Tra le molteplici declinazioni della parola ” viaggio “

Estate 2022: la prima estate in cui si potrà tornare a viaggiare senza lockdown, mascherine e green pass, “come nell’epoca pre-covid”, ossia in libertà. Ebbene sì, perché viaggiare implica e tende alla libertà: si viaggia a condizione di essere liberi e parallelamente si viaggia alla ricerca della libertà. 

Scrive Walt Whitman in Song of the open road: «Afoot and light-hearted I take to the open road,/ Healthy, free, the world before me,/ The long brown path before me leading wherever I choose»1. Una canzone, questa della seconda edizione di Leaves of grass (1856), che è un inno alla libertà e alla leggerezza calviniana; un invito a intraprendere un percorso di quête – quasi da eroe fiabesco o da protagonista di un Bildungsroman2 e un’esortazione, scandita dal refrain «allons!», a scegliere e ad affermare se stessi. «Allons! from all formules!»: il viaggio, sia inteso in senso metaforico, come esplorazione interiore e conseguente vagabondaggio spensierato e positivo nella strada aperta della vita, sia inteso in senso letterale, richiede “libertà da” e “libertà per”, libertà da ogni regola, da ogni formula, da ogni convenzione, da ogni pregiudizio e libertà per rischiare, per uscire dalla propria comfort zone, per sospendere la propria routine, per salpare da uno «sheltered port» e andare dove si vuole, padroni assoluti di sé, andare «where winds blow, waves dash, and the Yankee clipper speeds by under full sail» (W. Whitman, Song of the open road). 

Nelle fondamenta della cultura occidentale vi è Odisseo, non solo emblema dell’uomo multiforme capace di astuzia pratica ma anche del viaggiatore per eccellenza bramoso di ritornare a Itaca, simbolo di quel “porto riparato” con acque calme, del focolare domestico, della patria e degli affetti, ma al tempo stesso stimolo di sfida e di ricerca continua. Non a caso, in un altro libro miliare per l’Occidente, la Divina Commedia, Dante, colloca Odisseo con l’amico Diomede nell’ottava bolgia tra i consiglieri fraudolenti soprattutto per aver convinto i suoi compagni a intraprendere quel «folle volo», cioè varcare le colonne d’Ercole, che gli sarà fatale. Tuttavia il Poeta non può non ammirare la grandezza titanica dell’eroe omerico, che, ignaro della Grazia del dio cristiano, ha osato fare oltraggio agli dei, cercando di superare i limiti imposti agli uomini e macchiandosi così del peccato pagano di hybris (tracotanza). Lo ha fatto, però, perché mosso dal desiderio di conoscere, che è proprio dell’essere umano: «considerate la vostra semenza/ fatti non foste a vivere come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante, Inf.. XXVI, vv.118-120). 

Odisseo, nuovo Prometeo, diventa simbolo di sfida agli dei, di slancio verso l’ignoto e della profonda dignità della condizione umana, che, ad esempio, la logica dello sterminio nazista, riducendo gli uomini solo ad un numero di matricola, cerca in tutti i modi di annullare, come racconta tra le pagine di Se questo è un uomo Primo Levi, per il quale, in una visione laica del mondo, ricordare il canto di Ulisse tra gli abissi di Auschwitz, che mira a ridurre gli uomini allo stato animale, è un modo per ritrovare la propria dignità, sommersa tra gli orrori del lager. 

Un viaggio orizzontale, geografico, quello di Ulisse cui Dante contrappone un altro viaggio, il proprio, un viaggio verticale, ultraterreno, come l’itinerario della Commedia, teso verso il vertice ultimo, Dio. 

Di molti tipi di viaggio – cronachistici, fantastici e metaforici – è percorsa tutta la Letteratura successiva, dal Milione, resoconto del viaggio in Oriente di Marco Polo dettato a Rustichello da Pisa e riletto da Italo Calvino in Le città invisibili (1972), ai poemi epico-cavallereschi quali l’Orlando furioso, dal Grand Tour, moda settecentesca dell’aristocrazia e della classe media colta, soprattutto inglese e francese, intesa come pellegrinaggio laico verso i luoghi della Storia della civiltà occidentale, al desiderio di evasione e di esotico di fine Ottocento fino al disorientamento dell’uomo novecentesco, smarrito tra i frantumi del proprio io e i tentacoli di alienanti metropoli. 

Abbiamo bisogno di viaggiare perché abbiamo un desiderio intrinseco di conoscere e di conoscerci. Come scriveva John Steinbeck in Travels with Charley (1962), «le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone»; viaggiamo per perderci e ritrovarci, come invita Charles Baudelaire in chiusura di Les fleurs du mal (1857): «au fond de l’inconnu per trouver du nouveau»3; e viaggiamo, forse, come Guido Gozzano in La signorina Felicita, «per fuggire altro vïaggio», consapevoli però, come già ammoniva Orazio nelle sue Epistole, che «caelum non animum mutant qui trans mare currunt»4. Consapevoli, infine, che viaggiare significa anche cambiare, come ci ricorda un virale tormentone basato su alcuni versi di Fernando Pessoa: «Partire!/ Non tornerò mai,/ non tornerò mai perché mai si torna./ Il luogo ove si torna è sempre un altro la stazione a cui si torna è diversa./ Non c’è più la stessa gente né la stessa luce, né la stessa filosofia».

