La solitudine dell’uomo-dio tra Harari e Bauman

«Siamo più felici?». È questa una delle domande che si pone Yuval Harari nella sua Breve storia dell’umanità. In altri termini: il progresso materiale tende al miglioramento delle condizioni di vita della specie Homo? Vari tentativi di risolvere questo quesito sono stati fatti dalle scienze esatte, con numerosi studi che hanno cercato di valutare quali fattori contribuiscano all’incremento del benessere psicologico dell’uomo. Da un punto di vista filosofico, però, la risposta non può essere binaria, ma deve prendere in considerazione gli effetti culturali e sociali dello sviluppo tecnologico.

Occorre, dunque, analizzare gli effetti dei dirompenti mutamenti tecnologici – dal cannocchiale a Internet – che negli ultimi cinque secoli hanno stravolto in profondità lo stesso significato di “essere umano”. Come ha notato lo stesso Harari, «la scienza e la Rivoluzione industriale hanno conferito all’umanità poteri sovrumani» (Y.N. Harari, Sapiens. Da animali a dèi, 2017). Dalla Rivoluzione scientifica – con la perdita della centralità dell’uomo all’interno del cosmo e della progettualità divina – alla crisi del Positivismo – con il pensiero dirompente di Einstein, Freud, Nietzsche – il millenario umanesimo socratico-cristiano è stato spazzato via dalla morte di ogni dio e dalla fine di ogni costruzione universalistica. Grandi impalcature ormai inefficaci in un mondo costitutivamente irriducibile alla misura della specie che lo domina.

Alle impostazioni organicistiche, in grado di inserire il singolo in narrazioni finalistiche pregne di senso, si è – progressivamente e paradossalmente – affermato il “mito” dell’ego, la “religione” dell’uomo-dio. Una “ideologia” di cui esistono infinite copie e infiniti idoli, uno ciascuno per ogni abitante del globo. Dopo aver ucciso tutte le divinità, il pensiero umano ha elevato al centro del mondo l’ego, il singolo-privato. «Siamo più potenti di quanto siamo mai stati, ma non sappiamo che cosa fare con tutto questo potere» ha scritto Harari.

«Siamo dèi che si sono fatti da sé, a tenerci compagnia abbiamo solo le leggi della fisica, e non dobbiamo render conto a nessuno» (Harari, op. cit.).

Viviamo una condizione di frammentazione, la solitudine monadica di un individualismo che è assurto a feticcio di un intero sistema socio-economico.

Tutto questo è intimamente connesso con la domanda sulla felicità. Infatti, al «miglioramento delle condizioni materiali avvenuto nel corso degli ultimi due secoli» ha fatto da contraltare lo sgretolamento delle strutture sociali e culturali capaci di indicare una meta al faticoso peregrinare dell’uomo, con la conseguenza che ci troviamo «in un mondo sempre più solitario di comunità e famiglie in dissoluzione» (Harari, op. cit.). Se la felicità – in senso epicureo – è l’assenza di sofferenze, la domanda diventa ineludibile:

«Siamo diventati i signori della terra che ci sta intorno, abbiamo incrementato la produzione alimentare, costruito città, fondato imperi e creato reti commerciali assai diffuse. Ma abbiamo forse diminuito tutte le sofferenze del mondo?» (Harari, op. cit.).

Non si tratta del vagheggiamento anti moderno per una (mai esistita) età dell’oro e dell’ingenuità. È indubbio che l’incremento delle conoscenze umane, quelle scientifiche in testa, abbia concretamente contribuito ad alleviare le sofferenze fisiche di milioni di persone. Ciononostante, quelli che Bauman chiama «gli effetti dell’individualismo dilagante che permea da cima a fondo la “non-società” neo-liberale» (Z. Bauman, La Solitudine del Cittadino Globale, 2003), hanno eroso le grandi narrazioni mitiche – nel senso ampio di  valide per una comunità. Come conseguenza, sottolinea Bauman, «il mondo si presenta come una versione mostruosamente obesa, gigantesca, di Internet: […] tutti si gettano nella mischia universale, ma nessuno sembra consapevole delle, conseguenze, e men che meno in grado di controllarle. […] Si gioca un gioco senza arbitro e senza regole decifrabili cui ricorrere per convalidare i risultati. […] Ciascun giocatore gioca un proprio gioco, ma nessuno sa con esattezza di quale gioco si tratti» (Bauman, op. cit.).

Il “disincantamento del mondo” ha così decapitato tutti gli idoli delle narrazioni di senso, consacrando l’uomo a efficiente padrone della natura. E da questa altura l’essere umano ha incoronato se stesso divinità assoluta nei riti dell’egolatria. Una nuova narrazione, non mitica perché non condivisa ma individualizzante, specchio di un sistema sociale ed economico in cui l’ego viene prima di tutto. Il risultato è una società in cui «la vittima principale della teoria e della pratica neo-liberali è stata proprio [la] solidarietà» (Bauman, op. cit.), nella quale siamo più soli. E forse più infelici.

 

Edoardo Anziano

 

[Photo credit Marc-Olivier Jodoin via Unsplash]

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Filosofia: amore per il peccato

“Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: di tutti gli alberi del giardino tu puoi mangiare ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiarne, perché, nel giorno in cui tu te ne cibassi, dovrai certamente morire”1

“Ma il serpente disse alla donna: “Voi non morirete affatto!” Anzi. Dio sa che nel giorno in cui mangerete, si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori del bene e del male2.

Un divieto imposto a priori e una tentazione che, come un vento leggero, rinvigorisce un fuoco già acceso: così sembra procedere il racconto biblico di Adamo ed Eva, primi peccatori e ultimi dogmatici.

La scelta effettuata da Eva rappresenta una straordinaria svolta nella “storia umana” e nella concezione che da essa ne deriva: l’uomo sceglie infatti volontariamente di tendere al peccato più grande e affascinante, cercando di raggiungere l’albero del bene e del male.

In questo passo della Bibbia, si assiste ad una sorta di nascita allegorica della Filosofia come tendenza umana alla fuga verso tutto ciò che è imposto e che appare assolutamente certo: i personaggi, soggetti apparentemente nudi nella carne e nello spirito, dubitano di Dio stesso, della verità che sembrerebbe essere incontrovertibile, e scelgono di imboccare la strada del dubbio, assai più ripida e ben più pericolosa.

