L’invisibile potere del digitale: dove ci trasportano le sue correnti?

Nel 2006 il sociologo americano Aneesh ha coniato la parola algocracy, per indicare l’emersione del dominio e del potere degli algoritmi all’interno della struttura e dell’ordine sociale. Ogni momento della nostra esistenza sembra sempre di più collegato all’ecosistema digitale, che smonta la classica dicotomia tra il pubblico e il privato, tra ciò che fa parte della nostra intimità e ciò che ci determina davanti agli occhi degli altri. Ed è così che l’avvento del digitale può essere sottoposto a più di una lettura. La prima corrisponde a una visione positivista, attraverso la quale consideriamo la nuova società come ricca di promesse, di aperture, di crescita, soprattutto di maggiore consapevolezza di sé, delle proprie scelte e azioni sia in ambito sociale sia in ambito politico. Niente di più vero. Ma non finisce qui. L’analisi diventa più profonda ed è lì che la visione prende una piega (o tante pieghe) diversa.

Proviamo a leggere la rivoluzione digitale come una controrivoluzione. In associazione a premesse rosee e cariche di aspetti positivi, contestualmente si è sviluppato uno strano indebolimento delle libertà individuali, che si può cogliere dalle emergenti dinamiche di potere. L’ambiguità del nuovo assetto sociale – nella sua apparenza così liberale e democratico – nasconde un assoggettamento trasparente. Può essere definito in questo modo giacché a prima vista non si nota, ci passiamo attraverso, senza nemmeno notarlo.

«Proprio là dove non viene tematizzato, il potere è indiscusso; più grande è il potere, più silenziosamente agisce. Esso accade, senza bisogno di segnalarsi in modo clamoroso.» (B.C. Han, Psicopolitica, 2016)

Certo, non si intende dire che siamo schiavi di un regime totalitario con a capo un tiranno, ma ci siamo trasformati a mano a mano in dipendenti volontari. Lo (psico)potere non agisce in maniera violenta, bensì con benevolenza: la libertà non viene mai negata, ma usata e sfruttata. Proprio per questo motivo non esiste la figura conclamata di dittatore che gestisce il classico potere disciplinare. La società algocratica, infatti, ci rende complici attivi della nostra stessa sottomissione. Ne abbiamo bisogno perché riceviamo una quantità esponenziale e sempre più crescente di stimoli, provenienti dall’habitat digitale in cui siamo immersi, che si trasformano in desideri, in un continuum che è diventato tipico dell’assetto sociale. Tra innumerevoli scelte che possiamo compiere in maniera consapevole e razionale, alla fine preferiamo che le nostre azioni ci vengano ‘consigliate’: “Che cosa mi consiglia Netflix da guardare?”.

Può venire in mente l’amara considerazione che fa Shoshana Zuboff sulla perdita di autonomia profonda dell’individuo: ognuno di noi rappresenta un capitale (umano) e la sua esperienza un surplus di esso. (S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, 2019).

Il capitalismo digitale si insinua senza freni in tutte le menti, inevitabilmente.
E se viene instillata un’ideologia, che cosa rischiamo?
Per esempio, se un’ideologia diventa egemonica, senza che gli individui sociali la riconoscano come tale, interiorizzandola, la potrebbero applicare come unico modello possibile. Allora, il pericolo è l’ottenimento di una conformazione sociale e di un appiattimento degli individui, fino a raggiungere la loro pacifica obbedienza, a scapito della consapevolezza e personale e collettiva.

Questo pensiero può ricordare il racconto in cui dei pesci che si chiedevano cosa fosse l’acqua di David Foster Wallace. Ancora oggi non sappiamo effettivamente cosa sia l’acqua in cui navighiamo. La rete per noi rappresenta un archivio potenzialmente infinito di informazioni e di dati, ma i confini e i limiti del suo corpo sono ancora troppo poco conosciuti, come anche i modi inediti attraverso i quali genera nuove forme di interazione. Pur vivendoci, non sappiamo dove inizia e finisce l’asse di potere, da che parte si orienta e in che direzione ci conduce. Le mutazioni a cui siamo sottoposti e le possibili e variegate forme di “dominazione silente” possono rappresentare una grande sfida sociale, per ripensare ciò che siamo e vogliamo essere e in che genere di relazione viviamo con gli altri e con l’ambiente. 

Dobbiamo scegliere, allora, se incarnare il personaggio dantesco di Ciacco, abbuffandoci di dati e di informazioni, senza assumere una prospettiva che rifletta la direzione verso cui stiamo procedendo al fine di diagnosticare quali sono i possibili effetti collaterali per noi e per il nostro futuro. Oppure possiamo potenziare la nostra intelligenza collettiva, per ripensare criticamente il rapporto tra la conoscenza, l’uomo, la realtà e la tecnica. Il pensare riflessivo e collettivo permette, infatti, agli individui di non cadere nella spirale dell’automatismo, ma di svegliarsi dal torpore cognitivo.

 

Ilaria Turrisi

 

[Photo credit Markus Spiske via Unsplash]

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Il metodo filosofico di fronte a Facebook e al digitale

Secondo Zygmunt Bauman, «le relazioni che, in tutto o in parte, si conducono online sono ormai così numerose che una sociologia senza Facebook e simili è semplicemente inadeguata», perché è diventato «una dimensione di vita quotidiana per milioni di persone» (Z. Bauman, Sesto potere, 2012). Queste parole, che all’epoca potevano suonare provocatorie, a quasi dieci anni di distanza assumono una rilevanza particolare: in questo breve lasso di tempo, gli utenti Facebook sono passati dall’ordine di grandezza dei milioni a quello dei miliardi e oggi un’analisi sociologica sarebbe davvero riduttiva se non tenesse in considerazione la socialità mediata digitalmente.

