ho sposato un narciso” la sensazione che si ha è quella di avere tutto ad un tratto gli strumenti per poter leggere e capire persone, comportamenti e situazioni fino a qualche pagina prima assolutamente indecifrabili. Crede che questo avvenga anche con la filosofia? Nel senso, se conosci i concetti base della vita, riesci a leggerla e capirla? E magari, anche ad accettarla?
Non credo si tratti di conoscere i concetti di base della vita quanto di avere un metodo epistemologico per intervenire sulle operazioni del vivere e sulla relazione tra griglie di decodifica degli eventi, interpretazione degli stessi e conseguente atteggiamento verso la vita. Non credo neppure che lo scopo del vivere sia solamente quello di accettare la vita. L’accettazione è il primo passo per arrivare poi a parteciparvi in prima persona con una modalità proattiva ed emotiva oltre che razionale.

La citazione filosofica con cui riassumerebbe la sua vita.
“Che la tua mano sinistra non sappia quello che fa la tua destra, però sforzati di essere ambidestro” Gregory Bateson

La redazione

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Costituzione 2.0

 

 

Internet non è solo un veicolo, è una forma di cultura. La rete è innanzitutto un concetto filosofico.

Lorenzo Cherubini

Da qualche giorno è reperibile on line la bozza della Dichiarazione dei diritti in Internet, elaborata dalla Commissione per i diritti e i doveri in internet costituita presso la Camera dei deputati.

Invito anche chi “a me di politica/ queste cose qua non interessa niente” a riflettere su un punto fondamentale: è la nostra prima Costituzione di Internet. E possiamo contribuire tutti.

Come? Su camera.civici.ci. inserendo commenti e suggerimenti.

Quando? Da oggi  e per i prossimi 4 mesi.

time

Perché? Rispondendo con le parole di Laura Boldrini: “Internet è una dimensione essenziale per il presente e il futuro delle nostre società, una dimensione diventata in poco tempo un immenso spazio di libertà, di crescita, di scambio e di conoscenza.”

A parole nostre: perché Internet è ormai il nostro mondo, lo spazio in cui ci muoviamo, interagiamo, viviamo. Perché ci riguarda. Ed è qualcosa che dobbiamo tenerci stretto.

 

Donatella Di Lieto

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1000 amici, ma quanta amicizia?

 

Non è da stimare né chi s’abbandona con facilità all’amicizia né chi vi esita. È necessario correre rischi per amore dell’amicizia.
Epicuro

 

Si dice che esistano vari tipi di amici. Ma non credo si possa dire altrettanto dell’amicizia. L’amicizia è una. E di sicuro non ha molto a che fare con le notifiche. O con i “sei bellissima” a commento dell’ennesima foto profilo finto naturale. Non inizia con “ha confermato la tua richiesta di amicizia”. E non finisce se ci si cancella da Facebook.

I messaggi “Per te ci sono sempre”, accompagnati da una dozzina di cuori, non sono niente se poi non ci sei mai.
I messaggi “Dobbiamo vederci” sono solo parole una dietro l’altra se poi nessuno decide dove e a che ora.
I messaggi “Scusa se non mi sono fatta sentire in questo periodo” sono il titolo di un film di Moccia se poi il periodo diventa un’ era.
I messaggi “ Ti voglio bene” hanno lo stesso valore di “Coste frastagliate ed impianti siderurgici” se poi il bene non viene effettivamente dimostrato.

Perché essere amico è proprio e solo questo: voler bene. Un concetto di una semplicità disarmante.
Un amico è una persona, non un cellulare. E men che mai un trionfo di emoticon.

È una persona conosciuta da tre giorni, un cugino, quello che era il tuo compagno di banco, il tuo fidanzato, tuo marito, tua madre.

Essere amico è bere una birra assieme, senza neanche bisogno di specificare ora e luogo, perché è quello, da sempre. È uscire senza una meta, perché il resto è solo un contorno. È raccontarsi tutto, ma proprio tutto, senza dover aggiungere “questa cosa non la sa nessuno”. Perché è scontato. È andare a scegliere l’abito da sposa assieme ed essere autenticamente felici per lei, dimenticandoti per un attimo di avere il cuore sanguinante. E la sua emozione ed il suo sorriso diventano subito tintura di iodio sul tuo cuore. È vedere assieme “Vacanze di Natale” sul divano ripetendo le battute a memoria. E risvegliarsi il giorno dopo assieme su quel divano. Portarti la Tachipirina quando hai 40 di febbre. E quando stai per guarire portarti il Cebion senza zucchero e una scatola enorme di cioccolatini. E’ ridere assieme del mondo fino alle lacrime. E’ il buongiorno ogni giorno. E’ la discrezione dell’attesa dei tempi dell’altro. Ma è anche lo sfondare la porta quando serve. E’ il ritrovarsi dopo anni. E’ il trovarsi dopo 48 ore. E’ il non perdersi mai. E’ usare WhatsApp, ma ancora di più usare direttamente il citofono.

