Spesso il mal di vivere…

Una delle caratteristiche più interessanti delle scienze umane è la permeabilità: filosofia, letteratura, musica, pittura non costituiscono discipline separate, ma realtà complementari.

In questo senso, bisogna dire che v’è una strana alleanza tra esistenzialismo e poesia novecentesca; uso l’aggettivo “novecentesca”, nella volontà di ricondurre all’interno d’esso tutta una serie di correnti letterarie tra loro anche molto diverse.

La questione su cui vorrei concentrarmi è: se la permeabilità tra discipline umanistiche esiste, è possibile che la poesia del ‘900 (italiano), abbia risentito della temperie esistenzialista che, come si sa, fu la più importante corrente di pensiero del secolo scorso?

L’aria che si respirava in Europa (almeno dal 1943, anno di pubblicazione di L’Être et le néant di Jean-Paul Sartre) era esistenzialista de facto.
L’esistenzialismo divenne addirittura un fenomeno di massa, la cui diffusione giocò un ruolo da protagonista ovunque e in ogni campo artistico.
Naturalmente, la filosofia che sottintendeva (a volte molto vagamente) le espressioni artistico-culturali europee tra gli anni ’40 e ’60 era conosciuta (sul fatto che fosse compresa, ho dubbi) se non altro perché, nel secondo dopoguerra, sembrava essere la linea ermeneutica che più si adattava all’esplicazione d’un presente difficile in un’Europa prima in crisi, e poi in crescita socio-economica quantomeno problematica. Senza contare che gli esistenzialisti erano, per la maggior parte, d’ultra-sinistra… e questo piaceva.

Conseguentemente, le questioni tipiche dell’esistenzialismo erano non solo importantissime per la vita culturale, ma addirittura divennero moda: è dunque più che comprensibile che la poesia risentisse di questo modus vivendi atque cogitandi, e ne assumesse le tematiche.
E la tematica principale dell’esistenzialismo − in particolare sartriano − è ben nota: la vita è dolore, nausea, ostilità.
Ora la poesia, rispetto alla filosofia, non intende dare soluzioni a, né tantomeno spiegare la sofferenza; i poeti che si interrogavano sulla vita dell’uomo, si limitavano a prendere atto della verità del dolore, senza analizzarlo.

Ovviamente, non tutti i poeti parlano allo stesso modo.
Ognuno di essi, infatti, parla del dolore a seconda del grado di espressività che, d’esso, hanno la convinzione di poter dare.
Di varie modalità espressive e di sterminati autori, ne scegliamo tre che ci sembrano rappresentativi di altrettanti modi di poetare la sofferenza.

 

CLASSICISMO

Montale è il maestro della poesia muta: innanzi alla verità-del-dolore, il premio Nobel guarda senza commentare, ma parla ampiamente e con parole cristalline:

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

[…]
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Un vero e proprio canto negativo.
Ciò che colpisce in Montale è la chiarezza vivida, i paragoni e le metafore evidenti. Il dolore non è, per Montale, un trascendentalis inesprimibile; è quotidianità, e la mente poetica, pur rifiutandosi di comprendere, verbalizza:

Spesso il male di vivere ho incontrato
era il rivo strozzato che gorgoglia
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

 

ERMETISMO

Vi sono, tuttavia, anche poeti che, pur comprendendo (e incarnando) il dolore, non riescono a comunicarlo completamente, ma solo attraverso immagini misteriose, richiami ancestrali, accostamenti reali e assurdi: pensiamo a Quasimodo, che del dolore fa la magia del verso:

Grato respiro una radice
esprime d’albero corrotto.

Io mi cresco un male
da vivo che a mutare
ne soffre anche la carne.

Nella consapevolezza che ogni gioia è del tutto effimera, che non esiste nulla che possa glorificare l’esistenza in quanto tale, l’uomo tenta di comunicare la sua sofferenza ma non vi riesce se non con dizioni che, purtroppo, solo lui comprende. Resta, quindi, tremendamente solo, e quando cerca conforto, non lo trova se non in se stesso. La grande sofferenza è dunque l’incomunicabilità:

Non una dolcezza mi matura,
e fu di pena deriva
ad ogni giorno
il tempo che rinnova
a fiato d’aspre resine.

E dunque, unica ancora di salvezza, si apre la certezza che il mal-di-vivere, è una volontà di Dio:

Non m’hai tradito, Signore:
d’ogni dolore
son fatto primo nato.

 

MINIMALISMO

Il grado di massima inesprimibilità del dolore si raggiunge con Ungaretti:

La mia squallida
vita si estende
più spaventata di sé

In un
infinito
che mi calca e mi
preme col suo
fievole tatto.

L’uomo soffre così tanto, che l’unica cosa che può dire è, di fatto, e mi scuso per il francesismo, che la vita fa schifo.
E non occorrono tante parole per dirlo: una “squallida vita”, credo (e così il poeta soldato), è espressione ben più che sufficiente a chiudere ogni discorso.
Ma otto versi sono ancora molti, si può esser ancora più brachilogici:

VIE

corruption qui se pare d’illusions.

 

L’esistenzialismo tenta di dare una spiegazione a tutto questo indicibile dolore. Non è compito della poesia, mi sembra chiaro, far tesoro della sua lezione. Il punto di partenza tematico sarà uguale, ma le destinazioni dei due viaggi (poetico-puro e filosofico-puro) sono evidentemente diversi.
E tuttavia, nulla impedisce a un poeta d’esser filosofo (e viceversa) e di tentare di spiegare.
Ebbe a dire Alda Merini:

«La vita non ha senso, anzi è la vita che dà senso a noi, basta che la lasciamo parlare, perché prima dei poeti parla la vita […] È bello accettare anche il male, non discutere mai da che parte venga il male».

In fondo, un filosofo esistenzialista non credo aggiungerebbe molte altre parole.

 

David Casagrande

[Immagine di copertina di Kevin Saint Grey]

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Binswanger, “Il caso Ellen West” e il vissuto di fine del mondo

L’idea focale su cui s’impernia l’analisi di Binswanger è che nell’insorgenza psicopatologica non ci sono soltanto sintomi da individuare e cure da somministrare, ma vi sono anche modalità esistenziali da ascoltare, che descrivono la situazione attuale di un’autentica presenza umana. In questo modo il sinto­mo psicopatologico non è più semplice indice di una disfunzione psicologica o organica, ma diventa una vera e propria prospettiva di progettazione del mondo, che invece di annichilire la presenza umana, la orienta e la ingabbia entro inevadibili categorie mortifere.

Nel vissuto psicopatologico la presenza umana si ritrova quindi tumulata in uno stato controverso, e in questo permane lasciando il sofferente in una condizione paradossale di esser-gettato-nel-mondo. Tale condizione non permette alla presenza di porsi oltre di essa con un’azione  personale che la dinamizzi, e il mondo non risulta più sorretto da significati differenti da quelli del disturbo. Si può dire che il mondo sia “finito”, trascinando con sé ogni cosa tranne l’individuo sofferente, che si ritrova da solo a contemplare lo sfacelo universale. Questo tipo di vissuto è esperibile nei momenti in cui l’energia morale umana, che sempre intende oltrepassare la pietra e le stelle mute in un va­lore, si flette su se stessa e s’ingrigisce fino a non comprendersi più in alcun modo, se non con le cate­gorie del deserto e della sofferenza sorda e inestirpabile.

