“Idda” di Michela Marzano: un viaggio sull’amore, l’identità e la memoria

A fine febbraio, in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo Idda, abbiamo avuto il piacere di incontrare per la seconda volta nella nostra Treviso, presso la libreria Lovat di Villorba, la filosofa e scrittrice Michela Marzano. E non c’è dubbio, la sua straordinaria capacità di trattare l’umano da vicino, cogliendone la vulnerabilità estrema e le fragilità, riuscendo a nominarla con una delicatezza e una sensibilità rara, ha nuovamente travolto e attraversato i cuori del pubblico. La sala era gremita e gli applausi si alternavano a istanti di commozione durante i quali il racconto dell’autrice lasciava spazio alle storie di vita delle persone sedute in sala.

Michela Marzano è docente ordinario di filosofia morale all’Université Paris Descartes e si occupa principalmente delle questioni legate alle tematiche di etica medica, al corpo, all’identità, alla violenza di genere e ai diritti civili. Oltre ai numerosi saggi, ricordiamo il best-seller Volevo essere una farfalla, L’Amore è tutto, è tutto ciò che so dell’amore, vincitore del 62^ premio Bancarella nel 2014 e i due primi romanzi L’amore che mi resta (Einaudi, 2017) e Idda (Einaudi, 2019).

 

Idda è il secondo romanzo che hai scritto. In precedenza ti sei dedicata ai saggi. Da che cosa ha avuto origine questo spostamento dalla precisione della struttura argomentativa propria del saggio alla libertà narrativa della fiction di un romanzo?

Credo che lavorando su questioni che riguardano la vulnerabilità dell’esistenza, la finitezza, le fratture, le contraddizioni dell’umano,  il saggio rappresenti, almeno per me, uno strumento troppo stretto, nel senso che non era più sufficientemente capace di parlare di tutti questi temi.

Quando si scrive un saggio si hanno delle ipotesi, ci si poggia su una determinata bibliografia, si argomenta e si spiega. Il problema, però, è che quando si affrontano le questioni legate alla fragilità al plurale, più che spiegare e argomentare, abbiamo bisogno di mostrare e di raccontare. Già Umberto Eco diceva che quando viene meno l’argomentazione si deve narrativizzare, cioè “narrare per mostrare”, al fine di permettere alle persone di identificarsi in determinate situazioni, che sono poi quelle che a me piacciono, di cui mi piace parlare.  Ho quindi avuto la sensazione, pian piano, che la scrittura narrativa mi permettesse di andare molto più lontano rispetto alla scrittura saggistica.

 

Puoi raccontarci da che cosa è emerso il bisogno di scrivere Idda?

Io direi che ci sono due punti di partenza dietro al bisogno di scrivere questo libro. Da un lato, ciò che mi ha spinto è stata  la domanda esistenziale-filosofica riguardante l’identità personale, cioè: chi siamo quando pezzi della nostra esistenza scivolano via? E quindi, siamo sempre le stesse persone di prima quando cominciamo a non riconoscere più le persone care oppure, quando cominciamo a non riconoscerci guardandoci allo specchio? Questi quesiti hanno costituito la guida direzionale per affrontare e dare un tassello supplementare alla questione dell’identità personale.

Dopodiché, c’è stato l’Evento, che per me è sempre importante, e che, nel caso specifico, riguarda la mamma di mio marito, Renée. Renée si è ammalata di Alzheimer e se n’è andata in punta di piedi ad ottobre dell’anno scorso. Idda nasce dall’urgenza e dall’esigenza di raccontare com’è e che cos’è la vita di una persona che comincia effettivamente a mescolare tutto, dimenticando pezzi della propria storia dove tutto dventa confuso.

Ho voluto raccontare quindi anche quello che ho scoperto confrontandomi con la mamma di mio marito, cioè il fatto che in realtà non è vero che, con una malattia come quella dell’Alzheimer, una persona cambia drasticamente. In realtà, ciò che resta è l’essenziale, l’essenziale di una vita, quegli episodi che ci hanno talmente tanto marcato da costituire la nostra identità, quegli istanti che non scivolano via, quell’affettività che noi teniamo sempre accanto, all’interno di noi anche quando razionalmente ci allontaniamo dagli altri. Quell’affettività e quell’amore che nemmeno l’oblio più profondo riesce a cancellare.

