Unconscious bias, ovvero quando la discriminazione è inconscia

Il 2 gennaio 2018 in Islanda è entrata in vigore la legge sulla parità di salario tra uomini e donne. La legge, che era stata approvata nel 2017, impone ai datori di lavoro di assicurare condizioni eque, incluse quelle retributive, a parità di incarichi e qualifiche1. Al di là dell’ovvia importanza della legge, decisamente all’avanguardia rispetto al resto del mondo, vale la pena di sottolineare un altro elemento interessante su cui la legge fa luce. Obbligando i datori di lavoro a fare particolare attenzione ad una parità a trecentosessanta gradi, si porta in primo piano quella che potremmo definire “discriminazione di genere involontaria”, ovvero inconscia. Sotto la categoria di discriminazione inconscia si possono raggruppare tutti quegli atteggiamenti che, essendo profondamente radicati nelle nostre abitudini, riteniamo normali ma che in realtà hanno un’origine discriminatoria. Su queste attitudini mentali, che ci accompagnano nella vita di tutti i giorni, spesso basiamo i nostri comportamenti e formiamo le nostre percezioni, soprattutto senza rendercene conto.

Per discutere della discriminazione di genere involontaria, dobbiamo prima di tutto escludere la discriminazione volontaria. Immaginiamo un gruppo di riferimento costituito da uomini e donne convinti della necessità di avere eguaglianza di genere non solo a parole, ma anche nei fatti. In sostanza, immaginiamo che la discriminazione volontaria, ovvero quella frutto di una decisione attiva di discriminare un genere, non esista.

Il luogo più banale da cui partire per un esempio di discriminazione inconscia è la casa. All’interno del gruppo di riferimento, siamo sicuramente tutti d’accordo che il mantenimento della casa è responsabilità di ciascuno dei componenti del nucleo familiare – così è stabilito anche dalla legge2. Si potrebbe dunque pensare che la questione si risolva facilmente accordando una divisione equa dei compiti domestici. Ma è realmente così che si raggiunge una vera parità? La risposta ce la fornisce il concetto di carico mentale, elaborato in fumetto dalla blogger francese Emma3. Con i suoi disegni, Emma spiega perché condividere le faccende domestiche non è sufficiente. Alla divisione dei compiti domestici si arriva grazie ad un lavoro mentale e organizzativo pregresso: facendo il punto della situazione su cosa c’è da fare, la donna si prende carico più o meno inconsciamente della responsabilità dell’organizzazione del lavoro attorno nucleo familiare. Al contrario, è proprio il senso di responsabilità, in primis, che va diviso equamente. Ne segue che l’idea stessa che un compagno/marito “aiuti” in casa è discriminatoria, perché implica una mancanza di responsabilità da parte dell’uomo nei confronti del lavoro domestico, a cui contribuisce, invece, aiutando il responsabile di quel lavoro (la donna).

Non c’è da meravigliarsi se una tale struttura mentale venga involontariamente trasferita anche in altri campi, come quello lavorativo. Per facilitare la comprensione, ricorriamo alle statistiche, che ci dicono che nonostante le ragazze tendano ad essere più brave nello studio, i vertici delle società rimangono per la maggioranza ricoperti da uomini. Un tale controsenso indica che c’è qualcosa che storpia il processo di crescita professionale e che non viene raccolto come dato obiettivo dalle statistiche. Il carico mentale domestico può avere un certo peso nel limitare lo sviluppo della carriera, per il semplice motivo che il tempo dedicato, per esempio, alla casa, è tempo che non può essere occupato per qualsiasi tipo di arricchimento personale. Più subdolo della disparità salariale e di una mancata promozione, c’è l’atteggiamento di chi (uomo o donna) più o meno inconsciamente respinge opinioni e idee di colleghe senza una ragione obiettiva: un concetto ha una forza comunicativa maggiore quando presentato da un uomo rispetto ad una donna. Secondo Robin Lakoff (1973)4 è una complessa questione di sintassi, registro e vocabolario. Di conseguenza, se un lavoratore uomo può facilmente trasmettere le sue idee, una lavoratrice dovrà, per esempio, ripetere lo stesso concetto due, tre, quattro volte, essere sicura di essere stata ascoltata, e non solo sentita, fare attenzione che non venga snobbata senza giustificazioni plausibili e accertarsi che, una volta accettato, le venga riconosciuto il merito. Questi atteggiamenti inconsci diventano poi percezioni distorte della realtà, che giustificano salari minori e qualifiche inferiori. Anche in ambito lavorativo, come in quello domestico, le donne si trovano a svolgere due lavori: il lavoro per cui si è assunte, ed un lavoro parallelo ed invisibile, fatto di gomiti alti, occhi aperti e orecchie vigili. Un lavoro necessario non tanto per farsi notare, quanto per assicurarsi di non farsi scavalcare.