E da lì in poi, da quel fatidico giorno di storie lontane e di visioni allegoriche, l’uomo scivola verso l’abisso più profondo, la dimensione dell’incertezza, in cui ogni posizione apparentemente certa è in realtà un filo sottile o un terreno instabile da cui fuggire: ed è proprio nel suo “andare oltre”, scacciando il dogma, che risiede la grandezza di un uomo nuovo, consapevole di se stesso e della propria capacità di esercitare il dubbio.

Adamo ed Eva scelgono infatti di coprire il proprio corpo: non sono personaggi in preda al pudore e alla vergogna, ma dimostrano invece di essere dei soggetti nuovi che hanno maturato una nuova visione di sé… L’individuo si spoglia della verità certa e inconfutabile, capace di celarla persino a se stesso e trova quindi il coraggio di osservarsi, scoprendo, con differenti occhi, di essere fragile, nudo.

Ed è proprio dalla morte della certezza, dallo stupore verso il mondo, dalla meraviglia, dal timore di sé e della voglia di scoprirsi veramente che nasce la Filosofia e che sembra emergere una nuova vita, non già edificata, ma da costruire, pezzo dopo pezzo.

Continueremo a costruire incessantemente la nostra esistenza, la nostra scala, poi faremo qualche passo indietro e osserveremo la nostra creazione, chiedendoci se in fondo non sia tutto il gioco di un bambino che crea e immediatamente distrugge, perché è nella creazione e nella costruzione che risiede tutto il suo divertimento.

Forse è anche questo il destino dell’uomo, perennemente bambino: edificare teorie ed edifici, distruggerli e poi creare nuova vita.

Costruire pensieri e abbatterli.

Costruire se stessi e mettersi radicalmente in discussione: perché senza fine non c’è inizio e senza caduta non c’è sollevamento.

Probabilmente però, una scala debole e instabile, resisterà alla distruzione e consentirà all’individuo di tornare a vedere, per qualche istante, il proprio Paradiso.

L’uomo chiederà a Dio di poter osservare per un’ultima volta l’albero del bene e del male, per poter peccare ancora, elemosinando un frutto di dolce conoscenza e di amaro dubbio: e sarà proprio quando le sue mani toccheranno i frutti sacri e maledetti che inizierà nuovamente la sua caduta.

Questa volta si chiederà però se quei frutti siano mai maturati e se Dio sia realmente esistito al di fuori della propria mente: nessun urlo durante la caduta, solo il rumore di insostenibili pensieri.

 

Gabriele Iacono

Gabriele Iacono è uno studente di diciotto anni: ha collaborato con “Bravi Autori” e “Archivio Immaginazione”, partecipando inoltre ad alcuni concorsi di scrittura e alla pubblicazione di numerose antologie di racconti.
Oggi è articolista presso il giornale online “Il Post Scriptum” e recentemente ha pubblicato il suo primo libro, intitolato “Eterni Prigionieri”.

 

NOTE:
1. Genesi 2: 16-17
2. Genesi 3: 4-5

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Il “De rerum natura” di Lucrezio

Il De rerum natura (Sulla natura delle cose) è l’unica opera che abbiamo di Lucrezio – conservata integralmente da due codici del IX secolo denominati per la loro forma O (Oblongus) e Q (Quadratus) e riportata alla luce dall’umanista Poggio Bracciolini nel 1418 – ed è la prima opera di poesia didascalica della letteratura latina. Pietra miliare della storia del pensiero occidentale per l’afflato universale di quel Lucrezio “relativamente ottimista”, secondo l’analisi di Francesco Giancotti (1989), o al contrario poeta dell’angoscia, secondo le riflessioni di Luciano Perelli (1969).

Articolato in sei libri e composto in esametri, il poema, sin dal titolo – che traduce l’opera più importante di Epicuro, Sulla natura appunto – intende divulgare l’epicureismo, dottrina eversiva e antitradizionalista che invitava al disimpegno dall’attività pubblica (si pensi al làthe biósas di Epicuro, cioè “vivi in disparte”) e al piacere, inteso come sommo bene intellettuale cui pervenire mediante l’atarassia, cioè l’assenza di turbamenti. Inoltre, altri cardini dell’epicureismo erano sostenere che gli dei esistono ma non intervengono nelle vicende umane e non fare alcuna distinzione tra religio e superstitio. Ciò viene esemplificato nel primo libro (vv.62-101) dove Lucrezio sceglie il sacrificio di Ifigenia come exemplum per affermare i delitti della religione: « […] la vita umana giaceva sulla terra, turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione […] fu proprio la religione a produrre scellerati delitti […] Tanto male poté suggerire la religione».

Riprendendo modelli antichi quali Esiodo ed Empedocle, sebbene Epicuro avesse condannato la poesia come fonte di inganni che allontana dalla comprensione razionale dell’universo, Lucrezio sceglie la poesia epico-didascalica per raggiungere anche gli strati più alti della società – proprio quelli che non si erano opposti all’influenza della cultura greca – e perché considera la dolcezza dei versi un antidoto all’amara medicina della filosofia, come spiega ad esempio nel proemio del quarto libro: «Come i medici quando cercano di somministrare ai fanciulli l’amaro assenzio, prima cospargono l’orlo della tazza di biondo e dolce miele, affinché l’ingenua età puerile ne sia illusa fino alle labbra  e intanto beva l’amaro succo dell’assenzio […] così io, poiché questa dottrina appare spesso troppo ostica  […] ho voluto esporla a te nel melodioso carme pierio e quasi aspergerle del dolce miele delle Muse» (vv.10-25).

Lucrezio indaga le cause dei fenomeni, esortando il lettore-discepolo a seguire un percorso educativo, proponendogli una verità sulla quale lo chiama a prendere posizione e sostituisce alla retorica del mirabile la retorica del necessario, articolando spesso le sue argomentazioni intorno alle formule non est mirandum, nec mirum, necesse est (non c’è da meravigliarsi, è necessario) cioè i fenomeni della natura sono necessariamente concatenati tra di loro e connessi con una serie di cause oggettive. Altra cifra stilistica propria del poema è il sublime: gli scenari e i toni grandiosi sono volti a spronare il lettore affinché sia specchio della sublimità dell’universo, affinché si emozioni per la natura e affinché sia egli stesso un eroe come Epicuro, che ha liberato l’umanità dai terrori ancestrali.