 

Nel libro si parla di quello che ciò che gli specialisti definiscono residui di sé. Come secondo te possono essere definiti questi residui del sé?

Io direi che questi residui di sé possono essere rappresentati dall’affettività, dalla familiarità con le cose care. Annie, la protagonista del libro, talvolta, non riesce più a riconosce Pierre, il figlio, come tale; tuttavia, nemmeno per un istante pensa che Pierre sia un estraneo perché egli resta sempre all’interno della sua sfera affettiva. Anche se a volte Pierre diventa il marito, altre volte il padre, dentro di lei resta quel “qualcosa” che fa sì che, di fatto, quello che c’è stato non scomparirà mai,  quell’amore resterà per sempre.

 

La filosofia in Italia solo in tempi recenti sta tentando di ridurre quella distanza esistente tra la ricerca e lo specialismo filosofico, proprio dei contesti accademici, e le esigenze culturali di un pubblico popolare. Se e in che modo secondo te la ricerca filosofica e la sua divulgazione possono dialogare in modo sinergico?

Ritengo che la ricerca filosofica e la divulgazione dovrebbero dialogare in modo sinergico. Basti pensare al pensiero di Socrate, il quale camminava per le strade della città e dialogava con i cittadini, cercando maieuticamente di far maturare la riflessione, lo spirito critico. Se dunque partiamo dal presupposto che la natura della filosofia è di essere dialogica, il pensiero stesso non può essere rinchiuso all’interno della torre d’avorio. Forse, infatti, dovrebbe dimenticare un po’ di quei tecnicismi che lo stanno facendo soffocare.

Dobbiamo tornare a dialogare e a permettere alla filosofia di essere filosofia, un pensiero alla fine incarnato. Credo che però, in questo, ci sia una grande responsabilità da parte di molti accademici che hanno immaginato di poter fare della filosofia una disciplina da laboratorio. Al contrario, fare filosofia significa trattare le questioni sull’umano, ed è per questo che un tale oggetto di ricerca non lo si può trattare se non con e attraverso gli umani.

 

Obiettivo de La Chiave di Sophia è quello di aprire la filosofia ad un pubblico eterogeneo e neofita, proponendo questioni centrali per l’individuo e connesse fortemente con la vita quotidiana. In che modo secondo te la filosofia può sempre più avvicinarsi a chi non ha mai avuto modo di approcciarsi ad essa?

Ritengo che alla base della filosofia ci sia, nonostante tutto, una grande domanda di senso, una richiesta di strumenti per trovare una propria direzione verso cui andare. Per questo, penso che possa essere anche “facile” avvicinarsi alle persone. Queste, infatti, non aspettano necessariamente delle risposte, anche perché non è proprio lo scopo della filosofia sempre e solo dare delle risposte; al contrario, trovare il modo di porre delle buone domande e poter elaborare degli strumenti critici per poi costruire il proprio futuro: questa è la ragione dell’esistenza del pensiero che poi non è altro che ciò che accomuna ciascuno di noi. Proprio per questo, può diventare “semplice” avvicinarsi al pubblico: in questo momento storico, le persone dispongono di domande di senso e esprimono il bisogno di strumenti capaci di permettere loro di dare un senso alla propria esistenza.

 

Greta Esposito e Sara Roggi

 

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E se il filosofo diventa un blogger? Intervista a Massimo Pigliucci