La discriminazione di genere non solo esiste, ma ha anche due facce: un conscia ed una inconscia. E per liberarsi di quella inconscia, la strada è ancora più lunga e tortuosa. Ricordiamocelo tutti e tutte il prossimo otto marzo, e come suggerisce il The Guardian, «non essere “femminista” solo a parole o nei tuoi post su Facebook, dimostralo nella vita quotidiana»5.

 

Francesca Capano

 

NOTE
1. Islanda: la parità di salario tra uomo e donna è legge, 2 gennaio 2018.
2. Art. 24, Legge del 19 maggio 1975, n. 151.
3. Ma cara, perché non me lo hai chiesto?, 24 maggio 2017.
4. R. Lakoff, Language and Women’s Place, Cambridge University Press, 1973. Disponibile a questo link.
5. Men, you want to treat women better? Here’s a list to start with, The Guardian, 16 ottobre 2017.

 

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Scuola e l’armonia fra conoscenza e conoscente

La scuola rappresenta uno dei malesseri più intrinseci della nostra epoca, perché sta per avverarsi un cambiamento di prospettiva non ancora così evidente. La scuola non è un’istituzione, ma una strada, che conduce al mondo, al centro di sé. Viviamo in un momento storico per nulla rettilineo, ma che ruota attorno a se stesso, e non riesce a guardarsi, a ritrovare la via su cui dirigersi.

Tuttavia, esistono scuole alternative che propongono un nuovo punto di vista sull’educazione, e una di queste è la scuola steineriana. Fondatore dell’antroposofia, la pedagogia del filosofo austriaco Rudolf Steiner prende in considerazione non tanto la dimensione psicofisica del bambino in sé, quanto lo sviluppo della stessa. Steiner elabora un sistema che intende inglobare l’intera crescita del bambino, adattando l’apprendimento ai suoi stati di cambiamento, e non viceversa.

L’insegnamento non è puro inserimento di nozioni, ma la conoscenza deve essere adeguata alle potenzialità del bambino. Ogni argomento non è solo narrato dal maestro, bensì sviscerato dalla creatività della classe, che vi dedicherà disegni, storie, rappresentazioni teatrali, manufatti. La conoscenza non va inculcata, ma bisogna attendere il momento giusto perché possa essere accolta, ed esperita. L’educazione è un percorso, accidentato e imprevedibile, in cui il bambino è il viandante e necessita di punti di riferimento.

Della scuola steineriana, bisogna considerare tre elementi fondamentali.

Il gioco libero
Soprattutto i bambini più piccoli hanno spazi di tempo dedicati al gioco libero, in cui hanno a disposizione diversi giochi od oggetti, e con essi la possibilità di usarli in totale libertà, senza l’intervento dell’adulto. L’obiettivo è quello di stimolare la creatività del bambino, permettergli di fare esperienza, di valutare il pericolo. Tuttavia, a questa virtuosa caratteristica segue il corollario, per cui il bambino deve giocare da solo. Non deve subire alcuna influenza, per far sì che da solo sviluppi la sua creatività, ma ne può conseguire che i bambini abbiano difficoltà nelle relazioni, e che sia difficile imporre una disciplina.