Con vivace concretezza espressiva, quasi con una percettibilità corporale della vasta gamma di esempi esplicativi volti a illustrare l’argomentazione astratta, da un punto di vista contenutistico l’opera tratta l’origine della vita sulla terra e la storia dell’essere umano. Né gli animali né gli uomini sono stati creati da un dio ma si sono formati per particolari circostanze come il calore e l’umidità del terreno; il nostro mondo, nato dall’aggregazione di atomi che si muovono nel vuoto e si urtano tra di loro, è un casuale circuito di nascita e di morte e anche l’anima non si sottrae ai processi di disgregazione e muore con il corpo. Afferma così il poeta filosofo nel terzo libro (vv.839-842):

«Nulla è dunque la morte per noi, e per niente ci riguarda, poiché la natura dell’animo è da ritenersi mortale […] quando non esisteremo più e si produrrà la separazione del corpo e dell’anima […] di certo nulla potrà accadere a noi che allora più non saremo […]».

L’opera è maestra anche per l’uomo contemporaneo; Lucrezio si contrappone alle visioni teleologiche del progresso umano e confuta la tesi stoica della natura provvidenziale: non c’è stata nessuna mitica età dell’oro, la natura è matrigna, segue le sue leggi e nessun dio può piegarla alle esigenze dell’individuo. Egli inoltre valuta positivamente il progresso materiale se volto al soddisfacimento dei bisogni primari, lamenta invece con una visione sconsolata la decadenza morale che il progresso porta con sé e che fa sorgere bisogni innaturali come l’ambizione e la guerra che corrompono la vita dell’uomo, che avrebbe invece bisogno di poche cose, secondo la dottrina epicurea.

 

Rossella Farnese

 

[photo credit Robert Lukeman via Unsplash]

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Una citazione per voi: Spinoza e Dio

 

DEUS SIVE NATURA

 

Quest’affermazione di Baruch Spinoza – filosofo olandese del XVII secolo – è ripresa dall’Etica, il suo testo fondamentale contenuto all’interno del volume Opera posthuma pubblicata nel 1677 pochi mesi dopo la morte dell’autore. Spinoza è uno dei pensatori fondamentali della modernità, che ha condizionato enormemente gli sviluppi futuri della filosofia, tanto che qualsiasi filosofo a lui successivo non ha potuto non confrontarsi con la sua dottrina.

Carattere peculiare di Spinoza è un assoluto determinismo, che verrà definito anche determinismo logico, poiché egli ritiene che è solamente la nostra ignoranza della catena causale che porta a un determinato evento a permetterci di parlare di “libero arbitrio” o di “finalismo”. Nonostante questa ferrea causalità, nell’Etica, Spinoza ritiene comunque di riuscire a dimostrare la non-schiavitù dell’uomo.

La sua metafisica si snoda intorno al concetto fondamentale di sostanza: «Per sostanza intendo ciò che è in sé e che per sé si concepisce: ossia ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa da cui si debba formare». Data questa definizione, per Spinoza è allora inevitabile che esista un unica sostanza, Dio, che consta di infiniti attributi. Di questi attributi l’uomo conosce solamente pensiero ed estensione e tutti gli enti finiti esistenti non sono che modi, ovvero modificazioni di questa unica, eterna e infinita sostanza e dei suoi attributi. Si comprende immediatamente come il Dio di Spinoza sia assolutamente diverso da quello della tradizione ebraica e cristiana: in prima battuta sottolineiamo come non possieda i caratteri qualitativi classici (bontà, misericordia ecc). Anche questa diversità ha causato il suo allontanamento dalla comunità ebraica e accuse di eresia che non abbandonarono la sua figura se non dopo molto tempo. Il suo sistema, infatti, veniva accusato di panteismo, e la sua celebre citazione «Deus sive natura» ricalca quest’etichetta: essa, infatti, significa «Dio, quindi, natura»; «Dio, ovvero, natura». Un Dio, dunque, non antropomorfo; bensì un’unica sostanza infinita ed eterna nel cosmo, di cui noi non siamo altro che sue modificazioni.

Potrebbe sembrare una visione “fredda” della nostra vita ma tuffandosi nell’Etica si può scoprire come il sistema di Spinoza liberi l’uomo dalla sua condizione di mortalità e da legami granitici con le idee di “bene” e “male” (non per nulla Nietzsche sarà catturato dal filosofo olandese). Questo fa conseguire un’enorme carica di responsabilità da parte delle comunità e degli individui, infatti la produzione spinoziana non si limiterà a trattati metafisici ma anche polititi e teologici, promuovendo – semplificando – la laicità dello stato e la costituzione democratica.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Immagine modificata da Google]

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Una citazione per voi: Sant’Agostino e l’amore

 

• AMA E FA’ CIÒ CHE VUOI •

 

Sant’Agostino pronunciò questa frase in uno dei suoi commenti alla Prima lettera di San Giovanni, quella in cui l’apostolo afferma a più riprese che Dio è Amore e che noi amiamo perché lui ci ha amati per primo. Leggiamo il passo da cui essa è stata estrapolata: «Una volta per tutte dunque ti viene imposto un breve precetto: ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene»¹.

Si mescolano nelle parole del filosofo la concezione cristiana del Dio-misericordia e quella pagana del Dio-Logos, autore delle verità geometriche e dell’ordine degli elementi. La radice dell’Amore che c’è in ogni uomo ha valore ontologico, è qualcosa di preesistente all’uomo stesso e a cui egli può attingere, grazie all’illuminazione concessa da Dio. C’è una forte vicinanza alla teoria platonica della reminescenza delle Idee, ma la grande differenza sta nell’azione misericordiosa di Dio. Secondo il nostro filosofo è Dio a instillare la Verità nell’uomo, il cui compito dunque è di perseguire, attraverso un rivolgimento verso la propria interiorità, questa stessa Verità. E poiché essa coincide con l’Amore, non potrà che essere raggiunta amando. Ecco allora spiegato il senso dell’affermazione di Sant’Agostino. Se tu ami, ovvero se attingi all’Amore ontologicamente fondato che c’è dentro di te, non puoi che essere nel Bene, nella Verità. Qualsiasi cosa tu faccia, se è frutto di Amore autentico, non potrà che essere buona.

«Io amo in lui una luce», dice Sant’Agostino, «una voce, un profumo, un cibo, un amplesso amando il mio Dio, luce, voce, profumo, cibo, amplesso dell’uomo interiore che è in me»².