Nell’immaginario comune il filosofo è stato spesso rappresentato come un uomo intento a speculare e a indagare su realtà lontane, talmente assorto nell’esercizio del pensiero e nella ricerca della verità da perdere qualsiasi ancoraggio alla realtà mondana.
Vi ricordate la rappresentazione di Socrate nelle Nuvole di Aristofane? Sospeso su una cesta a mezz’aria, il filosofo greco se ne sta completamente assorto nel suo pensatoio a scrutare i corpi celesti.
Il distacco fisico dalla terra sembra essere da sempre una caratteristica con cui viene identificata la figura del pensatore. A forza di stare con il naso all’insù, sembriamo tutti, chi più e chi meno, destinati come Talete a cadere nel pozzo, procurando lo scherno di chi ci sta attorno.
Beh, dimenticatevi questa immagine, perché il filosofo 2.0 non solo sembra fare i conti con la realtà forse più di chiunque altro (qualcuno potrebbe dire finalmente), ma pare sia diventato anche un abile comunicatore.
In occasione dell’ultima edizione del festival della letteratura di Mantova abbiamo avuto il piacere di fare qualche domanda a Massimo Pigliucci, docente di filosofia al CUNY – City College di New York, blogger e divulgatore scientifico, per parlare degli attuali sviluppi della filosofia e del suo rapporto con la comunicazione e la divulgazione scientifica nell’era del blogging.

 

La chiave di Sophia si pone fin da principio come obiettivo la relazione tra filosofia intesa come interrogazione e ricerca costante e la quotidianità. Anche al centro dei suoi interessi c’è la divulgazione scientifico-filosofica. Fondatore dei blog Rationally Speaking e Footnotes to Plato, ha poi fondato Scientia Salon, che si occupa di scienza e filosofia e del loro dialogo. Secondo lei, quali sono le difficoltà che si possono incontrare nel tentare di rendere più accessibile ambiti considerati da sempre specialistici e accademici come la filosofia e la scienza?

La divulgazione è sempre stata difficile e sempre lo sarà, indipendentemente dalla particolare disciplina accademica. Non è facile scrivere per un pubblico generale di argomenti di fisica, biologia, filosofia, storia, ecc. Questo perché si devono navigare delle acque turbolente cercando di evitare sia la Scilla del semplificare troppo, perché allora si presenta un’immagine falsa della disciplina di cui si scrive, sia la Cariddi del mantenersi così tecnico che la gente semplicemente perde interesse. Non ci sono formule magiche, ma direi che il semplice fatto di essere un accademico, anche se di grande statura dal punto di vista specialistico, non prepara per nulla allo scrivere per un pubblico generale. A questo aggiungiamoci che ancora oggi troppi dei miei colleghi considerano lo scrivere per il pubblico un’attività secondaria, probabilmente a cui si dedica gente che non è sufficientemente brava a fare lavoro tecnico; e anche il fatto che il pubblico stesso è spesso refrattario all’idea di investire tempo ed energia per capire argomenti difficili, e otteniamo l’attuale situazione, un tantino deprimente. Ma bisogna continuare, la scienza e la filosofia (e la storia, e l’economia, ecc) sono troppo importanti per lasciarle solo agli specialisti.

Con la rivoluzione che ha interessato la comunicazione, si può dire che in parte il blogging abbia soppiantato o quantomeno affiancato la forma tradizionale del giornalismo. Quali sono secondo lei le sostanziali differenze?

Sicuramente il blogging si è affiancato al giornalismo tradizionale, ma non può (o perlomeno, non dovrebbe) soppiantarlo. Il blogging ha reso possibile ai giornalisti stessi di scrivere in maniera più libera e flessibile, ed ha anche portato più accademici a scrivere direttamente per il pubblico. Ma il blogging è sostanzialmente una forma di commento editoriale, non una fonte di notizie. I bloggisti semplicemente non hanno le risorse (e spesso le competenze) per fare, per esempio, giornalismo investigativo, o anche semplicemente per produrre buoni pezzi di cronaca, informati da fatti, non dicerie. Quindi mi auguro che il giornalismo superi presto la sua crisi attuale e trovi un modo di trasformarsi e di crescere, ma senza essere rimpiazzato dai social media. Se lo fosse penso sarebbe una catastrofe per la democrazia.

Lei è anche il fondatore del blog How to be a Stoic, un’interessante guida pratica su come affrontare la vita quotidiana attraverso il sapiente approccio della filosofia stoica. Nel blog si evidenzia l’importanza per la filosofia di conciliare la vita pratica alla ricerca teoretica, aspetto che la lezione degli stoici sembra privilegiare. Come descriverebbe uno stoico “moderno”?