È questa la condizione lamentata da Ellen West, quando sostiene che ogni cosa è vuota, che nulla ha più un suo senso, che ovunque non aleggia altro che morte. La gravità del suo lugubre sentore è accentuata dalla sua radicale incapacità di emanciparsene, giacché questo ha assoggettato al suo domi­nio ogni possibilità di prassi esistenziale positiva. Ella denuncia una tensione insostenibile, che da una parte la trascina verso l’abisso, in un mondo sepolcrale e stagnante, e dall’altra invece la attrae verso regioni eteree, letterarie e ambiziose, dove lei ha sempre sperato di dimorare; ma più mitizza que­sta dimensione di speranza, più la tenebra la trascina sul fondo. Il suo corpo è ingombro di organi e ma­teria, il cibo la appesantisce e la fa sprofondare, la sua femminilità è smorzata da una idealità di legge­rezza che cozza con le sue necessità biologiche. Il passato è una terra di rimpianti e dolori che la tormen­tano; il futuro è bugiardo e assurdamente crudele; e il presente sembra un’eternità immota che non lascia spazio al cambiamento. Quando poi ella scopre di non poter accedere alla grazia del mondo spirituale, mercé l’ineluttabilità del suo incanutire e la paura di farsi sgraziata, la morte diventa per lei l’unico obiettivo contemplabile. I vissuti esistenziali di Ellen si muovono essenzialmente attorno a queste immagini, che pur dilaniandole il corpo e l’anima, le lasciano tutta la lucidità di una donna intelli­gente, che troppo bene comprende la sofferenza angustiante cui è condannata.

Per ricavare una diagnosi soddisfacente e per poter proporre una terapia efficace che sappia realmente incontrare le esigenze della presenza ingrigita di Ellen, il dottor Binswanger dapprima si concentra sulle metafore utilizzate dalla paziente per spiegare il suo malessere, e in seguito avanza un approccio di tipo antropologico, andando a ricostruire e ad analizzare l’intera storia della paziente alla luce di quanto intuito dall’analisi delle sue espressioni. Per lo psichiatra difatti «le interpretazioni psicoanalitiche si rivelano quali particolari interpretazioni simboliche sul terreno della comprensione antropoanalitica»1, nel senso che la psicoanalisi è un momento della ricostruzione del fatto antropologico, ossia della presenza umana considerata. Senza riconoscere il senso esistenziale di un individuo e delle modalità con cui ci-è non si può comprendere la maniera con cui questi interpreta il mondo, poiché Mondo e Sé sono intercambiabili – l’uno determina l’altro attraverso l’attività interpretante e agente del secondo. È la teo­ria schopenhaueriana del soggetto che consente all’oggetto di apparire come fenomeno nella catena causale degli eventi. Il valore, i vissuti e il nome del Sé si rivelano una volta che il suo Mondo è stato messo in luce, e per farlo occorre percorrerlo da un polo all’altro per poi coglierlo nella sua essenza principale. Battendo anche questo percorso, la terapia psichiatrica può dirsi completa, poiché, in accordo col dottor Binswnager, esso compensa la sterilità della psicoanalisi più “organica”.

Il caso di Ellen presenta però alcune anomalie: come si espone nella terza parte del libro, inerente all’a­nalisi clinica della paziente, il suo disturbo non è classificabile sotto nessuna categoria particolare. Non si tratta di affezione da idea delirante, giacché questa è sostenuta dall’individuo, mentre Ellen combatte la sua ossessione; non si tratta di isterismo, poiché la donna non maschera angosciosamente il suo dolore; né si tratta di una depressione acuta, in quanto non si riscontra il tipico sentimento di colpe­volezza e del non-poter-riparare-a. È a questo punto che Binswanger propone un quesito tanto fa­scinoso quanto terrificante: si tratta «di sviluppo di personalità psicopatica o di processo schizofrenico»2? Egli opta per la seconda possibilità, seppur con alcune riserve, ma rimane il fatto che la prima è stata contemplata. E l’espressione utilizzata si riferisce alla possibilità di incarnare un ruolo an­tropologico, una personalità appunto, circoscritta e definita secondo i vissuti psicopatologici, ma che non soffre di una specifica malattia mentale. Se nel vissuto schizofrenico l’associatività di pensieri e di parole risulta sconnessa e lacunosa, in Ellen la lucidità di pensiero, di linguaggio e di emotività si man­tengono intatte, ma vengono compromesse da un dolore innominato e profondissimo che si richiama al vissuto mortifero sopra citato. Questo non è dunque un vissuto esistenziale che affligge solo il malato, ma si configura come un rischio tipicamente antropologico, in cui può scivolare chiunque non riesca a trovare la forza di plasmare e interpretare il mondo secondo la sua propria “esistenzialità”. Le modalità di crollo sono innumerevoli, ma nessuna è definitiva, e lo stesso dottor Binswanger non riesce a risalire all’origine del male. Sembra soltanto postularlo, suggerendo che Ellen è sempre stata tale e che di­versamente non poteva essere.

Ellen West si avvelenò il 4 aprile 1921, all’età di 33 anni. Il suicidio era diventato per Ellen l’unico mez­zo per affermare la sua libertà sul mondo infernale cui era costretta. Per riconquistare se stessa, dovette eliminarsi. In un certo senso non ha rinunciato a realizzare la sua presenza, ma come sostiene il dottor Binswanger, l’ha invece confermata nell’unico modo che le rimaneva plausibile: il suicidio era quanto di più conseguente ci si poteva aspettare da una presenza umana così addolorata e incurabile. Resta il documento di una storia tremenda e circolare, che si lascia osser­vare solo da oltre i suoi confini, facendoci intuire gli aspetti più fragili e oscuri della nostra es­senza più intima: la possibilità di non potersi realizzare, a causa della subordinazione a un pensiero che vuole disperatamente contraddire l’ineluttabile; o la possibilità di trovarsi costretti ad affer­marsi solamente tramite la morte.

 

Leonardo Albano

NOTE:
1. L. BINSWANGER, Il caso Ellen West, Einaudi, 2011, p. 136
2. Ivi, p. 190

 

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Combinare etica della cura e poesia: intervista al chirurgo Vincenzo Caronia

A volte abbiamo l’impressione che i medici, in particolare i chirurghi, siano come dei meccanici: senza farsi travolgere dalla tragedia umana della malattia e del dolore, loro valutano, aprono, chiudono. Dichiarano decessi. Hanno studiato e lavorato per anni, acquisendo livelli di conoscenza per noi altri apparentemente inarrivabili, e quindi ci affidiamo. Ci affidiamo e a volte non accettiamo che esista un loro lato umano, sensibile e fallace.

Leggere i componimenti poetici scritti da Vincenzo Caronia, classe 1959, chirurgo operante presso l’ospedale di Oderzo, ti scalda il cuore. Ti fa rivalutare tutta questa questione dell’infallibilità e del freddo temperamento scientifico dei medici, e di questo probabilmente abbiamo un gran bisogno. Abbiamo bisogno di sapere che i medici possono essere, come Caronia, appassionati di letteratura e di cinema, di viaggi e di poesia: un fatto da non trascurare, perché è proprio da questi interessi che si può sviluppare quel pensiero etico che è ormai imprescindibile dalla medicina. Ecco perché in questa intervista parliamo anche di corpo, di dispositivi medici e del valore fondante della fiducia. Ed in parallelo però parliamo anche di poesia, perché la sua raccolta di haiku (Haiku per un anno, 2012), in particolare, è un piacere da leggere. L’haiku è un componimento giapponese di tre versi capace di suscitare, con poche parole, delle forti suggestioni; è particolarmente piacevole lasciarsi abbandonare alle delicate note ed immagini da esso evocate, anche nella lingua italiana.