 

Rossella Farnese

NOTE
1. Letteralmente: «A piedi e con cuore leggero mi metto in viaggio per la strada aperta, / In salute, libero, il ondo dinnanzi a me, / Il lungo sentiero marrone di fronte a me che conduce ovunque io voglia» (ndr).

2. Il Romanzo di formazione, un genere letterario che narra la crescita, l’evoluzione, di un personaggio verso la maturazione (ndr).
3. Letteralmente: «nelle profondità dell’ignoto per trovare qualcosa di nuovo» (ndr).
4. Letteralmente: «mutano non il loro animo, ma il cielo coloro che vanno per mare» (ndr).

[immagine tratta da Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Iconoclastia e la scellerata volontà di riscrivere la storia

Esistono delle qualità e delle caratteristiche imprescindibili che non possono mancare affinché un oggetto o un’immagine possano essere definiti artistici: un chiaro senso della composizione, un messaggio visivo forte e contestualizzato, un pensiero, una riflessione o un insieme di emozioni che possono andare ad influenzare, anche profondamente, la sensibilità dello spettatore. L’arte, quindi, va intesa come un’importante forma di comunicazione, che, al pari di letteratura e musica, può veicolare concetti e idee in modo molto rapido e talvolta del tutto esplicito, con il conseguente rischio, sempre presente, di attirare le ire di chi quei concetti e quelle idee proprio non le tollerano e la conseguente iconoclastia. 

Questa intolleranza si sposa quasi sempre con atteggiamenti e ideologie socio-politiche di stampo estremista, che nella lunga storia umana hanno dato prova in numerose occasioni che con la carta dei libri si può fare un bel falò, o che si possono chiudere in gabbia coloro che, con una bella faccia tosta, hanno osato dire qualcosa contro chi detiene il potere, oppure, infine, che con il marmo delle statue si possono fare cose molto più utili, come per esempio altre statue, ma con un soggetto più gradito. In poche parole, uno scenario assurdo e drammatico che però, in realtà, potrebbe non essere così distante come pensiamo. Se, infatti, comunemente si ritiene che queste pratiche appartengano a stati e governi privi di democrazia, in verità capita sempre più spesso di sentire proposte aberranti, in questo senso, anche nei paesi più democratici.

D’altronde, non è passato nemmeno un secolo da quando i regimi totalitari in Europa bruciavano migliaia di libri considerati pericolosi per l’ordine pubblico. Negli stessi anni andavano messe all’indice centinaia di opere d’arte considerate “degenerate”, tra le quali figuravano soprattutto dipinti e sculture di artisti d’avanguardia, che con la loro portata innovativa e il loro dichiarato intento anticlassicista minavano la grandiosa e apparentemente rassicurante ricerca della bellezza classica da parte dei regimi, con la quale si voleva comunicare l’ipotetico ritorno a una grandezza imperiale degna dell’antica Roma. 

Dietro questi comportamenti altro non c’era che una volontà di riscrivere la storia a proprio piacimento: ridicolizzando certe immagini e distruggendo molti scritti si andava così a cancellare quelle pagine di storia non gradite, quei pensieri che offrivano riflessioni potenzialmente pericolose e destabilizzanti, quelle immagini che offrivano un punto di vista diverso con cui guardare la realtà. Ecco allora che lo spettro dell’iconoclastia si scagliava su veri capolavori dell’arte contemporanea, con il raccapricciante tentativo, per fortuna non riuscito, di dare un colpo di spugna a una parentesi storica importantissima per l’evoluzione culturale umana. 

Ma l’iconoclastia, nella storia, non ha colpito tanto l’arte dei contemporanei, quanto più l’arte dei decenni o dei secoli precedenti, le opere appartenenti a un passato disconosciuto e con il quale ci si trova in aperto conflitto, sia per idee politiche che religiose o socio-culturali. È esattamente quello che sta succedendo oggi in alcune aree del Medio Oriente, dove la furia iconoclasta dell’Isis si sta abbattendo su capolavori dell’antichità, privandoci per sempre di siti archeologici di grandissima importanza, come Ninive e Palmira. Questi fatti, guidati da un accecante e inaccettabile fanatismo religioso, hanno sconvolto il mondo occidentale e non solo, tanto da creare un’onda di dissenso generale a livello globale. 

Proprio alla luce di questi gravissimi eventi recenti, dovrebbero fare ancora più spavento e rabbia le numerose proposte che, in questo travagliato 2020 ancora recentemente concluso, hanno cominciato a circolare pericolosamente a partire dagli Stati Uniti in seguito all’uccisione di George Floyd. Al fianco di nobili iniziative quali il movimento Black Lives Matter, infatti, si sono da subito innalzate numerose voci contro importanti opere d’arte del passato, celebri film e capolavori di letteratura, additati come pericolosi messaggi dal contenuto razzista, schiavista, colonialista e atto a celebrare la supremazia dell’uomo bianco. Tra i capolavori finiti all’indice, spiccano il celeberrimo Via col vento, ma anche, incredibilmente, la Divina Commedia. In alcuni musei newyorkesi si vorrebbe spostare in magazzino capolavori d’arte contemporanea per fare spazio a opere di autori afroamericani dalle indubbie qualità, ma dallo scarso valore storico. 