L’importanza della noia
Il momento della noia si configura come un’occasione, in cui il bambino sfrutta tutte le sue energie, per trovare un rimedio a tale stato negativo. Inoltre, in particolari momenti della crescita, la noia rappresenta il momento di passaggio, grazie al quale il maestro capisce che il bambino è saturo di ciò che ha appreso, ed è maturo per accogliere il nuovo. Se, tuttavia, tale metodo si sposa meglio con le indoli più docili, non sempre si rivela adeguato per i caratteri più ribelli. Un bambino iperattivo, per esempio, non riesce sempre a colmare il vuoto della noia, così da giungere a uno stato di frustrazione, che lo porterà allo sfogo sui compagni, o a dedicarsi ad attività estreme.

Non vi sono differenze di genere o culturali
Sia i maschi che le femmine imparano a cucire, a lavorare il legno o in giardino. Se tutti i bambini possono ascoltare le favole, o imparare a contare, allora una bambina può usare chiodi e martello, o un bambino cucire una borsa da sé.
La scuola steineriana tende a sopraelevarsi sulle differenze culturali, poiché non ha uno specifico indirizzo religioso o politico. La religione non è insegnata in quanto dottrina, ma, conformemente al metodo, si apprendono i suoi fondamenti al momento opportuno, posti sullo stesso piano della mitologia norrena o greca. Ogni scuola è modellata secondo la cultura del paese in cui è stata fondata, e nessun membro ne è escluso. L’obiettivo della scuola steineriana non è quello di formare delle menti colte, ma di accompagnare la crescita dello studente, nel modo più armonioso possibile.

La scuola steineriana, lungi dall’essere perfetta, può comunque essere una fonte di ispirazione, per elaborare un nuovo metodo pedagogico, che faccia tesoro dei suoi insegnamenti, e che meglio si adatti alle esigenze della nostra epoca.

Vi sono, inoltre, due considerazioni da non dimenticare. La scuola steineriana si basa su un pensiero filosofico, ovvero critico, che ha assunto il problema dell’assimilazione del sapere e ha creato un metodo, affinché la conoscenza e il conoscente combacino senza farsi violenza. Si tratta dell’esempio più lampante di come la filosofia si realizzi nella pratica, e ne diventi un pilastro portante.

Infine, bisogna ricordare che la scuola, qualunque essa sia, non può insegnare la cultura, bensì introdurre a essa. La cultura è un’esperienza intrapersonale, fra noi stessi e quell’io inaspettato, che si scopre fra le pagine di un libro. Per quanto ci si sforzi, resta spesso inenarrabile.

La scuola deve tracciare, invece, una strada fra i mali del mondo, per indicare il bene dietro di essi, e permettere che il viandante li riconosca dentro di sé1.

Fabiana Castellino

Fabiana Castellino è nata nel 1990 in Sicilia.
Si è laureata in Scienze filosofiche con lode, all’Università di RomaTre, con una tesi su Arthur Schopenhauer.
Ha maturato diverse esperienze nell’educazione dei bambini, prima con disabilità, e adesso svolge un progetto di volontariato europeo presso una scuola Steineriana in Belgio.
La lettura e la scrittura le sono state compagne sin da bambina, e l’hanno sempre guidata nelle sue scelte, professionali e di vita.

NOTE:

1. In questa sede non è stato possibile spiegare nel dettaglio le caratteristiche della scuola steineriana. Per chi volesse conoscere più a fondo la filosofia di Steiner, e le scuole steineriane in Italia si consigliano i seguenti siti www.rudolfsteiner.it; www.rsarchive.org., e infine il video su youtube Waldorf-100 The film

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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