Le parole chiave dell’Adunata degli Alpini

Città di Treviso, un caldo fine settimana di maggio, strade chiuse al traffico, più di 500 mila persone disseminate nelle vie del centro storico, tricolori ovunque. È il week end dell’Adunata Nazionale degli Alpini.

Un appuntamento giunto alla sua novantesima edizione, che per tre giorni ha cristallizzato la città facendo vivere la sua gente in un’atmosfera sospesa dalla solitaria e frenetica routine che caratterizza i nostri tempi. Un evento particolarmente sentito dalla popolazione, che ha risposto all’iniziativa con una partecipazione decisamente numerosa. Una manifestazione che mi ha sorpresa e affascinata, e che vorrei raccontare attraverso tre parole chiave; quelle tre caratteristiche che più mi hanno colpita e che mi hanno aiutata a capire il senso profondo di questa adunata.

Convivialità. Il clima di profonda festa e di profonda convivialità che faceva da tela alla manifestazione lo si poteva esperire appieno già a partire dal viaggio in autobus, indubbiamente il mezzo più agevole per raggiungere la città. Durante i tre giorni dell’adunata, gli autobus sono stati sovraccarichi di persone che molto probabilmente ne facevano uso per la prima volta; persone che non esitavano a scambiarsi informazioni sulla manifestazione; persone che, a differenza dei consueti passeggeri settimanali, condividevano i minuti del tragitto chiacchierando tra loro. E persone che si riunivano ad ascoltare i racconti di qualche passeggero dall’inconfondibile cappello con la piuma nera. Ebbene sì, onnipresenti nel territorio trevigiano, gli alpini non mancavano mai all’appello di narrare le loro esperienze più importanti. Impossibile relegarli al silenzio con timidezza: gli alpini volevano e dovevano parlare al loro pubblico. Hanno partecipato all’Adunata così numerosi per noi, e noi, se volevamo assistervi con autenticità, dovevamo saperci disporre all’ascolto, accettando con disponibilità e simpatia il pacchetto all-inclusive.

Ordine. Il senso dell’ordine e della disciplina caratteristico dei valori degli alpini, come si può ben immaginare, ha trovato la sua massima espressione nella sfilata domenicale. Sono stati 80mila gli alpini che vi hanno preso parte, provenienti da ogni parte d’Italia, e in alcuni casi anche dall’estero. Impossibile non sentirsi coinvolti dai sorrisi e dall’entusiasmo di quell’ordinato scorrere di uomini (e di donne: presenti, sebbene in minoranza) che procedevano a passo di marcia, trainati dalle musiche di bande e fanfare. La maestosa compostezza del corteo rispecchiava la geometria delle camicie a quadri, che tanto hanno riempito gli occhi degli spettatori. Un fiume che ha sfilato per tutta la giornata in città, sembrando una cosa sola, tanto era forte l’unione che lo disciplinava. Valori, quelli dell’ordine e della coesione, che al giorno d’oggi risultano in molti casi superati, complice la nostra volontà di essere padroni di noi stessi senza freni inibitori e senza la disponibilità ad accettare consigli o puntualizzazioni da quanti ci stanno attorno.

Forza d’animo. Considerato il sole cocente di questo fortunato fine settimana di primavera inoltrata, la presenza di alpini di una certa età non era affatto scontata. Eppure c’erano, ritti e fieri, malgrado le rughe sul volto, i capelli bianchi, la schiena ricurva e le gambe stanche. D’altra parte, la forza d’animo e la forza di sopportazione del sacrificio che hanno temprato le scorse generazioni non trovano di certo ostacolo in qualche chilometro da percorrere a piedi. Le maniche di camicia rimboccate per loro non sono un semplice modo di dire; sono piuttosto il naturale atteggiamento nei confronti della vita e delle sue avversità. Anche in questo caso, dovremmo essere capaci di prendere esempio da quanto è stato in passato: dovremmo farci forza, imparare a sopportare, imparare a ricucire e ricostruire. Dovremmo limitare la predisposizione all’usa-e-getta che ci è stata imposta dalla contemporaneità, la quale finisce inevitabilmente per influenzare anche le nostre relazioni e il nostro rapporto con gli oggetti di cui usufruiamo.