 

Erica Pradal

 

NOTE:
¹Agostino d’Ippona, In litteram Ioannis ad Parthos, discorso VII
²Agostino d’Ipponia, Confessioni X, 6, casa ed. Marietti, Torino

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Essere felici in un mondo assurdo e senza Dio: la prospettiva di Camus

Camus è tra gli autori francesi più letti al mondo, una fama ben meritata vista la profondità intellettuale delle sue opere. Il suo percorso si snoda tra l’infanzia vissuta in povertà in Algeria e il clima metropolitano di Parigi, dove si confronterà con la cultura filosofica del suo tempo, in particolare con Sartre, massimo esponente dell’esistenzialismo francese. È sul senso del corpo concepito come limite che si misura la distanza tra Camus e gli esistenzialisti. Per Camus, il corpo rappresenta il luogo in cui nasce il conflitto dell’uomo, tra la felicità ottenuta attraverso la bellezza e il dovere di essere felici in un mondo senza Dio.

L’uomo fin dall’antichità ha ricercato il principio primo del suo essere e della sua iniziale condizione di non esistenza, poiché in quanto creatura finita avvertiva il bisogno di giustificare il suo esistere. La morte non può essere prevista dagli uomini, i quali hanno davanti a sé due strade: cercare una giustificazione al divenire o rassegnarsi all’assurdo. Il divenire risulta angosciante se non si introduce una condizione positiva, ma porre Dio come condizione di esistenza e di non esistenza, comporta un problema: per chi non riesce a compiere il salto nella fede, è impossibile conciliare l’idea di un Dio perfetto, onnipotente, onnisciente e buono, con lo stato di assurdità in cui versa il mondo.

Un giudizio semplicistico che circola su Camus è che fosse ateo; sarebbe tuttavia più corretto definirlo un semplice non credente, uno che pur non avendo fede, non nega perentoriamente l’esistenza di Dio.
Essere non credente non equivale per Camus ad essere indifferente ai problemi religiosi. L’esperienza della fede gli era estranea e lui non fece altro che collocare il proprio pensiero fuori da essa. Ma come vivere fuori dalla fede? Contemplando l’universo senza cercarne la chiave in un essere trascendente e riflettendo su come condurre una vita senza Dio, rinunciando alla serenità che la fede fornisce mediante la speranza di una vita eterna e guardando lucidamente al nostro destino mortale.

A Dio non è imputata la colpa del male che pervade il mondo, il male proviene da un’insensatezza metafisica necessaria all’umanità affinché possa prendere coscienza dell’assurdo. La felicità può essere raggiunta attraverso l’appropriazione della propria vita con la consapevolezza di non poter ambire ad un miglioramento della stessa, ma di essere accomunati con l’intera umanità dal medesimo destino. Gli esseri umani devono imparare a convivere con l’assurdo e questo potrebbe far pensare che tale convivenza debba essere di tipo passivo, occorre invece, che l’uomo si muova all’interno dell’assurdo inaugurando una lotta contro qualcosa che è molto più grande di lui ed è per questo che Sisifo rappresenta l’esempio da seguire, poiché vive consapevolmente la sua condizione.

Il mito di Sisifo è lo scritto in cui Camus espone la teoria dell’assurdo partendo dall’analisi del suicidio, come ciò che interrompe il rapporto tra uomo e mondo, senza risolvere il problema dell’assurdo. Il rapporto con l’assurdità, va dunque affrontato diversamente: cosciente dei propri limiti, l’uomo non deve uscire dal gioco, ma resistere e deve farlo senza rassegnazione, proprio come Sisifo, condannato dagli Déi a portare sulle spalle un pesante masso sulla sommità della montagna, il quale però ogni volta che tocca la cima rotola perennemente giù, costringendolo a ripetere in eterno lo sforzo.

Sisifo, però, accoglie il suo destino e lotta contro la passiva accettazione, considerando il macigno sulle sue spalle parte integrante del suo esistere, traendo dalla sua condizione la forma più autentica della felicità.
La rivolta contro l’assurdo è inizialmente solitaria, ma quando si giunge alla consapevolezza di essere tutti accomunati dal medesimo destino, diventa solidale.

La rivolta collettiva rappresenta il culmine del pensiero camusiano e nasce dalla comprensione che l’assurdo sia di tutti. Ma solo attraverso la rivolta, mai distruttiva o autodistruttiva, è possibile limitare gli effetti del male e, dunque, pur non potendo ambire ad un miglioramento della propria condizione, è possibile appropriarsi della propria vita.

Il male non ha una giustificazione logica se si crede nell’esistenza di Dio; un Dio che non possa evitare l’assurdo, è un Dio su cui Camus non si sente di scommettere. Tuttavia, non è altrettanto concepibile un assurdo che sia meramente contingente, poiché è comunque necessario che abbia una giustificazione, che Camus individua nel male, insito nella radice delle cose stesse. Questa esigenza di ricercare un principio metafisico come giustificazione all’assurdo, fa sì che Camus possa respingere l’etichetta di ateo in senso stretto.
È sconvolgente quanto sia importante recuperare il pensiero di Camus in un mondo come il nostro, caratterizzato dall’individualismo e da una quasi assenza di Dio nella vita comune e ricercare una propria dimensione morale e allo stesso tempo collettiva e condivisa, che possa portarci a vivere e non semplicemente a sopravvivere, ad essere e non semplicemente ad esistere, in una delle epoche più “assurde” in cui potessimo essere gettati.

 

Federica Parisi

 

Federica Parisi, classe 1991, ha conseguito la laurea in Filosofia e si è specializzata in Scienze filosofiche, presso l’Università degli studi Roma Tre. I suoi principali campi d’interesse riguardano la Filosofia morale e la Filosofia delle religioni. È inoltre una grande appassionata d’arte e letteratura.

[Photo credits Alexei Scutari su unsplash.com]

“Donazione assoluta”. La trinità secondo Raimon Panikkar

Può il mistero centrale del Cristianesimo, la Trinità, essere letto in modo innovativo, con categorie “orientali”, che divergono da quelle dogmatiche classiche, senza per questo necessariamente contraddire o smentire queste ultime? Il filosofo e teologo Raimon Panikkar (1918-2010) pensa di sì. Le pagine centrali di uno dei suoi libri più noti, Visione trinitaria e cosmoteandrica: Dio-Uomo-Cosmo, sono per l’appunto dedicate a un’originale rilettura in chiave buddhista e induista del mistero trinitario.