A tutto questo è possibile, evidentemente, combinare  la medicina. Perché anche la medicina, dal lato del medico e dal lato del paziente, è fatta di uomini. Scopriamo allora insieme che cosa ci racconta Vincenzo Caronia di questo mondo.

 

La filosofia ha piano piano segnato la strada per l’affermazione della disciplina bioetica e dell’etica applicata. In che modo, secondo il suo parere di chirurgo, la pratica filosofica può essere attualizzata in ospedale?

Credo che l’etica possa variare da persona a persona. Da un punto di vista medico, se una persona sceglie di fare il medico, lo fa perché unisce la passione per le materie scientifiche con il rapporto umano che si crea con le altre persone. Il discorso etico è fondamentale, ovvero il fatto di avere presente che si lavora con, su e per altre persone. Persone con una storia, dei sentimenti. Ricordo la prima volta che assistetti ad un’autopsia. In particolare, si stava analizzando il cervello di un defunto. Ricordo chiaramente di aver pensato che qualche giorno prima quello che stavamo analizzando era un cervello vivo di ricordi, di passioni, di vizi. Anche questo mi faceva pensare. Anche se con il tempo la pratica medica mi ha insegnato a curare e sistemare ciò che sta biologicamente dentro quel cervello, non dimentico mai la storia di cui può essere intrisa. Si tratta sempre di una persona.

Quale ritiene sia il rapporto tra mente e corpo? Una tende forse a prevalere sull’altra?

Ritengo che non esista una separazione netta in termini cartesiani tra mente e corpo. La psicopatologia ha una sua componente fisica, ma ha anche una sua componente psichica, legata alla mente. Nelle patologie psichiatriche la componente della mente è molto più importante rispetto a quella fisica; in un cancro al colon, è l’esatto contrario. Tuttavia, non c’è una completa lontananza tra le due. Basti pensare anche agli anziani, al loro lasciarsi andare nel decorso di una malattia. Il volere andare avanti malgrado una malattia non è un imperativo, c’è chi ce la fa e trova al forza, e chi invece si tira indietro. Il contatto mente e corpo quindi c’è ed esiste: l’una influenza l’altra.

Oramai in medicina si è affermato un sistema basato sul valore della centralità del paziente. In che modo, secondo lei questo sistema, fondato e finalizzato sul  patient-centered care, può entrare in dialogo con la complessità e l’artificialità della evidence-based medicine, ovvero con il progresso tecnico scientifico dell’ingegneria medica? In altre parole, come la sfera oggettiva e quantificabile dell’approccio clinico coopera con la sfera più prettamente “umana” della pratica di cura? 

Sono cose che non si allontanano mai l’una dall’altra. Oggi si lavora con internet e il pc per tante ragioni. È su questo che ci si deve basare: su realtà comprovate dai fatti.

Il paziente però è al centro dell’attività sanitaria. Io devo cercare di dargli la cura al meglio delle mie possibilità e in questo mi baso sulla evidence based-medicine. Le due sono correlate. L’una interseca l’altra.

Possiamo affermare che nel corso degli ultimi decenni la medicina abbia fatto dei passi da gigante nel campo degli interventi a cuore aperto, in particolare anche parlando di impianti di dispositivi ventricolari, in grado di permettere la sopravvivenza dei pazienti. Un paese come l’Italia ha la fortuna di beneficiare di alcuni centri VAD molto forti. Cosa pensa di questa nuova svolta del progresso scientifico in ambito ospedaliero? E, a tale proposito, ha qualche osservazione da proporre circa il rapporto tra durata biologica della vita, quantificabile in anni di sopravvivenza in seguito ad un impianto, e qualità della vita, talvolta segnata da sacrifici, sofferenza ed effetti collaterali?

Oggettivamente abbiamo visto negli ultimi quarant’anni un veloce incremento dell’aspettativa di vita delle persone. Questo grazie all’ evoluzione delle conoscenze scientifiche acquisite a livello mondiale, che comprende anche lo sviluppo della bioingegneria, quindi di dispositivi tecnologici biomedici.

Questi dispositivi, per chi ha una patologia cardiaca, hanno aiutato la sopravvivenza ma anche il miglioramento della clinica; inoltre, hanno permesso di portare il paziente ad un eventuale trapianto di cuore oppure ad un impianto di protesi sempre più tecnologicamente avanzate, per migliorare all’outcome del paziente. La tecnologia è diventata necessaria per sostituire la parte malata con qualcosa di meccanico che però possa rendere le stesse funzioni dell’organo ora malato. Tutto però è gestito e controllato dal cervello, quindi dall’uomo. Di conseguenza, ciò conferma quello che abbiamo detto precedentemente circa il rapporto tra mente e corpo, in cui l’una influenza l’altra. Ormai la tecnologia ci ha permesso di sostituire parti del nostro corpo in modo tale da poter continuare a vivere allo stesso modo. Certo, ciò non significa che possiamo giustificare una società in cui si possano cambiare i “pezzi” del corpo umano come nulla fosse, per quanto necessario: una visione “etica” del problema rimane fondamentale.

Sicuramente, durante la pratica medica, è sempre opportuno porre attenzione sulla relazione medico-paziente, la quale non può non essere fondata nella fiducia. Che significato darebbe a questo concetto? Si è mai trovato di fronte a casi in cui la fiducia trovava degli ostacoli difficili da superare?

Certo, la fiducia è un valore fondamentale. Se un paziente viene da me è perché ha fiducia del mio operato. È importante però considerare il fatto che siamo tutti uomini, perciò siamo tutti fallaci. Possiamo sbagliare. Così come ci sono situazioni che possono creare dei problemi indipendentemente dalla bravura del medico e dalla disponibilità del paziente, le così dette complicanze. Queste non sono errori del medico, ma avvenimenti che possono presentarsi ed essere comuni in tutta l’attività medica. È necessario quindi non confondere la complicanza con un errore: cosa questa che potrebbe essere intesa come un “tradimento” alla fiducia.

Vorrei infine ricordare e rimarcare la differenza tra “cura” e “guarigione”. Un medico può curare una patologia senza riuscire a guarire il paziente. Confondere le due cose talvolta può minare il rapporto di fiducia instauratosi tra medico e paziente. Un esempio possono essere le patologie infiammatorie dell’intestino, malattie croniche a lenta evoluzione che solitamente interessano il paziente per molti anni. Ci sono dei farmaci recenti che migliorano moltissimo la qualità di vita. Però la malattia c’è, non è guarita. Può migliorare, presentare periodi di remissione, ma non risolversi. Cento anni fa erano pochissime le malattie che si riuscivano guarire. Oggi la scienza permette di guarire da più patologie.

Spesso si sente lo stereotipo del medico votato alla scienza ed alla medicina e che spesso trascura le materie umanistiche. Lei invece ha pubblicato alcuni libri di poesie, dimostrando quindi di saper fuoriuscire una sensibilità che è tipica umana. Come si è avvicinato alla poesia? E come, in particolare, ha scelto di cimentarsi con gli haiku

Il primo approccio con gli haiku fu quando ero bambino. Mio padre aveva dei libri sulle grande religioni e sfogliandoli, nei capitoli dedicati alle dottrine orientali, c’erano degli haiku. Li lessi e ricordo che ne rimasi colpito. Poi iniziai a scrivere delle poesie, e ne lessi anche molte. Piano piano crebbe anche la passione per l’Oriente. Ora, la poesia è qualcosa che viene e va, un po’ come l’amore: ci fu quindi questo periodo in cui scrissi molto e altri in cui molto poco, o nulla. Nel 2000 iniziai a scrivere haiku un tipo di poesia che non avevo scritto prima, e pare con buoni risultati, almeno stando a quanto mi viene detto.

haiku-per-un-anno_caronia_intervista_la-chiave-di-sophia-01Crede che gli haiku, anche nella sua forma e temi tradizionali, possa rappresentare un messaggio dell’uomo all’uomo circa il rapporto che esiste o dovrebbe esistere tra esso e la natura?