Sì, perché di storia si tratta, e quella ormai non si può cambiare. Il tentativo di modificare (o eliminare) il passato con l’iconoclastia per tenere solo ciò che piace è fallimentare per definizione, e palesa come anche il pensiero delle menti più liberali e attente ai diritti umani possa sfociare, quando si assumono posizioni estremiste e intransigenti, in maccheroniche pagliacciate. Quello che si può cambiare è il presente, il futuro di un mondo che, senza gli esempi portati dalla storia, non può migliorare e non può evolversi. Sono gli artisti afroamericani di oggi a meritare un posto in prima fila nelle gallerie, insieme ai colleghi di origini europee. Prendersela con gli errori del passato non serve a nulla, solo a dimostrare un ridicolo senso di buonismo atto a provocare pietà nei confronti di chi lo promuove. Il verbo chiave per il futuro non è certo rimpiangere, ma piuttosto proporre, progettare. Chi continua a rimpiangere, forse, non ha davvero nulla da proporre. 

 

Luca Sperandio

 

[immagine tratta da Pixabay]

copertina-abbonamento-2020-ultima

Astratto e concreto: splendore e miseria di due aggettivi

Noi siamo come abituati a pensare che le regioni del concreto e quelle dell’astratto non si tocchino; che a parlare astrattamente si dimentichi la realtà, mentre a farlo concretamente si abbia – sulla realtà – presa più efficace, sicura, muscolosa. Così, si finisce per pronunciare la parola astratto quasi con una smorfia sul viso, guardinghi, e di chi parla per astrazioni ci si fida dopo attenta valutazione.

Noi dunque, noi frequentatori della filosofia, saremmo anche frequentatori delle eteree lande dei cumulonembi, delle nubi dell’astrattezza, preoccupati, impauriti dalla realtà del concreto. E, per estensione, la stessa storia della filosofia avrebbe visto passare avanti a sé filosofi troppo astratti, albergatori del cielo della verità, e filosofi più vicini al concreto, ben provvisti di robusto senso del reale. Hegel da una parte, Marx dall’altra.

Ciò che vorremmo è dissolvere la contesa – e con essa il problema, ovvero tentare di mostrare come concreto e astratto siano uno, come in realtà siano lo stesso. E lo faremo così, retrocedendo rispetto ai termini della disputa per guardare all’etimo della parola filosofia. Ora, filosofia è nome greco, ed è la composizione − la felice composizione − di altri due nomi greci: sophia e philia. Cominciamo con il primo.

Philia, solitamente è tradotto con amore. Ebbene, philia non indica esattamente l’amore, e ciò lo testimonia il vastissimo ventaglio lessicale con il quale la lingua greca ricopre la semantica dell’amore, di cui il sostantivo eros è solo l’esempio più noto. Philia denota piuttosto l’affinità, la cura, la vicinanza d’animo – non l’amicizia, qualcosa di più profondo, di più sottile. Philoi sono i compagni di Achille, l’Achille irato dell’Iliade che solo ai compagni concedeva di entrare nella sua tenda; Platone, nella Repubblica, chiama philoe le cagnette, e lo sono per le attenzioni e le cure e i riguardi che prestano ai loro cuccioli. Non amore, neanche amicizia, come detto – affinità, piuttosto, cura: questo è philia.

Sophia, invece, è il sapere. Sophos, il sapiente, è tale perché detiene il sophos, il sapere – appunto. Ma in sophia risuona il sostantivo phos: luce. Dunque, il sapere che è sophia non è la certezza che le cose siano così e non colà, che marzo è primavera e dicembre inverno; sophia è il sapere che illumina – è il sapere della luce, che, come diceva Vico, «in tal densa notte di tenebre» «apparisce» e «non tramonta». 

Ritorniamo ora al sostantivo composto, filosofia, e raffiniamone l’analisi: filosofia non è l’amore per il sapere; filosofia è l’affinità con un sapere, il sapere che illumina; è l’affinità che nasce e matura e vive nel prendersi cura del sapere, che lega indissolubilmente l’uno all’altro, sapere e cura del sapere, al costo di gioie e patimenti – come la cagna con i suoi cuccioli. 

Il nesso che lega la filosofia alla luce è inscindibile, è connaturato alla peculiarità del sapere che rende la filosofia tale: il sapere che illumina. E sciolto l’etimo del sostantivo filosofia, si capisce anche perché un poeta, e filosofo, come Dante nell’ultima Cantica della Commedia invochi Apollo, dio della luce, e non le Muse. Dante abbisogna della luce di Apollo, così che la sua memoria possa restare forte e trattenere la stampa impressale dalla conoscenza più alta, la visione di Dio.

Proseguiamo. Foucault ha mostrato che il termine “conversione” nasce al di fuori del contesto religioso entro il quale tendiamo oggi a relegarlo. È Platone ad impiegarlo nel suo Alcibiade I, e poi con lui le scuole ellenistiche, quelle alessandrine, e giù giù fino al cristianesimo medievale. In Platone “conversione” è l’atto del cambiamento radicale, è il dorso della mano che si volge in palmo, è la curva del tornante che ripiega nella montagna e lascia dietro sé, invisibile, la coda della strada. “Conversione” è il salto da uno stato ad un altro, l’irrevocabilità di un gesto che si assume totalmente. Il convertito alla causa del veganesimo, ad esempio, assume su di sé il sapere che ora patrocina: ora egli difende una visione delle cose che prima non era la sua.

