La notte eterna di Noa: per una società della cura e del non abbandono

Noa aveva solo diciassette anni quando prese la decisione definitiva di morire, come aveva riportato nel suo ultimo post del suo profilo Instagram.

Per Noa quell’esistenza non rappresentava nemmeno più una mera sopravvivenza. La vita le era diventata tanto pesante da non poter più trovare la forza, da sola, di sostenere quel macigno che, anno dopo anno, la stava schiacciando. “Ho deciso di lasciarmi andare perché la mia sofferenza è insopportabile. Respiro, ma non vivo più”. Queste le parole che quasi tutti i quotidiani hanno riportato e che si fanno portavoce della lacerazione interiore, della profonda sofferenza che Noa si portava dentro e con cui non riusciva più a vivere.

“Respiro ma non vivo”. Un respiro dopo l’altro, nel suo processo naturale di inspirazione e espirazione. Solo ossigeno che riempie i polmoni. Un’esistenza delimitata dal suo mero decorso biologistico. Un decorso che è proseguito fino al momento in cui Noa annunciò la decisione definitiva di lasciarsi morire, rinunciando a nutrirsi ed idratarsi. Per porre fine a quell’atto respiratorio che costituiva ormai l’unico elemento che la teneva in vita. 

Aggredita a soli undici anni e successivamente violentata a quattordici, non riusciva a sopportare tutto quel dolore che, ancora bambina, aveva travolto il suo corpo e la sua identità all’improvviso. “Mi sento ancora sporca”, diceva. Impossibile mettere un punto e ricominciare da capo. Prima la depressione. Poi l’anoressia, quel mostro che l’aveva costretta a vivere con un sondino nasogastrico durante ogni singolo giorno del suo ultimo anno di vita. Continue ricadute. Un tentativo di suicidio. Così come continui i tentativi di rivolgersi a delle strutture in grado di seguirla e di aiutarla a convivere con quell’incubo che da anni ormai non le permetteva di vivere un’adolescenza normale, fatta della spensieratezza dei ragazzi della sua età.

Molteplici le richieste di aiuto, sia da parte di Noa che da parte dei genitori. Troppe poche, forse, le risposte da parte di un entourage capace di convincerla che la vita poteva prendere una direzione diversa, che non sarebbe mai stata abbandonata, che ci sarebbe sempre stato qualcuno lì ad accarezzarla, a farle capire che era una ragazza unica, insostituibile, che la sua vita aveva una valore. Che dietro a quei respiri c’era un senso profondo. 

Da sola Noa non sarebbe mai potuta uscire da quella notte senza fine che è la vita quando viene attraversata da un dolore che frantuma in mille pezzi. Non è possibile vedere il bello in completa autonomia quando il cielo si tinge prima di grigio perla, poi fumo, tortora, ardesia, antracite; e, in fondo, quando lo sguardo si copre di grigio antracite non ha già perso quella capacità di distinguere e di discernere un punto di luce dal resto? Quando il cielo diventa come il cemento, non ha già perso tutte le sfumature del grigio? Il cielo non è forse nero?
Nessun orizzonte di luce. Nessuna sfumatura. Solo nero intenso. 

Dall’oscurità più profonda non ci si può salvare da soli, certo. Per questo abbiamo bisogno dell’altro per sopravvivere, l’altro lì a ricordarci che il nero può sbiadire, sfumare, tornare ad essere grigio, e poi bianco, e celeste. Il cielo di Noa era immerso nell’oscurità e in quello stesso cielo nero l’hanno lasciata addormentarsi.  