Sono convinto che l’haiku tenti di ristabilire un contatto con la natura, un contatto che ciascuno di noi può sentire, può vivere. E ci spingono così a riflettere.

Anche per le altre tipologie di poesia che ho scritto, credo che si tratti sempre di un riflesso di ciò che sentiamo, che proviamo, e che cerchiamo di rendere in forma poetica. L’haiku è la stessa cosa ma presenta delle caratteristiche precise. Intanto è estremamente semplice, quasi scarno; la cosa bella è che questa loro semplicità crea un ponte diretto con la natura, o con qualsiasi sia l’ oggetto della poesia stessa, oltre che per il poeta anche per gli altri, c’è spazio per trovare qualcosa anche per il lettore, è diretto. Cosa che, forse, nella poesia tradizionale, si trova in forma minore.

Ciò che mi piace è questo: il significato, il senso dell’ haiku è un ponte verso la persona che lo legge. E anche il fatto che non ci sia un titolo è indicativo dell’ apertura che l’ haiku propone.

Ha mai combinato la scrittura o la lettura della poesia con la sua attività in ospedale? Ritiene che possa portare qualche tipo di beneficio? 

Secondo me c’è un modo di coniugare questi due mondi. Parliamo sempre di uomini. Lavorando in ospedale, è necessario estraniarsi dalla situazione, dal dolore delle persone che devono essere curate. Ciò al fine di rendere la pratica di cura più efficace. È necessario comunque creare dei momenti di distacco in cui si parla anche di altro. Ed è lì che al rapporto interpersonale, tra medico e paziente, ma anche tra operatori sanitari stessi così come tra paziente e paziente si lega tante volte il concetto di fiducia. Si può avere un approccio molto umano nel corso di questi momenti.

La scarnificazione del superfluo, la riduzione dell’immagine all’essenza, la semplificazione del pensiero e raziocinio umano per adattarsi al flusso morbido e delicato della natura: l’haiku in particolare ma spesso anche la poesia più in generale sembra porsi agli antitesi della profonda ricerca di significato che sottende alla filosofia. Lei ritiene che esse possano avere comunque qualcosa che le accomuni?

Credo che la filosofia cerchi di dare spiegazione a quella che è la realtà. Alla fine si va sempre a definire un concetto finale. La filosofia si pone il problema del “Che cos’è?”. Nell’haiku non c’è questa ricerca, è immediato. Nella forma è sintetico, non è un trattato.

C’è chi concentra al massimo per dire il tutto. L’haiku, nella sua forma breve, così come altre forme di scrittura, non è altro che il rappresentare un attimo che si ha vissuto; si esprime un’impressione immediata. Probabilmente è questo il concetto filosofico dell’haiku: esprimere e dare senso a quella sensazione, in quel determinato momento.

 

La Redazione

 

 

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Polifonia sulla legittimità del suicidio

– Morte spiran suoi sguardi!… A me quel ferro.
– A lei pria il ferro, in lei! Muori.
– Ah!… Tu pur morrai.
(V. Alfieri, Rosmunda, atto V scena 5)

 

È sempre il solito, vecchio e trito, problema shakespeariano:

«Essere o non essere, questo è il quesito. […] Morire, dormire, nulla di più, e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne»1.

Come ho cercato di dimostrare parlando d’Anassimandro, nascere è una disgrazia: ci condanna alla sofferenza, alla contingenza, alla libertà, alle scelte, agli sguardi. Soprattutto alla solitudine. Resta da comprendere se questa disgrazia-lunga-una-vita sia sufficientemente dura da giustificare il suicidio. La risposta, lo vedrete, sarà volutamente gesuitica.
Per addentrarmi meglio nella questione, inizierò aggrappandomi al pensiero di Sartre e Leopardi.

Sartre ne L’essere e il nulla, afferma che la nostra condanna alla libertà si esplica attraverso la “progettualità” costante; ora, se l’uomo è pro-getto (cioè gettatezza nel futuro, nell’avanti), la morte rappresenta l’evento antiumano per eccellenza, perché interrompe lo scagliarsi-innanzi della coscienza. Questa antiumanità è, naturalmente, centuplicata dall’atto suicidario.
Data la natura temporale dell’uomo, e la necessità di pro-gettare ogni azione nell’avvenire, ne consegue che gli atti hanno senso solo se aprono alla possibilità di un alterità futura: il presente insomma, attraverso il pro-getto, si consegna alla possibilità del futuro per garantirsi senso; conseguentemente, un gesto che nega tout-court il futuro non ha significato.
Eo ipso, il suicidio (ammessa e concessa l’estrema dolorosità della vita) non ha senso:

«Se dobbiamo morire, la nostra vita non ha senso perché i suoi problemi non ottengono alcuna soluzione. Sarebbe inutile ricorrere al suicido per sfuggire a questa necessità. Il suicidio non può essere considerato come una fine per la vita di cui sarei il fondamento. Essendo atto della mia vita, richiede anch’esso un significato che solo l’avvenire gli può dare; ma siccome è l’ultimo atto, esso si priva di  avvenire»2.

Leopardi argomenta in modo più complesso: leggendo lo Zibaldone e le Canzoni del suicidio, risulta essere è una via praticabile e gli animi grandi riconoscono in esso una vittoria sul dolore, una situazione preferibile. E da un certo punto di vista, non vi è nulla di più ragionevole di questo gesto, essendo anzi la ragione causa precipua dell’eventualità suicidaria:

«La speranza non abbandona mai l’uomo in quanto alla natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano stoltamente quelli che dicono che il suicidio non possa seguire senza una specie di pazzia, essendo impossibile senza questa il rinunziare alla speranza ecc. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice e naturale, ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare»3.

Insomma, il suicidio non è che il frutto consequenziale di una scelta sociale operata dal pensiero imperante nel mondo occidentale a partire dall’Illuminismo:

«Quando le illusioni e le fede fossero scomparse dal suo orizzonte, il moderno fruitore di un’esistenza geometrica e disincantata si sarebbe ammazzato da sé stesso»4.

Nel Dialogo di Plotino e Porfirio il tema è trattato diffusamente: il propugnatore del suicidio è Porfirio; Plotino, suo maestro e difensore della vita, obietta al suicidio seguendo una doppia linea di ragionamento. La prima, è dettata dal pragmatismo:

«[Uccidendoci] non avremmo alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue»5.

La seconda è, invece, più sottile: Plotino invita 1) ad assumere su noi stessi il dolore di tutto il mondo, e 2) nota che l’autoeliminazione è un atto, per quanto eroico, certamente manchevole d’amor proprio: compito del saggio è comprendere che:

«La vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla. […] Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme»6.

Una strana chiusa, rispetto a quanto sostenuto nello Zibaldone, dove il suicidio è visto come il succo della mentalità contemporanea; forse, nel pensiero di Leopardi, è in atto, negli anni di stesura delle Operette Morali, una certa  evoluzione, che culminerà nella poetica de La Ginestra, nella quale viene riconosciuta la «social catena»7 degli uomini riuniti in fratellanza il ruolo d’ultimo baluardo contro la paura e la distruttività insita nella rerum natura.

