Il cinema riscopre le favole per raccontare l’attualità

Una storia vecchia quanto il tempo può riuscire a raccontare in modo verosimile il presente? Nell’era delle fake news dilaganti, dell’iperconnessione social e della verità spiata e distorta, come si può mettere in scena il grande caos della quotidianità? Il cinema hollywoodiano si è arrovellato spesso su questi interrogativi nel corso degli ultimi mesi e la conclusione a cui è arrivato sembra essere tanto scontata quanto efficace.

Per trovare, nel 2017, un cinema che sia ancora in grado di raccontare la realtà che ci circonda, gli spettatori devono tornare in sala a vedere e riscoprire i grandi film d’animazione del passato, aggiornati in chiave moderna. Basta con i documentari impegnati, i thriller a sfondo politico o i film horror pieni zeppi di messaggi sociali nascosti. Oggi la quotidianità passa attraverso i grandi studi d’animazione Disney e Pixar che, faticando a trovare idee originali per nuovi soggetti, preferiscono spesso ri-adattare sul grande schermo i cartoni animati che hanno segnato l’infanzia di intere generazioni di spettatori. Così, dopo il noioso Cenerentola di Kenneth Branagh e il digitalissimo Libro della giungla di Jon Favreau, ecco arrivare al cinema La bella e la bestia di Bill Condon. Musical in live action che, in apparenza, nulla aggiunge alla storia raccontata dal celebre cartone animato nel 1991 ma che in verità inserisce numerosi riferimenti al nostro presente. Alcuni già insiti di per sé nella favola originaria (la ricerca di un amore che vada oltre le apparenze, l’accettazione del diverso e l’eterno confronto tra bene e male), altri molto più innovativi e attuali (la sequenza del presunto ballo gay è costata alla pellicola il ritiro immediato dal mercato malesiano). Non solo: se il super blockbuster con protagonista Emma Watson strizza l’occhio alla comunità Lgbt, il nuovo film della Pixar cerca di ingraziarsi il  mercato messicano, messo alla gogna dalla nuova amministrazione Trump. Il trailer di Coco ha già registrato migliaia di visualizzazioni in pochissimi giorni e si prepara a diventare uno dei titoli più attesi della prossima stagione.

Il cinema d’animazione entra così di prepotenza nella nostra attualità e gli incassi, per il momento, sembrano dargli ragione. Forse perché, come sosteneva la scrittrice Ida Bozzi, siamo tutti testimoni dell’eternità delle favole. La favola ha il potere della trasmissione di padre in figlio, anzi molto spesso di madre in figlio. Ha il potere dell’identità, la porta fino a noi. Le fiabe sono più antiche della rivoluzione industriale, più semplici di Platone (forse) e più trasportabili del Partenone, ma ugualmente sono un bagaglio comune e nostro. Sono la chiave di lettura per capire che al cinema si può ancora raccontare ciò che quotidianamente ci circonda, senza perdere minimamente il piacere di sognare a occhi aperti.

Alvise Wollner

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Inside out non è un film per bambini

Nella stagione in cui i titoli più attesi dell’anno escono nelle sale, Inside out è stato uno dei film non solo più visti, ma anche più apprezzati del mese di ottobre. Un risultato in parte prevedibile, dal momento che quasi tutti i film prodotti dalla Pixar Animation hanno sempre riscosso ottimi successi di pubblico e critica. E’ importante osservare però che Inside out, pur rientrando nella categoria “cinema d’animazione”, non può essere ridotto alla semplice definizione di: film per bambini.

Molti critici, nel corso degli anni, hanno sottolineato, a ragione, il fatto che la Pixar abbia dato una svolta netta al modo di realizzare film animati. Non solo a livello di tecnica, ma anche a livello di contenuti e di trama, grazie a storie apparentemente semplici e legate al mondo dell’infanzia, capaci però di sviluppare tematiche molto complesse e profonde, adatte a un pubblico adulto più che a un gruppo di giovanissimi. Inside out, e quasi tutti gli ultimi film firmati Pixar (Wall-E, Up e Ratatouille in particolare), sono quindi il paradigma di un’ideologia. I registi e i produttori di questi film hanno iniziato nel tempo a produrre delle pellicole i cui veri destinatari non sono più stati i bambini, bensì i genitori che accompagnano i propri figli al cinema. Cercando di produrre uno spettacolo formato-famiglia con ambientazioni ispirate alla vita quotidiana e personaggi iperreali, gli autori della Pixar hanno capito che l’importante non è avere l’attenzione dei più piccoli, ma quella dei più grandi che rappresentano il vero pubblico pagante. Se un genitore si diverte a guardare il cartone che il figlio gli ha chiesto di vedere, ci sarà una buona probabilità che con l’uscita del titolo successivo, prodotto dagli stessi autori, sarà il genitore stesso a riportare il proprio bambino in sala, perché ritiene che quello sia uno spettacolo piacevole e istruttivo non solo per il figlio ma anche per lui stesso. Ecco perché la Pixar sta puntando tutto sulla produzione di sequel dei suoi film più famosi e non su opere nuove (pensate a Toy Story 4 in uscita l’anno prossimo, Cars 2, Monster University eccetera eccetera).