Facebook  ti aiuta a connetterti e rimanere in contatto con le persone della tua vita.”

 Mentre sul web la parola d’ordine è interazione, al di fuori dello schermo, il rischio è quello di appoggiarsi sempre di più ai social, vivendo i rapporti in maniera passiva,col minimo sforzo. Spettatori di una homepage in cui vediamo le vite altrui scorrere status dopo status, foto dopo foto, mettiamo qualche mi piace, scriviamo un paio di “Miss U” e crediamo sia abbastanza. E notifica dopo notifica non riusciamo più a fare differenze tra l’amicizia e le amicizie.

 Chi è amico di tutti, non è amico di nessuno.

Andrebbe specificato questo nelle avvertenze dell’utilizzo dei social.

Donatella Di Lieto

Ps: l’ amico è anche il depositario di tutti gli screenshot delle tue conversazioni di WhatsApp. Per piangerci assieme. Per riderci assieme. Per violare la privacy altrui assieme.

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Vendesi followers. Comprasi fiducia. Cedesi reputazione.

Quando un essere umano non sa come comportarsi, si adegua al comportamento di chi lo circonda.

Il cosiddetto principio della “riprova sociale”, se applicato al mondo del web, comporta che un basso numero di seguaci influenzi negativamente gli altri potenziali followers.
Su Facebook non metteremmo mai il decimo like, ma il millesimo si.
Su Twitter è difficile che si segua qualcuno con 30 followers. Per quante cose interessanti possa scrivere. Quasi automatico seguirne uno con almeno 4000. E appena andiamo su Twitter, ancora prima della bio, della foto, del primo tweet, l’occhio cade inevitabilmente sul numero di followers.

E come spesso accade nella vita reale, nell’arco temporale di un battito di ciglia elaboriamo un giudizio che in realtà è un pregiudizio.

Se lo seguono in pochi, non è interessante.

Con la pagina de la Chiave di Sophia ho avuto modo di osservare come seguaci di fatto, che mettevano anche like ai singoli post, sono diventati seguaci per così dire “dichiarati” solo quando la pagina ha raggiunto un considerevole numero di “ mi piace.”

believeeeee

Da qui la fortuna di agenzie specializzate in vendita  di followers, like, visualizzazioni, recensioni.

Qualche esempio:

http://www.comprafollowers.net/

http://www.magicviral.com/

http://www.recensionitripadvisor.it/

Tutti servizi nati per accrescere la reputazione on line di aziende, istituzioni, personaggi pubblici, politici, strutture alberghiere. Qualsiasi cosa e chiunque.

Il paradosso? E’ che l’effetto, se di reputazione parliamo, è esattamente l’opposto. Una volta scoperto il trucco, la reputazione è persa per sempre. La memoria del web, oblio o non oblio, non perdona.

Gli addetti ai lavori o i semplici “smanettoni” hanno sviluppato negli anni una certa sensibilità, diffidenza e soprattutto consapevolezza nei confronti del mondo che esiste alla base di un post, di una recensione, di un fashion blog, di una pagina Facebook, di milioni di visualizzazioni e migliaia di follower in 5 giorni.Una volta scoperto, è un po’ come quando ti dicono che Babbo Natale non esiste. Scopri l’inganno. E la magia finisce.
Per quanto riguarda Twitter, anche un non addetto ai lavori può agevolmente rendersi conto se i followers sono “fake” o meno. In genere i follower falsi:
a) non hanno una foto del profilo
b) non hanno una bio
c) hanno molti più following che follower e questi ultimi spesso non arrivano a 5

d)sono inattivi o i loro tweet sono standard e pubblicitari

Oppure ci si può affidare anche a servizi come  Twitter Audits e Status People per avere in pochi minuti la percentuale dei follower falsi, di quelli inattivi e di quelli reali.

Prendete un paio di politici a campione e vi renderete conto coi vostri occhi.

Le problematiche che scaturiscono dalla compravendita di consenso, non sono da sottovalutare. Basti pensare che una  recente inchiesta condotta da Nielsen afferma che il 64% degli italiani basa il proprio comportamento d’acquisto sul passaparola on line, e quindi sulle opinioni e recensioni postate sui vari social. Per non parlare dell’influenza che hanno i blogger in questo senso, soprattutto nel settore della moda, argomento che approfondiremo nelle prossime settimane.

