Immigrazione e disuguaglianze secondo la dialettica servo-padrone

Otto miliardari nel mondo hanno la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone. Il rapporto Oxfam ci informa di una dato impietoso, impossibile da concepire per la portata dello squilibrio. La bilancia pende drasticamente da un lato, riempiendo le tasche di un’esigua minoranza di miliardari della moneta attuale, il potere. Le disuguaglianze sociali sono la naturale conseguenza di tale disparità economica, riconsegnando dunque determinati ruoli sociali alla varie componenti. Solo attraverso ciò si delineano le figure in gioco, si determinano le persone in base al reddito, alla propria posizione da soggettività in mezzo ad altre soggettività  immerse in una logica competitiva.

La corsa al guadagno diventa ragione di vita e ragione dei popoli imponendosi come legge globale, interiorizzando la prospettiva capitalistica nell’ideale umano. L’ideale che diventa ossessione, il guadagno utile e necessario diventa desiderio e bramosia di qualcosa di più, sempre di più, guadagnare per guadagnare. Poste tali dinamiche economiche vanno considerate anche le differenti condizioni socio-culturali nel panorama mondiale. Difatti il capitale si centralizza, si accumula nei grandi centri, risucchiato dalle zone ricche di risorse da derubare e saccheggiare fin dai tempi delle prime colonie. Decentramento e creazione di disparità diventano una realtà sempre più evidente ed è la base della disparità data dalle otto persone in rapporto ai 3,6 miliardi citati ad inizio articolo.

La differenza di condizione sociale stabilisce ruoli, scrive copioni per i vari attori in scena. Servo e Padrone e non sono più delle fantasie letterarie o figure hegeliane de La fenomenologia dello spirito. Difatti la dialettica si instaura effettivamente, la condizione di sfruttamento è da identificarsi con chi è stato derubato, con chi si è ritrovato inferiore economicamente e socialmente a quelle otto persone che detengono il potere, ovvero la componente rappresentata dal Padrone. Le due figure sono assolutamente attuali anche in virtù delle condizioni lavorative che prevedono un lavoratore assoggettato ad un datore di lavoro. Proseguendo per questa linea, infatti, il rapporto dialettico tra le due figure che sono in contatto per uno scambio di servizi e benefici, si evidenzia la dipendenza che emerge da entrambe le fazioni. La dipendenza data da un servo che è pronto a compiere quel determinato lavoro poiché potrebbe trattarsi della sua unica possibilità rimasta. La dipendenza data da un padrone che, magari, non sa svolgere un lavoro e la possibilità economica lo rende assoggettato e sostenuto dal frutto del lavoro del suo sottoposto.

Disperazione e pigrizia agiata si equilibrano, trovano realtà e non solo teoresi nel fenomeno dell’immigrazione e della condizione di disoccupazione che attanaglia i vari paesi europei. La crisi economica, in molti casi, porta ad un abbassamento delle aspettative, ad un’accettazione di condizioni di sfruttamento e di inferiorizzazione e il farsi servo di migranti in fuga da un paese in guerra o privo di condizioni favorevoli e di giovani in seria difficoltà nell’approccio al mondo del lavoro. Dunque un semplice squilibrio dato da un’ambizione umana sempre crescente riesuma personaggi che pensavamo esistessero solo all’interno delle favole e dei racconti capaci di farci volare con la fantasia quali il “buono” ed il “cattivo”.

La verità ultima è che siamo ancora immersi in logiche infantili biunivoche basate sul conflitto tra il bene ed il male e forse è quello che la gente, il popolo brama di più, ne è quasi assuefatto. Il tema dell’immigrazione come tanti altri trattati nei quotidiani e nella vita pubblica e sociale riesce a soddisfare quel bisogno di conflitto che l’uomo infelice, l’uomo insoddisfatto e magari proveniente da un ambiente subculturale richiede per potersi sentire padrone della scena, della discussione e della ormai svalorizzata “cosa pubblica”.