Dopo la morte di Noa, i giornali italiani hanno inveito contro eutanasia e suicidio assistito, focalizzando l’attenzione su una questione che con Noa c’entrava ben poco. Non solo la richiesta della ragazza di far ricorso all’eutanasia era stata rifiutata dalla clinica cui lei e i suoi genitori si erano rivolti qualche anno fa; ma un tale dibattito decentrerebbe lo sguardo pubblico dall’unica cosa che Noa voleva urlare al mondo: l’inspiegabile vuoto di senso della propria vita, l’abbandono che provava e la sostanziale incapacità – sociale e sanitaria- di aiutarla efficacemente in percorso di cura continuativo ed adeguato. Non un percorso di “guarigione”, dunque; la depressione non è come un’influenza, non c’è niente da guarire, nessuna funzione da “ripristinare”. Una ferita come quella di Noa aveva però bisogno della presenza di una cura. Un “io ci sono, tu sei qui con me?”. 

Non è forse questa la più intensa e bella pratica di cura? Una presenza insostituibile, una stretta di mano che trasmette coraggio, una spinta a  cogliere la bellezza della vita, malgrado le difficoltà, le crisi, le insicurezze; il coraggio di intravedere l’azzurro del cielo attraverso le molteplici sfumature del grigio. 

La madre della ragazza comunicò inoltre la complessità di entrare in cliniche psichiatriche specializzate, le liste d’attesa infinite, l’assenza di strutture per i disturbi alimentari. La figlia passava costantemente da un ospedale all’altro, più volte indotta al coma al fine di poterla nutrire artificialmente con una sonda. 

Noa si è spenta piano piano. Forse, attraversata da un profondo senso di abbandono. 

L’hanno “lasciata andare”, senza prendersi cura di lei. Una resa sociale, confermata dalla resa personale di chi non ce la fa più e, nella disperazione, non vede altra soluzione proprio perché nessun altro riesce a farle scorgere alternative possibili, colori diversi dal nero. 

Quando in realtà, anche se talvolta è difficile ammetterlo, è solo chi resta a poter dare un senso all’esistenza di chi, quella vita, la vuole lasciare. 

 

Sara Roggi

 

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Non solo nuoto: intervista a Federica Pellegrini

Non è mai facile fare delle proprie passioni una professione. Talvolta, degli imprevisti ce lo impediscono.
Altre volte, invece, la tenacia, i sacrifici e gli sforzi ci permettono di diventare ciò che desideriamo essere e di realizzare quel sogno che fin da piccoli ci cullava.
Nel mio caso, per esempio, il nuoto agonistico ha impastato le mie giornate dai sette agli undici anni: un pomeriggio dietro l’altro fatto di allenamenti in palestra e di chilometri in vasca. Ma ancora non era abbastanza: sentivo che avevo bisogno di altro e che non sarebbe mai diventato il mio lavoro. E mi sono arresa, abbandonando piano piano quell’attività con la quale ero cresciuta.

Oggi stimo molto chi decide di fare dello sport il proprio lavoro, trasformando la passione sportiva in un’attività professionale a trecentosessanta gradi. Lo sport infatti può insegnare molto ed è molto anche ciò che tutti noi possiamo imparare dagli sportivi: sono sicura che tutti noi, anche i più pigri e meno atletici, in un momento della propria vita abbiamo avuto uno sportivo come modello di vita, del quale ammiravamo la tenacia sperando di riuscire ad essere un giorno altrettanto determinati in qualsiasi ambito delle nostre vite.

Per tutti questi motivi siamo felici di essere riusciti a contattare Federica Pellegrini durante l’Arena Pro Swim Series di Indianapolis: è stata una preziosa occasione per scoprire cosa c’è, anche a livello agonistico, oltre ai tempi ed alla tecnica. La campionessa di Spinea ci ha infatti dimostrato in più occasioni come, al di là delle vittorie e delle sconfitte vissute nel corso della sua carriera, lo sport non sia mai stato un’attività agonistica fine a se stessa. Il nuoto, infatti, è diventato per lei un modo per conoscersi, uno specchio attraverso il quale guardarsi. Così, ci spiega in che modo il legame tra filosofia e sport diventa manifesto: non si tratta tanto di una competizione tra eguali, quanto più di uno stile di vita che consente costantemente di migliorarsi, imparando dai propri errori e assaporando il significato di vittorie, che sono frutto di passione, forza di volontà ma anche di sacrifici.