Per Panikkar «la Trinità non è solamente la pietra miliare del cristianesimo da un punto di vista teorico, ma anche la base esistenziale, pratica e corretta della vita cristiana». Ma è altrettanto vero che «l’interpretazione classica della Trinità non è l’unica possibile», e questo perché il mistero trinitario è presente non solo nel Cristianesimo, ma anche in altre religioni. La Trinità, tiene a chiarire Panikkar, «non [è] un monopolio cristiano», ma piuttosto «una specie di “invariante” [= una “costante”, un “archetipo”] culturale e pertanto umano. […] Nella Trinità», continua il filosofo e teologo spagnolo, «si realizza un vero incontro delle religioni, che equivale non a una fusione vaga o a una mutua diluizione, ma a un’autentica promozione di tutti gli elementi religiosi e anche culturali contenuti in ciascuna di esse».

Com’è possibile concepire un Dio che è contemporaneamente uno e trino? L’«inadeguatezza» della logica di cui noi occidentali usualmente ci serviamo quando ragioniamo, ammette Panikkar, mai si rende evidente come in questo caso. La teologia “classica” ha cercato di risolvere questo problema distinguendo i concetti di “natura” e “persona”: in Dio non esistono tre “nature” o tre “sostanze”, cioè tre “dèi”; una sola è la “natura” divina (uno solo è Dio), ma l’unica sostanza divina è comune a più persone (“una sostanza in tre persone”, dice il dogma). Una soluzione senz’altro interessante, ma che ha fatto e tutt’ora fa molto discutere. D’altronde già Dante, nella Divina Commedia, scriveva che «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone» (Purgatorio, canto III, vv. 34-36).

Paradossalmente, un aiuto per comprendere il mistero trinitario può giungere proprio dalle religioni orientali. «Forse le profonde intuizioni dell’induismo e del buddhismo, che procedono da un universo di discorso differente da quello greco, ci possono aiutare a penetrare più profondamente il mistero trinitario», scrive Panikkar, che tuttavia incomincia le proprie riflessioni proprio partendo da ciò che la «tradizione patristica greca» e «la scolastica latina di San Bonaventura» dicono sulla Trinità, e cioè che «tutto ciò che il Padre è lo trasmette al Figlio». Il Padre è «donazione assoluta», che «non lascia niente dentro di sé».

Ma se il Padre «ha dato tutto, per così dire, nel generare il Figlio», e si è dunque “spogliato” di tutto ciò che lo costituiva per darlo in dono al Figlio fino ad annichilire se stesso, come non vedere in questo “svuotamento” (κένωσις, kénōsis), in questo “auto-annientamento”, in questa «immolazione integrale» di Dio Padre qualcosa di simile all’«esperienza buddhista del nirvāna» e del «sūnyatā (vacuità)»?

Osserviamo ora meglio la seconda persona della Trinità. Per Panikkar è senz’altro vero che Gesù è il Figlio, il Cristo, l’“Unto del Signore”, il Mediatore fra Cielo e Terra. Ma se vale questa prima equazione, non vale però la seconda: Cristo infatti, per Panikkar, non è (solo) Gesù, e questo perché Cristo è anche Gesù, ma non si esaurisce in Gesù. Secondo Panikkar, «i cristiani non hanno nessun diritto di monopolizzare» la figura di Cristo, dato che essa è presente anche «in altre tradizioni religiose», sebbene «con diversi nomi e titoli», come Iśvara nell’induismo e Tathāgata nel buddhismo. Fenomenologicamente, anche Iśvara e Tathāgata presentano infatti, proprio come Cristo (e Gesù) «le caratteristiche fondamentali di mediatore fra divino e cosmico, fra eterno e temporale, ecc.».

Resta da analizzare la figura dello “Spirito Santo”. Per Panikkar «il Padre può “continuare” a generare il Figlio, poiché egli “riceve indietro” la Divinità che gli ha dato». Proprio questo “dare e ricevere indietro” è lo Spirito Santo, che spira dal Padre al Figlio e dal Figlio al Padre. Spiega Panikkar: «proprio come il Padre non trattiene niente nella comunicazione che di sé fa al Figlio, così il Figlio non trattiene niente per sé di ciò che il Padre gli ha dato. Non vi è nulla che egli non restituisca al Padre». Ebbene, secondo Panikkar, «non vi è dubbio che il pensiero hindū sia particolarmente preparato a contribuire all’elaborazione di una più profonda “teosofia” dello Spirito». Infatti, «che cosa è lo Spirito se non l’ātman delle Upaniṣad, che è detto identico a Brahman […]“In principio era il Logos”, afferma il Nuovo Testamento. “Alla fine sarà l’ātman”, aggiunge la saggezza di questo testamento cosmico, il cui canone non è ancora stato chiuso».

Panikkar offre ulteriori spunti di riflessione quando afferma che se il Cristianesimo può essere illuminato dal Buddhismo e dall’Induismo, è d’altronde vero anche il contrario. La sentenza che afferma che “alla fine di tutto vi è l’ātman”, ad esempio, dopo che sia stata posta l’equivalenza tra l’ātman delle Upaniad e lo Spirito Santo di cui parlano i Vangeli, può essere letta così: «lo Spirito viene dopo la Croce, dopo la Morte. Opera in noi la resurrezione e ci fa passare all’altra riva» – alla riva in cui risiede quel porto accogliente costituito dal “Noi” trinitario, una comunione d’amore che «abbraccia anche la totalità dell’universo in modo peculiare».

In definitiva, possiamo dire che in queste importanti pagine di Visione trinitaria e cosmoteandrica – a cui peraltro abbiamo dato solo una rapidissima occhiata – Panikkar offra un esempio altissimo della “mutua fecondazione” che secondo lui è possibile instaurare tra le varie tradizioni religiose. Il tentativo da lui compiuto è senz’altro un’operazione intelligente: al posto di contrapporre le diverse religioni, sottolineandone le incompatibilità, le mette in dialogo, aprendo sentieri che a prima vista potevano sembrare impercorribili.
Si può credere o meno al contenuto rivelato dalle religioni a cui Panikkar si rivolge, ma bisogna senz’altro riconoscere a questo filosofo e teologo di essere stato un maestro del dialogo interculturale e interreligioso. Il nostro tempo, che molto spesso tende a demonizzare il “diverso” e a innalzare muri e barriere per evitare di accogliere l’alterità o confrontarsi con essa, ha senz’altro bisogno di pensatori che sappiano mostrare che le differenze non devono necessariamente essere fonti di conflitto: il loro incontro può infatti dare luogo al reciproco arricchimento e a una grande armonia. In fin dei conti, solo note musicali diverse possono dare luogo, unendosi insieme, a una meravigliosa sinfonia.

