Quello che manca. Una riflessione sui valori e sulle identità

Ogni paese ha i suoi eroi, e uno dei più pittoreschi e affascinanti della Bretagna francese è indubbiamente il corsaro Robert Surcouf, l’uomo che osò rifiutare il capitanato da Napoleone in persona per tutelare la propria libertà. Veloce di lingua come di spada, Surcouf è protagonista di moltissimi aneddoti più o meno credibili, e uno di questi lo vede impegnato in una conversazione con un ufficiale della Reale Marina Inglese durante una cena diplomatica: “Voi francesi combattete solo per il denaro”, aveva altezzosamente detto il soldato di carriera al corsaro, “mentre noi inglesi combattiamo per l’onore”. Affatto intimorito, Surcouf rispose: “Ognuno combatte per ciò che più gli manca”.

Mettendo da parte gli applausi per la pronta risposta, non è difficile vedere più che un fondo di verità nelle parole del futuro Barone Surcouf. Senza muoversi su conflitti troppo lontani storicamente, si può considerare come un motto simile possa applicarsi benissimo sia alle rivendicazioni di indipendenza e giustizia dei manifestanti di Hong Kong sia a quelle più “monetarie” e di riconoscimento sociale dei Gilet Gialli in Francia, alle manifestazioni ecologiste di Fridays for Future o Extinction Rebellion e ai sit-in per la riapertura delle miniere di carbone in Ohio. Indipendentemente dalla causa per cui si combatte, è (quasi) sempre una mancanza, percepita o reale, a spingere alla lotta, più o meno violenta, più o meno solitaria, più o meno efficace.
Tra tutte le forme di conflitto che caratterizzano la nostra epoca, dunque, sarebbe interessante rivalutare alla luce di questo assunto anche altre forme di lotta popolare che sono state interpretate in maniera diametralmente opposta, come il terrorismo fondamentalista, di matrice religiosa o identitaria o anche nazionalista-xenofoba.

Tra le molte voci giunte a commentare l’insorgenza di movimenti xenofobi oltranzisti, e precedentemente l’aumento dei cosiddetti foreign fighters e di cittadini diventati terroristi nei paesi europei, numerose sono state quelle che hanno parlato di “rinascita” delle ideologie, di “ritorno” delle (o alle) identità forti. A posteriori, a fronte di un crollo verticale nel numero degli attentati e di un indebolimento strutturale di molti nazionalismi, si potrebbe ipotizzare invece l’esatto contrario.

La società liquida teorizzata da Zygmunt Bauman ha definitivamente minato le basi di ogni identità che si voglia presentare come “forte”, sostituendo patriottismi, appartenenze religiose, ideologie politiche e perfino scuole filosofiche con un continuo e instabile turbinio pluralista e relativista di concetti, opinioni e identità temporanei e instabili, senza alcun valore prominente l’uno sull’altro, senza alcun punto di riferimento ideologico fisso. In questo mare magnum di suggestioni e impressioni, deculturalizzate e deradicate, il conflitto stesso non può più ancorarsi a grandi narrazioni del mondo per autosostenersi, e ricade dunque automaticamente nel regime della mancanza cui si riferiva sagacemente Surcouf.

Può darsi, quindi, che la nascita di movimenti politici e sociali fieramente xenofobi, nazionalisti e identitari non sia l’espressione di un ritorno dei patriottismi nazionali moderni, quanto piuttosto il segno di spaesamento e confusione di persone che non ritrovano più radici etnico-razionali in un mondo irreversibilmente interconnesso e globalizzato. Analogamente, se alcuni ragazzi nati e cresciuti, ad esempio, nella laicissima Francia, si “convertono all’islam” e si radicalizzano in forme di terrorismo urbano violento, potrebbe non essere il segnale di un ritorno delle grandi religioni sulla scena mondiale, ma al contrario la concretizzazione del disagio di chi non trova più spazio né senso del sacro in società ormai quasi del tutto secolarizzate.

 

Giacomo Mininni

 

[Foto realizzata dall’autore alla torre di Londra]

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Non solo nuoto: intervista a Federica Pellegrini

Non è mai facile fare delle proprie passioni una professione. Talvolta, degli imprevisti ce lo impediscono.
Altre volte, invece, la tenacia, i sacrifici e gli sforzi ci permettono di diventare ciò che desideriamo essere e di realizzare quel sogno che fin da piccoli ci cullava.
Nel mio caso, per esempio, il nuoto agonistico ha impastato le mie giornate dai sette agli undici anni: un pomeriggio dietro l’altro fatto di allenamenti in palestra e di chilometri in vasca. Ma ancora non era abbastanza: sentivo che avevo bisogno di altro e che non sarebbe mai diventato il mio lavoro. E mi sono arresa, abbandonando piano piano quell’attività con la quale ero cresciuta.