Sì, ho anche scritto un libro con lo stesso titolo, che sarà pubblicato in primavera da Garzanti. Gli Stoici erano filosofi pratici, per loro la teoria è importante solo se guida la pratica in maniera effettiva, altrimenti si tratta solo di disquisizioni “accademiche”, nel senso peggiorativo della parola. Uno Stoico moderno cerca di assorbire e di mettere in pratica le lezioni impartite due millenni orsono, tra gli altri, da Seneca, Epitteto e Marco Aurelio. Due sono i principi fondamentali: primo, ci si deve continuamente chiedere se una cosa è sotto il nostro controllo oppure no. Se lo è, allora vi si dedica tutta la nostra attenzione per farla al nostro meglio; se non lo è, allora smettiamo di preoccuparcene. Per Epitteto, le uniche cose veramente sotto il nostro controllo sono i nostri valori, i nostri giudizi, e le nostre azioni. Di quelli e solo di quelli siamo veramente responsabili. Secondo, lo Stoico moderno – come del resto quello antico – cerca di applicare in ogni circostanza le quattro virtù cardinali: prudenza (nel senso di imparare a navigare situazioni difficili), coraggio (non solo fisico, ma soprattutto morale), temperanza (quindi auto-controllo, specialmente nell’evitare eccessi), e giustizia (nel senso di trattare tutti in modo equo). Sembra facile, ma non lo è. Le faccio un esempio che illustra il tutto: mantenere una relazione positiva e di crescita con il proprio partner richiede prudenza (è complicato…), coraggio (alle volte bisogna esprimere delle opinioni che non saranno bene accette), temperanza (per esempio per non perdere la pazienza in situazioni difficili), e giustizia (il mio partner è un essere umano con gli stessi diritti e dignità che vorrei fossero accordati a me). Ma il mantenere la relazione, alla fin fine, non è (interamente) sotto il mio controllo, perché dipende anche dal mio partner e da circostanze esterne. Ciò che è sotto il mio controllo, però, è la volontà di comportarmi al meglio possibile nell’ambito della nostra relazione. Solo quest’ultimo, quindi, dovrebbe essere il mio obiettivo come Stoico.

Nel corso della sua carriera accademica un tema centrale delle sue ricerche è stato il rapporto tra l’approccio scientifico e la fede. La sua posizione a riguardo si distingue nettamente dal movimento del New Atheism, che lei ha più volte criticato, definendolo un approccio “scientista”. Ci può spiegare brevemente come intende il rapporto tra fede e ragione scientifica?

Sono un ateo, e lo sono stato da quando facevo le scuole superiori. Ciononostante, vi sono molti scienziati che non trovano la loro fede incompatibile con la loro pratica scientifica, e quello che trovo bizzarro nei New Atheists è la loro insistenza quasi dogmatica che l’ateismo in qualche maniera “dimostra” il fatto che Dio non esiste. Il problema è che “Dio” è un concetto vago, che non si può mettere sotto il microscopio, e non ci sono dati scientifici che contraddicano concetti vaghi a mal definiti. Se si insiste, però, che la gente debba scegliere la scienza o la religione, perché le due sono incompatibili, non si rende un gran favore alla scienza. Ciò detto, non vedo ragioni (o evidenza) positive per credere, e non solo, secondo me ci sono ottimi argomenti filosofici per non credere; quindi considero la mia posizione di ateo perfettamente ragionevole. Se la situazione dovesse cambiare, in termini di ragioni o evidenza, allora cambierò idea.

Purtroppo nel pensiero comune la filosofia e la scienza sono ancora considerati rami diametralmente opposti, destinati a non incontrarsi. Anche scienziati e filosofi spesso rimangono trincerati dietro a posizioni dogmatiche che negano ogni tipo di collaborazione tra le due sfere. Nel corso della sua carriera si è occupato anche di filosofia della scienza, genetica e biologia. Qual è secondo lei una prospettiva utile per poter incrementare ed agevolare la ricerca e il dialogo tra scienza e filosofia?  