 

Gianluca Venturini

 

[Photo credit Karl Fredrickson via Unsplash]

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Punti su un cerchio. Il cammino comune di cristianesimo e islam

Negli ultimi decenni, l’area di Gaza, in Palestina, è diventata sinonimo di guerra, miseria, occupazione militare, terrorismo. Ovviamente non è sempre stato così: nei primi secoli dopo Cristo, infatti, la regione era uno dei centri culturali e spirituali più vivi, ferventi e innovativi del mondo, un punto di incontro di tradizioni, lingue e religioni, patria di santi, teologi, mistici e filosofi. Uno di questi, ingiustamente dimenticato, è S. Doroteo di Gaza, monaco a Abba Serid nel VI secolo d.C..

Innovativo sotto molti punti di vista, Doroteo è noto per gli insegnamenti impartiti ai compagni monaci raccolti in buona parte in Indicazioni per la formazione spirituale, testo che racchiude anche intuizioni sorprendenti su temi inaspettati, non ultimo la coabitazione e il reciproco rispetto tra fedi diverse. In una delle sue figure più efficaci, Doroteo immagina tutte le religioni come punti su una ruota, ognuno termine finale di uno dei raggi; il fulcro della ruota è Dio, l’Eterno che tutti cercano. La distanza dal centro della circonferenza è direttamente proporzionale a quella tra i punti sulla stessa: più questi sono distanti dal fulcro, più lontani sono anche l’uno dall’altro, mentre più si avvicinano al centro muovendosi lungo il raggio, maggiore sarà anche la vicinanza reciproca, indicando una ultima coincidenza dell’esperienza dell’Assoluto nella mistica. Il messaggio di Doroteo, però, si preoccupa di essere anche umanistico-sociale: più si tenterà di avvicinarsi ai fratelli di altre religioni (occupanti quindi gli altri punti dell’ideale circonferenza), più ci si farà prossimi, quasi automaticamente, a Dio.

Sono passati millecinquecento anni, ma il messaggio di Doroteo è più attuale che mai. È sotto il segno del dialogo, dell’accoglienza reciproca e dell’impegno comune che lo scorso 4 febbraio si sono incontrati ad Abu Dhabi Papa Francesco, capo della Chiesa cristiana cattolica, e Muhammad Ahmad Al-Tayyib, Grande Imam di al-Azhar e figura di riferimento per l’islam sunnita. Al termine dell’incontro, i due leader religiosi hanno redatto e firmato il Documento per la pace e mondiale e la convivenza comune (o Documento sulla fratellanza umana), un testo semplice e schietto che rifiuta la violenza e lo scontro come facenti parte della rivelazione cristiana e islamica, e che invita le due comunità religiose (che insieme comprendono quasi metà dell’attuale popolazione mondiale) a collaborare nelle sfide di giustizia sociale, di tutela dei deboli e degli ultimi, di difesa dell’ambiente e di costruzione della pace che le accomunano.

Non sono mancate reazioni ostili da esponenti di entrambe le comunità religiose: se i cattolici oltranzisti, che vedono nel confronto col mondo islamico la chiamata a una nuova Crociata in difesa della cristianità occidentale, hanno accusato il Papa di aver tradito la propria fede “arrendendosi” all’islam, musulmani altrettanto oltranzisti hanno invece rimproverato al Grande Imam di essersi “contaminato” stringendo accordi con gli infedeli imperialisti. Entrambe le voci hanno ampio sostegno nelle rispettive comunità, ma rimangono fortunatamente minoritarie, superate da una larga maggioranza di fedeli che non desidera che un percorso di pace – e, possibilmente, di amicizia – e soprattutto dalla Storia stessa che, al netto di corsi e ricorsi vichiani, non tollera di tornare sui propri passi.

Il cammino verso il centro della ruota, in un millennio e mezzo da quando scriveva Doroteo di Gaza, ha fatto molti passi avanti e altrettanti ne ha fatti indietro, in un assurdo balletto che non ha mai deciso fino in fondo quale direzione intraprendere. In anni di recrudescenza di antiche inimicizie, di violenza e di conflitti causati da un divario sempre più ampio tra classi sociali e regioni del mondo, un documento come quello firmato da Francesco e da Ahmad al-Tayyib parrebbe poca cosa, ma forse è proprio attraverso l’intuizione del monaco palestinese che può essere messo nella giusta prospettiva: se camminare insieme verso il centro si è rivelato troppo difficile, proviamo a camminare l’uno verso l’altro, a piccoli passi ma con costanza e fiducia. Il risultato sarà comunque lo stesso.

 

Giacomo Mininni

 

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Amare Dio o amare il mondo? L’ultimatum di Kierkegaard

Søren Kierkegaard è di certo un filosofo di non facile lettura. Ma, se si riesce a penetrare nell’intricata selva della sua prosa, si possono scoprire interessanti panorami di pensiero. Una conferma del fatto che Kierkegaard sia un pensatore di primo piano ci giunge da uno dei più grandi filosofi del Novecento, Martin Heidegger, che elogiò Kierkegaard nel modo seguente:

«per quanto riguarda Kierkegaard, si deve far notare che raramente è stato raggiunto in filosofia o in teologia […] un livello di coscienza metodologica rigorosa tale quale il suo»1.

Se si vuole, queste parole possono suonare come un invito a leggere un importante scritto di Kierkegaard, intitolato Ultimatum2. Esso è contenuto in una delle opere più celebri del filosofo danese, ovverosia Aut-Aut (Enter-Eller), di cui costituisce la sezione finale.

La maggior parte del testo di Ultimatum è occupato dalla lettera di un anonimo parroco della campagna jutlandese (dietro al quale si nasconde Kierkegaard stesso). La lettera contiene una predica che è stata ideata dal parroco durante le sue lunghe passeggiate nella brughiera. La predica prende ovviamente spunto dal Nuovo Testamento, il quale suggerisce ai credenti – e agli uomini in generale – di ricercare e praticare solo ciò che è veramente “elevante” ed “edificante”, ovverosia l’amore («L’amore edifica», si legge nella Prima lettera ai Corinzi).