Ciò che è accaduto in passato non legittima quanto avviene nel presente; la quotidianità deve essere in grado di autolegittimarsi, di trovare in se stessa le sue ragion d’essere. Storia e memoria non vanno confuse; ma è altrettanto vero che la storia ha bisogno di essere tramandata e di far conoscere ai posteri i valori che l’hanno plasmata. «Se dal presente non viene alcuna sollecitazione a mantenere vivo il rapporto con il passato subentra negli individui e nei gruppi quella forma particolare della memoria che è l’oblio»1. E dimenticare, in storia, è tutto fuorché un atteggiamento morale.

Federica Bonisiol

NOTE:

1. Bruno Cartosio, Parole scritte e parlate. Intrecci di storia e memoria nelle identità del Novecento, Società di mutuo soccorso Ernesto de Martino, Venezia 2016, pag. 57

 

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Charlotte Delbo: l’ostinata volontà di rinvenire bellezza ad Auschwitz

La sua è la storia che narra di una pluralità di storie. Chi si aspetta di trovare nelle riluttanti pagine di Nessuno di noi ritornerà una testimonianza strictu sensu dell’orrore di Auschwitz rimarrà deluso. Quella di Charlotte non è una testimonianza, ma un riconsegnare in chiave veridica, letteraria e teatrale alcuni frammenti, fotogrammi, alcuni istanti di quella che fu la sua malaugurata prigionia nel campo di sterminio polacco.

«Tutte le parole sono da lungo tempo appassite.
Tutte le parole sono da lungo tempo scolorite”.
[…] La mia memoria è più esangue di una foglia
d’autunno
La mia memoria ha dimenticato la rugiada
La mia memoria ha perduto la sua linfa. La mia
memoria ha perduto tutto il suo sangue».

Nel leggere questo piccolo e tremendamente intenso libro si ha la sensazione di trovarsi a guardare, proprio malgrado − come se si fosse trascinati al cinema e non si volesse vedere la pellicola in programmazione − una sequenza di immagini tra di loro prive di linearità narrativa e storica. Sono le immagini che si impossessano, forse prepotentemente, della mente della Delbo, ormai ritornata in Francia. Ritornata. Parola che nello scorrere delle pagine ha un sapore strano e ambiguo. L’angoscia che traspare dal titolo e che rende i cuori dei lettori tremanti e irrequieti si perde, alla fine, nell’amarezza di quel «nessuno di noi avrebbe dovuto ritornare», il quale occupa da solo l’ultima pagina. Si possono leggere i nomi di molte donne, nomi che passano di bocca in bocca: si tenta di sapere il perché una compagna non è rientrata, chi l’ha vista, come può essere finita. Non si conosce nulla più dei loro nomi. Esse non esistono nel campo. Nessuna esiste. Con quanta riottosità Charlotte offre a ognuno di noi il grigio scorcio di una donna disarticolata, che si muove nella neve per poter rinfrescare le labbra. È come se fosse priva di membra, disumana nell’aspetto e nella camminata. Anche se una camminata non è. Il suo è un rendere la vita. È difficile dare contorni e forme precise a questa donna. Si ha l’impressione di osservare un quadro, dipinto da un impressionista, dove i colori e i contorni si fondono e tutto appare indistinto. Un insieme di pennellate grigie, intervallato da qualcuna più lieve e delicata del colore della pelle. Delle macchie che vanno ben presto a confondersi con il bianco sporco della neve.

C’è un continuo contare. Si contano le sopravvissute di ogni giorno. Ogni gruppetto di donne si conta e, dinanzi alla perdita di una compagna, si chiede sottovoce cosa le sia successo o, per meglio dire, come e quando sia morta. Anche le SS in mantellina contano e ricontano, ricercano la simmetria nelle file degli appelli mattutini. Un perverso gioco matematico.