Lo stesso vale per il digitale come oggetto della filosofia. La digitalizzazione, infatti, non è più esclusivo ambito di interesse per specialisti del Web, e occorre introdurla sistematicamente anche nella riflessione filosofica accademica. È vero che, al pari degli utenti dei social, il numero degli utilizzatori di Internet è in continua crescita, e che la digitalizzazione di ogni momento della vita quotidiana rende necessaria una riflessione su tematiche etiche, ambientali, ma anche politiche e morali, suscitate dalle nuove tecnologie. Tuttavia, non è la diffusione massiva di Internet la motivazione primaria per cui la filosofia dovrebbe essere applicata al digitale. Innanzitutto la digitalizzazione ha cambiato le modalità di accesso, conservazione e diffusione della conoscenza, pertanto, se intendiamo la disciplina filosofica letteralmente come “amore per il sapere”, essa dovrà confrontarsi con le tecnologie digitali proprio perché esse impattano sull’oggetto fondamentale del suo studio, il sapere appunto. Inoltre, l’insieme delle tecnologie digitali non solo scuote le fondamenta di concetti cardine della riflessione tradizionale – quali spazio, tempo e sé – ma è in grado perfino di plasmare nuovi “mondi”, per i quali è necessario ripensare in toto nuove categorie interpretative.

A sottolineare il fertile dialogo fra filosofia e nuove tecnologie negli ultimi decenni si è diffusa l’idea di una “filosofia computazionale”: secondo alcuni, le frontiere più avanzate delle tecnologie informatiche possono contribuire enormemente all’analisi filosofica. La computational philosophy vede, cioè, nella potenza dei calcolatori la possibilità non di una nuova filosofia, ma di una sorta di “filosofia potenziata”, in cui l’elaborazione di enormi masse di dati dovrebbe portare a una riflessione più accurata. Per certi versi, questo è ovvio: la possibilità di avere accesso a un quadro più completo facilita la comprensione della complessità, consentendo di tenere conto di tutte le variabili in gioco.

Eppure l’oggetto della filosofia non è quantificabile esattamente, non è “datificabile”. La filosofia non è una pratica algoritmica, al filosofo non interessa registrare determinati output a partire dall’inserimento di input predeterminati. Al contrario, la pratica filosofica risiede nel percorso condotto, nella ricerca. Se questa viene “appaltata”, delegata a una macchina, si perde il senso stesso della filosofia come attività umana. Perciò «l’applicazione diffusa di qualsiasi tecnica informatica disponibile a tutta la gamma degli argomenti filosofici»1 portata avanti dalla computational philosophy, benché sia un esperimento interessante, va in una direzione differente rispetto alla filosofia, e non è il quadro in cui sviluppare i rapporti fra filosofia e digitale.

Il rapporto fra filosofia e digitale, infatti, si qualifica pienamente come filosofia del digitale, e non come “digitalizzazione” del metodo filosofico e la stessa differenza terminologica è legata a un differente compito che le due discipline si pongono. Infatti, «se tra filosofia e digitale inseriamo un “del”, ecco che il genitivo cambia la natura del rapporto tra i due termini, con l’introduzione di un elemento critico»2. Il “del” configura un peculiare rapporto con l’oggetto digitale, una analisi critica – nel senso etimologico di krinein, “distinguere” – che, senza sminuire i miglioramenti apportati dalle nuove tecnologie, cerca di metterne in luce le reali dinamiche, spesso occultate dal velo della pubblicità che elogia a priori ogni beneficio. La convinzione della “filosofia computazionale”, al contrario, è che si possa continuare a fare filosofia su temi classici semplicemente aggiungendo algoritmi e big data al proprio arsenale argomentativo. Senza considerare che anche la stessa decisione di utilizzare per scopi filosofici la tecnica digitale solleva questioni molto più pressanti delle risposte che i computer possono aiutarci a trovare su temi di filosofia “pre-digitale”.

In conclusione, la pervasività e la multiformità del digitale non devono far ritrarre “spaventata” la filosofia verso ambiti di indagine più sicuri e meno compromettenti. Al contrario, la digitalizzazione può essere uno stimolo per la riflessione accademica a uscire dall’astrattezza di certe dissertazioni per tornare al ruolo di voce critica nella società. Senza la pretesa di risolvere la complessità con un algoritmo, ma con la consapevolezza che con quella complessità occorre fare i conti.

Edoardo Anziano

NOTE
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[Photo credit imgix via Unsplash]

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La vita è un’illusione (digitale)

Un tempo i filosofi si facevano domande che oggi, probabilmente proprio grazie alle loro risposte o perlomeno ai loro tentativi, non ci facciamo più. Se Descartes nel Seicento passava i suoi pomeriggi a cercare di dimostrare razionalmente la nostra esistenza, noi, se va bene, ci limitiamo a maledirla. Cogito ergo sum, “Penso dunque sono” è una formula che se non esistesse bisognerebbe inventare, perché come si fa a dubitare del fatto di dubitare di esistere? Non si può, questa certezza dimostra che stiamo facendo qualcosa e quindi, per farla, esistiamo. Fantastico.

