La giusta distanza nelle relazioni: Schopenhauer e il dilemma del porcospino

Vi è mai capitato di conoscere qualcuno con il quale inizialmente pensavate di instaurare un bellissimo rapporto e poi invece un vostro o un suo comportamento vi ha deluso?
Oppure di vivere delle relazioni in maniera simbiotica in cui l’interesse per l’altra persona rischiava di annullare completamente i vostri bisogni e la vostra individualità?

Se sì non scoraggiatevi, tutto questo avviene semplicemente perché nella vita di tutti i giorni ci troviamo costantemente ad oscillare tra due bisogni fondamentali: avere dei legami con gli altri e mantenere allo stesso tempo la propria singolarità. 
«Voglio stare insieme a te senza annullarmi», potremmo riassumere così la situazione ideale in cui si crea un legame affettivo tra due individui che mantengono le peculiari personalità che li caratterizzano.
Spesso, infatti, la paura di essere completamente risucchiati nella sfera dell’Altro ci porta a fare un passo indietro, ad evitare di esporci e ad utilizzare tutta la cautela e le accortezze del caso per evitare di soffrire o semplicemente che ansie e paure prendano il sopravvento impedendoci di vivere a pieno e in modo sano la nostra relazione.
E allora che fare? Come gestire queste due esigenze apparentemente così contrastanti? E soprattutto, come comportarsi di fronte a questo movimento oscillatorio tra desiderio d’amore, sopraffazione e dolore nelle relazioni?

Nel 1851 il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer pubblica in due volumi i Parerga e Paralipomena, una raccolta di scritti comprendente parabole, metafore, similitudini e aforismi, che nell’intenzione dell’autore sarebbero dovuti servire come rifinitura al sistema filosofico contenuto all’interno della sua opera più importante: Il mondo come volontà e rappresentazione.
All’interno del secondo volume dei Parerga e Paralipomena, al capitolo XXXI, sez. 396, Schopenhauer utilizza una metafora – meglio nota come il dilemma del porcospino – per descrivere e riflettere su due importanti questioni: qual è la giusta distanza da osservare affinché sia possibile vivere all’interno di una società senza ferirsi, e quale sia il grado di intimità ideale da osservare nel rapporto con gli altri.

«Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione. – Così il bisogno di società, che scaturisce dal vuoto e dalla monotonia della propria interiorità, spinge gli uomini l’uno verso l’altro; le loro molteplici repellenti qualità e i loro difetti insopportabili, però, li respingono di nuovo l’uno lontano dall’altro. La distanza media, che essi riescono finalmente a trovare e grazie alla quale è possibile una coesistenza, si trova nella cortesia e nelle buone maniere.
[…] – Con essa il bisogno di calore reciproco viene soddisfatto in modo incompleto, in compenso però non si soffre delle spine altrui. – Colui, però, che possiede molto calore interno preferisce rinunciare alla società, per non dare né ricevere sensazioni sgradevoli» (A. Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, 1998).

Il filosofo tedesco utilizzò questa metafora per spiegare la complessità dei rapporti umani. Egli notò che, spesso, spinti dalla necessità, attratti dalla curiosità e dall’interesse, ci avviciniamo troppo alle altre persone senza misurare bene le distanze, finendo per imbatterci nelle loro spine e viceversa. Improvvisamente tutto sembra pericoloso e per non ferirci tendiamo ad allontanarci. Solo allora capiamo che l’importanza del calore altrui è ciò di cui abbiamo bisogno per sfuggire dal freddo della solitudine e che solo con l’esperienza saremo in grado di raggiungere un giusto equilibrio, un compromesso, che possa mettere in accordo i nostri bisogni individuali e quelli degli altri. 
Con il passare del tempo dunque, anche noi, proprio come i porcospini di Schopenhauer, abbiamo bisogno di trovare la «migliore posizione» nella costruzione delle relazioni e dei rapporti affettivi e sociali stando però attenti alle necessità e ai desideri propri ed altrui.
Una ricerca continua, dunque, un “patto” che costantemente tutti noi siamo chiamati a rinnovare se vogliamo continuare a vivere le nostre relazioni in maniera sana ed equilibrata, a meno di non essere «Colui, che possiede molto calore interno».