Insomma: Sartre dice no, Leopardi dice no, ma … E chi scrive che dice? A livello umano sarebbe portato a dire “No”. A livello filosofico, invece dire che non si può escludere il suicidio dall’orizzonte teorico della possibilità esistenziale.

Se il buio davanti a noi è torbido, il pensiero del suicidio non può essere scartato a priori dalla mente (che, anzi, è fondamentale abituare a pensare (il) tutto). Tuttavia, se da un lato è necessario affrontare il fantasma razionale della morte (anche nella sua forma ectoplasmatica suicidaria), dall’altro è doveroso rimarcare che pensare questa possibilità non vuol dire attuarla!

La vita (eterna scelta tra odio e amore) comprende anche il pensiero del suicidio, ma nella pratica esso resta un assurdo e, proprio in virtù della vocazione esistenziale alla scelta, lo è sia dal punto di vista dell’odio che da quello dell’amore. Chi odia, infatti, perché mai dovrebbe liberare della propria fastidiosa presenza gli altri che tanto detesta; e chi ama come può accettare di vivere un’eternità senza quell’alterità che egli così profondamente dilige? L’amore e l’odio sono verità che non si modificano sub speciem desperationis.

Insomma: sì alla teoria, no alla pratica del suicidio. Pensare il suicidio ci fa crescere (e ci insegna a rifuggirlo), praticarlo ci annulla senza, peraltro, risolvere nessuno dei nostri problemi. Ricordatevi dell’esempio di Vittorio Alfieri, dei suoi eroi tragici (che s’ammazzavano all’arma bianca) e del fatto ch’egli morì di malattia.

 

David Casagrande

 

NOTE:

1. W. Shakespeare, The tragedy of Hamlet, act III, scene 1.
2. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1997, p.600
3. G. Leopardi, Zibaldone 183 (23 luglio 1820).
4. R. Damiani, L’impero della ragione. Studi leopardiani, ed. cit., p. 114.
5. G. Leopardi, Operette morali, in: G. Leopardi, Tutte le prose e tutte le poesie, Grandi Tascabili Economici Newton, p. 508.
6. Ivi, p. 509.
7. G. Leopardi, La Ginestra o il fiore del deserto, v. 149, in: G. Leopardi, Canti, in: G. Leopardi, Tutte le prose e tutte le poesie, ed. cit., p. 204.

 

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Salviamo la soldatessa Speranza

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Durante alcune lezioni il professor Umberto Galimberti in antitesi alla figura cristiana della speranza era solito sbottare dicendo «La Speranza è l’ultima figura dell’impotenza cristiana».

Da vero giovane nietzschiano, studente di Filosofia seduto sui banchi di qualche aula di San Sebastiano esultavo per queste bordate tirate a fondo campo in delle uggiose giornate di autunno fatte di alta marea e piogge battenti.

Del resto non serve scomodare il professor Galimberti per dire quanto la “Speranza” come figura sia del tutto svalutata anche nella cultura popolare: famoso è per esempio il detto “Chi di speranza vive disperato muore”. È questa un’immagine abbastanza grottesca che rimanda a tutte le speranze umane che inevitabilmente deflagrano di fronte all’implosione di ogni senso data dalla morte come ben descritto da Heidegger e dagli Esistenzialisti francesi, l’idea in questo caso turpe che la speranza che ha attraversato i nostri corpi mentre aspettavamo Babbo Natale e i regali sotto l’albero, la Felicità, il Futuro, finiscano inevitabilmente nella liberazione del post mortem. La Speranza viene usata come immagine di un mondo che non appartiene a nessuno, un mondo senza litigi. Dove è viva la luce è anche viva l’oscurità, nello stesso luogo dove esultano i vincitori si disperano anche i vinti, il desiderio egoista di mantenere la pace genera la guerra. L’odio nasce per proteggere l’amore. Tutto questo sorgerebbe da un unico male, morbo, chiamatelo come vi pare anche noto come “Speranza”, l’idea di far saltare in aria il Soldato o la Soldatessa Speranza nasce dall’idea di creare un mondo di soli vincitori, un mondo di sola pace, un mondo di solo amore, cose che possono sembrare puramente utopiche, ma che vengono portate avanti da anni da studiosi illustri come il Professor Vero Tarca sui banchi di Filosofia Teoretica, un sogno perfetto per tutta l’Eternità.

È un bellissimo ragionamento, peccato che la speranza − anzi, dobbiamo chiamare col suo nome la nostra Soldatessa − non nasce nell’alveo della cultura cristiana. Diamole un nome, il suo nome è Elpìs. Nell’opera del poeta greco Esiodo Le opere e i giorni essa è tra i doni che erano custoditi nel vaso regalato a Pandora (letteralmente “tutti i doni”), donna creata da Efesto. Pandora aveva avuto l’ordine di non aprire mai il vaso, ma la curiosità fu più forte e la donna aprì il vaso facendo così uscire tutti i mali; soltanto Elpìs rimase dentro perché Pandora riuscì a richiudere il vaso. Solo un dono non riuscì ad uscire dal vaso: la speranza.

Nella mitologia romana l’equivalente di Elpìs è la Spes.

«Solo Speranza, come in una casa indistruttibile,
dentro all’orcio rimase, senza passare la bocca, né fuori
volò, perché prima aveva rimesso il coperchio dell’orcio
per volere di Zeus e gioco che aduna le nubi».

Esiodo non ha mai spiegato il motivo per il quale Elpìs è l’unico dono a rimanere all’interno del vaso di Pandora, ma è davvero interessante come sia proprio Elpìs a rimanere all’interno del vaso, come qualcosa che resta in qualche modo celato e nel contempo ancora inattuato, l’unica cosa che resta in possesso di Pandora che in questo caso simboleggia l’intera umanità.

Elpìs andrebbe recuperata perché in essa alberga l’ottimismo dell’umanità, il suo continuo tentativo di superare i propri limiti cercando di proiettare e tramandare la propria voce al di là dell’ovatta del tempo, provando a spezzare la dimensione entropica dell’universo gettandoci, anche laicamente, oltre il concetto di limite che come ben ci ricorda Heidegger è la morte, l’orizzonte della nostra esistenza.

La Speranza è un concetto che si tramanda ed è un dono che spezza l’illusione di vivere consegnandoci una vita più autentica nella convinzione che il domani sarà migliore dell’oggi, è il motore della Storia collettiva dell’umanità che se non se ne fa carico finisce per negare se stessa. Il Nichilismo ci consegna un mondo che in fondo è destinato al nulla, ci sottolinea che la morte finisce per essere l’implosione di ogni senso e pretende di sollevare il velo di illusioni che abbiamo costruito per continuare a vivere, ma dimentica che l’umanità è anche segnata dall’incedere del progresso, del tentativo di superare i propri limiti e che la vita spesso è un viaggio che possiamo accettare di percorrere sentendoci sconfitti ancora prima di partire o invece provando ad accettarne le difficoltà, le strade che si interrompono, gli ostacoli, ma anche vedendone la bellezza, la gioia e sostenendo che essa resta comunque un’opportunità sempre aperta al nostro miglioramento e alla nostra crescita individuale e come specie.

Come scrive Bloch:

«L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono».

Anche quando perdiamo la fiducia e la voglia di vivere, le difficoltà ci appaiono come insormontabili e il dolore troppo per continuare nel nostro cammino è importante sapere che dentro ognuno di noi come nello scrigno di Pandora la Soldatessa Speranza continua a combattere per noi, continua a sussurrarci che possiamo farcela, essa non può agire attivamente e sta a noi riscoprirla e in qualche modo “salvarla”, conservarla e quando è giunto il nostro tempo consegnarla a chi verrà dopo perché solo in questa condizione si cela il più intimo segreto per una vita più autentica e per la realizzazione di un mondo migliore.