A partire da questo assunto, Kierkegaard, nelle vesti del parroco di campagna, svolge tutto il suo successivo ragionamento. Egli incomincia con il ricordare al lettore che «la tua vita ti porta a intessere svariati rapporti con altri uomini, ma per alcuni ti senti attratto da un amore più intimo che per altri»3. Che cosa accade, chiede a questo punto Kierkegaard, quando sorge una divergenza di opinioni tra noi e la persona che amiamo? Ovviamente, ognuno dei due, sulle prime, penserà di aver ragione e accuserà l’altro di avere torto. Ma in seguito, se ci si ama per davvero, subentrerà un altro tipo di considerazioni, dettate dall’amore per l’altra persona.

Ecco come Kierkegaard descrive questa dinamica: «Se chi è oggetto di questo tuo amare ti facesse torto, è chiaro che ciò ti farebbe soffrire; passeresti in esame con gran cura tutto ciò che concerne il vostro rapporto. […] Potresti cogliere soltanto che lui ha torto, e tuttavia questa certezza ti inquieterebbe, desidereresti di dover avere torto, cercheresti di poter trovare qualcosa che possa parlare a sua difesa […]. Andresti alla ricerca di qualsiasi suo plausibile aver ragione e, se tu non trovassi niente del genere, stracceresti il tuo resoconto per poterlo dimenticare, e vorrai edificarti con il pensiero che eri tu ad avere torto»4.

Quando si ama fino in fondo, suggerisce Kierkegaard, si fa tutt’uno con la persona amata e dunque, anche se la ragione dice che la verità sta dalla nostra parte, e non da quella della persona che amiamo, il nostro cuore non potrà che farci desiderare di aver torto, piuttosto che ferire la persona a cui vogliamo bene accusandola di essere nell’errore. Come scrive Umberto Regina commentando Kierkegaard: «se si ama, si vuole che l’aver ragione stia dalla parte dell’amato, a costo di volere aver sempre torto nonostante ogni evidenza del contrario»5.

È d’altronde vero – osserva Kierkegaard – che la persona amata è pur sempre un essere umano e dunque un ente finito, corruttibile, mortale. Quindi, se è un dato oggettivo che la “logica” dell’amore spinge l’amante a gettarsi tra le braccia dell’errore e del torto, pur di attribuire tutta la Verità possibile all’amato, non va tuttavia dimenticato che la persona che amiamo è di per sé un essere fallibile, che può cadere in errore e aver torto esattamente come noi. Scrive Kierkegaard in proposito: «nel rapporto […] con un altro uomo sarebbe ben possibile che egli avesse in parte ragione e in parte torto, fino a un certo grado torto e in un certo grado ragione, perché egli stesso e ogni uomo sono una finitudine e il loro rapporto è un rapporto finito calato in un “più o meno”»6. Come a dire che, in quanto ente finito e condizionato, nessun essere umano potrà mai detenere, e quindi essere, la totalità della Verità.

Quando ha gli occhi pieni d’amore per un’altra creatura terrena, l’uomo vede in essa la Verità totale, stabile, infinita e immutabile. Ma il punto è che nessuna creatura terrena può stare in equazione con la Verità. Il desiderio che l’amato sia la Verità si scontra con il sapere che mostra che l’amato non può d’altronde essere la Verità. Che l’uomo, per amore, elevi a Verità ciò che non è Verità è senz’altro una bella ma «inevitabile contraddizione»7, nota Kierkegaard. E tuttavia egli a questo punto si chiede: «Si potrebbe mai parlare di una tale contraddizione se invece chi ami fosse Dio?»8.

La risposta di Kierkegaard è negativa. È vero infatti che anche in questo caso l’amore che proviamo ci induce a vedere soltanto nell’amato – e dunque soltanto in Dio – la Verità, ma è altrettanto vero che se l’amato è Dio e non una creatura finita, la contraddizione che affligge il desiderio umano scompare “miracolosamente”, perché le caratteristiche proprie di Dio (eternità, immutabilità, ingenerabilità, incorruttibilità, infinità, onniscienza, onnipotenza, etc.) fanno sì che egli abbia effettivamente tutti i titoli per essere la Verità in persona. Kierkegaard domanda in proposito al lettore di cogliere la differenza tra l’Immutabile, che dimora in un superiore piano ontologico, e tutte le creature terrene che invece stanno sul nostro stesso piano esistenziale: «Colui che è nel cielo non sarebbe forse più grande di te che abiti in terra, e non saprebbe la sua ricchezza surclassare il tuo misurare, la sua sapienza sprofondarsi al di là della tua, la sua santità rivelarsi più forte della tua giustizia?»9. Se riconosci questo – scrive Kierkegaard rivolgendosi al suo lettore – allora capirai che, amando Dio, «non c’è più contraddizione fra il tuo sapere e il tuo desiderio»10.

Secondo Kierkegaard, se l’uomo, posto di fronte all’aut-aut: “amare Dio o amare il mondo?”, decide di amare soltanto il mondo, non potrà che precipitare sempre più nell’errore e nella contraddizione, perché, spinto dall’amore, riconoscerà sì di aver sempre torto, ma attribuirà l’aver sempre ragione a un ente mortale che non merita di essere la Verità. Se l’uomo ama le cose finite e divenienti, il suo amore non sarà mai veramente “edificante”, perché il suo desiderio non verrà mai veramente appagato e il suo sguardo non verrà mai innalzato a una sfera superiore dell’essere. Se invece l’uomo decide di amare innanzitutto Dio, si instaurerà un circolo virtuoso che libererà sempre più l’uomo dalla contraddizione e dalla finitezza, perché, certo, anche in questo caso l’uomo, spinto dall’amore, riconoscerà di essere sempre nel torto, ma quantomeno attribuirà l’aver sempre ragione a Chi lo merita di diritto, ovverosia a quel Dio che «dopo averci condotto attraverso il mondo con la sua mano, […] la ritrae e apre le braccia per accogliervi l’anima pervasa da anelito»11.

 

Gianluca Venturini

 

NOTE

1. M. Heidegger, Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2008, p. 469.
2. S. Kierkegaard, Ultimatum, a cura di U. Regina, Morcelliana, Brescia 2017.
3. Ivi, p. 44.

4. Ivi, pp. 44-45.
5. U. Regina, Introduzione, in S. Kierkegaard, Ultimatum, cit., p. 10.
6. S. Kierkegaard, Ultimatum, cit., p. 50.
7. Ivi, p. 45.
8. Ibidem.
9. Ivi, pp. 45-46.
10. Ivi, p. 46.
11. S. Kierkegaard, Due discorsi edificanti 1843. Vol. I: La prospettiva della fede, a cura di U. Regina, Morcelliana, Brescia 2013, pp. 78-79.