 

Edoardo Ciarpaglini

 

[Photo credit Connor Williams via Unsplash]

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La lepre e la tartaruga: correre per rallentare

Nel mondo anglosassone esiste una storia raccontata con minime variazioni da almeno un secolo, più recentemente dallo scrittore americano Terry Hershey nel suo Sacred Necessities (2005). La vicenda vede un esploratore, a volte inglese, altre volte americano, recarsi in un non meglio specificato paese africano ed assumere delle guide locali per accompagnarlo nella natura selvaggia. Le guide, durante i giorni di lavoro, vengono spronate a un passo sempre più veloce, fino a che, senza apparente motivo, si fermano all’ombra di un albero, rifiutandosi di proseguire. Alle esasperate lamentele dell’esploratore, le guide replicano tranquillamente: “Ieri abbiamo camminato troppo veloce. Oggi aspettiamo che la nostra anima raggiunga il nostro corpo”.

In altre versioni della storia quella riportata è la reazione dei locali all’introduzione degli autobus nelle città, in altre ancora si tratta di un passeggero che, dopo il primo volo della sua vita, sta fermo per qualche minuto al gate di sbarco. In una narrazione o nell’altra, la morale della storia non cambia, e ci interroga direttamente su un crescente bisogno di lentezza che si è manifestato con sempre più forza negli ultimi anni.

Nel suo Nel momento (1999), Andrea De Carlo suggerisce che la lentezza sia una sorta di “tiro mancino” da parte della Natura, un’assicurazione per arginare l’ambizione già smisurata dell’uomo limitando la distanza che gli è concesso di percorrere con le sue proprie forze. In maniera del tutto speculare, il filosofo statunitense Henry David Thoreau, in Camminare (Walking, or the Wild, 1863) celebrava il recupero di un passo lento, contrapposto alle nuove, impensabili velocità aperte dalle coeve conquiste tecniche. Nei suoi testi, il camminare diventa una via quasi mistica per vivere davvero il movimento, prestando al contempo attenzione al paesaggio attraversato ed alla propria relazione con esso, in un viaggio “doppio” che conduce più lontano di qualunque treno o diligenza: “Il viaggiatore più veloce è colui che va a piedi”.

Il problema della velocità oggi non si pone quasi più, certo non nei termini espressi da Thoreau, tanto meno in quelli dei fantomatici africani in attesa. È un fatto, però, che all’incremento dei voli low cost è aumentato anche il numero dei turisti-pellegrini con zaino in spalla e scarponi ai piedi, che il boom dei fast food ha portato all’evoluzione dello speculare slow food, che l’auto privata (al netto dei costi di mantenimento) viene giorno dopo giorno soppiantata dai servizi di noleggio di biciclette come mezzo di spostamento privilegiato nelle grandi città. Paradossalmente, più crescono le occasioni di muoversi sempre più velocemente, di raggiungere quindi in un minor tempo possibile la distanza maggiore, più si cerca di rallentare, di riportare i ritmi della vita e del movimento ad un passo più calmo, più, forse, a misura d’uomo, in quella dimensione della “breve distanza” (temporale o spaziale che sia) che De Carlo vedeva come una trappola.

Fermo restando che le due opposte tendenze, anche solo per necessità, non possono che coesistere, vale la pena notare che mai come oggi, con treni a levitazione magnetica che toccano i 600 km/h o più semplicemente connessioni internet a banda larga che aumentano esponenzialmente l’ampiezza di banda dei mezzi trasmissivi, il culto della velocità celebrato dai vari Marinetti e Boccioni ha raggiunto una così completa realizzazione; mai come oggi, al contempo, si fa sentire la nostalgia per tutto ciò che è vicino, semplice, naturale, lento e meditativo.