Lo stesso vale per il convertito alla causa della filosofia, e cioè a quel sapere che delle cause va in cerca. Il filosofo è un convertito. Facciamo un esempio.

Nel Gorgia, Platone fa dire al suo Socrate che ognuno è tale e quale al sapere che apprende. Cosa dicono le parole di Socrate? Dicono che il sapere converte. Cioè dicono che, banalmente, l’ingegnere pensa da ingegnere: calcolando; il commerciante da commerciante: cercando profitto; il sofista da sofista: gonfiandosi di paroloni e formule vacue senza proferire alcuna verità. Come pensa il filosofo?

Filosofo è chi già abita la teoria. E perciò è già immerso nella prassi, e in particolare quella prassi che cerca lo sfondo di senso che ci circonda. Il suo vivere è convertito a partire dalla teoria che lo illumina. Non è un caso che Spinoza abbia intitolato il suo libro di metafisica, Etica. È nell’ethos, nell’abito, nel comportamento che l’astratto getta la sua ombra, e lì risiede legato in intima unione col concreto. 

Un’ultima nota: Spinoza sapeva bene che quest’unione è difficile da vedere, ed altrettanto difficile da incarnare. Ma non desisteva. Lui che nasconde dietro a quel sorriso grandioso la protezione migliore al dolore, alla vita: la pace interiore, riflesso del collidere di teoria e prassi. Questo apice si chiama virtù, strada tanto ardua quanto felice è la meta, poiché «tutte le cose sublimi sono tanto difficili quanto rare».

 

Giovanni Fava

Giovanni Fava, 1996. Studente di Filosofia a Trento. Amo libri e passeggiate in montagna.

 

[Photo Credit: Johannes Plenio via Unsplash.com]

banner-pubblicitario-La chiave di Sophia N6

Un poeta “eracliteo”: Mandel’štam legge Dante

Quando si affrontano i grandi autori della letteratura italiana, gettare nel contempo uno sguardo, anche fugace, ai commenti che essi hanno ispirato al di là dei nostri confini nazionali costituisce un’esperienza utile e sempre interessante, perché permette di capire come i nostri “giganti” sono recepiti e interpretati altrove. Vedere cose a noi note attraverso gli occhi altrui ci consente di apprezzarle da prospettive nuove e inaspettate; anche ciò con cui abbiamo molta familiarità può in tal modo svelare tratti inusuali o dettagli che avevamo tralasciato e colpirci come se fosse la prima volta. A chi stesse studiando Dante, per esempio, potrebbe tornare utile la lettura delle Conversazioni su Dante di Osip Mandel’štam, che rappresentano un vero e proprio «classico della critica letteraria del Novecento» e che sono state riedite di recente.

Molti si staranno chiedendo chi sia Osip Mandel’štam. In breve, possiamo dire che Mandel’štam (1891-1938) fu un poeta russo, fiero della propria ebraicità, che appartenne al movimento letterario postsimbolista noto come acmeismo, di cui fu in qualche modo il «primo violino». La sua fu una vita raminga, itinerante, randagia, fatta di traversie, ristrettezze e vagabondaggi (Remo Faccani lo definisce «un emigrato interno, un esule in patria»). A causa di alcuni suoi componimenti sferzanti e quindi “scomodi” per il regime staliniano, venne arrestato due volte e infine deportato con l’accusa di “attività controrivoluzionaria”. Morirà a Vladivostok, in un campo di concentramento di transito, prima di giungere al lager della Kolimà a cui era destinato.

L’amore di Mandel’štam per Dante era, senza mezzi termini, “viscerale”. Chi ebbe modo di conoscere Osip finiva inevitabilmente col notare che egli «ardeva tutto per Dante». La poetessa Anna Achmatova ricorda ad esempio che Mandel’štam «recitava la Divina Commedia giorno e notte» (una passione, quella per Dante, che la Achmatova condivideva, se è vero che, quando le chiesero se avesse mai letto Dante, ella rispose: «Non faccio altro che leggere Dante!»). Da parte sua, il giovane poeta Sergej Rudakov, mentre scambiava due chiacchiere con Mandel’štam, gli disse: «tutto ciò che attiene alla [tua] poesia ha girato intorno alla Conversazione su Dante, […] tutto ha guardato ad essa». Tutto ciò che Mandel’štam aveva prodotto, secondo Rudakov, rinviava quindi, da ultimo, alla Divina Commedia. A quest’osservazione, Mandel’štam replicò scherzosamente: «Sì, me lo dicono tutti: mi dicono che se ne rende conto pure chi non conosce Dante!».

Il Dante venerato da Mandel’štam è tuttavia molto diverso da quello a cui siamo abituati. Mandel’štam stesso tiene a distinguere il “suo” Dante da quello di «generazioni e generazioni di scolastici, di striscianti filologi e di pseudobiografi». «Sottrarre Dante alla retorica scolastica» scrive Mandel’štam «equivale a rendere un servizio non da poco a tutta la cultura europea». Egli dichiara anche: «è indispensabile dar vita a un nuovo commento dantesco, che rivolga la faccia al futuro e metta in luce il legame dell’autore della Commedia con la nuova poesia europea».