Il capro espiatorio è servito attraverso una comodità di accusa e scelta che si copre gli occhi davanti a discorsi più complicati preferendo la soluzione semplice, la scorciatoia mentale destinata a non risolvere le questioni, bensì accentuarle e incriminarle sempre più per scaricare odio ed insoddisfazione. Tale condizione persevera e viene tutelata dalle molte piccole coscienze che credono di essere in una condizione privilegiata, da tutti quelli che credono di essere i padroni e quindi di dover recitare tale ruolo non curandosi empaticamente della situazione di chi invece risulta essere meno agiato e fortunato, come si suol dire “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Eppure in un panorama del genere chiederei a chi è, o almeno si sente, padrone se egli o ella si senta sicuro/a di quella condizione, se si senta tutelato dal momento che senza un adeguato servo si ritroverebbe incapace di auto-sussistere. Chiederei se il servo rimarrà sempre servo perché, può darsi, che esso possa essere già altro da sé e se ragioniamo nella cara logica biunivoca…

Alvise Gasparini

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

banner-pubblicitario_abbonamento-rivista_la-chiave-di-sophia_-filosofia

“Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”

Ecco quella che forse è la citazione più conosciuta dell’opera teatrale di Bertolt Brecht Vita di Galileo. Quando ho letto per la prima volta questa pièce pensavo significasse che una terra è sventurata e che pertanto avesse bisogno di un eroe in grado salvarla. Altrimenti, colpita dalla cattiva sorte, come avrebbe potuto risollevarsi da sé?Recentemente però mi è capitato di rileggere questo libro e mi sono resa conto che la citazione – che mi ha sempre colpita in modo particolare – aveva assunto un significato ben diverso.

Mi sono chiesta infatti perché dovesse essere sventurata una terra che ha bisogno di degli eroi ed ho pensato al fatto che aver bisogno di eroi significa ricercare un Altro che possa sciogliere una situazione per noi. In questo fatidico Altro ci troviamo a riversare una serie di caratteristiche positive che lo rendono in grado di ergersi al di sopra delle difficoltà.
In altre parole se attendiamo la venuta di un eroe, stiamo aspettando un deus ex machina che si cali in una situazione e la riesca ad ordinare. Un po’ come quando Gotham City in preda alle rapine o al Joker invoca Batman affinché possa ristabilire l’ordine.
Riconoscendo di non essere in grado di salvarsi da sola decide di abbandonarsi totalmente ad esso.

Non avrebbe nemmeno senso per un cittadino qualunque provare ad avanzare una soluzione; comparandosi infatti all’eroe di turno si renderebbe conto di essere imperfetto e limitato sia nelle risorse che fisicamente. Come può anche solo pensare dunque di essere in grado di proporre una soluzione efficacie al problema? Di certo risulterà fallace, momentanea e forse potrà persino fallire.

In una situazione del genere si crea anche una sorta di dipendenza. Consideriamo sempre l’esempio di Batman: dopo momenti di relativa tranquillità sopraggiunge una crisi che le istituzioni esistenti non sono in grado di affrontare. A questo punto piomba il panico, nessuno sembra sapere come comportarsi o come reagire, e la cosa veramente interessante è che non bisogna saperlo fare dal momento in cui si è certi arriverà un terzo a ristabilire l’ordine. La cosa più razionale da fare a questo punto, si rivela gettare la spugna e smettere di lottare.

È a questo punto che appare lampante il perché non bisogna voler costruire degli eroi. In questo modo il singolo si trova ad annullarsi, smette di considerarsi un soggetto attivo ed in grado di elaborare delle soluzioni; si sente abbandonato a se stesso e si lascia andare alla deriva, attendendo qualcuno che lo riporti sulla retta via.