Si tratta di una pura e semplice paura della novità, che spinge a rallentare per timore di un mondo che non riusciamo più a comprendere nella sua totalità, o ci stiamo finalmente fermando, anche solo per un poco, per permettere alle nostre anime di raggiungere i nostri corpi?

 

Giacomo Mininni

 

[Photo Credit: Tatiana Diakova via Unsplash.com]

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Pornografia tecnologica: meccanismi a nudo

Un’antica storia racconta di un tempo in cui i primi uomini, ancora innocenti e liberi dal peccato, vivevano in una terra dalle sembianze di un paradiso: senza sforzo o lavoro alcuno potevano godere di ogni frutto, senza conoscere fatica.
In molti, dopo una giornata di lavoro, con la schiena dolorante per la cattiva postura sulle sedie dell’ufficio o con la testa ancora pesante per lo studio, avranno fatto fatica a non pensare a questa storia come a una bella favola, un mito lontano. Ma forse questo stesso travaglio quotidiano, l’essere distratti dai piccoli grandi problemi di ogni giorno, li sta distogliendo dal notare che la nostra realtà concreta, apparentemente tanto lontana da quell’ideale paradiso terrestre, lo rievoca invece in alcuni tratti.

Anche se non ha l’aspetto di un giardino, in un certo senso siamo ancora immersi nell’Eden. Un Eden artificiale.

Tra i ripiani di un supermercato, conservati al fresco da luminosi marchingegni frigoriferi, possiamo trovare ortaggi e frutti provenienti dai raccolti di ogni parte del mondo, trasportati su ruote, ali meccaniche o scafi metallici, giunti fino a noi. Non dobbiamo far altro che allungare la mano, per coglierli. Nelle nostre case: tiriamo una leva, e immediatamente scorre acqua fresca. Per dissetarsi o lavarsi. Azioniamo un’altra leva e quei rifiuti sgradevoli alla vista e soprattutto all’olfatto che il corpo produce con naturale regolarità vengono risucchiati via, risparmiando la vista e la nostra delicata sensibilità, e scompaiono senza lasciare traccia.
Un bottone, musica. Un bottone, risaliamo 10 piani di un edificio alto 100 metri. Un altro bottone, per parlare con una persona dall’altra parte del mondo. Siamo alla distanza di un bottone dalla maggior parte degli effetti che inneschiamo ogni giorno. Prima il televisore, poi i computer, e alla fine (fine?) gli smartphone. Nel palmo della mano effetti mirabolanti sono messi in atto da gesti molto semplici. E la fruizione è sempre più raffinata, meno grezza. Non tiro leve, né giro manopole. Basta accarezzare delicatamente con un dito.
A volte neanche è necessario scomodare l’uso degli arti: è sufficiente il comando della voce, e la tecnologia pensa al resto.

Comodità quasi miracolose. Eppure tutti quanti ci ricordiamo che il paradiso è ancora lontano, che niente è veramente gratuito. Ci si potrebbe chiedere allora quale sia il prezzo di questa delega a meccanismi invisibili. Nulla ci dice che sia sbagliato pagarlo, ma forse può essere interessante sapere che lo stiamo facendo.

A differenza dell’Eden biblico, i cui abitanti privi di malizia mostravano le proprie nudità, privi dell’urgenza di nascondere alcunché, il nostro paradiso tecnologico cela i suoi segreti dietro foglie di fico di design fatte di materiali scintillanti. Il meccanismo che collega la causa all’effetto rimane celato agli occhi, e solamente lo specialista conosce il trucco segreto che si nasconde dietro a questa miracolo apparente. La tecnologia che utilizziamo si copre con grande pudore, avvolta in involucri seducenti ed appaganti, che celano la complessità, rilassano la contemplazione estetica dell’oggetto e facilitano l’utilizzo privo di distrazioni, essenziale.

Questo approccio bigotto alla tecnologia rischia di ridursi ad una fruizione superficiale, o di sublimare la goduria dell’utilizzo dei prodotti artificiali in un esercizio di vanità. E rischia di portare con sé un altro messaggio, implicitamente: se ti nascondo, significa che l’importante non è capire, non c’è bisogno che tu sappia come funziona. L’importante è che tu utilizzi, o godi nel possedere.