Delbo non vuole appagare il lettore con dettagli, sordidi e miserabili, di istanti o di scene, così da ottenere solo la sua commozione ed il suo frettoloso dimenticare per ritornare nel presente. Ad ogni istante narrato concede il carattere ieratico proprio dell’espressione artistica, l’unica che rimane inattuale e, dunque, duratura. Istanti e non situazioni, perché Auschwitz fu un “nessun-luogo” e, come tale, nessuno avrebbe dovuto o potuto fare ritorno. Gli istanti che Delbo narra sono vissuti inattuali e inattuabili, i quali, come tali, necessitano di un linguaggio del tutto particolare in grado di eternarli nella loro estemporaneità. Levata ogni retorica, il passato interroga il presente portando a consapevolezza le fratture e le lacune che fanno ogni storia:

«E quando arrivano
credono di essere arrivati
all’inferno
possibile. Però non ci credevano.
Ignoravano che si prendesse il treno per l’inferno
ma visto che ci sono si armano e si sentono pronti
ad affrontarli
con bambini le donne i vecchi genitori con i
ricordi di famiglia e le carte di famiglia.
Non sanno che a quella stazione non si arriva».

Il passato si può dire e si deve dire trovando una forma espressiva dell’immaginario che sia adatta. E Delbo riesce a scovare un tipo di linguaggio capace di restituire le vite degli anni di prigionia, di sentire la verità dell’esperienza di coloro che l’hanno vissuta, mettendo al bando ogni emozione, compreso quel senso di vergogna per essere riuscita a fare ritorno. In fondo, quella parola in grado di eternare l’estemporaneo altro non è se non il prolungamento della parola che legava ogni prigioniera, dunque anche Charlotte, del convoglio del 24 gennaio 1943 alle sue compagne. Duecentotrenta le donne del convoglio, un gruppo compatto – già si conoscevano tra loro – suddiviso a sua volta in piccoli gruppi: «[…] ci aiutavamo in tutte le maniere: darsi il braccio per camminare, sorreggersi, curarsi, anche il solo parlarsi. La parola era difesa, riconforto, speranza. Parlando di ciò che eravamo prima, conservavamo la nostra realtà. Ciascuna delle sopravvissute sa che senza le altre non sarebbe mai ritornata».

Nonostante la brutalità e la crudeltà che traspaiono dalle pagine di Nessuno di noi ritornerà, c’è una bellezza celata che non si lascia cogliere facilmente. La si può scorgere in ogni narrazione, sia quando si ha innanzi una donna che, stremata, rende la propria vita, sia quando ve n’è un’altra aggrappata disperatamente all’esistenza. La bellezza della parola. La bellezza del donare il proprio braccio come sostegno. La bellezza del dare uno schiaffo per impedire che una compagna cada nel limbo. La bellezza della morte. La bellezza di una morte che sopraggiunge quando si è convinti di non essere più nulla. La bellezza impensabile dell’ovunque e del “nessun-luogo”.

Sonia Cominassi

BIBLIOGRAFIA:
Charlotte Delbo, Nessuno di noi ritornerà. Auschwitz e dopo I, Il filo di Arianna, 2015

[Immagine tratta da Google Immagini]

Si può comunque passeggiare

Una sera d’inverno mi addentro incespicando nel bosco, tutto imbacuccato nel parka e travolto da mille pensieri che si affollano. Avvolto nel gelido amnio e protetto dal silenzio secolare degli alberi, combatto ancora per sedare quegli assilli inconcludenti, le voci dei morti che rammentano quel che passa senza l’intervento dei vivi. Cercano risposta, pretendono soluzione, vogliono che mi riappacifichi con le loro nenie per poter finalmente riposare in pace. Mi avvio lungo un sentiero di fango rossiccio per ammansire i tormenti con la semplicità ristoratrice di una passeggiata.

Sono colpe di quel che siamo stati, rimproveri per quel che potremo essere, sono i mesti sussurri di una storia che non ci appartiene e impera coi suoi sproloqui sulla miseria del mondo umano. La responsabilità del passato germina sulle nostre schiene, le incurva sotto il peso dei suoi fiori e ci fa ciondolare come tartarughe afflitte e incupite che vorrebbero per una volta sollevare lo sguardo. Ci toglie il diritto di vivere l’eterno presente, di sputare sulla tomba del tempo e di danzare liberi come gli animali che siamo. La libertà biologica è in catene e ci vediamo costretti a scandire l’intero arco della nostra permanenza nel mondo in brevi scadenze dal ritmo tartassante, che uccidono e innervosiscono la nostra primigenia indifferenza verso lo scorrere inesorabile dei giorni. Non possiamo più disfarci della maledizione cronologica perché portiamo gli orologi ai polsi, perché i doveri devono riempire la nostra vita anche quando si tratta di accendersi una sigaretta pur di fare qualcosa, perché le ore vengono indicate sugli schermi lampeggianti dei cellulari, sulle insegne che campeggiano per le città, la radio, la televisione, ogni dispositivo di comunicazione ci rinfaccia il ticchettare delle lancette con insistenza; persino il campanile coi suoi rintocchi ci ricorda quanto sia veloce e ineffabile questo inarrestabile fiume di secondi, che dobbiamo sbrigarci a inseguirlo se non vogliamo perdere il percorso che traccia. Non possiamo più prescindere da quest’autorità perché nasciamo in un mondo dove essa è venerata, considerata alla stregua di una divinità ambigua e amorale, un mondo che non ricorda più come quell’autorità beffarda si è conquistata il suo trono pacchiano ed è totalmente incapace di proporre una qualche alternativa al suo dominio aprioristico. Quel brulicare chiassoso della società odierna è solo l’eco amplificata di un fragore scoppiato in un passato remoto e l’ovvietà del presente ne paga lo scotto.