Secondo Mandel’štam, quindi, Dante non è stato ancora veramente compreso, e questo nonostante tutti gli studi che sono stati scritti sul sommo poeta: «presi dalla terminologia teologica, dalla grammatica scolastica e dall’ignoranza allegorica, abbiamo perso di vista le danze sperimentali della Commedia dantesca, e abbiamo conferito a Dante una dignità conforme al modello di una scienza defunta, mentre la sua teologia era un vaso di dinamica». Per Mandel’štam, Dante guarda sì alla cultura del passato, ma non certo per riproporla pedissequamente e quindi in modo sterile; piuttosto, egli se ne appropria per poi rielaborarla, reinterpretarla, rinnovarla. Mandel’štam è infatti dell’opinione che Dante veda «nella tradizione […] non tanto il suo lato sacro, accecante, quanto un oggetto da valorizzare per mezzo di un ardente reportage e di una sperimentazione appassionata».

Certo, Mandel’štam riconosce che la Divina Commedia è «un’orgia di citazioni» classiche, e che leggere il poema dantesco è come fare «una passeggiata […] lungo tutto l’orizzonte dell’antichità». Ma il poeta russo tiene comunque a sottolineare che «Dante è stato scelto come tema di questa conversazione non perché io volessi concentrare l’attenzione su di lui con il sottinteso invito ad apprendere dai classici». L’impressione che si ricava dalla lettura delle Conversazioni è che Mandel’štam voglia fare di Dante non tanto (o non più) un rappresentante della tradizione filosofico-teologica occidentale, ma un anticipatore della temperie culturale contemporanea. Il Dante descritto da Mandel’štam, più che essere vicino a Platone e ad Aristotele (o a Tommaso d’Aquino e ai filosofi arabi), sembra infatti prendere posto tra Eraclito e Nietzsche.

Per capire perché Mandel’štam faccia di Dante un poeta “contemporaneo” ed “eracliteo”, bisogna comprendere che cosa significhi per lui “poesia”. Per Mandel’štam, la poesia è soprattutto creazione, «cambiamento», «gioia del divenire» (non dimentichiamoci che “poesia” in greco antico si dice poiesis, termine che significa anche “creazione”, “produzione”). Mandel’štam scrive che la poesia è un «flusso d’energia», un «campo d’azione» composto di «onde semantiche», «onde-segnali», che «svaniscono, una volta eseguita la loro funzione: quanto più sono intense, tanto più sono arrendevoli e tanto meno sono inclini a trattenersi».

Ebbene, Mandel’štam ritrova in Dante tutti i caratteri tipici della propria concezione della poesia: secondo il poeta russo, Dante è infatti «il più grande e indiscusso signore della materia poetica convertibile e in via di conversione, il più antico e al tempo stesso il più vigoroso direttore d’orchestra […] d’una composizione poetica che esiste unicamente sotto forma di flussi di onde, sotto forma di impennate e bordeggi».

Mandel’štam ritiene che una delle “specialità” di Dante sia proprio la «metafora eraclitea», ovverosia una figura retorica «impegnata a sottolineare con tale forza la transitorietà di un fenomeno e a cancellarlo con tali svolazzi, che alla pura contemplazione, dopo che la metafora ha fatto la sua parte, non resta in sostanza di che alimentarsi». È proprio questa capacità di ritrarre ed esaltare ciò che è caduco, effimero e transeunte che fa sì, per Mandel’štam, che la «contemporaneità» di Dante sia «inesauribile, incalcolabile e inestinguibile».

 

Gianluca Venturini

 

BIBLIOGRAFIA:

O. Mandel’štam, Conversazioni su Dante, a cura di R. Faccani, trad. di R. Faccani e R. Giaquinta, Il melangolo, Genova 2015 (1a ed. orig. 1967)

[L’immagine è una rielaborazione digitale di immagini tratte da Google immagini]

 

banner-pubblicitario_abbonamento-rivista_la-chiave-di-sophia_-filosofia

L’Italia è un’invenzione

All’anagrafe: Italia, anni centocinquantasei, faticosamente impastata lungo il tortuoso Ottocento, incastonata tra moti, cospirazioni e un “Quarantotto” sulle spalle; n° di spedizioni con mille uomini: una, n° di re: quattro in rima alternata Vittorio Emanuele – Umberto – Vittorio Emanuele – Umberto, di cui uno morto per febbre, uno ucciso, uno abdicato, uno esiliato per cessazione di attività monarchica su suolo patrio; perdite: «due guerre mondiali, un impero coloniale, otto campionati mondiali di calcio consecutivi» (cit. rag. Ugo Fantozzi). Prima repubblica “era tutto un magna magna”, seconda repubblica “è tutto un magna magna”, la terza ancora deve nascere ma non parte molto avvantaggiata.

Amata dai turisti che cantano O’ sole mio a Venezia, odiata dagli autoctoni solo in occasioni precise che non devono coincidere con le partite della nazionale di calcio, rugby, pallanuoto, bocce, freccette, pesca, con le manifestazioni di orgoglio etnico e di presunta supremazia sulle altrui culture, in pratica odiata solo durante il suo compleanno, durante il compleanno del suo vessillo tricolorato e sporadicamente quando qualcuno o qualcosa pretende la propria indipendenza.