 

Ad un certo punto della tua vita, ancora piccolina, sei entrata in acqua e hai scoperto che quello era il tuo elemento. L’avevi capito subito che avresti dedicato al nuoto una buona fetta della tua vita, delle tue energie ed aspirazioni?

È stato amore a prima vista, infatti amo definirmi un pesce di acqua dolce. Complice di questa mia passione è stata certamente mia mamma Cinzia, che mi ha accompagnato in piscina a 3 anni.

Il termine “agonismo”, di cui tu sai più di qualcosa, deriva dal termine greco agòn, che letteralmente significa “lotta”. In che modo, a tuo avviso, la competizione agonistica può trasformarsi in una lotta costruttiva, piuttosto che finalizzata all’annientamento dell’altro contendente?

Io concepisco l’agonismo come momento ultimo di una preparazione finalizzata alla gara. Dai il massimo, ogni giorno, per essere pronta nel momento che conta. E’ più una lotta con te stessa che contro le avversarie: se sei preparata come meglio non potresti, i minuti della competizione sono frutto di tutto quello che hai dato in allenamento.

Posso immaginare che per te nuotare sia altrettanto normale e quotidiano del camminare; c’è però una nuotata talmente speciale che non potrai mai dimenticare?

Come decibel e calore puro tutte le gare dei Mondiali di Roma 2009. Come intensità del momento, la nuotata con cui ho vinto l’Olimpiade di Pechino resta la più speciale.

L’attività sportiva è strettamente legata ad un’alimentazione attenta ed equilibrata, tuttavia nel mondo sportivo come tu lo vivi, c’è il rischio di sfiorare l’eccesso. Tu stessa infatti, in alcune interviste, hai raccontato di aver vissuto un disturbo alimentare.
In che modo lo sport può diventare il mezzo – piuttosto che un fine – attraverso il quale i giovani ragazzi possono cercare di raggiungere un ideale di perfezione assoluto?

Una parola racchiude tutto: disciplina. Sei talmente concentrata su ciò che controlli, che vive di sottrazioni. Detto questo, sono onesta fino in fondo: faccio uno sport di tali privazioni che a tavola mi concedo più di uno strappo alle regole.

Queste problematiche sono legate a quel potere che l’immagine fisica (e perciò l’estetica) ha rispetto agli altri e, di conseguenza, rispetto a sé stessi, rischiando di oltrepassare i limiti descriventi la salute e il benessere che lo sport si incarica di promuovere.
Quanto oscilla il pendolo tra salute e malattia/ipercontrollo fisico nel campo di un un’attività sportiva quale quella del nuoto?

Sinceramente penso che superare i propri limiti, con la fatica che questo comporta, sia un concetto sanissimo. A patto che ogni limite sia superato senza additivi strani. Proprio per questo bisogno di trasparenza, pubblico spesso i referti dei controlli anti-doping.

A proposito di immagine. Sport e femminilità nel mondo d’oggi sembrano visti come due mondi lontani, per cui ci si stupisce ancora quando si vede un’atleta donna con un vestito ed un bel paio di scarpe, cosa che sembra tradire il fatto che alcuni stereotipi sono davvero duri a morire. Tu cosa ne pensi?

È vero, di strada da fare contro gli stereotipi ce n’è. Tuttavia mi sembra che nel tempo questo concetto si sia evoluto, grazie anche all’interesse crescente del mondo della moda per le atlete. Io stessa sono stata invitata a sfilare, e ho capito che gli stilisti apprezzano i valori che rappresentiamo. Poi ognuna di noi interpreta la femminilità come meglio ritiene. A me piace molto studiare i look, ricercare capi che mi rappresentano e contaminare gli stili.