Matteo Montagner

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La vita fa schifo? Prendila con filosofia!

Qualche mattina, non dico tutte, ma qualche mattina capita di sentirsi già stanchi. Come se avessimo corso tutta la notte nella ruota di un criceto. Macché tutta la notte! Forse questa sensazione è proprio legata alla vita di tutti i giorni. Ci sentiamo dei piccoli criceti chiusi in gabbia: a disposizione abbiamo soltanto la ciotola dell’acqua, quella del cibo e una ruota su cui salire. E poi si tratta di correre, correre per meritarci altra acqua, altro cibo, sotto gli occhi compiaciuti di un nostro padrone, di un genitore o di un superiore, di una moglie o di un figlio.

Alla fine sentiamo che tutto quello che facciamo è per gli altri.

Per un briciolo di approvazione, per aspettative o per obbligo. E senso del dovere, questa malattia dell’anima che si attacca come un parassita e ti corrode, lentamente, senza farsi mai sentire di troppo.

Basta.

Basta davvero.

Guardo qualche gabbia a fianco alla mia e vedo che qualche filosofo si è fermato. Qualcuno si è fermato a pensare, altri continuano a correre pensando, altri si sono fermati e basta. Qualcuno ha addirittura aperto la gabbia ed è andato fuori. Altri sono finiti su un tapis roulant che non fa affatto rimpiangere la ruota del criceto: almeno quella non doveva essere pagata mensilmente.

Allora chiedo aiuto a loro, ai filosofi.

Epicuro non se ne preoccupa neanche di queste paranoie, in fondo «quando noi siamo [vivi], la morte non c’è; e quando la morte c’è, allora noi non siamo più». Non dobbiamo nemmeno temere la morte, insomma, il più grande dei mali, perché tutto scompare quando arriverà. Non ci sarà casa che tenga, risparmi accumulati in banca, niente. E di questo se n’è reso conto anche Verga, quando fece barcollare Mazzarò che cercava di portarsi tutti i suoi averi nell’aldilà urlando: «Roba mia, vientene con me!».

Insomma Epicuro è uno di quelli da “bicchiere mezzo pieno”.  Perché per lui quando la felicità è presente abbiamo tutto, quando invece è assente facciamo tutto allo scopo di averla. È benessere del corpo e serenità dell’animo, in pratica tutto ciò che ci allontana dalla sofferenza e dall’ansia.

Non è d’accordo invece la scrittrice giapponese Fumiko Hayashi, che in due versi rovescia il bicchiere: «La vita di un fiore è breve/ solo le sofferenze sono infinite». Insomma siamo ingabbiati senza possibilità di scampo. Condannati a correre senza fermarci.

Eppure Seneca avrebbe qualcosa da ridire: «È dunque felice una vita che segue la propria natura». Al di là della filologia su questa affermazione, assumiamo Seneca come nostro life coach e ci chiederebbe: qual è la tua natura?

Lì si annidano le possibilità della tua felicità, della realizzazione. Mandare tutti a fare… le loro nature, a perseguire le loro passioni. E noi le nostre. Con i nostri modi e le nostre diversità.

Certo ci scontriamo con la struttura sociale. Non possiamo fare tutto come se gli altri non esistessero, non possiamo preoccuparci soltanto del nostro benessere.

Ci pensa Popper a far chiarezza su questo punto: «L’attingimento della felicità dovrebbe essere lasciato agli sforzi dei singoli». La ricerca della felicità è cosa privata, un affar nostro. Spetta invece alla politica occuparsi di ridurre le nostre sofferenze più ampie, dato che la felicità è in ogni caso meno urgente degli sforzi volti a prevenire il dolore.

Al diavolo l’imperativo categorico kantiano allora, secondo cui dovremmo costantemente seguire la legge morale costruita dalla ragione. Per Kant infatti la felicità è un qualcosa d’indefinito, perché un essere umano non potrà mai conoscere a fondo i suoi desideri, cosa lo rende felice.

La filosofia ci insegna anche a dire di no. A rifiutare i pilastri come Kant. In fondo noi viviamo nel qui e ora, l’hic et nunc di cui parlavano i latini. Soffermiamoci su quello che ci sta accadendo attorno, in questo istante. E procediamo per gradi, per piccoli passi. I grandi cambiamenti non sono mai frutto di reazioni immediate. Quello è solo lo scossone iniziale, la suggestione che ci fa scappare, che desta attenzione. Poi è questione di fatica personale, di ricerca incessante e pialla. Pialliamo ciò che non ci piace, lo modelliamo a nostro piacimento.

E allora torna utile la toccante riflessione di Josè Ortega y Gasset «Quando in una strada solitaria l’auto si arresta spontaneamente il conducente, che non è un buon meccanico, si sente perduto e darebbe qualsiasi cosa per sapere cos’è l’automobile dal punto di vista meccanico. In questo caso la perdizione è minima (…) Ma, a volte, resta in panne la nostra vita intera, perché tutte le convinzioni fondamentali sono diventate problematiche (…) L’uomo, allora, riscopre, sotto quel sistema di opinioni, il caos primigenio con cui è stata fatta la sostanza più autentica della nostra vita. Incomincia a sentirsi assolutamente naufrago; di qui l’assoluta necessità di salvarsi, di costruire un essere più sicuro. Allora si ritorna alla filosofia».

E ricordiamoci che, usciti dalla gabbia, potrebbe andare peggio: potrebbe piovere.

 

Giacomo Dall’Ava

 

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“Manchester by the sea”, quando il cinema diventa reale

Non è mai facile parlare o scrivere di un film che si avvicini così tanto alla tua vita. Ti immedesimi totalmente nei personaggi, vivi con loro paura, gioia, dolore. Ti sembra di essere immerso nello schermo, come se il mondo attorno a te sparisse.

Spesso il cinema ci ha abituati a storie di grande fantasia, talmente strane o irreali da risultare magiche e farci sognare. Altre volte, come in questo caso, ha raccontato la realtà, in modo anche crudo, senza tanti fronzoli. Uscito nelle sale un mese fa, Manchester by the sea di Kenneth Lonergan, appartiene a questa seconda categoria e nel vederlo mi è arrivato diretto un pugno nello stomaco. Mi sono sentito spaesato e vulnerabile, come Casey Affleck (Lee Chandler) nel gelido inverno del Massachusetts.

Ho perso mio padre due anni fa. Se n’è andato senza motivo, come accade troppo spesso purtroppo. Uno stupido scherzo se l’è portato via, dall’oggi al domani, senza lasciare il tempo di pensare, di capire, di provare a prepararsi in qualche modo, anche se non si è mai pronti di fronte alla morte. Con sé ha portato via il suo essere padre, marito e fratello, lasciandosi alle spalle una vita che meritava di essere vissuta in pace per tanti anni ancora.

Quando una persona così importante ti lascia, la tua vita cambia completamente, i ricordi si mescolano ogni giorno al dolore, alla rabbia, alla tristezza. Le persone intorno a te, per quanto possano provarci, per quanto possano volerti bene, non riescono a vedere fino in fondo quello che vedi tu. Il cambiamento è così grande e difficile che non ti sentirai più la stessa persona; qualcosa si incrina, si spezza, tocca tutti gli aspetti della tua vita così nel profondo che ti ritrovi ad essere un altro, a volte migliore, a volte peggiore.