Come si può accogliere questo messaggio?

Una possibilità è quella di mangiare deliberatamente il frutto proibito dell’albero della conoscenza, per ricadere nella realtà, per riappropriarsene, e allargare il senso dei nostri gesti. Al fine di riuscire a dare valore allo sforzo che la tecnologia svolge al posto nostro, provare a immaginare come si starebbe senza. Capire iTunes, dopo aver messo in moto un giradischi meccanico. Capire un calorifero solo se di notte in una foresta ci siamo riscaldati con un falò. Capire la luce elettrica se con il sole oltre l’orizzonte non abbiamo visto altro che oscurità per una notte intera. Scoprendo la catena dei meccanismi che arrivano a costruire le nostre abitudini, e dare spessore all’immediatezza dei nostri gesti.

E senza fermarsi, perseverare nel peccato, peccare una seconda volta, peccare di lussuria, consumando pornografia. Una pornografia tecnologica per smanettoni. Che metta a nudo quello che c’è sotto, quello che c’è dietro, quello che c’è dentro. Per riparare, modificare, hackerare, riimmaginare nuove combinazioni e possibilità.
Con questo atteggiamento ribadire che se qualcosa non ci è dato nell’immediato, non ci viene posto a facile presa, o non è di facile comprensione, non significa che non sia alla nostra portata. La distanza è sempre colmabile, osservando un meccanismo dopo l’altro, smontando, fino a rompere se necessario, per praticare un’attiva comprensione, al posto di un passivo utilizzo.

Ugualmente degna è la scelta di conferire delega completa alla tecnologia. Non lasciarci distrarre dal meccanismo, impegnandoci a ricostruire nella nostra comprensione quello che ci è stato consegnato come già montato. A questo punto però la domanda diventa un’altra: come vogliamo investire diversamente la nostra attenzione? Se non ci interessa considerare i vecchi problemi per riuscire ad apprezzare le soluzioni contemporanee, quali sono i nuovi problemi con cui decidiamo di avere a che fare?

Matteo Villa

P.S.: A volte ci vuole un’artista per ricordarci la bellezza del meccanismo. Goditi questo video.

 

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Non dimentichiamoci di esserci

Ogni giorno ci alziamo, facciamo colazione, ci prepariamo per una nuova giornata. La maggior parte delle volte però non ci accorgiamo di noi stessi, troppo immersi dal traffico mondano, dalla fretta scandita dalla società, dai doveri imposti e che ci imponiamo relativi ai ruoli che pensiamo di dover assumere. Non ci rimane tanto tempo per pensare, per comprendere quanto invece si è perso di essenziale, perché altri ci dicono cosa pensare e come pensarlo. I messaggi e le comunicazioni sono caotiche, i valori sembrano essersi dissolti. Gli eventi sembrano ac-cadere in modo irreversibile, senza che vi sia la possibilità che qualcosa o qualcuno possa cambiare e senza forse voler cambiare per pigrizia o abitudine. Assumiamo la maggior parte delle volte per vero ciò che ci troviamo di fronte, senza filtrare, senza mettersi nei panni degli altri e anche questa volta solo per convenienza. Vengono ripetute frasi già fatte, vengono date mezze verità e ritornano alla memoria parole vuote, senza significato di discorsi sentiti o riportati. Tutto ad un tratto è diventato troppo scontato, troppo confuso, troppo impostato e monotono: vediamo solo tanta nebbia all’orizzonte e il grigio predomina nella vista.

Forse abbiamo dimenticato qualcosa: ci siamo dimenticati chi siamo veramente.

Nascendo in questo mondo cadiamo nell’illusione dei sensi; crediamo a ciò che appare. Ignoriamo che siamo ciechi e sordi. Allora ci assale la paura e dimentichiamo che siamo divini, che possiamo modificare il corso degli eventi.[1]

Dov’è andata a finire la nostra scintilla di vita?