In un’intervista hai detto che essere la capitana della squadra olimpica e ricevere il nostro tricolore dalle mani del Presidente Mattarella è stato per te l’onore e il riconoscimento più grande. Questo è un pensiero che oggi può risultare un po’ controcorrente se consideriamo lo scontento diffuso in Italia. Secondo te allora perché ha ancora un senso essere patriottici – o meglio, fieri italiani?

Non credo che lo scontento per le cose che non funzionano in Italia diminuisca il senso di patriottismo. Io ho avuto la fortuna di girare il mondo per il miosport, e devo dire che l’Italia mi manca sempre proprio per quell’insieme di caratteristiche che la rendono unica.

Torniamo per un’ultima volta al nuoto. Se lo potessi associare ad una sola parola o concetto, quale sarebbe e perché?

Leggerezza. Perché sentirsi leggeri è uno stato mentale impagabile ed io nuoto per amore di ciò che faccio.

Si parla spesso di filosofia di vita e tu sei riuscita a fare del nuoto la tua vita e la tua professione. Secondo te che cos’è la filosofia?

Per me filosofia è l’arte di migliorarsi, senza accontentarsi, godendo delle vittorie e imparando soprattutto dalle sconfitte.

Sara Roggi & Giorgia Favero

I sentieri del corpo: storie oltre il sintomo

#15marzo2017 #fiocchettolilla
Oggi, 15 marzo 2017, è la giornata nazionale contro i disturbi alimentari. Simbolo nazionale di una lotta che molti di noi vivono tutti i giorni, il 15 marzo non vuole unicamente dare voce alla battaglia contro un sintomo. Il fiocchettolilla, infatti, è espressione di una sofferenza abbandonata nel silenzio, un dolore che si manifesta attraverso l’uso del nostro corpo.
Ho voluto ricordarlo attraverso un racconto poiché credo che la penna sia un mezzo efficace per sentirci accanto al nostro prossimo. Per accarezzare quelle solitudini che non trovano le parole per dare voce al loro malessere. Ma, soprattutto, per accarezzare quella solitudine che vive dentro di noi. Perché, in fondo, è solo cominciando da noi stessi che possiamo raggiungere l’altro.

“Niente torna. Quando inizio a scrivere, perdo il filo. Il pensiero si disfa e si sbriciola. E insieme al pensiero, anche quella parola cercata e che avrei voluto proferire. Rimango con la bocca asciutta, come se stessi rincorrendo qualcosa contro vento.
Forse qualcuno.
Lo sai, vero, che ti rincorrerò per sempre? Lo sai che ti cerco?

Non so esattamente come sia successo. Eri sempre con me, al mio fianco. Non ci siamo mai lasciate. Quando gli altri voltavano lo sguardo altrove, tu eri lì. E mi stringevi la mano.
E allora, cos’è accaduto? Perché ti ho perso? Perché te ne sei andata via?

Era una mattina grigia. Un foglio di nebbia copriva ogni cosa.
Nuotavo, una bracciata dopo l’altra. Tu dov’eri? Perché sei sparita? Mi avevi promesso che saresti rimasta lì, per sempre.
Eppure, mentre tutto si dissolveva, è iniziato il tuo silenzio. E quando piangevo, non c’era più nessuno dentro di me che mi sussurrava di essere forte.
Da quando te ne sei andata, io mi sento sola. Triste. Alcuni dicono che sono una ragazza depressa. Ma perché per gli altri è tutto così facile? Che gusto ci provano ad appiccicarti addosso delle etichette?
Depressa. Rimango in silenzio. Mentre sento quella parola rimbombare nella mia mente. Respingendo il mondo che sta fuori.
Dove sei finita piccolina? Dove ti posso ritrovare?
Ho iniziato a fare degli incubi. Spesso, ci sei tu. Accarezzi la mia guancia pallida. Baci la mia fronte gelida. Mentre mi lasci andare, distesa sul letto di una palude. Un po’ come Ophelia. Te la ricordi Ophelia, vero? E quel quadro di Millais che ti piaceva tanto? Te lo ricordi, vero?
Non mi hai mai spiegato perché lo adorassi..
Ma io, io perché non mi risveglio da questo incubo? Sono anch’io Ophelia?
Lei è così bella… io, invece, ho solo tanto freddo.