“Si stava meglio sotto il doge” ha la stessa valenza di “Si stava meglio sotto Vespasiano”, in entrambi i casi alzi la mano chi se lo ricorda: nessuno? Ma proprio nessuno? Addio al record di persona più longeva in assoluto, mi avete illuso.

Cos’è l’Italia, cosa sono gli italiani? Le divisioni ci sono, le mentalità sono diverse e possono cambiare da Bolzano a Siracusa (millecinquecento km, n.d.r.), cambiano le storie, le origini di ogni piccola landa. Paese di campanili, campanilismi, campanari – fra’ Martino spostati che ci siamo noi –, non è solo una questione nord-sud, non è solo Milano contro Napoli, ma Pisa contro Livorno, Legnano contro Busto Arsizio, persino le diverse contrade di una stessa città come Siena possono ritrovarsi goliardicamente o meno l’una contro l’altra. Gli italiani mal sopportano il proprio vicino di casa, che sia dirimpettaio, confinante o condomino, poco importa: è genetico, è storico.
Cambiando l’ordine di frazionamento in unità più piccole, la filosofia di base non cambia.

“L’Italia è un’invenzione, una semplice espressione geografica, un artefatto di pochi (cit. diverse persone che oggi sono storici di professione, domani saranno allenatori, o burocrati, o esperti in medicina, o nutrizionisti o costituzionalisti… dei jolly insomma), cosa c’è di vero nel disincanto delle nostre radici? Potremmo parlare per ore della lunga e travagliata vita che ha attraversato i secoli a cavallo della nostra penisola, un intreccio di civiltà mescolate più volte con ingredienti giunti da lontano, ma la parola nazione intesa con il significato odierno, la troviamo solo dopo l’assolutismo, ed è un fatto europeo, non unicamente italiano.

Le nazioni sono state inventate? Certamente, l’Italia è un’invenzione, così come la Francia, la Germania, la Spagna, la Catalogna, il Regno delle Due Sicilie, la Repubblica di Venezia; sono invenzioni anche i nomi delle città, sono invenzioni le tradizioni, i culti, gli idiomi, i proverbi, i riti, le liturgie. Tralasciando l’ambiente, le conformazioni geologiche e per certi versi il clima, è difficile non inciampare in qualcosa inventato dall’uomo con lo scopo di legittimare la propria appartenenza al mondo o cementare i legami con altri uomini: animali sociali ma poco socievoli.
Verrebbe da dire che ci associamo con lo scopo di detestarci e tutto volgerebbe nel pessimismo fatalista – artificiale anch’esso – che poniamo sopra di noi in un conglomerato astratto manovratore dei nostri destini.

Posso dire di aver visto l’Italia da lontano, storicamente e geograficamente.
Esisteva in un sogno nato tra i giovanissimi dopo aver letto la Divina Commedia oppure I promessi sposi, dopo aver ascoltato il Nabucco con il famoso Va, pensiero, opere capaci di accrescere, attraverso i complessi meccanismi della suggestione, il sentimento che diede vita al Risorgimento.
Dall’altra parte del mondo ho capito che l’Italia, con tutte le sue differenze, sembrava molto casa mia. Cambiare città come cambiare stanza, in ogni luogo facce amiche, una lingua alla base che sfuma in accenti e dialetti da ascoltare lentamente per comprenderli più facilmente.

Non è poi così male questa invenzione piena di difetti, con una Storia certamente da rivedere, con pagine ancora bianche o cancellate, contraddizioni a non finire, con un popolo che se spendesse meno energie per la pigrizia culturale, per la troppa rivalità malata figlia più del pregiudizio che dell’esperienza, avrebbe di che vantarsi entro i suoi confini.

Alessandro Basso

Il bacio, “scrigno dell’essere”

Filosofia del bacio: si intitola così un breve ma interessante libretto di Franco Ricordi pubblicato qualche anno fa da Mimesis. Certo, sulle prime si potrebbe rimanere interdetti: che cosa ha mai a che fare la filosofia, una forma di sapere apparentemente così arida, astratta e speculativa, con la vivida concretezza passionale racchiusa in un bacio?

Eppure l’archetipo del bacio (e dell’amore che travolge ogni limite), se ci si pensa, è stato forse illustrato e descritto proprio da un uomo che, oltre che sommo poeta, è stato anche un filosofo di eccezionale statura: Dante Alighieri. Ci riferiamo, naturalmente, al celebre episodio di Paolo e Francesca, i due sfortunati amanti che Dante incontra nel suo viaggio ultraterreno (siamo nel canto V del­l’In­ferno).

I famosi versi del poema dantesco possono introdurre bene al motivo di fondo del volumetto di Ricordi (ma moltissimi sono poi gli autori a cui egli fa riferimento nel corso della trattazione). Secondo l’autore, infatti, il bacio «non è soltanto un atto che si possa considerare estetico», ma ha anche un «senso etico», nonché delle implicazioni che – usando un termine “tecnico” e impegnativo – potremmo definire “ontologiche”. In altri termini, per Ricordi il bacio non è soltanto un’intensa fonte di piacere, ma anche la piena espressione delle potenzialità insite nell’essere.