Nel suo film Lonergan coglie a pieno tutto questo. La potenza di questa storia sta nella sua dura semplicità perché racconta di un evento che potrebbe accadere a tutti. È un cinema reale, forse come non si vedeva da tanto. La brevità delle scene, il lento susseguirsi delle cose, rappresenta alla perfezione la quotidianità di una famiglia distrutta da un lutto così grave. Fa da sfondo un paesaggio freddo e spoglio, bagnato dall’acqua dell’Atlantico, l’unico protagonista che non sembra soffrire e che cerca di riconciliare gli uomini con il suo abbraccio, chiamandoli amorevolmente a lui.

Casey Affleck è commovente. Un Oscar meritato e voluto per interpretare e forse in questo caso addirittura essere, un uomo che ha perso tanto, con una vita stravolta e tutta da ricostruire; con una grande depressione addosso e tanta rabbia, alternando momenti di estrema dolcezza e fragilità, nel recuperare i rapporti col nipote ormai orfano e con la sua ex moglie, ritrovandola a vivere un’esistenza parallela e distante. Con fatica si scorge alla fine una luce, un tentativo di riprendere in mano le cose, di ricostruire una famiglia, diversa, profondamente cambiata, ma pur sempre una famiglia.

Non è stato semplice vedere questo film, ne scriverne, come detto in precedenza. Ci sono eventi che ti segnano nel profondo e cose che ti rimangono impresse, nonostante tu combatta con tutto te stesso per scacciarle dalla mente. Può un film farti capire cosa stai passando, o cosa ne è della tua vita? Purtroppo, o per fortuna, sì. Come Lee forse ho capito che non esiste una cura per lenire il dolore della perdita, non puoi farci l’abitudine col passare del tempo. Puoi sopravvivere e lo fai, cercando di accettare il fatto che la tua vita ora è diversa, che chi ti ha lasciato non può tornare ma rimane dentro di te, in ogni parte del tuo corpo e del tuo io. In un ricordo triste e felice allo stesso tempo. Pervade le tue ore e i tuoi giorni, senza mai abbandonarti.

Lorenzo Gardellin

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Riflessioni sul rapporto fra abisso e luce

Quante volte nel corso della nostra vita siamo colpiti da sofferenze inevitabili? Amori che finiscono, famiglie disgregate, amicizie lacerate, difficoltà economiche, malattie inguaribili, lutti. Contingenze che si abbattono sulle nostre esistenze, indipendentemente dalla nostra volontà e che ci fanno precipitare in un abisso. E, solo chi ha attraversato la sofferenza, può cogliere quanto tale abisso possa essere profondo.

Dinanzi ai dolori, in particolare a quelli legati alle ferite dell’anima, l’uomo si sente chiamato a cercare e a dare un senso alla travagliata esperienza che sta vivendo. È proprio questa chiamata che rende tale l’umano: la possibilità di inondare di senso le pagine tristi e dolorose della propria esistenza. Gli uomini, infatti, non potrebbero vivere la sofferenza se in qualche modo non le attribuissero un senso. Scrive Natoli: «Il dolore […] si fa experimentum crucis, sottopone a prova l’individuo che lo vive e si erge a controprova del senso dell’esistenza»1. La sofferenza, solo qualora sia inevitabile, diviene prova e per questo occasione di maturazione etica, psicologica e spirituale. La domanda di senso circa il male invita l’uomo ad assumere su di sé la sofferenza. In questo viaggio egli matura, apprende a vivere con una maggiore profondità e una piena consapevolezza la propria esistenza. Nel cammino solcato dalla sofferenza, l’uomo può trovare un senso positivo, caricandola di importanti valenze a livello umano e spirituale. Lo psichiatra Frankl ha individuato tre binomi che caratterizzano l’umano: colpa-pena, sventura-sofferenza, malattia-morte. Tutti noi infatti sbagliamo, soffriamo e moriamo. Alla luce del realismo di questa visione, Frankl sostiene però che ogni uomo può trovare un significato alla propria sofferenza e quindi alla propria vita, proprio nella misura in cui sottrae creativamente spazi di dominio alla colpa, alla sfortuna e alla sofferenza. La luce è dunque sempre a disposizione dell’uomo e questo dipende esclusivamente da come l’uomo sceglie di vivere una sofferenza ineludibile, dunque da quale atteggiamento interiore adotta verso il destino. È fondamentale riconoscere, quotidianamente, all’uomo questa possibilità affinché egli possa cogliere sempre il significato della propria esistenza.

La sofferenza inesorabile è dunque opportunità di crescita e cambiamento. Essa aumenta la sensibilità, la prudenza e al contempo allarga gli orizzonti della comprensione profonda dell’altro e del suo riconoscimento. Inoltre, qualora vissuta con pienezza di senso, permette di attivare quella che Frankl definì “forza di reazione dello spirito” e che oggi possiamo chiamare resilienza. La peculiare capacità umana di riemergere dall’abisso in cui una sofferenza senza senso può trascinare. L’uomo ha dunque in sé tutte le possibilità e le risorse interiori di riemergere dalle tenebre dell’abisso e rivedere la luce. Questo dipende da lui, dal modo in cui affronta la sofferenza e la vive. È dell’uomo infatti l’opportunità di trascendere il dolore. E questo accade quando egli soffre per amore di qualcosa o di qualcuno. Frankl ricorda che nei lager nazisti riuscivano a sopravvivere e a dare un senso alla tragica condizione esistenziale solo coloro che riconoscevano di avere un valido motivo per soffrire: un ideale politico, un valore religioso, una persona da amare, una causa da servire. A questo proposito va ricordata l’esortazione che il medico viennese fece ai propri compagni di baracca nel campo di sterminio affinché riuscissero a strappare un senso alla vita, nonostante la tragedia nella quale erano immersi:

«Dissi loro che in queste ore difficili qualcuno guardava dall’alto, con sguardo d’incoraggiamento, ciascuno di noi e specialmente coloro che vivevano le ultime ore: un amico o una donna, un vivo o un morto – oppure Dio. E questo qualcuno s’attendeva di non essere deluso, che sapessimo soffrire e morire non da poveracci, ma con orgoglio!»2.

È allora che l’uomo può inondare di senso la propria condizione e può cogliere eterni spiragli di luce oltre l’abisso, poiché soffre per qualcosa o qualcuno che sta oltre la sofferenza, qualcosa o qualcuno che la trascende.

Al termine di queste brevi considerazioni sull’abisso della sofferenza ineludibile e sulla possibilità di scorgere la luce oltre l’oscurità, come non riportare le parole che Rilke rivolse al giovane poeta Kappus dopo averlo confortato in modo edificante circa l’importanza di coltivare la speranza oltre le tenebre. Concluse Rilke: «E se vi debbo aggiungere ancora una cosa, è questa: non crediate che colui, che tenta di confortarvi, viva senza fatica in mezzo alle parole semplici e calme, che qualche volta vi fanno bene. La sua vita reca molta fatica e tristezza e resta lontana dietro a loro. Ma, fosse altrimenti, egli non avrebbe potuto trovare quelle parole»3.

Alessandro Tonon

Articolo scritto in vista del quarto incontro Luce/abisso della rassegna Tra realtà e illusione promosso dall’Associazione Zona Franca.

NOTE:
1. S. NATOLI, L’esperienza del dolore, Milano, Feltrinelli, 20105, p. 8.
2. V. E. FRANKL, Uno psicologo nei lager, tr. it di N. Schmitz Sipos, Milano, Edizioni Ares, 200113, p. 138.
3. R. M. RILKE, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 201321, pp. 62-63.