La sai una cosa? Attraversare quest’incubo mi ha permesso di ritrovarti.
Se ti scrivo è perché ho imparato ad ascoltarti. A fermarmi quando non riesco più a nuotare perché sono esausta. A scrivere seguendo la voce del desiderio e non quella del dovere. A mangiare, quando sento i crampi allo stomaco e una mela non è più sufficiente. Ad amare. Sì, lo so, è incredibile. Sto imparando ad amare senza l’angoscia di perderlo ogni giorno e senza la paura di non poter sopravvivere senza di lui.

Lo ricordo bene quell’inverno gelido. Un inverno freddo come tanti altri, dopotutto.
Io, però, sentivo quel clima rigido con più intensità.
Sentivo il gelo dentro.

A volte, lo percepisco di nuovo. Insieme ai ricordi e alla paura di precipitare nel vuoto.
Non è tutto finito. Anzi. Ho capito che l’unica cosa che posso fare è conviverci.
Una convivenza difficile. Spesso ancora conflittuale.
Oggi, però, ci sono delle pause di pace. Questo, grazie alla persona che mi ha aperto il cuore.
Un cuore che allora credevo fosse di ghiaccio.

Non sentivo più nulla. Solo la voce di un controllo che mi rassicurava e che mi sussurrava di dover resistere. Da sola. In completa autonomia. Senza di te.
Per questo te ne sei andata, non è vero?
L’altro era diventato il pericolo. Ci apriva davanti la paura dell’imprevedibile. Il disordine. L’incontrollabile. Preferivamo non sentire, non mangiare, non baciare. Non amare.

**********

Ci sono giorni in cui, malgrado l’amore che ho vicino, l’imprevedibile bussa alla porta e sento di nuovo la paura. E allora vado a scuola, poi a nuoto, un’ora di scrittura, incontri di lavoro. Ma ce la faccio a finire tutto in tempo, vero? Ritorno a scuola, tengo una lezione a casa, ricomincio a scrivere, invio un paio di mail, rispondo a quelle ricevute. Apro le lettere dalla Francia. Vivo in sospeso tra i due mondi per un attimo. Mi rimetto a scrivere. Ma perdo il filo. Il pensiero si è inceppato.
A differenza di un “prima”, però, in cui tutto mi sembrava possibile, il mio “ora” è tracciato dai confini del limite. Cercando di accettarmi e di rispettarmi anche quando le cose non vanno bene. Quando sbaglio. Oppure quando fallisco.
Anche se, quando fallisco, l’incubo ritorna…
Perché lo stai rifacendo? Perché ti senti così vuota? È così bello vederti sorridere…
Ora sono io che ti parlo. Ero sparita, ma sei riuscita a riacciuffarmi. Non mi perderai di nuovo, te lo prometto. Abbiamo lavorato così tanto insieme. Non sprechiamo tutta questa fatica!
Sento che hai paura. E la sai una cosa? Anche io ne ho. Tanta. Ogni giorno. Ma questa volta, sarà diverso. Se cadi tu, ti rialzo io.
Ci devi credere però. La primavera arriva. Arriva da dentro. La potrai respirare e assaporare. Il suo arrivo sarà imprevedibile.
Percepirai un cambiamento dal cuore.

Sara Roggi

[Immagini tratte da Google Images]

La mia vita apparentemente perfetta

Sono Ginevra. E la mia vita è apparentemente perfetta. Ve la racconto.