Dove inizia e dove finisce il confine tra pubblicità ingannevole ed ordinari strumenti persuasivi del marketing? E sopratutto, come facciamo quando il finto consenso non è acquistato per l’ultimo profumo di Dior ma per un politico? O addirittura per un partito?

Abbiamo una legge sulla par condicio che cronometra minuti, secondi e nanosecondi televisivi. E nel frattempo c’è un mondo parallelo il cui consenso si forma davanti ad una tastiera. Non davanti a Porta a Porta.

 

Donatella Di Lieto

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Chi sei tu per decidere di me?

In passato c’era la paura di morire anzitempo. Oggi c’è quella di sopravvivere oltre il limite naturale della vita, in una condizione artificiale, priva di coscienza e di vita di relazione.”  Umberto Veronesi
Ricordo perfettamente la sera in cui Eluana Englaro morì. Stavo tornando a casa e passai davanti al Senato. Dentro c’era chi ancora litigava, ma fuori anche le lucine rosse delle telecamere si erano spente per rispetto. Il rispetto che forse non c’era stato prima. Sentii precisamente ogni rumore di quel silenzio. Un silenzio assordante. Il silenzio della morte ti fa scoppiare i timpani.
E capii, pur non avendolo ancora appreso, che Eluana era morta.
Tornata a casa  accesi la tv e ne ebbi la conferma. E mi venne da piangere. Non la conoscevo. Non la conosceva nessuno di quei giudici, di quei politici, di quei giornalisti, di quei preti.

Si era parlato di protocolli. Si era parlato di sentenze. Si era parlato di burocrazia. Si era parlato di religione. Ci si era persi in cavilli giuridici, lessicali, interpretativi.
E lei nel suo letto.
Il nome di Eluana Englaro era stato sulla bocca di conduttrici che si sforzavano di piangere davanti a video di “una ragazza bella, bellissima, guardate quanto era bella”. Sulla bocca di politici che, tanto per iniziare, dicevano “celebrale” invece di “cerebrale”.
Sulla bocca di tutti.
Ma sul cuore di chi?
Della famiglia. L’unica che avrebbe potuto mettere la parola fine. Alle sofferenze di Eluana. Alla vita di Eluana. All’attesa della morte di Eluana. Alle chiacchiere da bar, alle urla in Parlamento, alle manifestazioni per le strade, alle votazioni, ai disegni di legge, all’invocare Dio, i valori, la Costituzione, allo schierarsi, agli approfondimenti in prima serata, ai talk show pomeridiani, all’opinione di tutti su tutto.
Erano diventati tutti cattolici, tutti preti, tutti medici, tutti giudici. Tutti Dio.

Brittany Maynard, 29 anni, dopo aver scoperto di avere pochi mesi di vita a causa di un cancro al cervello, ha annunciato di aver scelto di morire il 1 novembre. Tra qualche giorno. Vuole farlo nella sua casa, nel suo letto, e lasciare la sua vita con la sua vita accanto.
Chi sei tu per impedirglielo? http://www.thebrittanyfund.org/

C’è chi ora penserà che le due circostanze sono diverse. E’ questo il punto. C’è stata troppa gente che ha pensato. Quando avrebbe dovuto solo sentire. Ed acconsentire. E, al massimo, pregare. In silenzio.

Donatella Di Lieto

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C’era una volta Andy Warhol. Poi arrivò Instagram.

Si è conclusa ieri a Roma l’esposizione delle opere di Andy Warhol appartenenti alla Brant Foundation.
Un’esperienza diversa rispetto ad una normale mostra. Qualcosa di più di una serigrafia, di colori, luci e tecniche. Ci si immerge in un mondo, terribilmente attuale. Ci si identifica in fobie, ci si immedesima in debolezze, ci si rassicura nei paradossi.
E’ difficile durante il percorso soffermarsi solo sulle opere dell’artista. Viene spontaneo osservare i volti dei visitatori, le loro espressioni di complicità, di solidarietà, di “So di cosa stai parlando”.


La morte

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Le persone dovrebbero essere maggiormente consapevoli della necessità di lavorare su come imparare a vivere, perché la vita è così breve e a volte vola via troppo rapidamente

Warhol teme la morte più di ogni altra cosa. E disegna teschi, in un modo così paradossalmente vitale e colorato, da scacciarla via, la morte, rendendola un’icona. L’iterazione è uno dei codici linguistici prediletti dall’artista, perché rende semanticamente più neutro il soggetto. La ripetizione di un’immagine, che sia un teschio, una sedia elettrica o un leader politico, ne aumenta il potenziale iconico.