In primo luogo – dice l’au­to­re proprio in apertura del suo libro – «il bacio in bocca si può considerare come un fondamentale atto di libertà», che è in grado di schiudere completamente agli umani l’ac­ces­so alla “gioia dell’essere” (non importa – tiene inoltre a sottolineare Ricordi fin dalla prima pagina – che a scambiarsi un bacio siano un uomo e una donna o due persone dello stesso sesso). Atto di libertà, il bacio, che risulta difficile inquadrare come “peccato”, anche se a volte ci viene esplicitamente presentato come tale. Tanto più che esso, secondo Ricordi, è addirittura «una delle fonti più belle e più importanti della [stessa] filosofia». In questo senso, se Dante è arrivato «a una concezione del­l’A­mo­re in quanto motore e chiave dell’universo», diventando così «il maggior teorico del­l’a­mo­re in senso filosofico e metafisico» è forse proprio perché è partito con il considerare e il descrivere il bacio tutto terreno di Paolo e Francesca, che – sostiene Ricordi – «è talmente bello, talmente importante, profondo e pieno di significato anche etico, da non poter essere rappresentato come semplice peccato».

In seconda battuta, si pensi alle capacità generative e trasformatrici proprie dell’amore: tutti sanno che le persone innamorate cambiano, vengono trasformate e “ricreate” dal loro amore quasi fino al punto di non sembrare più le stesse. Non va inoltre dimenticato che il bacio prelude all’atto amoroso, «quindi all’essere di noi tutti, alla nostra nascita, vita e morte». E se nelle favole il bacio è in grado di ridonare la vita, di spezzare incantesimi o di trasformare i rospi in principi, anche nella realtà la “respirazione bocca a bocca” «può essere intesa come una sorta di “bacio della vita”, un soffio che restituisce l’anima a chi, verosimilmente, potrebbe essere lì lì per perderla».

Tenendo presente tutto questo, Ricordi, sfruttando e capovolgendo uno spunto heideggeriano (la morte come «scrigno del nulla»), propone suggestivamente di considerare il bacio come il vero e proprio «scrigno del­l’es­se­re».

Per dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la fondamentale connessione sussistente tra bacio e filosofia, Ricordi analizza non solo la “quintessenza” del bacio (espressione che compare come titolo del primo capitolo del libro), ma tutte le sfumature che esso ha assunto al­l’in­ter­no della cultura occidentale, spingendosi alla ricerca di quella che egli definisce un’eti­ca del bacio. In particolare, tra tutte le declinazioni possibili di esso, troviamo due estremi: da un lato il “bacio etico” compiuto nella cerimonia matrimoniale, che ha la funzione di ratificare la fedeltà dei coniugi (il cui prototipo, secondo Ricordi, è il bacio di Otello e Desdemona) e, dal lato opposto, il “bacio libertino” o “rubato” (prerogativa dalle avventure amorose di Don Giovanni).

Il saggio di Ricordi non si limita comunque a essere una semplice rassegna fenomenologica o una ricognizione tipologica del bacio e del baciare, ma intende anche invitare a riflettere sui cambiamenti di mentalità e quindi sul diverso modo di rapportarsi al bacio da parte della società umana nel corso della storia: ancora negli anni ’70 – afferma ad esempio Ricordi – il bacio era considerato un peccato la cui gravità era direttamente proporzionale alla durata dell’atto, mentre ora è considerato una profonda espressione d’affetto o tutt’al più un innocente preliminare.

Al fine di valutare le evoluzioni e i cambiamenti a cui il bacio è stato soggetto con il passare delle epoche, la parte centrale del libro si divide in tre sezioni: Il bacio nell’epoca tragica, dove a tema è il bacio nell’antichità classica (ma si parla anche di Foscolo, Leopardi, Nietzsche, Kleist); Il bacio nel­l’e­po­ca teologica, la quale – al contrario di quanto si potrebbe pensare – è proprio essa l’“epoca d’oro” del bacio in bocca; e infine Il bacio nell’epoca economica, dove lo sguardo si spinge nella contemporaneità, per tentare di valutare e comprendere il «degrado nichilistico in cui [versa] il bacio d’amore nella nostra epoca». Chiude il libro il capitolo intitolato La possibilità etica del bacio, in cui Ricordi tira le fila della propria indagine, giungendo alla conclusione che il bacio non è soltanto un «contatto carnale» o il «simbolo […] della vita erotica dell’uomo», ma anche uno «straordinario viatico etico e morale» e quindi «uno degli atti più alti della vita».

Nel bacio, infatti, si incontrano e si fondono assieme afflato mistico (e dunque religiosità) e sensualità, istinto di conservazione (e dunque biologia) e poesia: se Heidegger avesse potuto leggere il libro di Ricordi, avrebbe ben volentieri parlato anche del bacio (oltre che della “brocca”) come di una “quadratura” o “quaternità” (Geviert) in cui si incontrano e congiungono «la terra e il cielo, i divini e i mortali». Alla luce di questo intreccio, appare chiaro che più che singole discipline settoriali, è forse solo la filosofia quel sapere che è in grado di poter offrire una panoramica dell’essenza intima e delle manifestazioni del bacio senza rischiare di impoverire tale fenomeno, in virtù della possibilità che solo essa ha di poter comporre e tenere insieme, grazie al suo sguardo inclusivo e onniavvolgente, tutte le prospettive e le dimensioni che in esso sono racchiuse.