Ho ventisei anni. Sono già laureata e vivo da sola in un delizioso bilocale a Milano.  Mi sono laureata con il massimo dei voti alla London School of Economics e ora lavoro nel campo finanziario. Non male per una della mia età. Sono intelligente e ambiziosa. Mi definiscono “una di successo”. Appaio molto sicura di me stessa, ma socievole e aperta, mai supponente. Sono attraente, non una bellezza classica forse, ma agli uomini piaccio. Sono figlia unica, il fiore all’occhiello dei miei genitori. Mi hanno sempre spinto a credere in me stessa e a spingermi oltre quelli che pensavo fossero i miei limiti. Sembrerebbe che abbiano avuto ragione a guardare la mia vita ora. Sembrerebbe che tutto nella mia vita funzioni. Neanche l’ombra di un minimo sospetto.

Sono Ginevra. E la mia vita è apparentemente perfetta. Apparentemente, appunto. Ecco cosa non vi ho detto.

Sono bulimica. Penso al cibo tutto il maledettissimo giorno. Mi concentro sugli studi, sul lavoro per non pensare a quella che è la mia più grande ossessione: il cibo. La mia vita in realtà ruota attorno al cibo. In realtà Ginevra non è la giovane donna attraente e di successo che tutti vedono, ma è una donna insaziabile e senza controllo, in costante guerra con se stessa. Ho una smisurata paura di prendere anche una minima quantità di peso, parlo nell’ordine degli etti, ma allo stesso tempo non riesco a smettere di mangiare. Sono tormentata da attacchi di fame vorace che mi spingono ad andare al supermercato e comprare grandi quantità di cibo. Cerco di cambiare supermercato più spesso che posso e di non andare mai in quello vicino a casa dove abitualmente faccio la spesa. Compro patatine, biscotti, gelato, cioccolata. Per mangiarli tutti insieme, tutti in una volta. Silenzio il telefono per non essere disturbata, scarto i pacchetti e mi riempio la bocca. Senza gustare, senza sapere neanche quello che ho appena ingurgitato. In quel momento non capisco più niente, sono come in trans. Sono come impazzita. Non riesco a fermarmi. Mi detesto, mi disgusto. Provo vergogna per me stessa. Solo dopo, quando mi imbottisco di lassativi, o vomito, o digiuno per giorni, riprendo il controllo e mi sento meglio. E giuro a me stessa che non lo farò mai più, ma poi quell’impulso ritorna e io non riesco a vincerlo. Non so dire come sia iniziato tutto questo. La forte pressione all’università, lontana da casa, dalla mia famiglia. Il voler essere all’altezza, il non voler deludere nessuno.  Il voler essere sempre perfetta, impeccabile. La quantità di cibo che divoro è direttamente proporzionale alla paura di fallire. E allora mi concedo alla leggerezza, all’eccitazione, allo sfogo, alla rabbia, al bisogno di controllo, al disgusto.

Sono Ginevra. E queste sono le mie due vite. A volte credo nella donna sicura di sé e di successo che ho dentro, ma poi conosco anche la mia natura oscura, quella che nascondo agli altri, ad ogni costo, perché mi piace apparire perfetta.

La bulimia nervosa è uno dei più comuni disturbi alimentari, caratterizzato da alternanza di abbuffate fuori controllo e restrizione alimentare. È un circolo vizioso che si auto perpetua di preoccupazione per il peso e le forme corporee, dieta ferrea, abbuffate e meccanismi di compenso (esercizio fisico, vomito autoindotto, digiuno, uso di lassativi e/o diuretici).

Come funziona? Le crisi bulimiche avvengono in solitudine e in segreto. Si ingerisce una grande quantità di cibo, spesso in poco tempo, fino a che non ci si sente così pieni da star male. Si ha la sensazione di perdere il controllo e non riuscire a fermarsi. A seguito dell’abbuffata si ricorre a inappropriati comportamenti compensatori per prevenire l’incremento ponderale e volendo quindi neutralizzare gli effetti della crisi. Il rapporto col cibo perde la comune accezione di forma di nutrimento e diviene carico di rabbia, di sensi di colpa, di aggressività e di frustrazione.