La mia carriera è iniziata come scienziato, in biologia evoluzionistica, e sono passato alla filosofia solo negli ultimi anni. Ha ragione, trovo molto strana questa antipatia reciproca tra scienziati e filosofi, che non ha né un senso da un punto di vista accademico, né riflette l’evoluzione storica delle due discipline (dopotutto la scienza era un ramo della filosofia fino al diciannovesimo secolo…). Il problema, comunque, non è universale. Ci sono diversi scienziati e filosofi che collaborano attivamente e pubblicano lavori comuni. E ci sono luminari della scienza per i quali la filosofia è importante per la formazione della mente scientifica. In una famosa lettera ad un suo amico, Einstein spiegò che uno scienziato senza cognizione della filosofia è semplicemente un tecnico, uno che si focalizza sugli alberi di fronte a lui ma non riesce a vedere l’intera foresta. Per essere giusti, però, di tanto in tanto sono i filosofi che se la cercano, visto che alcuni hanno scritto delle corbellerie sulla scienza senza evidentemente capirla, ma dandone dei giudizi sommari ben poco utili, anzi dannosi. È ora di superare questa situazione e di lavorare assieme per una visione più organica della conoscenza umana, quella che una volta si chiama “scientia”, cioè sapere nel senso più ampio della parola.

Carlin Romano, giornalista e docente di filosofia, nel saggio America The Philosophical descrive la cultura americana come estremamente ricettiva dal punto di vista filosofico. In base alla sua esperienza, lei è d’accordo con questa teoria? Come viene vissuta la filosofia negli Stati Uniti?

Romano si sbaglia di grosso. Il pubblico americano è uno dei più anti-intellettualistici del mondo occidentale. Io insegno filosofia alla City University di New York, e non le dico quante volte devo spiegare agli studenti perché vale la pena studiare la mia materia. Basti pensare alla seguente statistica: ci sono almeno quattro ottime riviste di divulgazione filosofica in lingua inglese. Tre vengono pubblicate in Gran Bretagna, una in Australia. Eppure la popolazione generale, ed il numero di filosofi professionisti, sono di gran lunga più grandi negli Stati Uniti. No, l’America ha molte cose di cui vantarsi, ma la ricettività filosofica del suo pubblico non è tra queste.

In questi ultimi anni si sta affermando sempre di più il legame tra formazione filosofica e il web 2.0. Basti pensare a personalità come Reid Hoffman, inventore di LinkedIn, o Peter Thiel, tra i fondatori di Facebook, hanno tutti in comune la stessa formazione accademica. Si può parlare secondo lei di un nuovo modo di “fare filosofia” che la rivoluzione digitale avrebbe introdotto?

Una delle ragioni per studiare filosofia all’università è che fornisce una preparazione rigorosa, soprattutto dal punto di vista del pensiero critico e del sapere scrivere in maniera logica e coerente – e queste sono abilità che aprono ampi spazi nel settore lavorativo (non lo dico solo per dire, ho controllato le statistiche: i laureati in filosofia negli Stati Uniti trovano lavoro facilmente e guadagnano bene). Il che spiega perché, per esempio, compagnie come Google o il network televisivo ABC impiegano filosofi ad alti livelli nei loro organici. Ma è anche vero, come dice lei, che “fare filosofia” è divenuto più facile grazie alle nuove piattaforme mediatiche. Per esempio, prima si parlava di Stoicismo: la pagina Facebook del gruppo internazionale di Stoicismo annovera più di 18.000 utenti (ce n’è una anche esclusivamente in lingua italiana, mantenuta da me). Non solo, ma piattaforme come meetup.com rendono facile alle persone con interessi filosofici simili di trovarsi nella stessa città, di incontrarsi, discutere, fare amicizia. La rivoluzione digitale sta cambiando ogni aspetto della nostra vita, inclusa la nostra capacità di fare filosofia.

Come vede la filosofia accademica nel nostro Paese? Secondo lei si potrebbe o si dovrebbe cambiare qualcosa all’interno delle facoltà italiane di filosofia?