Oggi stimo molto chi decide di fare dello sport il proprio lavoro, trasformando la passione sportiva in un’attività professionale a trecentosessanta gradi. Lo sport infatti può insegnare molto ed è molto anche ciò che tutti noi possiamo imparare dagli sportivi: sono sicura che tutti noi, anche i più pigri e meno atletici, in un momento della propria vita abbiamo avuto uno sportivo come modello di vita, del quale ammiravamo la tenacia sperando di riuscire ad essere un giorno altrettanto determinati in qualsiasi ambito delle nostre vite.

Per tutti questi motivi siamo felici di essere riusciti a contattare Federica Pellegrini durante l’Arena Pro Swim Series di Indianapolis: è stata una preziosa occasione per scoprire cosa c’è, anche a livello agonistico, oltre ai tempi ed alla tecnica. La campionessa di Spinea ci ha infatti dimostrato in più occasioni come, al di là delle vittorie e delle sconfitte vissute nel corso della sua carriera, lo sport non sia mai stato un’attività agonistica fine a se stessa. Il nuoto, infatti, è diventato per lei un modo per conoscersi, uno specchio attraverso il quale guardarsi. Così, ci spiega in che modo il legame tra filosofia e sport diventa manifesto: non si tratta tanto di una competizione tra eguali, quanto più di uno stile di vita che consente costantemente di migliorarsi, imparando dai propri errori e assaporando il significato di vittorie, che sono frutto di passione, forza di volontà ma anche di sacrifici.

 

Ad un certo punto della tua vita, ancora piccolina, sei entrata in acqua e hai scoperto che quello era il tuo elemento. L’avevi capito subito che avresti dedicato al nuoto una buona fetta della tua vita, delle tue energie ed aspirazioni?

È stato amore a prima vista, infatti amo definirmi un pesce di acqua dolce. Complice di questa mia passione è stata certamente mia mamma Cinzia, che mi ha accompagnato in piscina a 3 anni.

Il termine “agonismo”, di cui tu sai più di qualcosa, deriva dal termine greco agòn, che letteralmente significa “lotta”. In che modo, a tuo avviso, la competizione agonistica può trasformarsi in una lotta costruttiva, piuttosto che finalizzata all’annientamento dell’altro contendente?

Io concepisco l’agonismo come momento ultimo di una preparazione finalizzata alla gara. Dai il massimo, ogni giorno, per essere pronta nel momento che conta. E’ più una lotta con te stessa che contro le avversarie: se sei preparata come meglio non potresti, i minuti della competizione sono frutto di tutto quello che hai dato in allenamento.

Posso immaginare che per te nuotare sia altrettanto normale e quotidiano del camminare; c’è però una nuotata talmente speciale che non potrai mai dimenticare?

Come decibel e calore puro tutte le gare dei Mondiali di Roma 2009. Come intensità del momento, la nuotata con cui ho vinto l’Olimpiade di Pechino resta la più speciale.

L’attività sportiva è strettamente legata ad un’alimentazione attenta ed equilibrata, tuttavia nel mondo sportivo come tu lo vivi, c’è il rischio di sfiorare l’eccesso. Tu stessa infatti, in alcune interviste, hai raccontato di aver vissuto un disturbo alimentare.
In che modo lo sport può diventare il mezzo – piuttosto che un fine – attraverso il quale i giovani ragazzi possono cercare di raggiungere un ideale di perfezione assoluto?

Una parola racchiude tutto: disciplina. Sei talmente concentrata su ciò che controlli, che vive di sottrazioni. Detto questo, sono onesta fino in fondo: faccio uno sport di tali privazioni che a tavola mi concedo più di uno strappo alle regole.

Queste problematiche sono legate a quel potere che l’immagine fisica (e perciò l’estetica) ha rispetto agli altri e, di conseguenza, rispetto a sé stessi, rischiando di oltrepassare i limiti descriventi la salute e il benessere che lo sport si incarica di promuovere.
Quanto oscilla il pendolo tra salute e malattia/ipercontrollo fisico nel campo di un un’attività sportiva quale quella del nuoto?