Nella volta inizia a brillare Venere, col suo ardore giallognolo, e sotto la luna è possibile scorgere il flebilissimo bagliore di Marte. Gli alberi anneriti frusciano e dai cespugli fuoriesce zampettando un gatto randagio, che mi avvicina miagolando e con la coda rizzata. Mi passa accanto quasi con indifferenza e si corica nell’erba alle mie spalle, fingendo di non guardarmi coi suoi occhi sornioni. Sorridendogli proseguo il cammino e m’incanalo sotto un arco di rami intricati, quando il gatto all’improvviso mi affianca strusciandomi tra le gambe e mi accompagna fedelmente lungo l’intero sentiero. Come due banali creature viventi, ognuna filtrante il mondo coi suoi parametri, silenziose e recidive che perdono tempo insieme, passeggiamo vuotamente.

La passeggiata è l’emblema della perdita di tempo, la premessa indiscutibile di una riflessione fresca e brillante, intuitiva come il più semplice dei silenzi. La passeggiata è l’espressione del minimalismo attivo, della semplicità di un agire cosciente che interagisce costante con lo spettacolo dischiuso della vita. È sincera e puntiforme, capace di uccidere il tempo e condannarne la memoria alla dannazione perché arresta il dinamismo artificiale della nostra corsa disperata. Dove il tempo ancora esiste il passato è nostalgia pura, il futuro fa vacillare le gambe, il presente è un istante inafferrabile, il nunc una leggenda utopica. Dove il tempo permane l’umanità è oppressa e avvilita, è spronata con le fruste ad affrettarsi lungo i canali di una macchina gigantesca e colossale, che sbuffa e digrigna i suoi ingranaggi sognando solamente di poter accelerare la sua corsa senza senso. Dove il tempo esiste il cuore è dominato dalla speranza e anela quindi a quel momento imminente che può esser latore di benefici quanto di malanni, la mente è indecisa, traballa su un suolo terremotato. La speranza è fomentata dall’incertezza, è imparentata col dubbio, sorge dal terrore per il fallimento e la morte, vive solo là dove è risaputo che si potrebbe stare meglio, ma altrove, in quelle mitiche zone in cui il tempo non esiste e non ossessiona, i vivi e i morti convivono senza differenze e il mondo passeggia per dare respiro a un universo più sereno, lento, e raccolto, dimentico della speranza e dei sospiri da innamorati.

Cala la notte e il buio gelato striscia tra le fronde e gli arbusti. Nell’aria risuonano le risate crudeli delle anatre e le cadute acquatiche dei loro ultimi tuffi. Il gatto mi sorpassa e sembra volermi fare strada lungo il sentiero oscurato, come uno spirito boschivo in soccorso di un vagabondo sperduto. Arrivati all’uscita che introduce al mondo luminoso degli umani, il felino sparisce dentro una baracca polverosa sgattaiolando in una fessura della parete e come pago della sua azione ‘virgiliana’ si accomiata magico e muto tornando nella selva. Il ritmo monocorde è spezzato e la vita passeggiante si rintana nell’intimità oscura, trascinando con sé lo stupore sognante e lasciandoci nelle grinfie degli ululati angosciati dei morti. Avere il tempo di dimenticarci del tempo, questo ci renderebbe finalmente felici.

Leonardo Albano