Onestamente, non ne so molto. Ho smesso di seguire da vicino l’ambiente accademico italiano dopo che, più di 25 anni fa, ho dovuto lasciarlo perché il nepotismo, la rigidità interna e la mancanza di fondi rendevano pressoché impossibile una carriera universitaria. Purtroppo ancora oggi il consiglio migliore che posso dare a un giovane italiano interessato alla scienza o alla filosofia è di andarsene da qualche altra parte.

Forse la filosofia è rimasta troppo a lungo confinata nelle facoltà accademiche, perdendo il rapporto, a mio avviso essenziale, con chi di filosofia non ha mai sentito parlare. Credo che la sfida sia tutta qui: se dovesse consigliare un libro a chi vuole avvicinarsi allo studio del pensiero, che libro sceglierebbe?

Uno solo? Difficile! Il libro che mi aprì il mondo della filosofia quando ero al liceo fu Storia della Filosofia Occidentale di Bertrand Russell, un capolavoro classico, scritto con verve e senso dell’umorismo. Vedo su Amazon che è ancora disponibile…

 

Lontano dagli stereotipi che la legano a uno statico passato, la filosofia ha davanti a sé infinite possibilità di contaminazione e dialogo con altre discipline. Dalla scienza alla comunicazione e alle nuove tecnologie, spetta a noi raccoglierne la sfida, riconoscendone l’importanza per la nostra cultura, con la fiducia che essa venga compresa anche da chi oggi sembra più refrattario ad ammettere l’imprescindibilità del pensiero umanistico.

Greta Esposito

Se questa è filosofia (seconda parte)

Per riprendere e avviare verso una possibile conclusione un discorso che forse è inconcludibile (e che ho aperto qui), credo che ci si debba ora chiedere come si sia arrivati alla sostituzione della filosofia con la sua filologia e storiografia. Le linee di riflessione attorno alle quali propongo di andare alla ricerca di una possibile risposta, sono essenzialmente due.

Primo. Un costante accrescimento del fenomeno della reificazione, introdotta forse, e forse involontariamente, nel pensiero occidentale dalla logocentrizzazione operata da Platone. Dialettica che è diffusamente descritta da diversi autori, ciascuno nei suoi propri termini ma tutti accomunati dal fil rouge della riduzione dei margini del pensare: dall’heideggeriano oblio dell’Essere all’unidimensionalità marcusiana, dalla francofortese dialettica dell’illuminismo alla benjaminiana riproducibilità tecnica dell’arte, dalla andersiana antiquatezza dell’uomo alla pasoliniana omologazione e mutazione antropologica – sia chiaro, en passant, che nessuno di questi autori è un passatista antimodernista critico di ogni cambiamento e della modernizzazione in sé, la critica è invece verso una certa, questa, modernizzazione.

Secondo. Eppure, il filone di riflessione qui sopra accennato non assume quel certo sviluppo come una necessità, ma come una possibilità – almeno fino ad un eventuale punto di non ritorno. Resta quindi da dar conto del fatto per cui tra quella possibilità ed altre, abbiamo imboccato proprio quella – che stiamo vivendo. E qui si devono fare i conti con un tema troppo trascurato: la brama di potere. Infatti, chi vuole detenere un potere può farlo solo se e quando lo stesso può esercitarsi su cose. Il potere è infatti potere di disporre delle cose, ma per disporne bisogna poterle afferrare e per poterle afferrare devono essere oggetti. Un sovrano come può disporre della popolazione se non riducendola prima ad oggetto, pertanto impersonale, del potere – si noti che la legge designa sempre individualità impersonali? Un medico come può disporre di corpi se non riducendoli prima ad una somma di leggi che lui sa gestire? Un accademico che sia interessato ad amministrare le decisioni dell’accademia come può legittimarsi se non riducendo il sapere ad una somma di nozioni che lui sa amministrare? E possono costoro accettare che una possibile diversa ermeneutica metta in discussione quella certa epistemologia che serve loro per essere legittimati nel possesso del potere? Evidentemente no. Ecco che una certa forma della conoscenza, reificata, nozionistica, si impone come l’unica forma possibile, rappresentando il necessario fondamento epistemologico per il possesso del potere.