Oltre alla prospettiva storica, un altro aspetto su cui l’autore vuole concentrare l’attenzione è la straordinaria capacità, propria del bacio, di riuscire a conservare intatto il «mistero della [sua] bellezza» anche al giorno d’oggi, in cui pure si assiste a una «infinita spettacolarizzazione», «reificazione» e «mercificazione» del bacio in bocca e degli atti dell’amore. Secondo Ricordi, tale circostanza è un segno inequivocabile dell’ine­sau­ribile capacità di significazione propria del bacio (e quindi dell’amore che esso esprime), che pertanto non risulta rinchiudibile all’interno di un “sistema” che ne sveli una volta per tutte la natura, dato che esso dimostra costantemente di essere costitutivamente aperto a nuovi, infiniti e imprevedibili sviluppi – proprio come la vita e la libertà di cui esso è simbolo.

 

Gianluca Venturini

 

[Immagine tratta da Google Immagini, Paolo e Francesca di William Dyce]

abbonamento2021

“Fatti (non) foste a viver come bruti”

Il titolo è deliberatamente preso in prestito dalla Divina Commedia, canto ventiseiesimo, località Inferno.
Non è mia intenzione analizzare Dante, né sviscerare ulteriori chiavi di lettura dalle sue opere, mi è semplicemente balzata agli occhi quella frase pronunciata da Ulisse per esortare i compagni, rientrati in patria dopo le mille peripezie degne di un’Odissea, a intraprendere l’ultima impresa: attraversare le Colonne d’Ercole e violare così i confini del mondo.

«O frati, che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza»¹.

Leggere e rileggere quella frase, estrapolata totalmente dal suo contesto e dalle dinamiche narrative, mi ha convinto dell’esatto contrario.
Noi siamo nati come “bruti”, e dobbiamo prenderci la responsabilità di ammetterlo.

Viviamo in un mondo dove sempre più spesso cerchiamo di scindere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è male, cosa si può e cosa non si può fare/dire/vedere.
Ci allontaniamo dall’oscurità per abbracciare la luce che avvolge le cose immacolate, senza renderci conto della cecità che il fulgore provoca, senza capire che la penombra non è sinonimo di ambiguità ma strumento per vedere meglio le cose.

“Bruto” vuol dire privo di ragione, violento… e noi di natura spesso lo siamo, non solo fisicamente, ma anche verbalmente e, negli ultimi anni, virtualmente.
Il web è il ricettacolo di commenti cattivi, ma sono lo specchio di ciò che, almeno a parole, vorremmo fare: “Se ci fossi stato io”, “Se ci fosse stato lui”, “Io avrei fatto così”; o vorremmo essere: “Se io fossi il capo del mondo”, “Se fosse successo a me”.
Queste frasi-matrice, state pur certi, undici volte su dieci si completano con una sorta di piccola apocalisse, o una vendetta stile Rambo.

Inizialmente davo colpa alla sola ottusità, ma scavando più a fondo mi sono reso conto che tutto ciò avviene per scarsa conoscenza della violenza stessa.
Pensiamo, crediamo, vogliamo, facciamo finta di essere violenti perché non sappiamo cosa voglia dire violenza, non perché non esista, ma perché è argomento tabù.

Negli ultimi vent’anni abbiamo passato il tempo a prevenire, a proteggere, ad evitare, abbiamo insomma contribuito piano piano a costruire, attorno al nostro piccolo mondo di benessere, una sorta di muro ovattato che ci impedisce di vivere la realtà così com’è.

Tutto molto bello, tutto molto pericoloso.

Succede infatti, che ad un certo punto, qualcuno o qualcosa, quel muro d’ovatta riesce a sfondarlo: ultimamente ci sono riusciti gli attentati terroristici.
Il terrorismo è sempre esistito, l’Italia ne sa qualcosa: la quantità di piombo sparso sulle strade ha dato il nome a un decennio, eppure è solo oggi che raggiungiamo punte di panico incontrollato per il primo bagaglio non custodito lasciato in un luogo pubblico.
E’ solo oggi che leggiamo, complice un giornalismo sensazionalistico irrispettoso, di finte bombe disinnescate dagli artificieri solo per sentirci più sicuri.

Non sto suggerendo di rimanere indifferenti davanti al male, sarebbe comunque un mattone ovattato in più, ma di riscoprirne l’esistenza, e risulta estremamente necessario, vi spiego il perché.

Il parallelismo è azzardato, ma avete presente come funziona lo schema di una fiaba?
C’è un protagonista “buono” e un antagonista “cattivo”; il buono verrà messo alla prova dalla vita stessa che lo farà precipitare in una condizione difficile, ma solo così potrà forgiare il suo spirito per poter sconfiggere il cattivo.
Oggi è come se avessimo esiliato nel dimenticatoio i cattivi – perché diseducativi, portatori di disagio al bambino ecc. – per rendere felici i protagonisti di una storia che si concluderebbe a pagina 2, senza aver lasciato nulla di consistente al lettore.

Abituarsi alla nostra natura di “bruti” infine non ci condanna ad esserlo per sempre, non ci autorizza a compiere danno contro altre persone, può servirci a conoscere meglio ciò che siamo, a capire quali sono i nostri limiti per poterli superare.
Può aiutarci a decidere cosa vogliamo o non vogliamo diventare.
Solo in questo modo, secondo il mio punto di vista, possiamo maturare.

Alessandro Basso

[Immagine tratta da Google Immagini]

NOTE:
1. Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI, vv.112-120