Anche noi, però, trascorriamo dei pomeriggi avventurosi, spess05o con lo smartphone in mano – gli ultimi dati disponibili ci raccontano di un popolo, parlo di quello italiano, che passa in media sei ore al giorno online di cui ben due sui social network. Senza questa specie di prolungamento digitale di noi stessi, letteralmente attaccato al nostro corpo (io lo tengo sempre nella tasca davanti dei pantaloni), non sapremmo più come vivere, ovvero comunicare, sapere, consumare. Il gesto più comune che ci ritroviamo a fare durante le nostre giornate è appunto digitare. Viene spontaneo perciò pensare a un aggiornamento del “Penso dunque sono” con “Digito dunque sono”. In che senso però digitare darebbe la misura della nostra esistenza? In realtà digitare non basta, direi addirittura che – anche se non tanto per esistere quanto per sentirci esistere – non serve a nulla se in cambio non otteniamo la reazione altrui (like, commenti, condivisioni). La formula più corretta con cui tentare di descrivere i nostri tempi è per cui “Digito dunque siamo”. L’essere umano ha ovviamente sempre avuto bisogno dello sguardo altrui, del suo riconoscimento, nel bene e nel male, per sentirsi esistere, ma oggi questo “sguardo” (metamorfosatosi in like) è ancora più essenziale per la costruzione della sua stessa identità, del sé, del suo modo di esistere. Naturalmente, non è che venga realmente meno la nostra esistenza, rimaniamo vivi e sentiamo di esserlo anche senza postarlo ed essere riconosciuti come tali attraverso i social network, ma qualcosa viene a mancare. E questo qualcosa è la “dignità” d’esistenza, più che l’esistenza stessa. Far esistere qualcosa (un’esperienza, una vacanza o un concerto) senza condividerla sui social oggi è come non averla fatta.      

Nel libretto che ho intitolato, appunto, Digito dunque siamo, parlo di tutti noi, di come i nostri comportamenti stiano cambiando a causa dell’utilizzo pervasivo dei media digitali. È in atto, che lo si voglia vedere o no, una vera e propria riprogrammazione emotiva che porta con sé gigantesche illusioni che vorrebbero farci credere che grazie all’iperconnessione a cui siamo costantemente esposti stia aumentando, con la possibilità di comunicare in ogni momento e in ogni luogo, anche l’empatia e la partecipazione tra gli esseri umani. Purtroppo non è così, perché, nella maggior parte dei casi inconsapevolmente, i nostri slanci di empatia e partecipazione sono subordinati al meccanismo egoriferito del social network, che ci premia a ogni nostro click o segno digitale che lasciamo online. Postare gli auguri sulla bacheca di un “amico” virtuale (il cui compleanno ci è stato prontamente ricordato da una notifica), firmare una petizione online o esprimere un’opinione sul fatto del giorno non ci rende più umani, nel senso di empatici e partecipi, ma solo più succubi di un ego che, per sentirsi vivo, ha sempre più bisogno di riconoscimento pubblico. Insomma, siamo diventati più narcisisti perché abbiamo trovato lo strumento ideale per manifestare questa tendenza, e al contempo abbiamo sottratto terreno alla nostra parte più “umana”, se con questo termine intendiamo la capacità di comprensione, di immedesimazione, l’altruismo. La magia del digitale è tuttavia quella di farci credere, dentro di noi, esattamente il contrario.

Eh sì, il digitale ci sta cambiando, cambia il nostro modo di pensare, sentire, comunicare, informarci, conoscere, volere. Cambia le nostre idee di felicità, di desiderio, di realizzazione. Riprogramma le nostre esistenze, donandoci una nuova identità scissa e continuamente ricomposta tra online e offline. Ma cambiare è normale, tutto cambia, sempre, in continuazione. Certo, sta a noi accogliere il cambiamento e valutarne gli effetti sulle nostre vite. E tuttavia ci è praticamente impossibile non cambiare insieme al mondo in quest’unica direzione che chiamo, provocatoriamente, “disumanizzante”. Se la storia imbocca una strada chi ha la forza di resisterle e cambiare, da solo, rotta? Parlando più concretamente: chi di voi può permettersi di non avere uno smartphone? Quasi nessuno.

Sapere che viviamo in un’illusione. È questa l’unica arma per resistere alla “disumanizzazione” digitale. 

 

Stefano Scrima

 

Scrittore e filosofo, ha analizzato gli effetti del digitale, e in particolare dei social network, sulla vita delle persone attraverso due saggi editi da Castelvecchi: Digito dunque siamo. Piccolo manuale filosofico per difendersi dalle illusioni digitali (2019) e Socrate su Facebook. Istruzioni filosofiche per non rimanere intrappolati nella rete (2018). Fra gli altri suoi libri: Filosofi all’Inferno. Il lato oscuro della saggezza (il melangolo, 2019); L’arte di soffrire. La vita malinconica (Stampa Alternativa, 2018) e Il filosofo pigro. Imparare la filosofia senza fatica (il melangolo, 2017).

[L’immagine di copertina del presente articolo è tratta dalla copertina del libro Digito dunque siamo. Piccolo manuale filosofico per difendersi dalle illusioni digitali (2019) su concessione dell’autore]

L’arte di domani tra illustrazione e grafica digitale

L’arte figurativa altro non è che una forma di comunicazione non verbale, capace talvolta di trasmettere messaggi e significati più profondi di quelli celati all’interno di un testo scritto, rendendo così la fruizione dell’opera d’arte un’esperienza, al pari di quella musicale, alternativa ma insostituibile per la comprensione di un dato periodo storico o di certe personalità. D’altronde una creazione artistica è allo stesso tempo un libro di storia, un trattato di estetica e il risultato di ricerche tecniche su materiali e proporzioni. Visitare un museo, di conseguenza, permette di compiere un viaggio attraverso diverse epoche e svariati contesti culturali, estrapolandone aspetti legati sia al vivere quotidiano sia al pensiero e alle idee che hanno trainato ciascun periodo storico nelle sue caratteristiche più salienti.

