Per una prospettiva politica di emancipazione

Nel libro Il lavoro delle donne nell’Italia contemporanea di Alessandra Pescarolo vi è una frase che ha attirato la mia attenzione per settimane. La riporto per intero: «Non c’è, dunque, niente di automatico nello sviluppo dell’autonomia economica delle donne, che dipende dall’incrocio fra le trasformazioni del contesto e la capacità di mobilitazione soggettiva e politica delle attrici e degli attori storici»1.

Leggendola e rileggendola il mio pensiero non era soltanto rivolto alla questione attualissima della disoccupazione, sia essa femminile, giovanile, ecc., ma più in generale alla sua perdurante persistenza. Non riuscivo infatti a smettere di riflettere sull’immagine dell’ incrocio indicata da Pescarolo come elemento figurale determinante dell’emancipazione economica. Il motivo della mia insistenza era dovuto dalla seguente riflessione deduttiva: se accetto il disegno concettuale dell’incrocio sono costretta ad ammettere un insidioso limite insito nella protesta sociale e nella proposta politica. Questa figura implica infatti che le due determinanti variabili storiche, rispettivamente le trasformazioni del contesto e la capacità di mobilitazione, siano concepite come condizioni necessarie all’emancipazione ma non di per sé sufficienti se non nell’indefinita contingenza di una loro presenza congiunta e/o congiunturale. Pertanto qualsiasi forma di mobilitazione, senza l’opportuno cambiamento del contesto, è destinata all’inconcludenza a meno che non si riesca a prospettare e a definire un nostro ruolo attivo proprio nelle trasformazioni del contesto.

Per questo penso alla possibilità di definire una prospettiva politica di emancipazione capace di incrementare i nostri punti di presa direzionali sulle dinamiche del nostro cambiamento storico. A tal fine sarà innanzitutto necessario attribuire un senso nuovo alla distinzione che solitamente operiamo tra spazio pubblico e spazio privato. Tale distinzione non intenderà demarcare l’impermeabilità o l’invalicabilità dei rispettivi confini ma evidenziare i due termini di una relazione fondamentale.

La qualità di vita di ogni singola dimensione privata dipende infatti dalla profondità della nostra discussione pubblica. Questo perché il nostro bene comune più che essere una meta ideale da raggiungere è un magma sotterraneo da far emergere. Il bene è comune non nel senso di un minimo comune denominatore, una sorta di uguale resto fortuito e successivo alla soddisfazione dei nostri singoli interessi privati, ma è comune nel senso che ci accomuna, che ci lega l’uno all’altro in una griglia relazionale da identificare. Perciò partecipare alla politica non significa scegliere da che parte stare, non significa limitarsi a una opzione di voto ma vuol dire interagire a monte nella definizione delle questioni politiche, vuol dire indagare per poter collaborare.

Ecco che allora la nostra emancipazione non potrà prescindere dal progetto intellettuale di un approfondimento individuale e interpersonale. Tale progetto non potrà che essere:
eccezionale perché spesso è proprio il nostro stile di vita a censurare il tempo della ricerca e della riflessione, che è invece essenziale per poter disinnescare preventivamente «l’uso supremo e più insidioso del potere [che] è quello di far sì che le persone non abbiano rimostranze, plasmando le loro percezioni, preferenze e cognizioni»2.
trasversale alle nostre occupazioni quotidiane e professionali perché in politica l’uguaglianza non si riferisce all’identità di uno status economico-sociale ma alla conquista di una assertività capace di astrarre dal proprio ruolo non per accantonarlo ma per ricomprenderlo alla luce di un contesto storico e contingente più ampio.
volto a migliorarsi e a migliorare perché la ragione senza desiderio di armonia dimentica la sua intrinseca contraddizione. La ragione infatti non può evidenziare senza nel contempo oscurare, argomentare senza tralasciare, trascurare o addirittura fuorviare.

Per di più, se davvero la società è «un insieme di individui i cui interessi economici e sociali sono inevitabilmente in conflitto o in concorrenza»3 sarà importante che ciascuno di noi scelga di assolvere il compito paradossale di affidarsi con diffidenza alla razionalità. Senza riflessione il lume della ragione si affievolisce, si spegne. Senza sensibilità del bene proprio quel lume ci abbaglia, ci acceca poiché impedisce di vedere e di mostrare alla ragione ciò che le manca. E la strada della nostra emancipazione sta proprio lì, nel mezzo, tra l’inconsapevolezza e la rivendicazione, tra la sottomissione e la prevaricazione, tra il disinteresse e la compiutezza non porosa del sapere.