Perché parlarne? La diagnosi di bulimia è in genere più difficoltosa rispetto a quella di anoressia nervosa, perché i sintomi sono più facilmente mimetizzabili e il soggetto spesso rimane in normopeso o con qualche chilo in più o in meno.

La bulimia nervosa è un male che ben si nasconde dentro le persone. Donne, e molto più spesso anche ragazzi, che conducono una doppia vita: quella perfetta dove l’apparenza di normalità nasconde la parte più oscura.

Giordana De Anna

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[Immagini tratte da Google Immagini]

 

Variazioni sul ciclo di vita di una farfalla – seconda parte

La storia che andrete a leggere, proprio come le precedenti, è di pura invenzione. Questa volta ho scelto però di usare un racconto in prima persona perché è forte nel permetterci di entrare nella storia e nel poterci immedesimare nel personaggio. È difficile credere all’anoressia mentale. Spesso chi la osserva da fuori non riesce a capire il disagio e l’avversione provati verso il cibo. Entrare nel cuore del problema può permetterci di cogliere delle sfumature prima ignorate e di leggere poi la spiegazione più scientifica secondo un’altra ottica.

 Oggi andrete a leggere il secondo capitolo della storia.

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Variazioni sul ciclo di vita di una farfalla

La storia che andrete a leggere, proprio come le precedenti, è di pura invenzione. Questa volta ho scelto però di usare un racconto in prima persona perché è forte nel permetterci di entrare nella storia e nel poterci immedesimare nel personaggio. È difficile credere all’anoressia mentale. Spesso chi la osserva da fuori non riesce a capire il disagio e l’avversione provati verso il cibo. Entrare nel cuore del problema può permetterci di cogliere delle sfumature prima ignorate e di leggere poi la spiegazione più scientifica secondo un’altra ottica.

 Oggi e Venerdì 15 Agosto leggerete i due capitoli della storia. Read more

Il tempo dell’anoressia

Ma il risvegliato e il sapiente dice: corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro; e anima non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo.

Nietzsche Friedrich, Così parlò Zarathustra

L’anoressia è una malattia, un male che molte persone, oggi, si autoinfliggono, è una libera scelta:

Una malattia ti capita, l’anoressia è una libera scelta. Io non sono una vittima. Si sa l’ossessione è la fonte continua del genio e la sua follia.

Testimonianza di una ragazza anoressica tratta da La mia storia su Youtube

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Diete PRO-ANA: la via della perfezione

La redazione La Chiave di Sophia vuole sottolineare sin dal principio la sua posizione di denuncia nei confronti delle diete pro-ana.

Internet è un mezzo potentissimo. È fonte di ricerca, di nuove scoperte, di mantenere contatti con altre persone e possibilità di scambiarsi opinioni. Internet è tutto questo, certamente.

Eppure, come ogni mezzo potentissimo, può essere utilizzato in modo sbagliato, come una piattaforma capace di distruggere, disintegrare, influenzare negativamente chi c’è al di là dello schermo.

Qualche giorno fa, quasi per caso, sono rimasta colpita da un blog molto particolare, gestito da un gruppo di ragazzine molto giovani che illustrano il “corretto stile di vita”. Si parla di diete “PRO-ANA”, diete a basso apporto calorico (massimo 500 cal giornaliere).

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Grida in silenzio

Siamo un grido nella notte.

Così Massimo Recalcati, uno dei più noti psicanalisti italiani, definisce l’individualità umana ne Il complesso di Telemaco.

Ciò che fin dalla nascita anima la vita umana è il desiderio, il cui oggetto si identifica con l’Altro.

Ognuno di noi è irrimediabilmente esposto, aperto e alla ricerca disperata di qualcuno in grado di rassicurarci. Quella che noi ogni giorno gli rivolgiamo è una domanda d’amore, come ciò che dà senso alla vita.

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