Dovremmo riaprire gli occhi da tutto questo torpore e scoprirci di nuovo come esseri capaci di esserci, di prendere in mano la propria vita, vederne tutti i colori e scegliere la direzione dove andare. Imparare a essere coraggiosi di fronte alla verità e di non farsi condizionare da tutto ciò che è più facile o conveniente, ma lottare per quello in cui crediamo veramente. Le cose belle sono difficili[2].

Bisognerebbe essere capaci di riscoprire la bellezza anche nelle piccole cose, in quei piccoli gesti che a volte diamo per scontato e ringraziare. Pensare (Denken) è ringraziare (Danken), dire grazie per questa esistenza che è stata donata nelle nostre mani e di cui noi e solo noi siamo responsabili. Abbiamo la possibilità di scegliere ciò che vogliamo essere in base alle nostre aspirazioni, non per accontentare altri o per seguire una moda.

Dovremmo capirci di più, comprendere i propri limiti: prendere la distanza da sé e dagli altri per ritrovarsi poi. Quando se ne sente la necessità, bisognerebbe stare da soli, per stare in silenzio, per pensare. Il silenzio racchiude tutte le risposte che cerchiamo da sempre.

Ciò di cui forse abbiamo bisogno è il tempo: concediamoci del tempo per crescere, per rimarginare le nostre ferite. Un seme non diventa un albero dopo un giorno o una settimana, ha rispetto del suo ciclo. Rispettiamo i nostri tempi e regaliamo il nostro tempo a persone per cui proviamo affetto, è il più bel dono che possiamo far loro.

Sarebbe bello ritagliarsi dei momenti che non appaghino solo i bisogni materiali, ma che dissetino il nostro spirito. Si dovrebbe leggere, leggere di tutto per far fiorire la nostra cultura e il sapere che ci circonda. Squarciare il velo dell’apparenza e esserci.

Bisognerebbe fare di questa vita un’opera d’arte, di cui noi stessi siamo gli artisti per guardarsi dentro ogni giorno e riconoscersi felici.

Azzurra Gianotto

[1] Cit. Giordano Bruno, filosofo rinascimentale italiano (1548-1600)

[2] Antico detto greco (Χαλεπά τά καλά)

Coincidenze lontane (Nota su “Walden” di H.D. Thoreau)

Caro Lettore,

le parole che desidero indirizzarti questa volta sono totalmente inusuali. Inusuale è la forma che stanno acquistando sin da questo loro inizio; tale è il luogo in cui stanno prendendo corpo: le sto scrivendo lontano da tutti, seduto su di un blocco di pietra che dev’essere rotolato giù dalla sommità della collina ( forse un vecchio architrave: su cosa si apriva la porta che custodiva?). Qui non c’è l’odore confortante dei libri, le parole sicure stampate su carta, l’aspetto dell’incontrovertibile presenza. È tutto un sovrapporsi di aromi: la resina che punge colando lentamente sul tronco, il fiore timido, il muschio all’ombra delle fronde. Qui non ci sono voci che chiamano, rumori dispettosi che bussano e corrono via senza nulla da dire, non inutili orpelli di buon costume. Nel posto in cui sono, comandano il vento e la luce, l’ombra e la quiete: silenzio. C’è posto per le parole autentiche che mettono a nudo la vita: di questa vita, non di altro, dovremmo occuparci attentamente. Sono venuto a sedermi sul fianco alberato di questa collina per liberarmi dell’illusione che la causa sia sempre lontana, che il significato sia nascosto: ché a pensar così, ci si ritrova con cause imponderabili, significati mai assaporati. Sono venuto a rendermi conto che non è nascosto ciò che cerco: sono chiusi i miei occhi. Ma perché ti ho portato qui con me? Hai forse qualcosa da spartire con l’inutilità di queste righe?

Ti scrivo perché sono giunto a questo punto grazie ad una serie di coincidenze.