Sperare in una nuova figura politica che riesca a portare dei cambiamenti radicali oppure attendere una svolta nella nostra vita sono atteggiamenti diffusi, assimilabili all’attesa della venuta millenaristica di un eroe. Questi però alienano il singolo e lo spogliano dalla sua capacità creativa di trovare nuove soluzioni e di analizzare le situazioni, rendendolo costantemente dipendente da terzi. A questo punto − riprendendo Albert Camus quando nel suo saggio L’uomo in rivolta scriveva: «La vera passione del ventesimo secolo è la servitù» − è opportuno chiederci se siamo sicuri di volere sia anche quella del nostro secolo.

Lisa Bin

Lisa Bin, 1996. Studentessa presso l’Università di Trieste iscritta al secondo anno di Storia e Filosofia. Ama il judo e lo pratica da una vita. Tra le sue passioni c’è sicuramente la lettura, anche se la sua passione più grande al momento è la filosofia.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Quel desiderio di riconoscimento o quella riconoscenza che ci imprigiona?

In filosofia, non si sente parlare spesso di quella che negli ultimi decenni molte filosofe si sono impegnate a definire con il termine di “theory of care”.

Una tale corrente di pensiero, sebbene costituisca una sorta di “teoria” nell’ambito della filosofia morale, si dispiega in una vera e propria etica il cui approccio pratico permette a tutte e a tutti di dare accesso ad una filosofia incarnata, vissuta nel reale, modellata da quelle stesse pratiche quotidiane che, senza accorgercene, costituiscono il terreno nel quale nutriamo le nostre vite.

A che cosa pensiamo quando leggiamo il termine “cura”? Chi solitamente ha bisogno di una certa cura?

Ci viene in mente l’anziano signore solo, con i segni della stanchezza sul volto, un bambino che barcolla alla ricerca dell’equilibrio durante i suoi primi passi, le centinaia di persone ricoverate in un ospedale.

Ogni immagine a cui pensiamo disegna degli esseri umani che, in un modo o nell’altro, hanno estrema necessità di un sostegno esterno.

Ma siamo davvero sicuri che la cura dell’altro possa essere limitata soltanto a questi individui che, fisicamente, manifestano i segni della propria vulnerabilità?

A tale proposito, la tesi sostenuta dalle specialiste della cura concerne una sorta di ricostruzione della dimensione della dipendenza e della vulnerabilità in tutte le sue forme possibili.

In particolare, Joan Tronto definisce con il termine specifico di care tutte quelle pratiche ed attività in grado di “riparare” il mondo.

Come dunque il nostro mondo potrebbe essere riparabile? Che cosa e chi inglobiamo in questa dimensione universale lacerata dalle fratture della crisi, della guerra e della violenza? Che cosa dovrebbe essere riparato e come?

Per studiare in profondità la dimensione della cura, Tronto e molte altre studiose hanno iniziato le proprie ricerche a partire dalla decostruzione di alcuni stereotipi di genere, tra i quali quello che identifica da un lato il femminile con una serie di caratteristiche quali la debolezza, la dipendenza, la capacità a stabilire delle relazioni e una più spiccata sensibilità, mentre dall’altro lato, con il genere maschile quelle proprietà strettamente legate all’autonomia, all’indipendenza e alla razionalità, insomma con tutte quelle qualità che, nella maggior parte dei casi, fanno sì che gli uomini si dedichino ad attività lavorative aventi un certo grado di responsabilità e indipendenza, mentre la donna, in quanto docile e “sensibile”, avrebbe il compito di dedicarsi alla casa e ai bambini, così come alla cura di chi è più fragile, adattandosi a realizzare quelle attività lavorative, spesso peraltro mal retribuite, che rientrano nella sfera dei servizi assistenziali.