Parallelamente, le trame dei film cercano di approfondire tematiche sempre più complesse: l’ecologia. il passaggio all’età adulta, le emozioni che governano l’uomo e così via, motivando anche gli spettatori nella fascia d’età tra i venti e i trent’anni a vedere questi film. Una complessa quanto efficace strategia di marketing, che sfrutta il mezzo cinematografico per produrre idee ed emozioni ogni volta più incredibili ed elaborate. “L’arte sfida la tecnologia e la tecnologia ispira l’arte” ha dichiarato il fondatore della Pixar J. Lasseter. Ed è proprio grazie alla complessità di questi meccanismi che film come Inside out continuano ad avere un così grande successo trans-generazionale. E’ la forza del cinema, ma non azzardatevi a chiamarli ancora: film per bambini.

Alvise Wollner

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A Christmas Carol

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Ci sono alcune cose che si ricordano nitidamente per tutta la vita. Non importa quanti anni passino, le ricordiamo perfettamente, come se fossero accadute soltanto ieri.

Avrò avuto pochi anni davvero, avrò avuto gli anni della spensieratezza, ed erano quegli anni in cui ci si riesce ad entusiasmare la mattina di Natale, quegli anni in cui i giochi sono preziosi oggetti di felicità, quegli anni in cui quando ti leggono un libro o ti raccontano una storia, questa ti edifica e ti accompagna – da qualche parte o soltanto dentro te stesso – per sempre.

Proprio in quegli anni apparentemente lontani, ricordo bene questo periodo di feste, ricordo che lo aspettavo per un motivo ben preciso: mio padre mi leggeva sempre una storia, un racconto che per me era il racconto dei racconti, era quello che mi faceva piangere e credere che il mondo fosse un bel posto, o che quantomeno la bontà esistesse in ognuno di noi.

“Il canto di Natale”, romanzo breve di Charles Dickens, uscito nel 1843, entra davvero nel cuore di tutti, e nel mio ci è entrato per darmi soltanto grandi insegnamenti di vita.

Ebenezer Scrooge; l’avaro in termini materiali e spirituali. Rappresenta chi nel Natale non ci crede più, rappresenta chi misura la vita in materialismo, rappresenta chi pensa di non aver più nulla da dare e vuole soltanto ricevere.
E’ un uomo che di sentimenti non ne ha, un uomo che ha scordato cosa sia un cuore, che tiene l’amore a distanza di sicurezza.
Eppure nella notte di Natale qualcosa lo sconvolge: gli appaiono tre spiriti. Quello del Natale passato, quello del Natale presente e quello del Natale futuro.
Certe immagini sconvolgono la sua durezza, davanti a certe situazioni si sceglie quasi sempre di cambiare prospettiva.
E’ il cambiamento, è come svegliarsi da un lungo sonno dopo tanto tempo, è come aver guardato dentro se stessi e volersi cancellare per diventare migliori.

Il romanzo di Dickens è il romanzo di Natale per tanti, troppi motivi. Perché a Natale vediamo chi è meno fortunato di noi, lo notiamo molto di più rispetto alla gran parte dell’anno. Penso al piccolo Tim, e ricordo quanto piangevo soltanto ad immaginarlo; emanava una felicità che chi ha tutto non è quasi più capace di trasmettere.
E’ il romanzo del “miracolo di Natale”: in questo periodo dell’anno si è capaci di cambiare, si è propensi a mettersi in discussione, è il momento di mettersi in dubbio ed è il momento di dire la verità.
Dickens, mettendo in risalto il divario tra classi sociali nella vecchia società inglese, regala un classico d’Autore, uno di quelli che non ti stancheresti mai di leggere.

Un classico che fa sognare i bambini, fa crescere gli adolescenti e fa riflettere gli adulti.