L’emancipazione è il buon uso della ragione. Riconoscerne l’eccellenza perennemente in difetto è la vera chiave per diventare, ovunque, l’uno il collaboratore dell’altro.

 

Anna Castagna

 

NOTE:
1. A. Pescarolo, Il lavoro delle donne nell’Italia contemporanea, Viella 2019, p. 28
2. Citazione riportata in Anne Stevens, Donne, potere, politica, Il Mulino 2009, pp. 35-36 di S. Lukes, Il potere. Una visione radicale, Milano, Vita e Pensiero, 2007
3. A. Stevens, op. cit., p. 104

[Photo credit pixabay]

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Immigrazione e disuguaglianze secondo la dialettica servo-padrone

Otto miliardari nel mondo hanno la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone. Il rapporto Oxfam ci informa di una dato impietoso, impossibile da concepire per la portata dello squilibrio. La bilancia pende drasticamente da un lato, riempiendo le tasche di un’esigua minoranza di miliardari della moneta attuale, il potere. Le disuguaglianze sociali sono la naturale conseguenza di tale disparità economica, riconsegnando dunque determinati ruoli sociali alla varie componenti. Solo attraverso ciò si delineano le figure in gioco, si determinano le persone in base al reddito, alla propria posizione da soggettività in mezzo ad altre soggettività  immerse in una logica competitiva.

La corsa al guadagno diventa ragione di vita e ragione dei popoli imponendosi come legge globale, interiorizzando la prospettiva capitalistica nell’ideale umano. L’ideale che diventa ossessione, il guadagno utile e necessario diventa desiderio e bramosia di qualcosa di più, sempre di più, guadagnare per guadagnare. Poste tali dinamiche economiche vanno considerate anche le differenti condizioni socio-culturali nel panorama mondiale. Difatti il capitale si centralizza, si accumula nei grandi centri, risucchiato dalle zone ricche di risorse da derubare e saccheggiare fin dai tempi delle prime colonie. Decentramento e creazione di disparità diventano una realtà sempre più evidente ed è la base della disparità data dalle otto persone in rapporto ai 3,6 miliardi citati ad inizio articolo.

La differenza di condizione sociale stabilisce ruoli, scrive copioni per i vari attori in scena. Servo e Padrone e non sono più delle fantasie letterarie o figure hegeliane de La fenomenologia dello spirito. Difatti la dialettica si instaura effettivamente, la condizione di sfruttamento è da identificarsi con chi è stato derubato, con chi si è ritrovato inferiore economicamente e socialmente a quelle otto persone che detengono il potere, ovvero la componente rappresentata dal Padrone. Le due figure sono assolutamente attuali anche in virtù delle condizioni lavorative che prevedono un lavoratore assoggettato ad un datore di lavoro. Proseguendo per questa linea, infatti, il rapporto dialettico tra le due figure che sono in contatto per uno scambio di servizi e benefici, si evidenzia la dipendenza che emerge da entrambe le fazioni. La dipendenza data da un servo che è pronto a compiere quel determinato lavoro poiché potrebbe trattarsi della sua unica possibilità rimasta. La dipendenza data da un padrone che, magari, non sa svolgere un lavoro e la possibilità economica lo rende assoggettato e sostenuto dal frutto del lavoro del suo sottoposto.

Disperazione e pigrizia agiata si equilibrano, trovano realtà e non solo teoresi nel fenomeno dell’immigrazione e della condizione di disoccupazione che attanaglia i vari paesi europei. La crisi economica, in molti casi, porta ad un abbassamento delle aspettative, ad un’accettazione di condizioni di sfruttamento e di inferiorizzazione e il farsi servo di migranti in fuga da un paese in guerra o privo di condizioni favorevoli e di giovani in seria difficoltà nell’approccio al mondo del lavoro. Dunque un semplice squilibrio dato da un’ambizione umana sempre crescente riesuma personaggi che pensavamo esistessero solo all’interno delle favole e dei racconti capaci di farci volare con la fantasia quali il “buono” ed il “cattivo”.

La verità ultima è che siamo ancora immersi in logiche infantili biunivoche basate sul conflitto tra il bene ed il male e forse è quello che la gente, il popolo brama di più, ne è quasi assuefatto. Il tema dell’immigrazione come tanti altri trattati nei quotidiani e nella vita pubblica e sociale riesce a soddisfare quel bisogno di conflitto che l’uomo infelice, l’uomo insoddisfatto e magari proveniente da un ambiente subculturale richiede per potersi sentire padrone della scena, della discussione e della ormai svalorizzata “cosa pubblica”.