Non solo quindi c’è una netta distinzione, peraltro basata su una forte discriminazione, tra le attività professionali destinate agli uomini e quelle destinate alle donne; ma, come se non bastasse, ciò che fonda la discriminazione di genere è una considerazione della vulnerabilità che, nella realtà quotidiana, non può essere riferita ad una sola categoria. Come spiega bene la filosofa Joan Tronto, siamo tutti vulnerabili e dipendiamo tutti, nessuno escluso, dall’alterità. Non ci sono solamente i n”on-autosufficienti” ad esprimere una domanda di aiuto. Talvolta, è proprio chi si trova in maggiore difficoltà e chi soffre di un certo delirio d’autonomia a voler nascondere il proprio bisogno dell’altro. Ci si crede ancora capaci di poter fare tutto, ma in realtà dietro quella rassicurante falsa certezza, c’è un bisogno disperato dell’alterità, di essere guardati, capiti.

Perché quindi nascondere le proprie fragilità, se è proprio lo sguardo dell’Altro quello che cerchiamo? Perché pretendere da se stessi l’impossibile se alla fine andremo a sbattere contro il muro dei nostri limiti?

Non c’è scampo, non possiamo scappare da noi stessi.

Il riconoscimento delle proprie debolezze, in quanto costitutive della nostra stessa identità, è qualcosa che scatta in noi solamente nel momento in cui l’altro ci guarda per quello che siamo e ci accetta. Riconoscimento di sé, dunque. Tuttavia, tale riconoscimento non è possibile se a sua volta c’è stato un precedente “vuoto” di riconoscimento da parte di chi ci sta accanto e ci ama. Un riconoscimento che, però non deve tradursi in riconoscenza.

Come lo afferma bene Paul Ricoeur in Parcour de reconnaissance, la parola “riconoscimento” in francese, reconnaissance, ha due significati tra loro escludenti: da un lato con questo termine si indica il processo attraverso il quale l’essere umano può costituirsi come persona autonoma, a partire pertanto dallo sguardo di quell’alterità che, senza pretese, lo accoglie a braccia aperte così com’è; dall’altro lato, invece, la reconnaissance può tradursi in italiano con “riconoscenza”, ovvero con quel bisogno di ripagare l’altro di un favore fatto oppure di un bene ricevuto, che poi non si traduce in nient’altro che in un senso di colpa costante nei confronti di chi ha dimostrato rispetto a noi una certa benevolenza.

Le due sfumature della parola reconnaissance, lo vediamo bene, sono molto diverse l’una dall’altra; tuttavia, proprio in quanto sfumature, possono mescolarsi, producendo dei risultati tanto inattesi quanto pericolosi, presenti quotidianamente sotto i nostri occhi.

È il caso infatti di quando il riconoscimento viene richiesto secondo una qualche condizione, oppure quando l’alterità ci riconosce, ma soltanto a patto di rispettare quello che è il dipinto delle sue aspettative.

Veniamo riconosciuti sì, ma solo e soltanto se non siamo davvero noi ad essere riconosciuti.

Viene risconosciuto il nostro non riconoscimento.

Un riconoscimento ottenuto a patto di essere e diventare come dovremmo essere, invece d’inseguire la scia dell’essere e lasciarci andare al desiderio.

A quel punto è il desiderio stesso a sparire, e noi con lui.

Ed è a quel punto che il bisogno di cura non si coglie, poiché in un certo qual modo non vogliamo essere accarezzati e cullati da quelle stesse persone che non ci hanno mai dato la libertà di essere noi stessi. Uno scudo fatto di pretese, di non-desideri, di non-bisogni. In nome di un’onnipotenza che piano piano uccide e non lascia respirare l’essere.

Sara Roggi

[Immagini tratte da Google Images]

La paura della libertà

Quando si è piccoli, è inevitabile essere influenzati da quelle figure che, tanto i genitori quanto gli insegnanti, divengono diretti responsabili della nostra crescita.

Ognuno di noi è stato educato all’interno di un piccolo mondo fatto di regole e di routines da seguire, modelli da prendere in considerazione e fogli riempiti di elenchi d’istruzioni necessarie al fine di potersi ritenere adeguati nei confronti di una società che ha, nei confronti di ciascuno, delle aspettative sempre più alte.