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Educare alla sofferenza tramite il dolore

«Gli uomini sofferenti si rendono simili tra loro mediante l’analogia della situazione, la prova del destino, oppure mediante il bisogno di comprensione e di premura, e forse soprattutto mediante il persistente interrogativo circa il senso di essa» 1.

Il dolore come passività, la pazienza, o sofferenza (da sub più fero, cioè porto su di me), parallelamente, come elaborazione positiva del dolore che gli riconosce un senso e ne fa una fonte di energia e non di depressione. Si pone, così, la “virtù della pazienza”, l’attiva assunzione del dolore come risorsa, consapevole colpo di sonda nel proprio intimo.
Il dolore è cosa diversa dalla sofferenza. Se da una parte c’è una risposta empirica ad uno stimolo nocivo, dall’altra c’è un fenomeno più complesso, la rivelazione della presenza di un qualcosa che non è controllabile.

É proprio nel modo di rispondere alla sofferenza che gli individui, singolarmente ma anche all’interno della comunità di riferimento, definiscono la propria identità, sviluppando così il proprio ethos.

Quella della sofferenza è un’esperienza unica ed intima, una sfida vissuta dalla globalità della persona, che emerge nel momento in cui le colonne del proprio foro interiore sono sotto assedio, minacciate da un qualcosa che è fuori o dentro di sé.
F. Dostoevskij, in Ricordi del sottosuolo, parla dell’essere umano come di colui il quale non rinuncerà mai alla vera e autentica sofferenza, perché è proprio lì che la fonte originaria della coscienza.
La sofferenza può così essere concepita, interpretata e dunque osservata come esperienza della contrazione del proprio, intimo, personale significato e nel riverbero della sua eco.

Parallelamente questa esperienza coinvolge l’individuo in un processo ampio e complesso il quale include la possibilità personale di confrontarsi, di affacciarsi, quasi tendendo una mano, anche al mondo interiore altrui.

Eric Cassel parla di questa nostra dimensione come di ciò che si sperimenta in risposta ad una minaccia del sé, ad un’offesa della propria identità e integrità:

«[…] Essa persiste fino a che la minaccia è superata o l’integrità è stata restituita. La sofferenza determina alcuni sintomi o fenomeni che minacciano il paziente a causa dei sentimenti di paura, dell’incertezza sul futuro e della natura stessa dei sintomi. I significati e i sentimenti di paura sono talmente personali ed individuali che pazienti che hanno gli stessi sintomi possono avere gradi e modi diversi di soffrire»2.

Il linguaggio che descrive e definisce la sofferenza del paziente è differente dal linguaggio abitualmente usato in medicina, infatti

«[…] vi è spesso una dissociazione fra il nostro modo di interpretare il caso e il modo di raccontare del paziente. Questa è una delle cause della nostra incapacità di dare sollievo alla sofferenza. […] Osservando la formazione e il modo di agire dei medici sembra che la persona, con il suo carico di opinioni […], di paure, di fantasie, di comportamenti fuorvianti, debba essere isolata dai suoi vissuti per poter meglio raggiungere l’obiettività della diagnosi»3.

Quando il medico si interessa del corpo e trascura la globalità della persona, diventa incapace di diagnosticare la sofferenza.

Il drammaturgo greco Eschilo, più di 2500 anni fa, parlava di questa dimensione come di uno strumento per educare gli uomini alla giustizia, proprio perché solo grazie alla consapevolezza di questo moto interiore, come risposta e rielaborazione di una forza esterna o interna che ha agito su di loro, saranno posti nella condizione di inclinare la testa, virare lo sguardo, magari solamente per un secondo, che così si stenderà su di loro, portandoli ad una più forte coscienza di sé.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE:
1. Giovanni Paolo II, in un Messaggio in preparazione alla VIII giornata Mondiale del malato, 6 agosto 1999, §.13.
2. E.J. Cassell, Diagnosing suffering: A perspective, “Annals of Internal Medicie” 131 (7), 1999, pp. 529-530.
3. Ivi, pp. 531-534.

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I cipressi di Van Gogh

«I cipressi sono sempre nei miei pensieri, vorrei farne una tela come i quadri di girasoli e mi stupisce che nessuno li abbia ancora fatti come io li vedo. Sono belli come linee e proporzioni e somigliano a un obelisco egiziano. E il verde è così particolare»1.

Queste le parole di Van Gogh in una lettera ad un amico a Saint-Rémy che parlano dei cipressi. Forse sarà un po’ strano ma proprio di quest’albero che lo ha ispirato più volte si parlerà in questo promemoria filosofico.
Un albero che si trova tra terra e cielo che per il pittore olandese rappresenta «la macchia nera in un paesaggio assolato, ma è anche una delle note nere più interessanti fra le più difficili da indovinare tra tutte quelle che si possano immaginare»2.
Le intense e pastose pennellate di Van Gogh possono narrare al meglio la storia di questi alberi così nobili mostrando l’inquietudine di un’anima sulla tela, scelti non a caso per il loro valore simbolico.

Nell’antichità erano simbolo del dio Crono, un inno alla vecchiaia. Se nel paganesimo indicavano la longevità, nel cristianesimo hanno assunto un significato legato alla fede, in veste di speranza nell’aldilà. Tutt’oggi nella maggior parte dei casi ci possiamo imbattere in una fila di cipressi che circondano le porte e le mura dei cimiteri. Questi alberi longilinei si spingono dove l’uomo non può andare: verso i cancelli del cielo, a un passo tra l’uomo e il divino, per metterli in contatto tra loro. Sono i guardiani che vegliano la morte.

Anche nella mitologia il cipresso è simbolo di nobiltà. Il mito narra di un giovane principe di eccezionale bellezza caro ad Apollo, di nome Ciparisso, al quale il dio aveva dato in custodia un cervo sacro dalle corna d’oro. Il giovane aveva gran cura del cervo e lo amava come se fosse domestico: gli aveva adornato il collo con un collare di pietre preziose e fibbie d’argento. Un giorno però il ragazzo, durante un pomeriggio di sole, aveva lasciato libero l’animale di brucare l’erba nel bosco e aveva deciso di andare a caccia con il suo arco addentrandosi tra gli alberi.
Rincorse una volpe nella folta vegetazione, scagliò una freccia e fu in quell’istante che il caso gli tirò un brutto scherzo: Ciparisso colpì proprio il suo cervo. Sconvolto dal dolore il principe raccontò il fatto ad Apollo, chiedendo al dio di trasformarlo in un essere immortale per piangere in eterno il suo caro amico.
Così Apollo toccato da tanta devozione, accettò di esaudire la sua richiesta e mise la mano sulla fronte del principe e lo avvolse nel suo mantello verde. Fu in quel momento allora che Ciparisso guardò il cielo, le sue lacrime divennero piccole foglie verdi scure, i suoi piedi si indurirono nella terra e si trasformò per sempre in un cipresso.

Ciparisso diventò allora l’albero che conosciamo, che ancora dalle sue fronde si spinge verso l’alto, come a cercare quell’amore perduto nel mondo dei vivi. Trova forse un senso infine, dopo aver ascoltato questa storia, quella tensione e quella sensazione di mancanza, o quel senso di tristezza pacata ma serena che il cipresso può dare. Magari la prossima volta che vedrete un cipresso, fateci caso, l’anima ora in pace di Ciparisso vive ancora in lui.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE
1.Cit. tratta dalla lettera 626a di Vincent Willem Van Gogh, Saint-Rémy, febbraio 1890, tratta da “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore
2. Cit. tratta dalla lettera 626a di Vincent Willem Van Gogh

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