Seguendo questo ragionamento, sorge spontaneo chiedersi cosa vedremo nei musei nel futuro prossimo, e ancor più quali saranno le forme d’arte più rappresentative del nostro presente. Una risposta certa a queste domande non c’è, e non potremmo formularne una nemmeno se analizzassimo con la massima cura l’andamento generale dell’arte contemporanea. Tuttavia alcuni sintomi di cambiamento rispetto alla produzione artistica del Novecento già si percepiscono, in particolare per quel che riguarda i soggetti delle opere, tesi a una maggiore narratività, e la loro destinazione finale. Ed ecco che in questi due aspetti già emerge come l’illustrazione e la grafica digitale, sempre più diffuse su pubblicazioni cartacee ma anche online, si stiano aprendo con decisione uno spazio sempre meno secondario nel mondo della produzione artistica contemporanea.

D’altro canto l’arte astratta e quella informale, nonostante siano ancora molto sfruttate da numerosi pittori e scultori, hanno raggiunto il loro climax a metà del secolo scorso, con l’apporto dei maestri dell’action painting, quali Pollock e, in Italia, Emilio Vedova, degli artisti dello spazialismo, Lucio Fontana in primis, e delle star della pop art. Ma ovviamente queste singolari e geniali ricerche sono uniche nel loro genere, e qualsiasi tentativo di seguire a posteriori le strade tracciate dai loro fautori rischia di essere totalmente svuotata di senso. Con questo non si vuole considerare esaurito questo campo d’azione, ma sicuramente non può più risultare rappresentativo del nostro secolo. Un insperato ritorno al figurativo, in barba ai dadaisti, si sta dispiegando abbastanza chiaramente di fronte ai nostri occhi: la protesta contro l’accademismo e le forme artistiche tradizionali è diventata anch’essa passato, e ora il pubblico, potenzialmente sempre più vasto, sembra avido di immagini semplici, che sappiano risultare di facile lettura e che siano in grado di raccontare qualcosa di legato alla nostra quotidianità o anche alla nostra tradizione, pur mantenendo costantemente un linguaggio attuale.

Non c’è alcun dubbio, quindi, che forme artistiche quali l’illustrazione, il fumetto, la vignetta satirica e la grafica stanno acquisendo una posizione di preminenza che finora non hanno mai avuto. Esse sono sempre esistite e, soprattutto a partire da inizio Novecento, sono state largamente sfruttate su tutti i supporti cartacei. Tuttavia, anche se spesso i disegni venivano forniti da pittori stimati e ben noti nel mondo dell’arte, l’illustrazione e la grafica non sono mai entrate a pieno titolo tra le arti “maggiori”, rimanendo anzi puramente a servizio dell’utilità pubblica e circoscritte al “hic et nunc” di un dato contesto. Oggi, invece, esistono i professionisti del settore, veri e propri artisti che si dedicano esclusivamente a questo tipo di produzione, cui sempre più spesso vengono dedicati eventi espositivi di largo respiro.

A condurre a questo progressivo cambiamento sono stati senz’altro numerosi fattori legati all’intensificarsi delle relazioni dell’uomo con il multimediale e la tecnologia, fatto che ha amplificato enormemente la fruizione di immagini mediante qualsiasi mezzo, da quello cartaceo a quello televisivo e virtuale. E in una società in continua crescita, dove chiunque vive di corsa e deve pensare velocemente, ecco che l’immediatezza iconografica e la semplicità narrativa tipiche dell’illustrazione e della grafica nella sua accezione più “popolare” sono strumenti vincenti e, in alcuni contesti, ormai insostituibili. Ed ecco allora che illustrazione, fumetto, vignettistica e molte altre forme grafiche vengono ad assumere una dignità nuova, via via sempre più riconosciuta in qualità di caratteristica precipua della cultura del nostro presente.

Non credo però sia facile andare a fondo di un fenomeno di questo tipo, soprattutto per il motivo essenziale che esso è ancora in corso e in una fase evolutiva non ancora giunta al suo apice. Lascio pertanto al lettore la piena libertà di riflettere autonomamente sull’argomento, eventualmente contraddicendo le mie ipotesi. D’altronde chi può dire con certezza cosa veramente verrà percepito della nostra epoca dai nostri pronipoti? Tuttavia la mia personale esperienza, per quanto breve e poco allenata, mi suggerisce che forse, tra cento anni o anche meno, potremmo vedere esposti nei musei disegni originali per copertine di libri, bozzetti di vignette comparse in importanti quotidiani e riviste, stampe in alta definizione di importanti progetti grafici digitali e 3D, e persino i cartoni originali che compongono i fotogrammi di famosi cartoni animati. D’altronde non è forse compito dei musei quello di conservare e valorizzare le testimonianze visive (e non solo) della nostra storia affinché nulla vada dimenticato?

 

Luca Sperandio

 

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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La meraviglia dell’album illustrato. Intervista ad Anna Castagnoli

Anna Castagnoli, illustratrice, autrice e teorica dell’album illustrato per bambini, con il suo blog Le figure dei libri, è da anni in prima linea nella comunicazione della cultura del libro per l’infanzia. Da poco è uscito il suo ultimo libro Il manuale dell’illustratore, Editrice Bibliografica.
In questa intervista ci invita a esplorare il mondo dell’album illustrato, a capirne il linguaggio. E scopriamo come la filosofia sia anche il modo naturale di un bambino di vedere le cose, facendosi sempre domande.

Come ti sei avvicinata al mondo dell’illustrazione e perché hai deciso di scrivere un blog su questo tema?