Cecilia Coletta

Il semplice fatto che al Mondo esistano ventidue diverse versioni cinematografiche de “Il canto di Natale”, dovrebbe farci riflettere sull’importanza unica che questa storia ha avuto nel corso degli anni. Una fascinazione, iniziata già con gli albori dell’industria cinematografica e che si è poi protratta fino ai giorni nostri. Tra tutti questi adattamenti per il grande schermo, oggi abbiamo deciso di scegliere le tre versioni che nel corso degli anni ci sono sembrate più significative, vale a dire: il primo film ispirato alla storia, la versione cartoon realizzata dalla Disney ed infine l’ultimo adattamento in ordine cronologico, diretto da Robert Zemeckis.

Se si pensa che il romanzo breve di C. Dickens venne pubblicato nel 1843 e che l’invenzione del pre-cinema si ebbe solo nel 1895, il fatto che la prima versione cinematografica de “Il Canto di Natale” sia stata realizzata nel 1908, è un dato davvero significativo per capire il successo e l’impatto emotivo che la storia ebbe fin da subito su migliaia di lettori. Oggi purtroppo di questa prima pellicola sappiamo ben poco. Si tratta infatti di un brevissimo cortometraggio muto, realizzato e prodotto dalla Essanay Film Manufacturing Company, negli studi di Chicago. La pellicola era di una sola bobina, quindi estremamente breve, ma fu distribuita nelle sale a partire dal 9 Dicembre del 1908. Il dato interessante è che il nome del regista non è nemmeno menzionato, neppure alla fine dei tradizionali titoli di coda, mentre è esplicitato fin da subito che l’autore del racconto originario è Charles Dickens. Una curiosità interessante per farci capire come all’epoca la Letteratura avesse ancora una forte componente autoritaria rispetto al cinema. Nel 1910 venne realizzato un nuovo cortometraggio sullo stesso tema, ma anche in questo caso i registi non vennero accreditati nei titoli di coda.

Ben più fortunata invece la storia del rapporto tra il Canto di Natale e quelli che vengono comunemente definiti come cartoni animati. Dai Muppets alla Barbie, passando per i Puffi, ognuno di questi celebri personaggi ha avuto almeno una propria versione della storia dickensiana. La più celebre e fortunata resta però “Il Canto di Natale di Topolino”, diretto nel 1983 da Burny Mattinson. In questo adattamento Topolino interpreta il ruolo di Bob Cratchit e Paperon de’ Paperoni quello di Ebenezer Scrooge (“Scrooge McDuck” è infatti il suo nome originale). Molti altri personaggi Disney, in primo luogo dall’universo di Topolino, Robin Hood e Le avventure di Ichabod e Mr. Toad, vennero distribuiti poi per tutto il film. Questo fu il primo cortometraggio della serie Mickey Mouse prodotto in oltre 30 anni. Con l’eccezione delle riedizioni, Topolino non era apparso nelle sale cinematografiche dall’uscita del corto Topolino a pesca del 1953. Il film fu nominato per un Oscar al miglior cortometraggio d’animazione ai Premi del 1984, ma perse a favore di Sunday in New York. Era la prima nomination per un cortometraggio di Topolino da “Topolino e la foca” del 1948.

Una storia, quella tra Dickens e i cartoni animati che ebbe sempre molto successo rispetto alle versioni con gli attori in carne e ossa. Merito anche del tema pedagogico e della morale più adatta ad un pubblico di minori, tipici di questa storia. Concetto questo, sfruttato anche dal celebre regista Robert Zemeckis (“Forrest Gump”, “Flight”) per adattare “Il Canto di Natale” alla tecnica innovativa della performance capture già sperimentata dal regista nel precedente “The polar express”. Siamo nel 2009 e il film richiese un costo pari a 190 milioni di dollari, riuscendo però ad incassarne oltre 320 in tutto il Mondo. L’ennesima dimostrazione di come, anche a distanza di un secolo dal primo adattamento cinematografico, la storia di Dickens riesca sempre a conquistare generazioni di spettatori e soprattutto di lettori. Parlando di amore e generosità, ma soprattutto focalizzandosi sulla morale secondo la quale ognuno di noi può cambiare il suo animo e aprirsi agli altri se lo vuole, “Il canto di Natale” è un capolavoro che rimane ancora oggi un paradigma ideale per raccontare e descrivere l’affascinante rapporto tra la Letteratura ed il Cinema.

Alvise Wollner

[Immagini tratte da Google Immagini]