Noi temiamo la morte più di ogni altra cosa. E compriamo magliette e gioielli con teschi raffigurati in ogni modo possibile ed immaginabile.


  Esclusività vs accessibilità

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Quel che c’è di veramente grande in questo paese è che l’America ha dato il via al costume per cui il consumatore più ricco compra essenzialmente le stesse cose del più povero. Mentre guardi alla televisione la pubblicità della Coca-Cola, sai che anche il Presidente beve Coca-Cola, Liz Taylor beve Coca-Cola, e anche tu puoi berla

Per Warhol ciò che è importante non è l’esclusività, ma l’accessibilità. E anche La Gioconda, se riproposta 30 volte, in serie, non è più un qualcosa di esclusivo. Ed ecco che anche la tendenza dei brand di investire sempre di meno nella pubblicità “dall’alto”, con spot in tv con modelle-dee dell’Olimpo, prediligendo invece forme di promozione basate sul “passaparola” non sembra poi qualcosa di così recente. Credo più alla fashion blogger che alla top model. Credo più a chi mi sembra accessibile, che all’esclusivo. Credo più all’artista comunicatore che all’artista demiurgo.


La fama

15 minute

Nel futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti”.

Warhol è ossessionato dalla fama e dalla celebrità. Noi siamo quelli che facciamo a gara a postare in bacheca foto con i c.d. “ vip”. Quelli che hanno l’illusione che una persona popolare sia alla nostra portata perché lo seguiamo su Twitter. Quelli che non sanno che molti dei loro “amici” famosi su Facebook non sono altro che profili fake o gestiti da persone addette. Perché se Brad Pitt sta su Facebook come minimo si chiamerà Mario Rossi ed al posto delle impostazioni della privacy avrà dei cecchini rigorosamente in abiti camouflage. Eppure una foto con un vip anche di serie D, noi la postiamo. E crediamo che questo nostro interagire possa accorciare la distanza tra “noi” e “loro”. La nostra ricerca costante di 15 minuti di celebrità avviene ormai facilmente tramite You Tube, Instagram, Facebook. A cui segue la spasmodica ricerca dell’approvazione altrui.


L’estetica

   campbells

Ogni cosa ha la sua bellezza, ma non tutti la vedono”.

Andy Warhol rende la zuppa Campbell’s un’icona. Nella comunicazione web attualmente un prodotto ha il suo momento di celebrità, fino a diventare un’icona.  L’attenzione sulla scatola di biscotti su cui mettete distrattamente “mi piace”, la borsa attorno a cui ruota l’intero post di Chiara Ferragni, l’I- phone 6. L’intero marketing digitale ruota attorno all’esaltazione dell’oggetto, all’approvazione, al like, alla condivisione, all’iterazione della stessa immagine in ogni angolo del web.. Talmente tanto che oggi si possono comodamente acquistare consensi, like, condivisioni, fan su siti quali www.magicviral.com. Che tu sia una zuppa. O che tu sia una persona. La sintesi della filosofia estetica di Warhol è quella di riproporre oggetti semplici della vita reale in chiave sempre uguale mescolando banalità ed impatto visivo.
E la mania di postare piatti di pasta, lattine di birre, penne, non sembra poi così nuova.


 Autoscatti.

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Andy Warhol è schiavo della sua Polaroid. Autoscatti, foto truccate, ritoccate, deformate. In una parola: selfie. In due: selfie ed Instagram. In più parole: “Se volete sapere tutto di Andy Warhol, basta che guardiate la superficie: quella delle miei pitture, dei miei film e la mia, lì sono io. Non c’è niente dietro “.

Difficile non immedesimarsi. Anche se, ogni tanto, mentre stiamo per invadere bulimicamente la nostra bacheca di momenti della nostra vita, dando l’idea volutamente di essere ciò che postiamo, dovremo ricordarci un’altra delle frasi che racchiudono la filosofia di Warhol:

Si ha più potere quando si tace, perchè così la gente comincia a dubitare di se stessa.”

Donatella Di Lieto

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Sta scrivendo…(L’attesa e la speranza ai tempi di WhatsApp)

Umberto Galimberti scrive:  
Nell’attesa non c’è durata, non c’è organizzazione del tempo, perché il tempo è divorato dal futuro che risucchia il presente a cui toglie ogni significato, perché tutto quello che succede è attraversato dal timore e dall’angoscia di mancare l’evento.  La speranza, invece, guardando più lontano e ampliando lo spazio del futuro, distoglie l’attesa dalla concentrazione sull’immediato e dilata l’orizzonte. 
E nello spazio tra attesa e speranza?
Ci trovate su WhatsApp.

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