Sinceramente penso che superare i propri limiti, con la fatica che questo comporta, sia un concetto sanissimo. A patto che ogni limite sia superato senza additivi strani. Proprio per questo bisogno di trasparenza, pubblico spesso i referti dei controlli anti-doping.

A proposito di immagine. Sport e femminilità nel mondo d’oggi sembrano visti come due mondi lontani, per cui ci si stupisce ancora quando si vede un’atleta donna con un vestito ed un bel paio di scarpe, cosa che sembra tradire il fatto che alcuni stereotipi sono davvero duri a morire. Tu cosa ne pensi?

È vero, di strada da fare contro gli stereotipi ce n’è. Tuttavia mi sembra che nel tempo questo concetto si sia evoluto, grazie anche all’interesse crescente del mondo della moda per le atlete. Io stessa sono stata invitata a sfilare, e ho capito che gli stilisti apprezzano i valori che rappresentiamo. Poi ognuna di noi interpreta la femminilità come meglio ritiene. A me piace molto studiare i look, ricercare capi che mi rappresentano e contaminare gli stili.

In un’intervista hai detto che essere la capitana della squadra olimpica e ricevere il nostro tricolore dalle mani del Presidente Mattarella è stato per te l’onore e il riconoscimento più grande. Questo è un pensiero che oggi può risultare un po’ controcorrente se consideriamo lo scontento diffuso in Italia. Secondo te allora perché ha ancora un senso essere patriottici – o meglio, fieri italiani?

Non credo che lo scontento per le cose che non funzionano in Italia diminuisca il senso di patriottismo. Io ho avuto la fortuna di girare il mondo per il miosport, e devo dire che l’Italia mi manca sempre proprio per quell’insieme di caratteristiche che la rendono unica.

Torniamo per un’ultima volta al nuoto. Se lo potessi associare ad una sola parola o concetto, quale sarebbe e perché?

Leggerezza. Perché sentirsi leggeri è uno stato mentale impagabile ed io nuoto per amore di ciò che faccio.

Si parla spesso di filosofia di vita e tu sei riuscita a fare del nuoto la tua vita e la tua professione. Secondo te che cos’è la filosofia?

Per me filosofia è l’arte di migliorarsi, senza accontentarsi, godendo delle vittorie e imparando soprattutto dalle sconfitte.

Sara Roggi & Giorgia Favero

La mia vita apparentemente perfetta

Sono Ginevra. E la mia vita è apparentemente perfetta. Ve la racconto.

Ho ventisei anni. Sono già laureata e vivo da sola in un delizioso bilocale a Milano.  Mi sono laureata con il massimo dei voti alla London School of Economics e ora lavoro nel campo finanziario. Non male per una della mia età. Sono intelligente e ambiziosa. Mi definiscono “una di successo”. Appaio molto sicura di me stessa, ma socievole e aperta, mai supponente. Sono attraente, non una bellezza classica forse, ma agli uomini piaccio. Sono figlia unica, il fiore all’occhiello dei miei genitori. Mi hanno sempre spinto a credere in me stessa e a spingermi oltre quelli che pensavo fossero i miei limiti. Sembrerebbe che abbiano avuto ragione a guardare la mia vita ora. Sembrerebbe che tutto nella mia vita funzioni. Neanche l’ombra di un minimo sospetto.

Sono Ginevra. E la mia vita è apparentemente perfetta. Apparentemente, appunto. Ecco cosa non vi ho detto.

Sono bulimica. Penso al cibo tutto il maledettissimo giorno. Mi concentro sugli studi, sul lavoro per non pensare a quella che è la mia più grande ossessione: il cibo. La mia vita in realtà ruota attorno al cibo. In realtà Ginevra non è la giovane donna attraente e di successo che tutti vedono, ma è una donna insaziabile e senza controllo, in costante guerra con se stessa. Ho una smisurata paura di prendere anche una minima quantità di peso, parlo nell’ordine degli etti, ma allo stesso tempo non riesco a smettere di mangiare. Sono tormentata da attacchi di fame vorace che mi spingono ad andare al supermercato e comprare grandi quantità di cibo. Cerco di cambiare supermercato più spesso che posso e di non andare mai in quello vicino a casa dove abitualmente faccio la spesa. Compro patatine, biscotti, gelato, cioccolata. Per mangiarli tutti insieme, tutti in una volta. Silenzio il telefono per non essere disturbata, scarto i pacchetti e mi riempio la bocca. Senza gustare, senza sapere neanche quello che ho appena ingurgitato. In quel momento non capisco più niente, sono come in trans. Sono come impazzita. Non riesco a fermarmi. Mi detesto, mi disgusto. Provo vergogna per me stessa. Solo dopo, quando mi imbottisco di lassativi, o vomito, o digiuno per giorni, riprendo il controllo e mi sento meglio. E giuro a me stessa che non lo farò mai più, ma poi quell’impulso ritorna e io non riesco a vincerlo. Non so dire come sia iniziato tutto questo. La forte pressione all’università, lontana da casa, dalla mia famiglia. Il voler essere all’altezza, il non voler deludere nessuno.  Il voler essere sempre perfetta, impeccabile. La quantità di cibo che divoro è direttamente proporzionale alla paura di fallire. E allora mi concedo alla leggerezza, all’eccitazione, allo sfogo, alla rabbia, al bisogno di controllo, al disgusto.