Ho iniziato a vent’anni proprio per caso, mia madre aveva scoperto i corsi d’illustrazione estivi a Sarmede e mi propose di partecipare. Poi però ho fatto tutt’altro: mi sono laureata in filosofia e ho lavorato nel sociale, mantenendo comunque la mia passione per la scrittura, il disegno e la poesia. Verso i trent’anni qualcuno ha visto le mie illustrazioni e mi ha detto che era un peccato non continuare, è stata la spinta che mi serviva: sono tornata a Sarmede e ho deciso di dedicarmi completamente agli album illustrati. Ho scoperto un mondo dietro ai libri per l’infanzia che non conoscevo e che riuniva tutte le mie passioni: il racconto breve, l’arte, le immagini, il tutto in un linguaggio destinato ai bambini, quindi forse con un filtro più dolce che però mi emozionava.

Per quanto riguarda il blog, invece, il merito è di mio marito. Lui è sempre stato più “tecnologico” di me, così mi spinse a realizzare questo progetto, Le Figure dei Libri, nel quale analizzo diversi tipi di album infantile e do alcuni consigli ad aspiranti illustratori. Il poter condividere con altre persone la mia passione, l’interazione con i lettori, la loro accoglienza entusiasta, mi hanno stimolata a investire sempre di più sul blog; questo mi ha aiutata anche a darmi un’organizzazione, a essere puntuale, ad avere una progettualità. Ho sempre scritto con un punto di vista molto personale, appoggiandomi alla storia dell’arte, all’estetica, ai miei studi di filosofia. E alla fine il blog mi ha permesso di costruire una carriera.

In questi anni ho visto come ci sia davvero molta gente interessata a capire come funzionano le immagini, credo sia una tendenza destinata a crescere. Diventa importante riuscire a tradurre la cultura visiva in un linguaggio semplice, il blog è un mezzo molto utile in questo senso.

 

Di che tipo di linguaggio parliamo quando ci riferiamo all’album illustrato infantile?

Mi sono chiesta a lungo se il linguaggio dell’album avesse una specificità.

Credo che la comunicazione dell’album si possa riassumere nel cercare di utilizzare un linguaggio molto mimico e poco simbolico. Ci sono diversi tipi di illustrazione, ed effettivamente quella destinata al mercato editoriale adulto si carica spesso di significati simbolici, usa cioè molto la metafora. Invece nell’album per bambini la messa in scena è semplice, quasi teatrale, rivolgendosi a un pubblico che può essere anche a digiuno da riferimenti culturali. Dal punto di vista della pura percezione, l’immagine dell’album punta ad attivare i neuroni specchio, un particolare tipo di neuroni molto antichi, quelli impiegati nel riconoscimento delle emozioni e del corpo. È quindi un linguaggio molto più immediato, che però magari un bambino capisce subito e un adulto no, perché sulla sua capacità percettiva agiscono diverse sovrastrutture.

Poi c’è l’integrazione tra testo e immagini. Nella storia della letteratura c’è stata una vera e propria evoluzione fino al linguaggio dell’album illustrato così come lo conosciamo oggi. Per esempio, le fiabe tradizionali, come quelle di Perrault, non erano pensate per essere illustrate; successivamente la scrittura per album ha delegato alle immagini gran parte delle informazioni, ma le due dimensioni, il testo e l’illustrazione, devono essere complementari nella creazione del significato complessivo del libro. Facendo questo lavoro mi sono accorta di come in realtà ci sia una scarsissima cultura dell’immagine, spesso si pensa che con un libro illustrato il bambino impari meno, invece non si tiene conto di quanto il bambino possa fare esperienza nell’assimilare linguaggi diversi.

 

In questo periodo si è assistito ad un vero e proprio boom del libro illustrato per bambini, come te lo spieghi?

Credo che il mercato per bambini in realtà non sia mai stato in crisi, proprio perché è un settore nel quale si risparmia meno, oltre al fatto che leggere è una fase dell’educazione e della crescita assolutamente necessaria. Però, secondo me, questa rapida esplosione del mercato editoriale per bambini non è proporzionale alle vendite effettive.

Poi si può parlare anche di reazione generale al mondo digitale, perché comunque l’album illustrato è un oggetto che ti offre il gusto della scoperta sensoriale. Un po’ come il ritorno al vinile per i nostalgici. D’altronde ci vorranno ancora molti anni prima che si sviluppino dei linguaggi capaci di sfruttare e integrarsi appieno con il sistema di comunicazione digitale, come per ogni grande rivoluzione tecnologica. In questa fase di transizione c’è comunque il bisogno di appoggiarsi ancora a degli oggetti, e, soprattutto, il bambino ha bisogno di poter sfogliare un libro.

Anche i blog credo abbiano fatto il loro lavoro. Alcuni, per esempio, si propongono di aiutare maestre e genitori a capire come utilizzare al meglio gli album, quindi c’è probabilmente anche un rinnovato e diffuso interesse pedagogico alla base di questo sviluppo.

 

Come si costruisce un album illustrato?

L’album illustrato è un’opera creativa totale, che conta nella sua progettazione con l’aiuto di diversi attori: accanto all’illustratore e all’autore, hanno un importanza fondamentale l’editore, il grafico, la tipografia… tutto il libro va pensato nel suo insieme perché funzioni, non basta accostare delle immagini a un testo. E in questo senso il lavoro più importante è quello dell’editore, che agisce proprio come un grande regista, cercando di trovare un punto di incontro tra illustratore e autore, e integrando i due diversi linguaggi.

 

Che cos’è lo stile in un album illustrato? Quanto conta a livello di comunicazione?