Il capro espiatorio è servito attraverso una comodità di accusa e scelta che si copre gli occhi davanti a discorsi più complicati preferendo la soluzione semplice, la scorciatoia mentale destinata a non risolvere le questioni, bensì accentuarle e incriminarle sempre più per scaricare odio ed insoddisfazione. Tale condizione persevera e viene tutelata dalle molte piccole coscienze che credono di essere in una condizione privilegiata, da tutti quelli che credono di essere i padroni e quindi di dover recitare tale ruolo non curandosi empaticamente della situazione di chi invece risulta essere meno agiato e fortunato, come si suol dire “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Eppure in un panorama del genere chiederei a chi è, o almeno si sente, padrone se egli o ella si senta sicuro/a di quella condizione, se si senta tutelato dal momento che senza un adeguato servo si ritroverebbe incapace di auto-sussistere. Chiederei se il servo rimarrà sempre servo perché, può darsi, che esso possa essere già altro da sé e se ragioniamo nella cara logica biunivoca…

Alvise Gasparini

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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“Come noi non c’è nessuno”: resto o scappo?

Alla vita adulta, si dice, ci si arriva soprattutto grazie al lavoro. E’ per un impiego, per la capacità di autofinanziarsi, per la possibilità di esprimersi che si deve passare.

Ci dicono che in Italia non c’è futuro per noi giovani. Che è meglio se ce ne andiamo via perché “non c’è speranza” e “le porte sono chiuse”.
Cervelli in fuga, li chiamano i media.
In patria si fatica a trovare un posto all’altezza della propria formazione e delle proprie ambizioni? Piuttosto di accontentarsi di un lavoro considerato dequalificante qui da noi, meglio andare a sfornare pizze in un ristorante a Londra, a preparare mojito in un bar di Berlino o a fare il commesso in un negozio sugli Champs-Elysées.
Certo, il titolo di studio va chiuso in un cassetto, ma l’esperienza all’estero e la pratica della lingua straniera aiutano ad essere un po’ meno…schizzinosi.
Sessant’anni fa si emigrava spinti dalla fame, oggi dall’assenza di possibilità.
O di motivazione?
A questa provocazione, molti risponderebbero che è pura utopia pensare che dalla profonda crisi che sta attraversando il nostro paese si uscirà, che tra un po’ di anni le cose si sistemeranno, che se ci si mette d’impegno qualcosa da fare qui in Italia lo si trova. Molti risponderebbero: “solo incarichi temporanei e orari ridotti!” Altri ancora: “Non c’è lavoro, punto. O vai via e ti costruisci la tua vita all’estero, o sarai destinato a fare la fame per sempre”.
Allora, che faccio? Mollo tutto e scappo?
O mi rimbocco le maniche?
“La speranza è virtù rischiosa, non illusoria. E il mio, il tuo impegno, se non è carico di speranza, è pura follia”: queste le parole del nostro Papa Francesco.
E’ vero, pensare a “futuro” e collegarlo alla nostra attuale situazione economica fa un po’ paura. Pensare a “Futuro”, accendere la tv o sfogliare un giornale e vedere titoli come “Gestione Fallimentare dei Fondi Comunitari, Tasso di disoccupazione nell’agosto 2014 pari al 44,2 % o Italia peggiore nell’Eurozona”, non è di certo rassicurante. E non pensare più a “futuro” ma a “il futuro non c’è più” è facile.
Thomas Mann scriveva:

Quando un pensiero ti domina, lo ritrovi dappertutto, lo annusi perfino nel vento..

Indubbiamente, analizzando le ultime statistiche e la condizione odierna, la situazione è abbastanza nera.
E la prima priorità della politica italiana deve essere la lotta alla disoccupazione involontaria. “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul Lavoro”, ci ricorda l’art. 1 della nostra Costituzione.
Ma io credo che, come giovani, sia nostro dovere, accogliere tutto ciò come una grande sfida. Provarci almeno. Provare a concentrarsi su quel poco che ancora ci rimane, sfruttandolo però al meglio. Provare a concentrarsi su di noi, su ciò che noi siamo, e su ciò che noi abbiamo da offrire agli altri. Mettendo da parte, almeno per un momento, rassegnazione e pessimismo.
Mi viene in mente subito un articolo della Nuova Venezia pubblicato il 25 settembre 2013:

Matteo e Simone neo imprenditori puntando su un’alga: MEOLO. Se la crisi sta spingendo tanti giovani verso l’estero, c’è anche chi la propria sfida vuole vincerla in casa. Ne sono un esempio due giovani di Meolo, Matteo Fecchio e Simone Parro. Entrambi 25enni, stanno per coronare il loro sogno: avviare in paese un’innovativa attività di acquacoltura di spirulina, una particolare tipologia di micro alga. (…) L’ultilizzo della spirulina si sta diffondendo notevolmente, soprattutto nel campo alimentare come prodotto dietetico e salutista, con possibili applicazioni anche nell’industria cosmetica e farmaceutica. Ma per la quasi totalità, si tratta di alghe importate. «La produzione italiana è davvero molto scarsa, a fronte di una richiesta invece elevata. Quando ho avviato la mia attività», spiega Matteo Fecchio, «sono venuto a sapere dell’esistenza di questi micro organismi, tramite uno staff di biologi con cui ora vorremo collaborare. Mi hanno spiegato le potenzialità benefiche della spirulina, poi ne ho capito anche le potenzialità di reddito. Era ormai da un paio d’anni che cercavo di sviluppare questo progetto di acquacoltura, ma non ci sono mai riuscito per le difficoltà che oggi i giovani incontrano nell’accesso al credito per le start up di imprese». L’opportunità colta al balzo, allora, è arrivata dal bando che la Regione ha pubblicato per finanziare proprio le imprese giovanili. Matteo Fecchio e l’amico di sempre Simone Parro decidono di parteciparvi. E, su circa 250 progetti partecipanti, l’idea di Matteo e Simone si è piazzata sesta, strappando uno dei pochi finanziamenti disponibili. (…)”

Quando si dice: “non aspettare la manna dal cielo ma rimboccarsi le maniche con ciò che si ha”!
Certo, probabilmente la situazione economica e lavorativa da qui a dieci, quindici, vent’anni non cambierà, probabilmente le difficoltà raddoppieranno, gli incentivi diminuiranno, i progetti come questi saranno sempre più rari, le possibilità sempre meno e la voglia di prendere l’aereo tanta.
Non dimentichiamo però che il futuro è un nostro diritto e che tutte le donne e gli uomini hanno corresponsabilità nel bene comune. E’ ciò che costruiamo oggi, non pensando al domani, non pensando a cosa sarà, ma pensando a ciò che possiamo fare, qui e ora. Credere in un futuro che si riempie di forza ed energia tramite il presente.

Rossella Zatta

Mi sono diplomata nel 2013 presso il Liceo Classico Elena Corner di Mirano e attualmente studio Mediazione Linguistica presso il Campus Universitario CIELS di Padova.
Adoro la musica e il teatro in tutte le sue forme, amo la letteratura e le lingue, sia antiche sia moderne.
Scrivo articoli di attualità per giornali locali e sono parte della redazione del giornale parrocchiale.

[immagini tratte da google immagini]

Grazie Vasco…e famose ‘na risata!

L’uomo sensuale ride spesso dove non c’è niente da ridere. Qualunque cosa lo stimoli, vien fuori il suo benessere intimo. Goethe

Ieri ero in macchina. In uno dei tanti viaggi per portare il mio curriculum in giro. Un po’ abbattuta, per la verità. Si perché, masochisticamente, mi “dilettavo” nell’immaginare il mio curriculum finire nel cestino appena dopo essermi chiusa la porta alle spalle; o, se magari mi andava di lusso, essere piazzato sopra un catasto di altri curricula lasciati in un angolo della scrivania ad arricchirsi di polvere e ingiallirsi. Ero in macchina, in uno dei tanti viaggi a vuoto per portare il mio curriculum in giro, mentre mi chiedevo perché sono stata così testarda da aver voluto studiare a tutti i santissimi costi Psicologia, quando mamma, papà, parenti, amici (e chi più ne ha più ne metta) me lo sconsigliavano – anche con un certo ardore. Ero in macchina a pensare alla mia dannata condizione di giovane –e non poi così tanto- laureata in cerca di lavoro che mi pare così simile alla condizione di chi si trova a cercare, assetato, l’acqua nel deserto. Insomma, diciamocelo, il mio umore non era proprio alle stelle, l’avevate capito anche voi. Ma non è questo il punto. Il punto è che mentre mi lasciavo un po’ naufragare nel mare dello sconforto in radio passa una canzone. E che c’è di strano, penserete voi. Se ascolti la radio qualche canzone te la dovresti aspettare, altrimenti la tieni spenta quella benedetta radio. Si ok, lo so. Ma quella canzone lì, in quel preciso momento, beh, mi ha cambiato la giornata. Read more