Sono Ginevra. E queste sono le mie due vite. A volte credo nella donna sicura di sé e di successo che ho dentro, ma poi conosco anche la mia natura oscura, quella che nascondo agli altri, ad ogni costo, perché mi piace apparire perfetta.

La bulimia nervosa è uno dei più comuni disturbi alimentari, caratterizzato da alternanza di abbuffate fuori controllo e restrizione alimentare. È un circolo vizioso che si auto perpetua di preoccupazione per il peso e le forme corporee, dieta ferrea, abbuffate e meccanismi di compenso (esercizio fisico, vomito autoindotto, digiuno, uso di lassativi e/o diuretici).

Come funziona? Le crisi bulimiche avvengono in solitudine e in segreto. Si ingerisce una grande quantità di cibo, spesso in poco tempo, fino a che non ci si sente così pieni da star male. Si ha la sensazione di perdere il controllo e non riuscire a fermarsi. A seguito dell’abbuffata si ricorre a inappropriati comportamenti compensatori per prevenire l’incremento ponderale e volendo quindi neutralizzare gli effetti della crisi. Il rapporto col cibo perde la comune accezione di forma di nutrimento e diviene carico di rabbia, di sensi di colpa, di aggressività e di frustrazione.

Perché parlarne? La diagnosi di bulimia è in genere più difficoltosa rispetto a quella di anoressia nervosa, perché i sintomi sono più facilmente mimetizzabili e il soggetto spesso rimane in normopeso o con qualche chilo in più o in meno.

La bulimia nervosa è un male che ben si nasconde dentro le persone. Donne, e molto più spesso anche ragazzi, che conducono una doppia vita: quella perfetta dove l’apparenza di normalità nasconde la parte più oscura.

Giordana De Anna

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[Immagini tratte da Google Immagini]

 

I LOVE SHOPPING…un po’ troppo!

 Se guardate tutto ciò che viene messo in vendita, scoprirete di quante cose potete fare a meno. Socrate

Noi donne lo sappiamo molto bene: fare shopping è un’attività che ha il super potere di regalarci un enorme senso di piacere. A chi di noi non è mai capitato di essere giù di tono e di concedersi un “regalino” per risollevarsi il morale? Una delusione, una giornata pesante, una frustrazione. Ma anche il voler festeggiare un avvenimento, una bella notizia.

Ammettiamolo: ogni scusa è buona per fare un po’ di shopping.

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Il tempo per i giovani

Passo tratto dalla tesi Il tempo nella sofferenza di Valeria Genova, relatore Fabrizio Turoldo

(riferimenti a Galimberti Umberto, L’ospite inquietante – Crespi Franco, Tempo vola)

L’uomo spesso si è illuso di poter dominare il tempo misurandolo, ma questa strategia non ha fatto altro che scandire maggiormente i limiti dell’essere umano dinanzi all’eternità: non è più sereno perché tutto ha cominciato a velocizzarsi, il tempo non ha più l’ambito del vissuto, ovvero non è più un tempo soggettivo che accompagna la vita di ogni individuo ma è l’uomo che deve stargli dietro perché oramai il tempo è diventato indifferente verso tutto e tutti.

Quelli che ne pagano maggiormente le conseguenze sono i giovani, a causa dell’accelerazione del mutamento sociale e dei processi di forte differenziazione propri della modernità che li portano a celare una fragilità ed una vulnerabilità emotiva pesanti. Questa sofferenza profonda, diffusa tra le giovani generazioni, è causata principalmente dal nichilismo valoriale che porta ad un senso di insicurezza e precarietà.

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