Sicuramente lo stile segue delle mode, ad esempio alcune illustrazioni degli anni Ottanta forse oggi risulterebbero un po’ kitsch, ma credo che questo sia più un discorso per adulti che per bambini. Lo stile è certamente importantissimo, è un canale nel quale si riversa tutto il codice culturale dell’immagine, ma non è detto che il lettore bambino ne colga le diverse sfumature, perché magari non ha ancora elaborato un sistema di lettura o sostrato culturale che lo aiuti a decodificare tale immagine. Quello che il bambino riceve deve essere l’emozione, un elemento che accenda la sua curiosità, l’album deve trasmettere una certa emozione al di là della tecnica usata come medium.

Sul lato formale, oggi c’è una ripresa dell’estetica del primo Novecento, dove predomina il bianco. L’album in effetti nasce come spazio della pagina bianca, quindi penso che le preferenze siano un po’ cicliche.

Poi, personalmente, ci sono album che trovo esteticamente molto belli ma che magari mi lasciano fredda, trovo molto più interessante quando emerge qualcosa di inconscio e una certa sfumatura non del tutto ragionata.

 

Dopo la laurea in filosofia, come sei riuscita a conciliare questa disciplina con la tua attività di autrice, illustratrice e critica?

La filosofia mi ha insegnato a esercitare il pensiero, a costruire un ragionamento logico e ad arrivare a delle conclusioni attraverso l’analisi. Un metodo, quindi, che mi è utile non solo a livello lavorativo ma anche nella vita di tutti i giorni. Mi piace anche il fatto che non ci siano delle risposte, come per gli album, preferisco quando la domanda resta aperta, lasciando qualcosa su cui indagare.

Privilegiare le domande alle risposte è un sistema che nella progettazione di un libro infantile permette di evitare un discorso troppo retorico, che sarebbe poco fertile dal punto di vista creativo. La filosofia partecipa proprio nel modo in cui si usa la creatività per parlare di certi temi a un bambino. Sempre offrendo uno stimolo a farsi domande e ad essere curioso. Ti racconto questo aneddoto, perché spiega tutto: tempo fa ho letto La grande domanda di Wolf Erlbruch a una bambina; alla fine del libro ci sono due pagine bianche sulle quali il lettore deve scrivere la sua risposta, ma in realtà questa grande domanda non viene mai detta in tutto il testo. Ecco, lei scrisse “una cosa ci ha creati”, al che rimasi piuttosto sorpresa sapendo che la famiglia non era affatto religiosa, quindi mi decisi a indagare e le chiesi “e perché ci ha creati?” e lei rispose “è la grande domanda!”. Aveva perfettamente capito il senso del libro.

 

Proprio il farsi domande, un esercizio che appunto la filosofia ci insegna, è in qualche modo legato al concetto di meraviglia. Un’emozione che secondo me l’album illustrato può portare sia a bambini che ad adulti, e che credo sia fondamentale per conoscere il mondo. Che cosa significa per te questa parola?

Ho un ricordo molto vivido che posso portare ad esempio: mia madre alla finestra con dei pezzetti di vetro in mano. Me li mostrò sotto un raggio di luce dicendomi che erano pietre preziose. Sento ancora quella sensazione data dal luccichio delle pietre, dalla mano di mia madre che si schiude, dalle sue parole. Questa è per me la meraviglia, profondamente connessa al concetto di bellezza, o meglio, alla scoperta della bellezza. Molto diversa dal sublime, dove invece ti poni di fronte a qualcosa già con una certa predisposizione. La meraviglia è qualcosa che trovi dove non te l’aspetti. È certamente un’emozione più naturale per un bambino, per il quale ogni cosa è nuova, una scoperta.

Secondo me, poi, ha anche un significato legato alla semplicità, sento che è un’esperienza capace di restituirmi una certa armonia. La meraviglia di fronte alla bellezza dell’arte, per esempio, riflette una specie di ordine cosmico che quando lo riconosciamo ci riassetta. Lo vedo anche nei miei corsi: all’inizio i miei allievi sono spaventati e disegnano male, poi piano piano si rilassano, provano, sbagliano, fanno scoperte e i loro lavori risultano quindi più armonici.

 

Hai dei suggerimenti di lettura che ti piacerebbe condividere, magari tra le tue scoperte più recenti?

Recentemente ho letto Sole luna stella, testo di Kurt Vonnegut e illustrazioni di Ivan Chermayeff, un libro pubblicato negli Stati Uniti negli anni Ottanta, e ora edito in Italia da Topipittori. Lo trovo bellissimo perché è un testo che parla della nascita di Gesù in senso totalmente laico. Tutta la storia è narrata dal punto di vista del neonato che apre gli occhi e impara a vedere il mondo e riconoscere le luci e le forme.

Anche Dimodochè, di Gek Tessaro, Edizioni Lapis. Un libro semplicissimo che dà il senso del piacere del lavoro, della creatività, del costruire… mi ha fatto pensare un po’ alle Città Invisibili di Calvino.

E poi, uno degli ultimi che ho recensito nel blog, Il Viaggio Incantato di Mitsumana Anno, di Emme Edizioni: un delicato racconto senza parole di un lungo viaggio intorno al mondo, dentro alla nostra cultura e attraverso il nostro immaginario fantastico.

Come libro di studio sull’album illustrato mi è piaciuto molto Il bambino estraneo. La nascita dell’immagine dell’ infanzia nel mondo borghese, di Dieter Riechter. Un saggio che parla della storia dell’infanzia, ovvero di come il bambino venga concepito all’interno della società borghese, attraverso un’analisi storica della letteratura infantile. Ci dà la misura di quanto l’idea di una società d’infanzia influenzi tutta la produzione editoriale per bambini e viceversa.