“Non imitare, ma scoprire; questa è istruzione, non è così? E’ molto facile conformarsi a quello che la società o i genitori o gli insegnanti dicono, è un modo comodo e facile di esistere, ma questo non è vivere, perché porta con sé paura, corruzione, morte. Vivere significa scoprire da sé che cos’è vero, ed è possibile soltanto quando c’è libertà, quando c’è una continua rivoluzione interiore[1]“.

L’idea principale del pensiero di Juddu, Krishnamurti, filosofo orientale promotore di una nuova forma d’istruzione e d’educazione alternativa, è fondata sul valore di una ricerca personale della libertà attraverso il progressivo abbandono di tutte quelle forme di autorità da cui siamo circondati che impediscono al proprio Sé di crescere senza paura, facendoci vivere, infatti, nella costante imitazione dell’altro.

La paura, dunque, nascerebbe esattamente laddove ci si sente al sicuro, protetti da quella sorta di gabbia d’oro[2] in cui tutto è predefinito, prestabilito, deciso, impedendo così all’individuo di scegliere. È pertanto questa chiusura nel conformismo e nella ripetizione del modello a farci paralizzare, facendo crescere nella nostra interiorità quella paura d’inadeguatezza che con il tempo tocca ogni dimensione della vita, da quella relazionale a quella professionale.

Se coloro che si adeguano e seguono la tradizione rimangono incatenati in un immobilismo mortifero, solo il ribelle e chi è in rivolta può imparare ad osservare e indagare sé stesso e ciò che lo circonda; la funzione dell’istruzione è quindi quella di sradicare interiormente ed esteriormente quella paura profonda che distrugge il pensiero, così come ogni genere di relazione umana, come anche l’amore.

Se da un lato il filosofo Erich Fromm sostiene che la libertà da ogni forma di dipendenza esteriore non fa che incrementare quella paura innestata dall’incertezza e dal rischio rispetto alle scelte che ogni individuo è chiamato a prendere nella sua esistenza – mentre seguire la voce dell’autorità, risulterebbe più rassicurante -, per il filosofo indiano, invece, la condizione necessaria per poter condurre una vita autentica è l’abbandono di tutti i doveri che talvolta ci vengono imposti, rendendoci irrimediabilmente dipendenti da delle condizioni che, il più delle volte, tendono a cambiarci, rendendoci diversi da come vorremmo essere.

Quando non è tanto la dipendenza fisica, quanto più, quella psicologica, a tenerci legati, è la schiavitù, la condizione cui inconsapevolmente ci pieghiamo.

Nell’amore, facciamo i conti con la dipendenza più grande. Ci abbandoniamo spesso all’altro, trasformando quella che è una dipendenza affettiva in parte necessaria, nell’annullamento del proprio sé.

Perché talvolta diventerebbe così inevitabile la perdita di sé?

Riprendendo le parole del filosofo indiano:

” […]Il nostro amore è sempre limitato dall’ansia, dalla gelosia, dalla paura e questo implica che dentro di noi dipendiamo da qualcuno, che vogliamo essere amati. Non ci limitiamo ad amare e basta, vogliamo qualcosa in cambio, e così diventiamo dipendenti. Quindi la libertà e l’amore vanno di pari passo. Amare significa non chiedere nulla in cambio, e nemmeno sentire che stiamo dando qualcosa, e soltanto da un amore così nasce la libertà”.

L’amore ci rende liberi quando, al di là delle costrizioni e delle immagini ideali imposte dalle circostanze sociali in cui siamo immersi, l’alterità impara ad accettarci per quello che siamo, per quello che il nostro più profondo essere è.

La libertà mette a nudo la nostra vulnerabilità più profonda, le nostre ferite, tutte le nostre paure. Ed è per questo che, talvolta, si ha timore dell’amore e si è spesso disposti a rinunciarvi. Il legame che esso implica mette in gioco ciò che di più autentico esiste in noi, quella paura di perdere tutto, di essere abbandonati, di dover ricominciare da capo, ancora e ancora.