La parola “coincidenza” deriva dal latino cum-in-cado e, originariamente testimonia il cadere insieme di più cose, l’insistere di più forze su di un medesimo punto. Sono praticamente certo che sarà capitato anche a te di essere quel punto: c’è qualcosa che non vediamo e ci chiama con più voci. È nella scritta che lampeggia sull’insegna di un negozio che, prima di un certo momento, abbiamo sempre superato non curanti; È nella frase che salta fuori dalla ressa di una conversazione, al bar; è nel titolo di un libro che ci capita per le mani, di cui abbiamo sempre sentito parlare ma non abbiamo mai letto.

“Walden o Vita nei i boschi” è un libro scritto da Henry David Thoreau (1817-1862) durante il suo ritiro in una capanna che si era costruito sulle rive del fiume Walden ( Massachussetts), tra il 1845 ed il 1847.

Tra il 1845 ed il 1847 Henry David Thoreau (Concord, 12 luglio 1817- Concord, 6 maggio 1862) si allontanò dalla piccola cittadina di Concord, nel Massachussetts e si ritirò in un’abitazione che s’era costruito sulle sponde del lago Walden.

Nel 1854 pubblicò “Walden o Vita nei boschi”, un’opera ibrida al limite tra il puntuale diario di un’avventura e la confessione filosofica, in cui la descrizione della Natura, dei suoi luoghi, dei suoi figli (di cui è tradita una conoscenza approfondita, di prima mano), si intreccia ad una serie di puntuale critiche alla società del suo secolo: in senso più ampio, all’idea stessa su cui si fonda la nostra società, cioè l’isolamento.

A Thoreau può – ed è stato fatto- essere rivolta la critica che da sempre è indirizzata a chi decide di assecondare una qualche esigenza ascetica: isolarsi per criticare l’isolamento significa rafforzarlo; piuttosto, sarebbe di gran lunga più vantaggioso prodigarsi per il bene dei propri concittadini, della propria società.

E sarebbe davvero una critica valente se avesse sott’occhio la realtà delle cose; cioè se l’ascesi fosse autenticamente un isolamento dal consorzio umano, dal mondo, dal tempo e non – ciò che invece essa è- un ricongiungimento con l’umanità di cui si assapora il senso più profondo, col mondo di cui si riscopre la totalità, col tempo che – finalmente- è armonia e non fuga, affanno, privazione.

Ciò che fa Thoreau – l’autentico asceta, in generale- è mettere la giusta distanza tra sé e la società di cui desidera correggere le storture: uno sguardo più ravvicinato rischierebbe di essere fuori fuoco, di notare soltanto l’esteriorità del problema, di lenire una ferita senza curare l’infezione che affligge l’interno sistema. Volendo guarire dall’isolamento, si ignora la totalità delle componenti in gioco: si finisce, dunque, per praticare un ulteriore isolamento.

Ciò che fa Thoreau, ancora, è in primis un lavoro sulla propria persona, afflitta dagli stessi mali della società in cui ha lungamente vissuto. È per questa ragione che, leggendo le pagine di “Walden” si assiste allo smascheramento dell’umano che, dimentico dell’originario senso della Natura (ché l’umano stesso è Natura), si trova preda dei paradossi più tremendi: si pratica il male credendo di praticare il bene, si è assassini credendo di essere salvatori, si condanna alla schiavitù credendo di essere liberatori.

Desideroso di liberarmi dal peso annichilente dei paradossi cui siamo quotidianamente condannati, caro Lettore, ho deciso di ritirarmi – seppur per lo spazio d’un mattino- in un posto in cui non si conosce la mancanza, in cui non v’è privazione perché c’è esattamente tutto ciò di cui si ha un primario bisogno; desideroso di riscoprire il suono autentico delle parole che ti indirizzo, sperando che possano anche solo segnare una via possibile, un tratturo già battuto e dimenticato, con la speranza che, indicandolo ai tuoi occhi, possano un giorno trovarlo i miei.

Emanuele Lepore

[immagine di proprietà di Emanuele Lepore]