Infine, un classico di ricerca estetica, da leggere assolutamente: Per una semiotica del linguaggio visivo, di Meyer Shapiro.

 

Claudia Carbonari

 

Immagine di copertina: Anna Castagnoli durante il corso da lei tenuto a Sarmede. Fonte: Martina Cavaglia

 

 

Cyberbullismo: basterà una legge a salvare i nostri ragazzi?

Comportamenti prepotenti e violenti, perpetrati dal “branco” nei confronti dei più deboli, è un fenomeno noto da molto tempo, oserei direi sempre esistito. Tuttavia, negli ultimi anni, l’uso improprio delle nuove tecnologie, del web e, in generale, del mondo digitale, ha innescato una nuova tipologia di bullismo definito cyberbullismo. Il fine è sempre lo stesso, ovvero molestare, spaventare, mettere in difficoltà ed escludere chi viene considerato “diverso” da un punto di vista estetico, perché introverso, per un differente orientamento sessuale, ecc.

Le modalità, rispetto al bullismo tradizionale, sono differenti. Le maldicenze vengono divulgate attraverso strumenti digitali: messaggi sul cellulari, mail, vari social network; vengono postate immagini e video imbarazzanti, rubate identità e profili social per insultare, deridere le vittime.

Tali azioni possono veramente annichilire un adolescente che non è sufficientemente forte per dare il giusto peso alle offese perpetrate, soprattutto in una fascia d’età in cui il giudizio dei coetanei è determinante per essere accettati dal gruppo e, purtroppo, anche per stare al mondo.

Gli effetti sono altrettanto devastanti. Lo stigma inflitto porta all’annientamento della vita sociale delle vittime, all’isolamento totale con conseguenti danni psicologici di tipo depressivo e ideazioni o intenzioni suicidarie. Il cyberbullismo ha così innescato una serie di comportanti criminosi e ha causato non poche vittime tra gli adolescenti.

Dobbiamo inoltre considerare che tali crimini vengono perpetrati in assenza di limiti spazio temporali. Ovvero, mentre il bullismo tradizionale avviene in luoghi e momenti specifici, il cyberbullismo colpisce il/la ragazzo/a preso/a di mira ogni qualvolta desidera collegarsi ai mezzi digitali manovrati dal cyberbullo. Le prepotenze hanno la capacità di divulgarsi all’istante e la vittima ha la sensazione di poter essere raggiunta ovunque si trovi.

Altro elemento da tener presente è il possibile allentamento delle remore etiche dell’adolescente molestatore che, oltre ad avere la possibilità di essere “un’altra persona” online, non si rende pienamente conto di quanto un insulto, un video violento o una foto possano nuocere. I ragazzi fanno fatica a riconoscere che il materiale che hanno diffuso è criminoso e ricordarglielo significherebbe preoccuparli unicamente per le punizioni legali, non tanto per la gravità morale che caratterizza l’atto compiuto.

Lo scorso 17 maggio la Camera dei Deputati ha approvato la proposta di legge contro il cyberbullismo.

La nuova normativa regola e sanziona i reati del mondo digitale compiuti attraverso strumenti telematici (sms, mail, chat, ecc…) e ha come obiettivo la prevenzione e l’attivazione di strategie educative nei confronti sia delle vittime che dei responsabili.

I risvolti penali del cyberbullismo dovrebbero essere un deterrente per tutti quei ragazzi che intendono minacciare la vita dei loro coetanei attraverso contenuti digitali molesti.

Dico potrebbe perché la legge da sola non può bastare. In una società ipertecnologica in cui le possibilità di connettersi al web sono semplici e costanti, gli adolescenti utilizzano le nuove tecnologie per giocare, comunicare con gli amici, postare e condividere foto e video; ciò a tal punto che il digitale ha modificato linguaggi e comportamenti dei giovani nelle relazioni interpersonali, facendo sì che la dimensione online e quella reale diventassero complementari.

La legge da sola non può bastare se a monte non c’è un’azione educativa. Noi adulti dobbiamo iniziare a considerare che internet fa parte dell’evoluzione e che vietarne a priori l’utilizzo comporterebbe solo un uso del web “segreto”e spesso scorretto o pericoloso.

Si tratta di considerare il web come uno strumento da utilizzare in sinergia con i nostri ragazzi, educandoli, ascoltandoli e facendoci spiegare come lo utilizzano; si tratta di interessarsi alla loro vita che, volenti o nolenti, è anche online. Solo se da genitori o educatori entriamo in contatto con i nostri ragazzi e con la loro “vita online”, possiamo conquistare la loro fiducia e dettare regole, “stipulare un contratto” sull’uso corretto dello smartphone e del pc, avvisarli dei pericoli, delle conseguenze di certi atteggiamenti e delle implicazioni legali.

Solo in questo modo avremo dei ragazzi in grado di vivere correttamente il loro essere cittadini digitali.