Liberi di tutto, e al contempo liberi della propria non libertà, poiché condizione ultima dell’essere umano è l’accettazione di non poter fare tutto ed essere tutto. Della propria finitudine. L’accettazione della delusione. Di una promessa non mantenuta. Di un abbraccio non chiesto e mai ricevuto. Di non poter sempre ricevere ciò che si vorrebbe.

Liberi di ricominciare, nella sola certezza di essere se stessi.

“L’essenza dell’amore è la libertà. Libertà di essere se stessi. Libertà di sbagliare e di farsi male. Libertà di rompere tutto e di ricominciare. Libertà di avere paura che tutto finisca, di fare di tutto perché accada, di alzarsi il mattino sperando di ricevere qualcosa, di accettare di non ricevere niente. Mille e mille volte. Sempre di nuovo. Con la corte degli stessi errori che si ripetono all’infinito.[3]“.

 

Sara Roggi

[Immagini tratte da Google Immagini]

 

[1] J. Krishnamurti, Pensa a questo, Abaldini Editore, Roma, 2013.

[2] H. Bruch, La gabbia d’oro. L’enigma dell’anoressia mentale, Feltrinelli, Roma.

[3] M.Marzano, L’amore è tutto. È tutto ciò che so dell’amore. Utet, Novara, 2013, p. 109.

La linea sottile tra divertimento e dipendenza: alcol e alcolici

“Il vino mi spinge, il vino folle, che fa cantare anche l’uomo più saggio e lo fa ridere mollemente e lo costringe a danzare e a tirar fuori parola, che sta meglio non detta” Omero, Odissea

La linea che separa il consumo di alcol come “mezzo di aggregazione” e l’abuso di questo che, molto spesso, sfocia in una vera e propria dipendenza, è molto sottile.

La cosiddetta “ombra di rosso” con gli amici esisteva anche quarant’anni fa, nelle osterie e nei locali più conviviali. Oggi è sostituita dallo spritz, identificabile quasi come un rito per i giovani: ritrovarsi a bere l’aperitivo è diventato un modo per vedersi, fare due chiacchiere, raccontarsi della propria giornata, farsi due risate. Il celebre happy hour è un momento dedicato al “gruppo”.

Ma questa situazione non è, di per sé, assolutamente un problema. Read more

Delirio di onnipotenza: tra lavoro e riuscita sociale

Volere è potere.

Quante volte queste tre parole si sono articolate nella nostra mente dandoci la spinta giusta per agire ed affermarci? In quanti casi abbiamo creduto fino in fondo che ogni volta che vogliamo qualcosa, allora possiamo anche ottenerla?

Dai, le capacità le hai, perché non ci provi? Devi solo volerlo!

Siamo continuamente martellati e assillati da una volontà individualistica che ci mantiene intrappolati in un dover essere costante. È questo il clima predominante della società contemporanea. Read more

Fame d’amore. Fame di vita

Troppo spesso parlando di amore si rimane incagliati e, oserei dire, intrappolati nei luoghi comuni, frasi fatte e citazioni di un qualche filosofo del passato le cui parole vengono cristallizzate in aforismi dal suono dolce e melodico.

Troppo spesso ci si limita a fornire una definizione precisa della dimensione amorosa, come se questa potesse essere ridotta ad una figura geometrica la cui area, mediante una semplice formula, risulta calcolabile e quantificabile.

Troppo superficialmente ci si accontenta della distinzione tra agape ed eros; insomma, ogni giorno viviamo di amore e delle sue più varie forme, ne siamo intrisi anche quando non vorremmo esserlo; tuttavia, non siamo mai capaci di definirlo e ogni nostro tentativo ci “acciuffarlo” risulta vano.

Read more