Fino a quando non faremo i conti anche con le miserie dei singoli individui, oltre che con la descrizione delle marco-dialettiche in cui viviamo, continueremo a stare nell’equivoco di scambiare per dato di fatto oggettivo quella che invece è una certa modalità di interrogare il mondo – e sia chiaro che il mondo risponde in base a come è interrogato.

E tuttavia questo sembra essere il classico cane che si morde la coda: più si accrescono quelle macro-dialettiche, più diminuisce la capacità di leggere il singolo al di fuori delle stesse, ovvero, la sensibilità di percepire l’epistemologia in cui ci si trova e altre possibili.

Per concludere sgombrando il campo da possibili equivoci, in questi due brevi articoli andati sotto il titolo di Se questa è filosofia, ho cercato di mettere in evidenza la differenza tra il pensare e lo studio del pensato. Differenza particolarmente trascurata in ambito umanistico, arrivando fino alla grottesca indistinzione tra filosofia e sua filologia e storiografia. Con questo però non intendo dire che allora la filosofia sarebbe quella che socraticamente si fa per strada, che necessariamente è al di fuori dell’accademia, oggi prevalentemente nello spettacolo dei mass-media. La differenza che ho cercato di mostrare non ha a che fare primariamente col luogo in cui si fa filosofia, pensiero – da qui poi tutta la retorica della critica alla torre d’avorio, retorica che però si dimentica che anche la strada è una torre d’avorio quando ci si rifugia in essa senza considerare cosa sta avvenendo in essa e tagliando aprioristicamente con tutto ciò che è fuori di essa. Limitandosi alla solo critica della sede, infatti, può benissimo rimanere il peccato originale: il rivolgersi a un’audience, a un pubblico, anziché a un altro se stesso.

La differenza essenziale tra lo studio e/o la divulgazione del già pensato e il pensare, sta nel fatto che la prima cosa ha a che fare con la fruibilità, la spendibilità, mentre il pensare è un discorso per, a se stesso – a cui solo secondariamente accede un altro, potendovi accedere solo perché il modo in cui chi pensa per se stesso si rivolge a se stesso è storicamente simile al modo in cui si rivolge ai propri simili. Nel primo caso quindi il pensato altrui ed il proprio è ridotto a moduli spendibili, presentabili alla comunità scientifica, per la verifica e l’incremento delle citazioni, o al grande pubblico, per l’applauso e la commercializzazione. Nel caso del pensare invece, il pensiero altrui, lungi dall’essere qualcosa di cui bisogna essere in grado di dar conto, è un suono in cui quel che conta sono alcuni frammenti che risuonano in noi, fertilizzandoci, unendosi al nostro suono interiore, e portandoci così a comporre un altro suono, il cui valore e significato risiedono solo in colui in cui quel suono risuona, non essendo quindi sottoponibile ad alcun tipo di misurazione e valutazione. Questa è la via dell’alta cultura e dell’arte.

Quel che regge questo mio discorso quindi è l’intendere la filosofia non come scienza, ma come arte. Va da sé poi che una cosa è fare arte, e un’altra è studiarla o commentarla o divulgarla. Differenza che si potrebbe con semplicità rendere nella distinzione tra cultura e sapere.

Ora, è certamente ingenuo, infantile, assurdo chiedere che la civilizzazione occidentale si riorienti in direzione di quella che ho qui definito come cultura (quindi arte, di cui la filosofia potrebbe essere una manifestazione), anziché, come è ed è sempre più, in direzione di quello che qui ho definito come sapere (quindi scienza, compresa quella umana, di cui filologia e storiografia della filosofia sono esempi).

Tuttavia, chi si occupa di questi temi, dovrebbe perlomeno aver chiara la distinzione tra cultura e sapere. E chiedersi se nei luoghi deputati alla cultura (siano essi le università, i libri, i giornali, i siti, le associazioni culturali…) non si faccia invece nient’altro che sapere.

E se così è, che fine fa la cultura?

Federico Sollazzo

[Immaginer: Google Immagini]