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Di pensier in pensier, di monte in monte

Ho avuto occasione, durante i primi del giorno del nuovo anno, di parlare con alcuni conoscenti che hanno passato il loro Natale “in montagna”.

Mi sono sempre chiesto: «Come mai sono il mare e la montagna, le maggiori mete di turismo?».

Una risposta mi è venuta dalle Ville Palladiane, costruite per i nobili veneziani che, nel periodo autunnale, si trasferivano dalla Laguna all’entroterra – esattamente il contrario di quanto, per la maggior parte, avviene oggi. Studiandolo, ho compreso che il turismo era ed è, come ogni mercato di beni o servizi, influenzato dalla platea di chi lo pratica.

Quindi, come ai tempi del Palladio il turista era il nobile lagunare che, quando poteva, cercava di allontanarsi da un paesaggio a lui familiare, così oggi, essendo riferibile alla borghesia e la middle class urbana, è ovvio che chi può permettersi di fare una vacanza, sceglierà di andare lontano dall’ambiente cittadino, eleggendo luoghi diversi.

E tuttavia, il mare mi pare, a livello sociologico, una meta più recente rispetto a quella, per esempio, della collina (tipologia di turismo praticata dalle classi abbienti dal Medioevo in qua – si veda dov’era ubicata la villa dei giovani del Decameron): daterei questo interesse per il mare al XVIII secolo, con i Grand Tours diretti in Italia.

Ma più antico di tutti, è il viaggio in direzione della montagna. E badare che ho detto “viaggio”, non “turismo”. Ma è una sottigliezza di cui non ci occuperemo qui.

La montagna è il più antico luogo di ritiro personale dalle pesantezze della vita quotidiana, e per ragioni non meramente ambientali, ma sinanche filosofiche, antropologiche e spirituali.

In molte delle civiltà che si sono susseguite durante l’atipico scorrere del tempo detto storia, il monte è stato considerato uno spazio privilegiato per l’autorivelazione del proprio Io, e per il rapporto diretto con la Divinità: pensiamo, per esempio, al folklore greco antico.

Qualora, poi, volessimo avvicinarci alla cultura che più permea la nostra, cioè quella giudaico-cristiana, noteremo che, anche in essa, il monte sembra rivestire il ruolo di medium tra Sacro e mondano. La Bibbia è ricca di riferimenti ad alture, montagne e rilievi: sono, queste, le località che Iddio predilige per dare manifestazione di Sé.

Ognuna delle varie epifanie bibliche deve essere, naturalmente, letta alla luce del provvidenziale disegno della Rivelazione; compiendo una riflessione di carattere teologico, si può ricordare che la Salvezza dell’uomo, e la sua Alleanza con il Signore, procede attraverso tre passaggi fondamentali: la fase della legge (Mosé), quella della profezia (che potremmo riassumere con Elia) e quella, finale, dell’amore (Cristo). Ebbene, non si sbaglierà nell’asserire che ciascuno di questi tre momenti della Redenzione hanno simbolico culmine in luoghi elevati. La vicenda di Mosè, per esempio, è tutta racchiusa nel contatto con Dio su due montagne, la vocazione sull’Oreb1. e la consegna del Decalogo sul Sinai2; e ancora Elia, principale tra i profeti, ha un’esperienza teofanica sul Carmelo3; Gesù Cristo, a sua volta, inizia la predicazione con il “discorso della montagna”4, si manifesta, trasfigurato, come unione di legge e profezia su un’alta montagna5, muore sul Gòlgota6, ascende da un monte7.

Data questa evidente preferenza teofanica per monti e alture, non stupisce che, nel corso della storia della spiritualità cristiana, le zone alte siano state il punto di ritrovo di coloro che, tra tutti i credenti, più hanno cercato di inverare il messaggio cristiano: i monaci.

L’isolamento dalle vicende mondane, la prossimità altimetrica alla Divinità, il tutto accompagnato da una solida tradizione biblica: sono queste le caratteristiche fondamentali che fanno dei monti non solo un mero rilievo morfologico, ma un vero e proprio luogo dell’anima.

Ma questa passione per le montagne non è solo occidentale. Anzi, laddove era più forte il senso del Sacro, più netto e centrale sarà il ruolo che i simboli assumono nella definizione progressiva della mentalità singola, della costituzione dell’ordine sociale e, eventualmente, dell’ordinamento statale.

Non può stupire, dunque, che il mondo bizantino abbondasse di Sante Montagne, la più importante delle quali è il Monte Athos, in Calcidica, centro monastico “ultimo erede dell’Impero” ancor oggi attivo; d’altronde, se l’Impero Bizantino era, tra tutte, la Nazione eletta a glorificare Iddio per mezzo del suo Vangelo, come possono, in tale provvidenziale entità, mancare luoghi simbolicamente adatti a rapportarsi quanto più strettamente possibile al Signore? A Bisanzio, in un certo senso, dovevano esserci Sante Montagne.

E non citerò la Spiritualità Tibetana o le tradizioni sherpa, che vedono nelle montagne di Himalaya e Karakorum dei veri e propri tabernacoli.

In conclusione, non intendiamo qui affermare che ogni viaggio o vacanza in montagna dovrebbe essere considerata (non siamo Thomas Mann!) un’occasione di autoanalisi, né tantomeno d’una ierofania. E tuttavia, questo sì lo diciamo, il monte, di per sua essenza, invita alla riflessione più di quanto non facciano luoghi più “bassi”: forse perché la montagna è più solitaria, forse perché la pervade un silenzio maggiore, e il silenzio obbliga a pensare, forse perché s’è più vicini a Dio.

Insomma, la montagna è più filosofica del mare, e ti obbliga a filosofare di più.

Ed è forse per questo (perché la filosofia non è mai, come tutte le necessità, piacevole o rilassante) che la maggior parte delle persone preferisce il mare.

Forse per questo io preferisco le terme.

 

David Casagrande

 

NOTE:
1. Esodo 3, 1-6.
2. Esodo 19, 2-3.
3. Primo libro dei re 19, 8-13.
4. Matteo 5.
5. Marco 9, 2-8.
6. Marco 15, 22.
7. Matteo 28, 16.