 

Silvia Pennisi

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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La relazione tra anziani, salute e mondo digitale: intervista a Simone Carlo

Internet, lo smartphone, le App cambiano la nostra vita di tutti giorni. Come abbiamo avuto modo di approfondire negli articoli precedenti, sia la nozione di salute che le nostre modalità di approcciarci ad essa sono radicalmente mutate in relazione all’utilizzo dei nuovi prodotti digitali.
Se questa situazione è abbastanza palese per una popolazione giovane, quando volgiamo lo sguardo agli anziani tale rapporto sembra molto più difficile da inquadrare e determinare. In altre parole ci chiediamo se le persone che hanno superato i 60 anni utilizzano in modo così massiccio internet e moderni device tecnologici e se questi influenzino la loro vita e la loro idea di salute proprio come accade per la popolazione più giovane.
Per chiarirci le idee abbiamo fatto una breve chiacchierata con Simone Carlo, docente di Sociologia dei Media Digitali, presso l’università di Bergamo e ricercatore presso il Centro di Ricerca sui Media e la Comunicazione (OSSCOM) dell’Università Cattolica di Milano.
Simone è un esperto in materia, ha all’attivo diverse pubblicazioni su questa tematica ed ha preso parte ad una ricerca coordinata dal Prof. Fausto Colombo presso l’Università Cattolica dal titolo: Non mi ritiro: l’allungamento della vita, una sfida per le generazioni, un’opportunità per la società. La ricerca, tra le altre cose, ha messo in luce anche i legami che sussistono tra “i giovani anziani” (65-74 anni) e l’utilizzo di internet. La ricerca è consultabile qui.

 

Simone, grazie di rispondere alle nostre domande; quello che vorremmo è un tuo parere attorno alla relazione che si potrebbe tratteggiare tra i ‘giovani anziani’ e internet.

Credo che, alla luce di tutti i questionari esaminati dalla nostra ricerca, si possa affermare che c’è un grande mito da sfatare: i ‘giovani anziani’ che usano internet non sono un numero esiguo e non utilizzano tale mezzo in maniera così radicalmente differente dai nativi digitali. In altre parole le persone anziane fruiscono pienamente dei servizi digitali, sfruttando le differenti possibilità che lo stesso offre, dall’online banking ai servizi di retail etc. Questo fatto si può facilmente spiegare evidenziando come le stesse persone appartengano ad una élite, dunque sono altamente istruiti, benestanti e, essendo in gran parte in pensione, hanno a disposizione un discreto tempo libero. Tempo che spesso viene passato proprio davanti al PC. Ne segue che la vita di queste persone sia fortemente influenzata, esattamente come per le persone più giovani, dagli strumenti digitali.

Come hanno ‘imparato’ queste persone ad utilizzare i servizi digitali?

Anche in questo caso bisogna sfatare un altro mito, ovvero la stragrande maggioranza dei ‘giovani anziani’ che usano i mezzi digitali non hanno imparato ‘ora’ ad usare il computer, ma sono persone che utilizzavano questi device da lungo tempo durante l’esercizio del loro lavoro. Potremmo dire che non sono dei nativi digitali, ma degli ‘immigrati’ digitali di lungo corso. Quindi raffigurare tutti i ‘giovani anziani’ come sperduti davanti alle rivoluzioni tecnologiche non solo non rappresenta la verità, ma equivarrebbe anche a negare l’evidenza che ha portato gli stessi alla fine degli anni Novanta a dotare la propria casa di un PC intuendone la portata e l’utilità.

Che rapporto sussiste tra giovani anziani, internet e salute?

È innegabile che sussiste una correlazione benessere-salute-tecnologia, ovvero la stragrande maggioranza dei giovani anziani che oggi utilizzano i servizi digitali sono anche coloro che hanno più risorse economiche rispetto alla popolazione anziana in generale e che dispongono di più canali per informarsi sulla loro salute. In particolare, dalle interviste qualitative che ho condotto è emerso che nell’elenco delle cose più ricercate online e che assumono maggiore importanza per queste persone ci sia proprio la vasta area tematica della salute. In particolare i ‘giovani anziani’ utilizzano gli strumenti digitali per prenotare visite, per leggere articoli su patologie e sono molto attenti alle rivoluzioni apportate da questo campo sul mondo della sanità.
In estrema sintesi si potrebbe dire che l’immagine dell’anziano che si accanisce nel voler fare la fila alla posta o dal medico a tutti i costi, stia definitivamente tramontando. Il digitale è permeato anche nella vita e nell’idea di salute e di prevenzione di essa dei ‘giovani anziani’ che utilizzano gli strumenti digitali.

Ringraziandoti per la disponibilità avremmo un’ultima domanda da porti: internet può rappresentare oltre che un beneficio anche una fonte di rischio?

Di certo l’utilizzo degli strumenti digitali rappresenta uno straordinario modo per informarsi, per tenersi in contatto con il mondo, per cogliere informazioni sulla salute, ma può rappresentare anche una fonte di rischio. La preoccupazione è che internet diventi uno strumento che faccia ‘perdere tempo’, il che porterebbe alla sostituzione dello stereotipo dell’anziano che si addormenta davanti alla TV a quello dell’anziano che gioca ore a Candy Crush. Quello che voglio dire è che la tecnologia presa in se stessa non risolve i problemi personali e sociali, che vanno dall’accesso alle cure, ai rapporti personali, alle fragilità della salute ecc., dunque la tecnologia deve sempre essere contestualizzata all’interno della vita dei soggetti. Questo si riverbera anche nella ricerca delle informazioni sulla salute, poiché il focus deve rimanere la persona che utilizza le informazioni e non deve mutare verso la tecnologia che vivifica le persone. Per questo i giovani anziani proprio come tutte le altre persone si trovano esposti a molti rischi nell’utilizzo di internet e devono diventare degli utilizzatori consapevoli dello stesso strumento che rappresenta una grossa opportunità unicamente se sfruttata nel giusto modo. Il mio pensiero finale si potrebbe riassumere nel ricordare e ribadire l’attenzione sulla persona, poiché la tecnologia può aiutare in molte situazioni della vita, ma non può sostituire l’attenzione e il focus che ogni persona deve mettere nel lavoro su se stessa per vivere nel mondo con le altre persone.

Francesco Codato

[Immagine tratta da Google Immagini]